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Riletture, la crisi politica: Crouch, Rosanvallon, Urbinati

di Alessandro Visalli

il mito di perseo e medusa interpretato 294773Riprendere in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla crisi politica che le democrazie occidentali stanno affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e tecnologici. Sono coinvolti in questa crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni.

Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.

Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.

Quel che si può dire con sufficiente sicurezza è che intorno al punto di svolta della rottura del sogno neoliberale che si è manifestato nella crisi del 2008, giungono a maturazione e sotto molti profili accelerano tendenze che avevano trovato forma da tempo nell’ambiente imposto dalle ‘riforme’ avviate negli anni ottanta e dalla piega imperiale che il mondo prende nei novanta. 

Tra queste la crisi della politica. Ovvero la crisi politica di una democrazia ormai incapace di svolgere la propria funzione di ottenere giustizia per i più deboli. Per coloro che lo sono per la propria posizione nel sistema globale dei rapporti produttivi e per l’accesso alle risorse che questi consentono (‘risorse’ non solo economiche, ma anche sociali, culturali, e, appunto, politiche).

La svolta che si manifesta negli anni ottanta, e prende velocità nel corso dei trionfali anni novanta, ma manifesta tutto il suo effetto solo nel nuovo millennio, è essenzialmente orientata a proteggere i profitti; vede il mondo dal punto di vista di chi questi profitti ottiene. Ovvero di chi dispone del denaro nella forma del capitale (poco o tanto) e ‘compra’ lavoro. Il lavoro è inquadrato essenzialmente come una merce come ogni altra, della quale fare economia, da ridurre al suo minor prezzo. Dimenticando, tra le altre cose, che è il lavoro che consente di comprare le altre merci, di dare il loro valore. Lo sguardo miope del capitale scava sotto le proprie fondamenta.

Per fare ciò l’obiettivo, tanto primario quanto poco evidente, è contenere i salari, cioè:

-        Garantire costantemente un’alta e crescente disoccupazione,

-        Assicurarsi che il mondo del lavoro sia adeguatamente frammentato,

-        Garantire rapporti di lavoro dominati.

Ma per ottenere questo contenimento, questa deflazione salariale, è indispensabile prima neutralizzare gli strumenti di autodifesa, quindi mettere sotto pressione la società politica: ovvero mettere sotto attacco la democrazia.

A questo fine si affermano, nel contesto dell’egemonia neoliberale, alcune idee potenti:

-        Che la tecnica (e la ‘società civile’) debba avere sempre il sopravvento sulla politica,

-        Che il governo sia più importante della rappresentanza.

Ma queste due idee, nel contesto dell’assetto neoimperiale della mondializzazione finanziaria, hanno conseguenze:

-        Cresce il ‘vuoto’ tra il politico e la frammentata moltitudine sempre più debole e sempre meno consapevole di sé,

-        Si manifestano forme reattive, di assedio delle istituzioni, dalle quali ci si sente abbandonati. ‘Sorveglianza’, ‘interdizione’, ‘giudizio’. Sorge una tendenza irresistibile ad una contropolitica spesso militante,

-        Si sviluppano tensioni individualiste, un ‘si salvi chi può’. I movimenti più forti sono di ‘self-help’, al massimo piccole comunità difensive coordinate faccia-a-faccia, ma senza visione e tanto meno progetto.

L’insieme di tutto ciò viene chiamato ‘post-democratico’ da un tempestivo libro del 2003 di Colin Crouch anticipato da un articolo nel 2000: “Postdemocrazia ”.

L’atto di accusa del politologo inglese è rivolto alla crescente influenza delle lobby economiche e più in generale delle élite sulla politica, in particolare sul New Labour di Blair. La distinzione centrale è tra ‘democrazia’ e ‘liberalismo’. Durante la “fase keynesiana” la democrazia è attivazione ed impegno di organizzazioni rivolte al progetto di una società più coesa e comunitaria. Nella quale la volontà e i corsi di azione si formino in comune, nella dialettica tra spinte dal basso e formazione della decisione sulla base di input politici, cioè di visione generale, progetto, cultura. Altrimenti non differirebbe dalle forme di organizzazione sociale di prossimità tra consanguinei e paesani tipiche di società meno strutturate e tradizionali. La democrazia dei moderni è universalista.

Allora anche le campagne di pressione, i momenti di “self-help”, le lobby, tipiche di quelle che chiama “società liberali forti”, non coincidono con la democrazia. Crouch pone l’attenzione su questa distinzione e questo equivoco: Robert Putnam, nel suo fortunato “La tradizione civica nelle regioni italiane ” esprime bene questo slittamento, viene enfatizzata l’attività ‘spontanea’ esterna alla sfera istituzionale, scordando le relazioni con questa. E soprattutto la relazione di questo proliferare di movimenti di cooperazione e mutualismo, o dell’associazionismo più o meno disconnesso e plurale, con il ritiro del welfare state. Ovvero con l’aprirsi di un vuoto al centro del rapporto tra pubblico e privato.

Movimenti che comportano un allontanamento dalla politica, scrive, “non possono essere citati come indicatori dello stato di salute della democrazia, un concetto politico per definizione” (p.22). Democrazia e società liberale non sono concetti coincidenti, la prima presuppone una certa eguaglianza, e la reale capacità di influire sui risultati. Mentre il liberalismo richiede la massima libertà di azione per gli agenti, indipendentemente dalla loro forza e dal grado di ineguaglianza che vige nella società. La democrazia, con il suo ideale di attivazione del meno avvantaggiato, può tendere a limitare la libertà del più forte, implica un certo grado di protezione, ovvero di “norme e limitazioni”.

