Dopo le grandissime giornate di lotta del 3 e 4 ottobre
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Dopo le grandissime giornate di lotta del 3 e 4 ottobre: ora bisogna continuare e andare fino in fondo, per dare maggior forza alla resistenza del popolo palestinese e buttare giù dalle piazze il governo Meloni
Molti, per prime le organizzazioni palestinesi, hanno fatto ricorso al termine “storico” per definire le magnifiche giornate di lotta del 3 e 4 ottobre. Forse è prematuro. Ma lo sciopero generale politico – vero! – per la Palestina proclamato inizialmente dal SI Cobas, e poi assunto dalla Cgil e dall’Usb, e i giganteschi cortei di Roma e Milano segnano con certezza un grande risveglio sociale e politico.
La solidarietà con la Palestina e – in misura assai minore – con la resistenza del popolo palestinese è diventata finalmente un fenomeno di massa. Anzitutto in una nuova generazione di giovani e giovanissimi fino a poco tempo fa apparentemente del tutto passivi, atomizzati, apolitici. In gran parte giovane proletariato candidato a precarietà e assenza di futuro: figli/e dell’immigrazione e italiani doc, che sempre più si sentono immigrati in quella che è, sulla carta d’identità, la “loro” terra. E poi settori significativi della classe lavoratrice salariata – oltre i facchini della logistica, ferrovieri, portuali, autisti dei trasporti locali, operai/e e impiegati/e dell’industria (non in prima fila, però), docenti delle scuole (molti), infermieri e medici, dipendenti di enti pubblici. Accanto a loro, e trainati da loro, settori di “popolo”, inclusi singoli elementi di quelle classi medie accumulative che sono schierate in forza con il governo e i poteri costituiti filo-sionisti.
Ciò che ha unito questa variegata composizione sociale è un mix di conscio e di inconscio. Il rifiuto consapevole del genocidio in corso a Gaza a opera del governo e dell’esercito di Israele in quanto inumano. L’ammirazione, ma non sempre consapevole, della forza, del coraggio, della dignità, del popolo palestinese. Il sentimento ancora meno consapevole, se ci riferiamo alla maggioranza dei manifestanti, di appartenere al mondo degli oppressi – che i settori più coscienti del movimento hanno espresso con il “siamo tutti palestinesi”, cogliendo l’unità di destino tra il popolo palestinese e gli sfruttati delle metropoli europee e occidentali.
Non va dimenticato, però, che l’innesco di questa esplosione è stato il sequestro della Global Sumud Flotilla, e la solidarietà con i suoi componenti che forse, per la maggioranza dei manifestanti di queste giornate di lotta, veniva prima di quella alla popolazione di Gaza – con tutto il suo corredo di fiducia nella legalità internazionale e nelle iniziative “non violente”.
Comunque sia, non è poco! Dopo mezzo secolo di martellante educazione all’individualismo e di indottrinamento sull’inutilità e dannosità delle lotte, dopo anni di forsennata campagna mediatica contro il “terrorismo” di Hamas e il 7 ottobre, una così ampia, calda, spesso combattiva solidarietà con il popolo resistente della Palestina segna, lo ripetiamo, un grande risveglio sociale e politico – che il governo Meloni teme per la sua potenzialità anti-capitalista e anti-sistema. Non è un caso che le sia sfuggita di bocca la parola (decisamente prematura): rivoluzione.
Nel mirino degli scioperi e delle manifestazioni di queste settimane c’è stato infatti – insieme ai boia nazi-sionisti capeggiati da Netanyahu – il governo Meloni in quanto complice del genocidio. E, in generale, per la sua politica guerrafondaia e le sue decisioni anti-proletarie e anti-sociali. La testarda campagna politica contro il “decreto-sicurezza” che abbiamo avviato e animato non è stata fatica sprecata; né lo è stata l’agitazione contro la corsa alla guerra e l’incremento vertiginoso delle spese militari a scapito delle già magre spese sociali. Per molti/e prendere parte agli scioperi e alle manifestazioni delle ultime settimane è stato anche un modo per dire: basta! Al genocidio dei palestinesi, certo; ma anche a condizioni di lavoro umilianti, a salari insufficienti, alla crescente precarietà esistenziale, all’epidemia di morti sul lavoro, all’impoverimento, alla distruzione dei servizi sanitari e delle prestazioni sociali, alle soffocanti misure repressive.
Nonostante questi fattori interni di grande peso, l’esplosione sociale del 3 e 4 ottobre non ci sarebbe stata senza l’incredibile forza della resistenza palestinese, e senza l’osceno scempio della vita dei palestinesi attuato e vantato dalla macchina di morte e distruzione sionista. La sua origine è dunque internazionale, a conferma della nostra visione delle cose del mondo che vede l’economia e la politica internazionali come i fattori in ultima istanza determinanti delle vicende delle singole nazioni. L’aspetto più interessante della stessa vicenda della Global Sumud Flotilla che ha fatto da innesco è, dopotutto, la sua natura di missione internazionale di solidarietà, al netto dei calcoli tutt’altro che internazionalisti di certi suoi promotori. Altrettanto significativo è l’eco internazionale (anche in Palestina) di queste grandi giornate di lotta, che si sono aggiunte a quelle di tanti altri paesi del mondo – eccettuati, purtroppo, i paesi (Russia e Cina) più amati dal melmoso mondo “rosso”-bruno, le cui piazze sono rimaste ancora una volta totalmente silenti. Il movimento mondiale per Gaza e la Palestina è ormai un attore di primo piano della politica internazionale – incomparabilmente di più di quello del 2003 contro la guerra all’Iraq.
La decisione di Trump di sedersi al tavolo di trattativa con Hamas dopo avergli ingiunto di sottoscrivere in 48 ore il suo piano coloniale e schiavista senza fiatare, è frutto anche dell’impatto di questo movimento sui governi occidentali e sulle vigliacche borghesie arabe. Ma, dati i rapporti di forza complessivi, Hamas e la resistenza palestinese hanno dovuto accettare di muoversi all’interno del “piano Trump”, con l’assenso a liberare in una sola volta tutti i prigionieri israeliani in cambio di prigionieri palestinesi e, soprattutto, della fine dei bombardamenti, della carestia procurata e di garanzie, che finora non hanno ottenuto, sul pieno ritiro dell’IDF da Gaza. Sulle altre condizioni-capestro stanno prendendo tempo, pur accettando in linea di principio un governo di tecnocrati di nazionalità palestinese senza le forze della resistenza. Benché sostenuti dalle mobilitazioni di piazza di mezzo mondo, sono assediati dai tank sionisti, sotto i loro spietati bombardamenti, a ranghi decimati, in mezzo a spaventose distruzioni. E se tutto questo non bastasse, sono circondati e ricattati da pressoché tutti i più potenti stati della regione e del mondo, inclusi i cosiddetti stati amici, perché si arrendano il prima possibile uscendo di scena. Dati questi rapporti di forza, Hamas e le altre forze resistenti stanno cercando comunque di contrattare condizioni “di pace” almeno in parte differenti da quelle umilianti che Trump e i protetti sionisti di Trump vorrebbero imporgli.
Ecco perché non vogliamo inebriarci in maniera infantile per le importanti ma quanto mai tardive giornate di lotta di queste settimane, che pure abbiamo contribuito con il massimo impegno a preparare da tempo. Senza concederci nessuna pausa, dobbiamo continuare la lotta di questi due anni e portarla fino in fondo. Il che significa nell’immediato batterci per la fine dell’operazione genocida e della fame a Gaza, per il totale ritiro delle truppe di occupazione da tutta la Striscia – il primo accordo tra Stati Uniti e Hamas di cui si parla in queste ore non dà piene garanzie, e si sa come Israele abbia finora violato tutti gli accordi. Si tratta, qui, di preparare un salto di qualità nella mobilitazione contro il governo Meloni, con l’obiettivo di abbatterlo dalle piazze. E’ il solo modo che abbiamo per sostenere gli sforzi sovrumani che stanno compiendo, avendo contro tutti i grandi poteri del capitalismo globale, il popolo di Gaza e le sue forze combattenti.