Un ottimo esempio sono le regole per impedire che il potere economico si traduca in potere politico. Una delle rivendicazioni del “movimento cartista”, nell’ottocento, era il compenso per gli eletti, proprio per consentire anche ai poveri di candidarsi (era anche uno dei punti dirimenti dello scontro tra Pericle e gli ottimati nell’Atene democratica).

Dunque, messa in sintesi: “il mondo dei gruppi di interesse, dei movimenti e delle lobby appartiene al campo politico liberale piuttosto che a quello democratico, un campo in cui poche regole governano le modalità per esercitare un’azione politica” (p.23).

E’ una “postdemocrazia” quella forma politica in cui si inizia ad andare “oltre” l’idea del governo del popolo, ed in una certa misura anche oltre lo stesso governo. In questa parabola discendente abbiamo:

-        perdita di prestigio e di deferenza del governo,

-        mutazioni profonde nell’approccio alla politica da parte dei mass media,

-        una posizione “subalterna e scomoda” del mondo politico, che tende ad imitare i metodi del mondo dello spettacolo e della commercializzazione dei beni.

Si affermano, con sempre minore pudore, tecniche di manipolazione dell’opinione, controllo dei media, rarefazione dei programmi e delle culture politiche (che tendono ad assomigliarsi), organizzazioni politiche sempre più rarefatte, leggere, vaghe, personalizzazione.

Come sottolineerà nei suoi contributi successivi Crouch identifica nell’azienda globale l’attore chiave. Questa ha, nelle condizioni della globalizzazione finanziaria, il potere di mettere sotto pressione, e ricattare, la politica locale. L’effetto principale è lo spostamento della pressione fiscale dalle aziende ai cittadini, e l’elusione sempre più pronunciata delle aziende realmente globali.

Questo meccanismo apre lo spazio di una ‘crisi fiscale dello Stato’ i cui primi segni si vedono negli anni settanta, ma che si aggrava costantemente, costringendo a ridurre le prestazioni assistenziali e il welfare. In quanto forma di reddito indiretto, anche questo contribuisce allo scopo di indebolire il lavoratore nei confronti del capitale.

Ma contribuisce anche all’affermazione di una classe di intellettuali globali, più o meno imposti, sponsorizzati, incoraggiati, dal circuito delle grandi aziende multinazionali, e portatori della loro mentalità ed interessi. Espressione di una nuova classe dominante che attraversa e si colloca nelle barriere porose tra Stato e imprese globali e per Crouch “rappresenta il fattore centrale di crisi della democrazia” (p.60).

Contemporaneamente i partiti tradizionali hanno perso la propria base sociale, il processo di terziarizzazione del lavoro, causato dall’incremento di produttività ed automazione, e dalla mondializzazione della produzione, insieme all’incremento di istruzione media, ha comportato la perdita di orientamenti stabili e prevedibili. Si registrano posizioni molto disperse, e frammentate.

I partiti hanno reagito cercando di diventare “per tutti”. Ma “un partito senza base è nel vuoto”, e il vuoto viene sempre riempito. Hanno provveduto le aziende globali. Il partito post-democratico non ha allora più la classica forma organizzativa a cerchi concentrici, dalla direzione politica nazionale, alle rappresentanze parlamentari, quelle regionali e locali, la base dei militanti; tende ormai ad avere un cerchio di dirigenti, circondato da una cerchia di consulenti e lobby, una sorta di ellisse. Staccati troviamo, quindi, i militanti di base che servivano per le raccolte fondi e dei voti. In entrambe le funzioni essi sono sostituiti dall’ellisse dei lobbisti e delle aziende di riferimento (ormai la raccolta voti si fa più tramite i media ed in televisione e per quello servono molti più soldi). In conseguenza di queste trasformazioni Crouch vede “una elitè interna che si autoriproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben inserita in mezzo ad un certo numero di grandi aziende che in cambio finanzieranno l’appalto di sondaggi di opinione, consulenze esterne e raccolte voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo” (C, .p 84). L’esempio portato è Forza Italia.

Dopo questa potente, anche se un poco schematica, lettura ritorna sul tema aperto Pierre Rosanvallon. Lo studioso francese scrive una trilogia che è un punto ineludibile di riferimento per le osservazioni fenomenologiche sull’evoluzione della democrazia. Anche se le posizioni politiche dell’autore sono inclini alla svolta governista, lo studio è ampio e argomentato.

In “La politica nell’età della sfiducia”, che è del 2006, avvia l’ambizioso programma di “pensare la democrazia ripercorrendo il filo della sua storia”, in quanto essa stessa non è altro che una storia. Un processo di costante esplorazione, sperimentazione, autoelaborazione. Dunque oggi la democrazia sta evolvendo verso forme di “controdemocrazia”. Ovvero di sorveglianza, interdizione e giudizio come forme dell’interazione tra una società che si sente esterna ed il politico.

Una “società decentrata”, come mostrava anche Crouch, esprime verso il potere istituzionale una forma di pressione che non vuole affatto operare, non intende sostituire un progetto ad un altro. Si limita a sorvegliare ed interdire. Alla forma moderna della “rappresentanza” oppone una “controrappresentanza”. Questa nuova forma riabilita la sfiducia come pungolo.

Diversamente da Crouch, però, Rosanvallon tende a leggere questa situazione come “indice di vitalità della democrazia” (p.302).