Quanto al governo delle destre, livido di rabbia per il colpo subito, è evidente che è già determinato a passare al contrattacco. Divieto delle manifestazioni del 7 ottobre a Torino, Bologna e Bolzano. Mano libera al Mossad per agire a Udine contro la protesta per la partita Italia-Israele del 14 ottobre (conta poco la smentita diplomatica). Lancio della proposta di legge che equipara all’antisemitismo ogni critica allo stato sionista. Attacchi di stampa perfino a professionisti del pompieraggio come Landini, dipinti per amici di Hamas. E, da diverse avvisaglie, è da credere che dagli ambienti di governato è partito il via libera all’azione di gruppi squadristici. Sulla scia del capobanda Trump che l’ha scatenata negli Stati Uniti con misure “di emergenza”, anche in Italia è partita la caccia al nemico interno. Attraverso di essa, il governo vuole sfruttare a proprio vantaggio le divisioni, le contraddizioni e le debolezze presenti in un moto che, con le dimensioni del 3 e 4 ottobre, è ancora allo stato nascente.
Il futuro di questo movimento è tutto da scrivere. Potrà sembrare ingiusto l’ammonimento che viene da una delle voci palestinesi più libere e acute, ma non lo è: “gran parte di queste manifestazioni è strutturalmente esposta al rischio di diventare valvola di sfogo per una coscienza collettiva che pretende pulirsi attraverso il rito senza sfidare i meccanismi concreti che generano la violenza”. Lo è perché, non si può dimenticarlo, dopo che due anni di massacri e distruzioni non avevano mosso un decimo delle persone scese in piazze nelle ultime settimane, la sua esplosione è stata innescata dall’attacco alla Global Flotilla: “mentre ci si mobilita in difesa dei connazionali, Israele prosegue senza tregua la sua opera genocida, massacra i palestinesi per forzarli a una resa sotto il giogo di nuovi piani e assetti imposti dal capitale imperialista con l’avallo di buona parte della borghesia compradora al potere in vari Paesi dell’area”. Da qui un doppio monito: “Quando il dissenso non è organizzato politicamente, quando non esprime progetto, strategia e legami reali con le soggettività direttamente coinvolte [i palestinesi, nel caso -n.], è facilmente neutralizzabile. La piazza spettacolarizzata diventa così un manto che nasconde e consolida le stesse relazioni di potere che pretende di denunciare. Ecco perché il metro di giudizio deve rimanere inclemente: la vera prova è il legame vivo con la resistenza [sottolineature nostre], con la realtà delle città bombardate, delle case distrutte e della forza popolare che resiste. Diversamente, si scivola in una solidarietà che riproduce lo schema coloniale, riducendo Gaza a recipiente di pietà più che a protagonista della lotta” [Mjriam Abu Samra e Pasquale Liguori, Coscienza collettiva e lotta politica, pubblicato il 6 ottobre su “L’Antidiplomatico”].
Se le caratteristiche del “movimento per la Palestina” sono quelle fin qui descritte, inclusa una forte componente di spontaneità, sarebbe errato legarlo a Landini e alla Cgil, che hanno in realtà rincorso gli avvenimenti, in particolare dopo il 22 settembre.