In sintesi :

-        che cosa la democrazia è sempre stata? È sempre stata “promessa e problema”, ha sempre avuto tensioni interne tra le prese di parola degli esclusi e degli osservatori e le azioni;

-        Che cosa è oggi? Oggi si vede, in stato avanzato, la dissociazione tra “legittimità” e “fiducia”; quindi la perdita di speranza, l’erosione del capitale politico di fiducia, la presa  della “forma politica e sociale” di internet; dunque la prevalenza della <<democrazia del rifiuto>>, il diffuso senso di impotenza ed atrofia; la facilità alla formazione di “coalizioni negative” e della <<democrazia dell’imputazione>>;

-        Che cosa era prima? Nel trentennio “felice”, la dinamica era strutturata dalla lotta di classe e da una divisione della sovranità di fatto secondo un principio di “doppia legittimità”, che riconosceva un luogo sistematico alle organizzazioni ed istanze dei lavoratori, ad una opposizione organizzata e visibile, ad attori con una identità stabile;

-        Quali meccanismi sono all’opera? Essenzialmente ci troviamo davanti una <<democrazia della sorveglianza>>, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni reattive”, le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”; le legittimità sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e da “imparzialità”;

-        Cosa potrebbe diventare la democrazia? Il rischio è che queste dinamiche scivolino, per via di estremizzazione, nel populismo, cioè nella rappresentazione illusoria e consolatoria di un “popolo”, puro ed unitario, contrapposto ad un “potere”, interamente corrotto.

-        Cosa deve diventare? Occorre incorporare queste istanze positive, e questa energia dinamica, in un nuovo processo di istituzionalizzazione e di politicizzazione. 

La “fiducia” è dunque quella istituzione necessaria che sta venendo a mancare. La “sfiducia” ha sempre fatto parte necessaria della dinamica istituita dalla democrazia, che costantemente viene meno alle sue promesse e deve essere richiamata. Ma per questo il problema di ogni democrazia è sempre stato di istituire, o lasciar crescere, tutto un intreccio di pratiche, verifiche, contropoteri e istituzioni la cui funzione è di organizzare la sfiducia. Queste pratiche vanno allora comprese come “facenti politicamente sistema”.  

A questo punto Rosanvallon introduce la stessa distinzione che incardina il discorso di Crouch di pochi anni prima: ci sono due strade diverse della sfiducia. Quella “democratica” e quella “liberale”.

È la direzione verso la quale è orientata la sorveglianza, il giudizio e la critica a differenziarle:

-        per la sfiducia liberale bisogna prevenire l’eccessiva concentrazione dei poteri, e proteggere l’individuo.

-        Per la sfiducia democratica sorvegliare il potere perché resti fedele al bene comune.

Le due sfiducie sono armate le une verso le altre.

La complessità del discorso di Rosanvallon deriva da questa diversità che tiene insieme nel suo concetto di più alta astrazione. La “contro democrazia”, in entrambe le forme, non è “il contrario della democrazia, è piuttosto una forma di democrazia che controlla l’altra, la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, la democrazia della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale” (R, p. 17). È, insomma, una sorta di <<contrafforte>>, una vera “forma politica”. 

La tassonomia che propone al termine è quindi di tre forme politiche di contropotere, e tre “popoli”:

-        La vigilanza, dunque il ‘popolo controllore’.

-        L’interdizione, dunque il ‘popolo veto’.

-        Il giudizio, dunque il ‘popolo giudice’.

La forma democratica contemporanea è dunque attiva, espressiva, coinvolgente. Ma rischia di essere reattiva, rivolta solo al controllo, all’umiliazione, una ‘contropolitica’ disinteressata all’azione trasformativa. Che non cerca di comprendere, leggere le cose e le relazioni, di fare progetti.

Non si tratta, però, di una passività; è più che altro una ‘democrazia diretta regressiva’, una sorta di “consenso per difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.

Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o pratici.

Tutto ciò provoca indirettamente una certa atrofia, paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura; che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi ‘contro movimenti’ non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”. In qualche modo paralizzarlo. 

Due anni dopo Rosanvallon torna, ed ora siamo nel 2008, sul tema con il volume sulla “Legittimità democratica”. Si tratta di un testo orientato, come dal programma generale dell’autore, ed anche più del primo, a mostrate la successione storica dei concetti di legittimità che si intrecciano nel corso delle dinamiche politiche occidentali. Il punto di partenza è la sovranità e legittimità illuminista, il “popolo” come unità della nazione fonda un momento maggioritario che istituisce il potere ed è fonte della legittimità. Ma la frattura che la pratica politica concreta introduce in questo concetto, con la crescita del pluralismo introdotto dalla società di massa (ed in particolare con l’irrompere delle masse popolari e lavoratrici), e quindi la “politica di parte”, induce una prima trasformazione e l’introduzione di un diverso concetto di legittimità a fianco dell’originario. Il terzo momento di svolta si ha negli anni ottanta.

L’esito è una sorta di sovranità del “posto vuoto”, e la prevalenza della “democrazia indiretta” (ovvero della democrazia schermata da “agenzie indipendenti”). Quella che Crouch chiama “postdemocrazia”.

L’ampia ed affascinante ricostruzione di Rosanvallon muove dalla idealizzazione della sovranità come blocco unico, contrapposta al potere del sovrano tradizionale. La volontà deve essere “generale”, in opposizione a quella particolare dei privilegi. Ma questa opposizione “generale-particolare” contiene le sue linee di frattura. Da una parte, con Seyes, la rottura con l’antico ideale dell’unanimità (dato che la volontà generale si forma intorno al principio di maggioranza), dato che l’uomo illuminista vede tutti “liberi ed eguali”, dall’altra la creazione di fazioni e di “partiti” è vista come una patologia.

Questa contraddizione esplode quando la piena affermazione del suffragio universale determina l’irrompere sull’agone politico di forze eterogenee e di conflitti più irriducibili. Allora, siamo negli anni venti del novecento, si parla di “crisi della democrazia”. A questa ‘crisi’ (di controllo da parte delle élite) si risponde con la reazione amministrativa. Tra il 1880 ed il 1920 si afferma la centralità di sempre più potenti macchine amministrative e dei relativi ceti. Sotto il profilo della ricerca condotta nel testo si afferma una nuova forma di legittimità: l’interesse generale è un servizio tecnico che deve essere protetto (dal “concorso”) e deve essere esercitato con “disinteresse”. Il funzionario tecnico risale ad una forma di legittimità democratica che nasce dalla duplice fonte del disinteresse e della razionalità.

A questo stadio ci sono due tecniche di legittimazione che si contendono lo spazio politico: il concorso e l’elezione. E quindi una dialettica tra due generi di servizio pubblico: il funzionario ed il politico.

Quel che succede al momento in cui viene meno il progetto politico trasformativo (con il riflusso della tensione socialista) e si registra la piena affermazione dell’individuo (con il consumismo), è che il “mondo economico” guadagna la centralità. È per Rosanvallon lo spirito del capitalismo che “astrattizza” il mondo e isola ogni individuo.

A partire dagli anni ottanta tre nuove forme di legittimità prendono il centro della scena:

-        La legittimità di imparzialità, articolata intorno alle “autorità indipendenti”;

-        La legittimità di riflessività, articolata dalle “corti costituzionali”;

-        La legittimità di prossimità, che esprime la direttezza.

Le prime nascono già nel 1887 in USA per sottrarre alle influenze politiche la regolazione di alcuni settori delicati e ad alto contenuto tecnico. L’imparzialità, che le organizza è il frutto di quattro elementi:

-        la sottrazione alle pressioni politiche e l’indipendenza rispetto all’esecutivo;

-        la qualità derivante dall’imparzialità;

-        la possibilità di attivare politiche di lunga durata, sottratte al calendario elettorale e al mutevole consenso;

-        la razionalità e coerenza presunte.

L’idea è di essere schermate dalle pressioni (cosa che rappresenta sempre il punto debole e delicato) ed avere meno democrazia per godere di più “diritto”.

La seconda figura della legittimazione è ancora più antica, è la “sovranità complessa” di Condorcet, in cui i “principi” fondamentali sono tenuti fermi dalla “costituzionalizzazione” per sottrarli appunto alla forma democratica ed ai suoi ondeggiamenti di parte.

Negli anni ottanta interviene il “costituzionalismo economico”, proposto da Prescott nel 2004 espressamente rivolto a neutralizzare il governo democratico ed impedire che i governi, influenzati dal potere sociale e non da quello economico, prendano “decisioni circostanziali” (legati alle scadenze ed al consenso) in contrasto con l’interesse generale a medio termine. Questo interesse generale è incarnato dal discorso scientifico della scienza economica. Dunque il “governo a mezzo di regole” (di cui Maastricht è un esempio perfetto) deve prevalere sul governo “discrezionale”. Questo genere di “costituzionalismo” è proposto da McKenzie e Buchanan già negli anni ottanta e promosso energicamente da think thank neoliberali come la Heritage Foundation.

La terza forma di legittimità che prende il centro in questo periodo è la “legittimità di prossimità”, e per Rosanvallon essa trova forma in una accresciuta attenzione alle particolarità ed alle individualità, e radicamento teorico nel vasto dibattito degli anni novanta sul “riconoscimento” (Rosanvallon cita Charles Taylor, Axel Honneth, p. 235) che articola una nuova forma di generalità: la discesa nella generalità a partire dalle particolarità concrete (e dalle loro forme narrative). Il “riconoscimento” è riletto come “nuovo fenomeno sociale totale” (Caillè, p. 236) nell’epoca dell’individualità (ed in quella del rischio).

Si tenta (qui anche Habermas e Durkheim) una particolare desostanzializzazione della democrazia senza però arrivare alla desocializzazione perseguita dal modello liberista. Sono le teorie deliberative della democrazia (p. 281) che tentano una mutazione del rapporto con la politica ponendo enfasi sull’interazione come attivatore di prossimità e fonte di legittimità.

Gioverebbe a questo punto dare un occhio ad un libro di Giuseppe Berta che esce quasi contemporaneamente, nel 2009, “Eclisse della socialdemocrazia” in cui lo storico torinese osserva la svolta condotta a partire dalla recezione della lezione Thatcheriana e pone alcune cruciali domande alla cultura della socialdemocrazia ormai persa: ‘chi si deve adattare a chi?’ E’ la società, per come è fatta, e per gli interessi e valori che esprime, a doversi adattare al capitalismo (piegandosi alle sue priorità) o non è quest’ultimo a dover essere adattato alle esigenze ed agli imperativi sociali prioritari?

In altri termini: esiste un punto di vista, una presa di distanza, dalla quale si possa giudicare l’esistente e valutarne la legittimità? Esiste una “tavola dei valori” che sia caratteristica della socialdemocrazia, dei “principi” che siano definiti ante gli interessi ed i valori della forma sociale e di potere storica che chiamiamo capitalismo? O meglio, della forma che esso ha preso nella contemporaneità? Qualcosa che “sia prima”, e dunque consenta un giudizio?

Nel 1949 Schumpeter credeva che l’ordine capitalista stesse per tramontare in quanto il suo ethos era in contrasto con “la ricerca della sicurezza e dell’uguaglianza” e la regolazione che ne conseguiva.

Quaranta anni dopo il New Labour rovescia i termini, bisogna sostenere il business ed adattarsi allo spirito del capitalismo. In particolare, come ebbe a dire Gordon Brown nel 2007: cogliere le opportunità della globalizzazione, che è un processo essenzialmente benefico del quale bisogna prendere la guida. Per Brown, secondo Berta, la globalizzazione è una sorta di cornice naturale, una leva che va utilizzata fino in fondo perché è la condizione della produzione della ricchezza. In sostanza l’economia è una sorta di macchina che necessita per sua natura di una continua accelerazione. Ne segue che lo scopo del governo è favorirla. La cosa più importante è che non si possono avere dubbi, indulgere a pensieri sulla natura della globalizzazione o la sua direzione di marcia. In qualche modo se non si sta al passo con le condizioni in cui si svolge il processo economico, se non si interpretano i bisogni di cambiamento, prima e meglio delle altre nazioni, si soggiace.

Nel discorso non si trova parola sulle ineguaglianze, ma solo sul pacchetto di opportunità che vanno offerte, come una merce in vetrina, al singolo cittadino-elettore.

Il testo analizza le proposte politiche di quel contesto, quella della SpD nel 2008, quella di Obama. Ci sono toni in parte diversi, più sensibili ai costi sociali pagati dalla parte più debole, ma Si tratta, alla fine, anche qui, di una vetrina; manca ormai la base cui riferire un’istanza di cambiamento politico, a causa della fortissima terziarizzazione e delle caratteristiche di riproduzione dell’individualità e dell’azione nelle condizioni delle aziende di servizio e commerciali che prevalgono in modo schiacciante nella contemporaneità.

Ciò a cui ci si candida è una gestione modernizzatrice dell’economia. Ma facendo così le socialdemocrazie si trovano senza parole e senza occhi di fronte all’ineguaglianza che esplode. Sia a quella tra gruppi sia a quella tra territori.

Sostenere il business, lo vedeva molto chiaramente Schumpeter, significa lasciar andare lo spirito animale, selvaggio, rivolto al più forte. Ovvero rendere sempre più forte e sempre più debole, allargare la divaricazione. Nelle condizioni dello “spazio dei flussi” della globalizzazione ciò significa disancorarsi.

Quando la crisi, mordendo, allarga queste riflessioni critiche e porta allo scoperto la vanità dello spot pubblicitario (termine ricordato da Raghuram Rajan nel 2010 nel suo bel “Terremoti finanziari”) escono alcuni testi tra i quali si possono ricordare l’ultimo della trilogia di Rosanvallon, due libri di Crouch e l’atto di accusa di Berta alle oligarchie, ma anche la ricca riflessione di Nadia Urbinati.

La società dell’uguaglianza” è un testo del 2011 e corona magnificamente la trilogia sulla democrazia del politologo francese, che ora cerca più esplicitamente uno “spazio politico social-democratico” che lasci ferma la centralità dell’individualismo, e quindi il superamento della soluzione collettivista, tuttavia senza cadere nella disgregazione liberale. La dimensione “assicurativa” va quindi salvaguardata (o meglio recuperata) ma sotto forma di una capacitazione. Da una società dell’indennizzo ad una dell’inserimento.

Il tema diventa, in questo libro che si determina entro lo spettacolo della crisi, l’ineguaglianza e la disgregazione della società che comporta. La democrazia non è, infatti, solo una forma di governo o una tecnologia di controllo, ma è una ‘forma di società’.

Ma cosa ha significato “uguaglianza” nella storia della democrazia? Ci sono tre fasi per Rosanvallon:

-        il XVIII secolo vedeva come tema la lotta ai “privilegi”, l’eguaglianza è morale e giuridica, non materiale,

-        il XIX secolo la rivoluzione industriale porta al centro della scena la lotta alla povertà, l’eguaglianza che conta è quella delle dotazioni economiche,

-        dal 1980 si ha un rovesciamento, ed emerge una “società della singolarità” che in sostanza disconosce il tema dell’eguaglianza per enfatizzare la competizione.

Negli anni settanta ed ottanta del settecento l’ideale che viene articolato, in contrasto con l’autopercezione della nobiltà di essere “distinta”, è una “società di individui indipendenti”, che non siano “vincolati” a specifici ruoli o poteri. Eguaglianza in qualche modo si confonde con libertà. Nella percezione dei contemporanei non c’è alcuna contraddizione tra “eguaglianza, libertà, fraternità”.

Bisogna fare attenzione, in una società che non ha ancora subito gli effetti destrutturanti e ristrutturanti della rivoluzione industriale, la “uguaglianza di mercato” è un’istituzione plausibile di lotta al privilegio. L’economia politica classica, quella di Adam Smith, è quindi inseparabile da una sorta di sociologia storica dell’emancipazione e dell’indipendenza, funzionale a tale emancipazione dai privilegi non giustificabili. Si tratta, in altre parole, di un liberalismo emancipatore ed egualitario nel contesto storico settecentesco. Il segno politico è esattamente opposto a quello nel quale è oggi per lo più usato.

Gli illuministi scozzesi (Rosanvallon si sofferma su John Millar) sviluppano un’accesa polemica con lo <<stato di dipendenza>> nel quale i contadini del loro tempo restavano vincolati. Alla terra ed ai padroni. In questa condizione l’espansione di attività <<proprie>>, da parte di negozianti ed artigiani, è “favorevole alla libertà e tende a stabilire una forma di governo popolare”. Se uguaglianza e libertà sono concetti connessi, “l’idea di reciproca utilità era pronta a rimpiazzare quella di autorità gerarchica, nel pensare la giusta direzione del mondo” (R., p. 43). L’enfasi su una società in cui “ognuno era padrone del suo destino, in quanto responsabile della sua sussistenza”, si comprende se si fa mente al quadro sociale dell’epoca. Altrimenti si leggono parole del tutto fuori del quadro di senso nel quale furono spese.

L’uguaglianza, insomma, non significa essere tutti eguali, ma che nessuno possa dominare totalmente un altro. In una prima fase (quella della rimessa in questione delle gerarchie aristocratiche) il denaro è letto come “grande livellatore” sociale. In ogni caso l’uguaglianza che è articolata dal secolo è principalmente di natura morale, e riesce a far retrocedere in secondo piano la percezione della disuguaglianza materiale.

È solo a partire dal secondo trentennio dell’ottocento che muove la distinzione tra ricchi e poveri come centrale. E alla metà che il discorso diventa non trattenibile.

È in questa fase che la contraddizione tra libertà ed eguaglianza viene tematizzata, e da parte degli scrittori liberal-conservatrici che ritornano sulle posizioni dei reazionari di una generazione prima: Villermé, Buret, Gilardin tornano su Burke e Necker. La miseria è il castigo della pigrizia e del vizio e la disuguaglianza è legge morale del mondo. Ma ci sono anche altre linee di attacco: la distinzione e il talento.

Su questa linea Guizot tenta una distinzione tra disuguaglianze “artificiali” e “naturali”  e si recupera Darwin.

L’altro fronte mette sotto accusa l’anomia e la concorrenza, Rosanvallon ricorda Owen e Fourier, o Lammennais che dice “con la concorrenza non c’è libertà, poiché blocca i più deboli nello sviluppo delle loro facoltà e li lascia in balia dei più forti. Con la concorrenza, non c’è fratellanza, poiché è una lotta”. La soluzione è l’associazione e quindi il comunismo. Lavorando sulle radici dell’idea formalizzata da Marx, Rosanvallon ricorda le pubblicazioni di Cabet e la ristampa del Codice della Natura di Morelly, nel 1840; quindi l’opera Code de la communauté di Théodore Dézamy. Si tratta sempre di valorizzare i concetti di unità e fratellanza, radicalizzando l’idea giacobina di Unità e indivisibilità. Scrive Dézamy: “la fratellanza è quel sentimento sublime che porta gli uomini a vivere come membri di una stessa famiglia, a mescolare in un unico interesse tutti i diversi desideri, tutta la loro potenza individuale […] l’unità consiste nell’identificazione indissolubile di tutti gli interessi e di tutte le volontà”. Si tratta di una qualità strutturale dell’ordine sociale, una sorta d’inclusione degli individui in un unico mondo. Rosanvallon la chiama “uguaglianza di corpo”. Non c’è concorrenza perché “per l’esattezza in questo quadro non c’è individuo autonomo … era dunque a partire da una semplificazione dell’organizzazione del genere umano che, in fin dei conti, ci si aspettava di abolire il regno della concorrenza. ‘Unità’ voleva dire soppressione degli antagonismi, impertinenza della differenziazione, indistinzione.” (R. p. 125)

In questa lettura, lo slogan che si ritrova nella Critica al Programma di Gotha, “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni!” non è un principio fondante di diritti individuali. Si trattava di edificare un mondo deindividualizzato, di bisogni oggettivi, socialmente determinati. Proviamo a leggere il testo: “in una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Editori Riuniti, 1978, p. 32). E’ la società, non gli individui che scrive sulle bandiere.

Si tratta per Rosanvallon di un progetto antipolitico, e indubbiamente autoritario, nel quale non c’è spazio per voci discordanti o comportamenti devianti: “nella comunità antipolitica, l’uguaglianza è il frutto di una dipendenza e di una sottomissione comune. Gli uomini e le donne sono simili in quanto soggetti dell’organizzazione razionale e non in quanto individui autonomi che si fronteggiano” (R., p. 129).

In autori come Babeuf si trattava anche di spegnere la molla dell’invidia tramite l’educazione, una vera riconfigurazione antropologica e la soppressione della proprietà. Di più: dell’idea stessa di possesso personale. Una idea simile si nutriva dell’idea di una società dell’abbondanza, dove una ristretta quantità di beni necessari viene prodotta in grande quantità.

L’idea strutturale, che si ritrova ben formulata in Owen è di un nesso tra:

-        abbondanza (di beni di base, per bisogni “naturali”),

-        frugalità (mancanza di desiderio in beni innaturali o distintivi)

-        produttività.

In modo che ognuno produca più di quel che è in grado di consumare, e nessuno desideri di più. Si tratta anche dell’estinzione dell’economia (scienza della penuria). In un mondo deindividualizzato viene soppressa radicalmente la concorrenza. Un mondo dell’identico, dove nessuna mediazione è più necessaria perché tutti si identificano in un unico e medesimo corpo (Rosanvallon cita il Marx de Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica e anche le Observations morales di Dom Deschamps del 1770, come antecedente).

La concorrenza viene sradicata in questa vasta ed articolata visione su più piani: sul piano giuridico (eliminazione della proprietà), sociologico ed economico (ordine comunitario), morale ed antropologico (sradicamento di egoismo ed invidia), ontologico (eguaglianza assoluta).

Ci sono altre posizioni, tra queste il nazional-protezionismo che si afferma già nella metà dell’ottocento.

Ma è dalle lotte, furiose, per l’imposta progressiva (nel 1914 in Francia) che si apre “il secolo della redistribuzione” che riduce in modo spettacolare l’ineguaglianza ottocentesca. È l’effetto di tre direzioni di riforma:

-        l’imposta progressiva,

-        la società assicurativa,

-        la regolazione collettiva del lavoro.

Esattamente le tre direzioni rimesse in questione nella svolta neoliberale.

Il rovesciamento, si ha infatti con la svolta degli anni ottanta, e la seconda grande mondializzazione (o terza). Le disuguaglianze sono quasi tornate al livello della metà dell’ottocento, sono risorte le figure patologiche della fine del secolo (nazionalismo e xenofobia), anche l’idea di nazione è in forte ripresa; “ma, come al tempo di Barrès, non viene rivendicata per dare un corpo socialmente più consistente al popolo introvabile della democrazia elettorale, al contrario, viene esaltata per esorcizzare le difficoltà della costruzione pratica di una società di simili. Ancora una volta serve per pensare alla comunità in modo semplificato, come unità negativa, come un’omogeneità che si presuppone ovvia. Tutto questo ha un furioso gusto di una déja-vu” (R., p. 211).

Nello stesso anno, con diverso approccio e maggiore verve polemica, Colin Crouch scrive “Il potere dei giganti”, in cui si chiede come mai la crisi non ha affatto sconfitto il neoliberalismo. La risposta è che il neoliberalismo è l’ideologia di un attore economico e sociale dominante. Non è affatto una teoria favorevole al mercato e da qualsiasi fallimento del mercato non può essere confutata.

Il neoliberismo è l’ideologia delle imprese giganti.

Dunque è l’ideologia conforme ad uno degli attori predominanti: allo Stato ed al mercato va aggiunto il sistema delle imprese giganti, che Crouch vede distinto e contrapposto ad entrambi.

L’autore sottolinea un punto che in genere si dimentica: c’è una tensione tra le posizioni liberali, anche radicali, che restringono il ruolo dello Stato alla protezione della concorrenza (ad esempio quelle “ordoliberali”) e il liberalismo della Scuola di Chicago che è progressivamente e quasi inavvertitamente slittata verso la tesi che i prezzi devono essere lasciati liberi nelle condizioni di fatto presenti. Questa tesi implica, e non è un caso, anche l’abbandono della lotta ai monopoli. Salvo che siano pubblici.

Le multinazionali sono garanzia di un “incremento globale di efficienza” e comunque ripristinano la concorrenza tra di loro, anche se ognuna ha aree di monopolio (o monopsonio) che protegge gelosamente.

In sostanza il neoliberismo ha come vettore centrale la classe dei capitalisti finanziari e centro le principali piazze, dalle quali si è espanso in tutto il mondo (C. p. 131); per questo resiste. 

Da ultimo nel 2013 Colin Crouch termina la sua trilogia con “Quanto capitalismo può sopportare la società”. Se nel primo aveva denunciato il degrado della democrazia e nel secondo indicato l’attore centrale per il quale le ideologie di sostegno postdemocratiche lavorano, nel terzo prova ad individuare le linee essenziali di una nuova missione della socialdemocrazia.

Mentre Rosanvallon, certamente più legato ai temi ed alla pratica della cosiddetta “terza via” di cui invece Crouch è aspro critico, enfatizzava la capacitazione e il riscatto individuale, il politologo inglese tenta di definire le linee guida di una “socialdemocrazia assertiva”.

La strada per una socialdemocrazia forte è in sostanza di “mettersi al centro di una famiglia di campagne e movimenti” (p.198), ponendo le giuste questioni (disuguaglianza e potere), e cercando di avere un approccio dinamico e offensivo. La socialdemocrazia, per Crouch, ha infatti senso solo se cambia le cose e fa la differenza, se è amica dell’innovazione e dell’originalità, se sostiene diritti e libertà.

Bisogna lasciare alla spalle la mossa della socialdemocrazia dell’avvio del millennio, la cosiddetta “terza via”, che invece di contribuire a riconfigurare il capitalismo per renderlo idoneo alla società ha lasciato che sia questa ad essere piegata e resa compatibile con l’accumulazione capitalista, cioè essere determinata dal “potere politico della ricchezza accumulata”. Il “potere politico della ricchezza” è però storicamente il nemico di tutto il pensiero e la prassi democratica che si definisce progressista (da Jefferson in America a Voltaire e Rousseau, o ai rivoluzionari in Francia, fino ai giorni nostri). Dunque la socialdemocrazia che si piega a questo potere, ritenendolo invincibile, tradisce la propria stessa ragione di esistenza.

Ma neppure è sufficiente limitarsi alle battaglie di conservazione, o per stabilizzare il lavoro che c’è. La soluzione dovrebbe essere forme energiche di flessicurezza (p 90).

Tra il compromesso sociale del nord Europa e quello del sud Europa, dove il primo vede sindacati forti e trasferimenti dallo Stato, con un welfare mediamente forte, ma più flessibilità ed il secondo forti protezioni per i lavoratori e basse per chi non è incluso, Crouch propende per il primo. Si tratterebbe di fare leva sulla politica sociale per rafforzare la competitività, calibrando aiuti e stimoli.

A questo quadro Giuseppe Berta, nel 2014, aggiunge un breve libretto “Oligarchie” che mette a confronto in modo sistematico diversi assetti oligarchici: il parlamento inglese in due epoche (1761 e 1860), le democrazie autoritarie orientali e la Cina con una oligarchia non democratica, ed infine l’Unione Europea.

Il confronto tra la globalizzazione “inglese” tra il 1870 ed il 1914 e quella “americana”, tra il 1990 ed oggi, mostra come in tutti i casi si sia trattato di un progetto di élite per restringere il campo delle decisioni a favore di limitati circuiti finanziari. Questa volta, in particolare, si tratta di riportare le lancette della storia a prima del Compromesso di Bretton Woods, e produrre una “democrazia oligarchica” rivolta a rimuovere, insieme alla democrazia popolare, la storia e il carattere dei popoli. È questa rimozione che non manca di provocare reazioni sempre più forti e giustificate per Berta.

Nel libro viene ricordata la posizione di Guido Carli, che rappresentò l’Italia al negoziato di Maastricht. Carli conduce la trattativa nella convinzione, maturata da lungo tempo, che l’Italia non potrà “riformarsi” da se stessa, secondo le auspicate linee liberali, senza essere costretta a ciò da vincoli istituzionali indisponibili alle pressioni sociali. Per questa ragione è per lui assolutamente necessario creare “un vincolo giuridico internazionale” per ripristinare una “sana finanza pubblica”. Secondo la sua visione, ancora oggi fortemente condivisa, lo stato dei conti e la stessa nazione ha bisogno di assoggettarsi ad un’autorità sovranazionale, “per sottoporre a disciplina i comportamenti di partiti e società” (come scrive Berti). La società italiana gli appare, infatti, in quegli anni “frammentata, lacerata, disorganica”, con una vita politica bloccata e indifferente.

Partendo da questa analisi, tutt’altro che priva di fondamento, Carli vede nel Trattato di Maastricht lo strumento per dare il necessario “scossone violento” che altrimenti solo un regime autoritario, come quello fascista, potrebbe dare (risposta dello stesso a chi lo invitava a maggiore azione nel suo ruolo di Ministro, p.100). Lucidamente Carli vede quindi che la <posta in gioco> del Trattato è <la riforma del potere>; cioè “la drastica riduzione del potere dei governi nazionali” alla quale, in una delle più incredibili e illuminanti affermazioni riportate nell’utile libro di Berta, Carli fa corrispondere nella sua valutazione “un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini”.

Qui c’è il nodo ideologico, ed operativo, della costruzione della nuova Europa. Carli intende esattamente che l’indebolimento del potere dei Governi Nazionali (e dunque dei Partiti e dei Parlamenti democratici, ma anche delle organizzazioni sociali che influenzano la sfera pubblica nazionale) sia bilanciato da un maggiore <potere> dei <singoli> cittadini abilitati a <decidere>. Cosa? Cosa possono <decidere> i “singoli” che restano tali, cioè che non si organizzano o associano, che non partecipano a processi politici?

Lo dice lui stesso, con impareggiabile chiarezza di pensiero e franchezza, il potere residuale è nel diritto di investire i propri soldi nel debito pubblico o altrove. In altre parole la democrazia che resta è quella “dei mercati” e l'azionabilità è per censo. Con le sue parole: la “sintesi politica” è data dal “permanere del debito pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza costrizioni, [cosa che] rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia” (p. 100, da G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1993, p. 386-7).

Questo i-n-c-r-e-d-i-b-i-l-e rovesciamento di due secoli di pensiero politico democratico, di ogni prassi democratica, di ogni lotta condotta in Europa dalla rivoluzione francese ad oggi, questo vero e proprio pensiero eversivo, è la ragione che il Ministro della Repubblica (che ha giurato sulla Costituzione Italiana), perfettamente cosciente di attuare una “rivoluzione del potere”, promuove nel negoziato. Cerca, insomma, l’implementazione di una “federazione europea basata sul principio dello <Stato minimo>, tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una Difesa unitaria”. Questa Federazione è l’unica, a suo parere, che può resistere agli “urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi”. Il mondo che cade in frantumi è, nel 1991, quello di Yalta.

Ridurre la partecipazione al fine di consolidare il potere di élite ed oligarchie convinte di poter guidare la navicella europea nei mari tempestosi del futuro in modo più consapevole e saggio rispetto ai cittadini stessi. L’unico punto in cui, secondo la visione dell’ex banchiere Carli, la voce degli uomini e le donne, che subiscono le conseguenze delle scelte fatte dagli esperti, può esprimersi è nelle individuali scelte di investimento. L’unica democrazia che può restare attiva è quella “dei mercati”. Detto in modo diverso, l’attuale condizione in cui il “potere” cui rispondono le azioni della BCE e della Commissione è determinato dai “mercati”, e dal sistema finanziario attraverso il quale si esprime, è assolutamente compresa, prevista, intenzionale. Si tratta di un rovesciamento della base stessa del potere democratico che si stenta a comprendere nella sua portata ancora oggi.

Da ultimo Nadia Urbinati, nel 2013, pubblica “Democrazia in diretta” nel quale vede agire fondamentalmente un meccanismo di disintermediazione agito da individui reciprocamente connessi attraverso l’ambiente tecnologico contemporaneo. Sono in corso processi poderosi di deprofessionalizzazione rivolti al mondo dell’informazione, ma anche alla stessa cultura ‘alta’. Tutti i vecchi ordini che proteggevano i discorsi stanno venendo meno.

Ma si deprofessionalizza anche la politica, anche internet e i social, o la blogosfera, afferma il politologo italiano trapiantato in USA, fanno ormai accedere la parola “nuda”, alla quale occorre rispondere, e ne fanno “strumento politico vero e proprio” (p. 186). In questa dinamica della parola tutti hanno la possibilità di essere indagatore e controllore. Una moltitudine di controllori intransigenti, difficili da mandare sulla ghigliottina (come accade a Desmoulins). Quel che accade è quindi che si accorciano le distanze e si crea direttezza.

Ci sono rischi, ma la democrazia, in effetti (e qui viene ampiamente citato Rosanvallon) non è sempre stata risiedente nella sfiducia e nella insoddisfazione? Cioè nella costante, opportuna e necessaria, insoddisfazione per promesse non mantenute (ed a ben vedere non mantenibili) e nella costante incompletezza.

Questa insoddisfazione, insieme ad un certo grado di fiducia, sono entrambe (nella loro reciproca opposizione non escludente) componente costitutiva della legittimità, perché “contribuisce a tenere sveglia la nostra capacità di sorveglianza, che costringe le istituzioni a sottostare all’ispezione ed al controllo, e infine innesca mutamenti istituzionali e funzionali” (p.31).

Ma il problema urgente è come difendere l’uguaglianza dei cittadini dalla espansione del potere. Sia esso di natura economica, o sia l’affermazione di una voce che si fa mandato attraverso la “direttezza”. Forzando il passo.

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