Per capire a cosa mirano Landini e la Cgil, basta la motivazione ufficiale data allo sciopero del 3: “L’aggressione contro navi civili che trasportavano cittadine e cittadini italiani, rappresenta un fatto di estrema gravità. Un colpo inferto all’ordine costituzionale stesso che impedisce un’azione umanitaria e di solidarietà verso la popolazione palestinese sottoposta dal governo israeliano ad una vera e propria operazione di genocidio.” Lo sciopero del 3, quindi, è stato indetto “in difesa della Flotilla, dei valori costituzionali e per Gaza”, ma solo in quanto vittima di quel genocidio che il capo della Cgil ha a lungo negato. All’indomani della manifestazione di Roma e alla vigilia del 7 ottobre egli ci ha tenuto a specificare quanto segue: “Lo striscione del 7 ottobre [che apriva il corteo] è una cosa inaccettabile. Quello di Hamas è un crimine come il genocidio di Netanyahu”. Una tesi infame perché equipara l’occupazione coloniale sionista alla resistenza palestinese. Dopo il corteo del 4 ottobre il segretario della Cgil si è schierato con la polizia (“ha fatto bene”) contro i “violenti”, estranei secondo lui alla manifestazione, perché “la violenza è anche una cosa contro chi manifesta, la considero anche una cosa contro di noi”. Se ciò non bastasse, ha aggiunto: “chi governa dovrebbe ringraziare le persone che sono andate in piazza, perché hanno difeso l’onore del nostro paese”. Esserci, quindi, faceva parte del “nostro mestiere” (parole sue) di professionisti del contenimento delle lotte, specie di quelle potenzialmente più pericolose per l’ordine costituito, incanalandole verso il nazionalismo per farle rientrare in un alveo istituzionale.
Un concetto analogo, o identico?, l’ha espresso il segretario dell’Usb che ha descritto il movimento delle ultime settimane come un qualcosa che serve anche a “ridare dignità al nostro paese”. Quanto poi al “legame vivo con la resistenza palestinese”, Landini-Cgil l’attacca frontalmente; sacro invece è il legame con il “nostro paese”, il “nostro” stato, complice del genocidio. I dirigenti di USB e Potere al popolo, a loro volta, hanno sempre preferito i legami con l’ANP a quelli con le altre componenti della resistenza palestinese. Ma ora che l’ANP ha apertamente dichiarato il proprio totale consenso al piano strangolatorio di Trump, fino a quando potranno coprirsi dietro un richiamo alla “unità delle forze palestinesi”, improbabile e, comunque sia, di sicuro sfavorevole alla resistenza? L’Usb, avendo saputo cogliere il momento, si auto-rappresenta ora come il “soggetto che appare sulla scena e rompe d’incanto l’ipocrisia generale”, a cui “il popolo che non ne può più, si aggrappa per esplodere”. Ma Usb-Pap intendono davvero far esplodere il potenziale di queste settimane di mobilitazione, o hanno in mente, invece, di indirizzare le energie che si sono appena liberate verso il “blocco sociale e alternativo” da presentare alle elezioni del 2027, mettendo “in pausa” la continuazione e radicalizzazione della lotta?
In realtà il movimento di queste settimane va decisamente oltre, molto oltre, la Cgil e la coppia Usb-Potere al popolo, né si può identificare semplicemente con il vecchio “popolo della sinistra”, come piace fare ai massmedia, poiché è nato senza dubbio qualcosa di nuovo e promettente.
Data la situazione a Gaza e in Palestina, dati gli affondi repressivi a cui si prepara il governo Meloni, la sfida immediata per il movimento “per la Palestina”, e per tutte le forze che operano in esso, è quella di delineare una chiara prospettiva per la continuazione della lotta del tutto indipendente dalla sinistra istituzionale, che vorrebbe orientare e utilizzare questo movimento in chiave elettorale anti-Meloni avendo in serbo, però, una politica (almeno verso la Russia) perfino più guerrafondaia di quella delle destre. Il grande entusiasmo per le piazze piene non deve impedirci di parlare chiaro per timore di dividere – ciò che oggi può apparire divisivo, prepara in realtà una nuova espansione del movimento su nuove basi adeguate agli sviluppi futuri della situazione italiana e internazionale.
I capisaldi di questa prospettiva di lotta, che proponiamo anzitutto alla nuova generazione di giovani e giovanissimi scesa massicciamente in campo nelle ultime settimane – una straordinaria boccata di vita e di ossigeno per la ripresa della lotta di classe in Italia -, sono, a nostro avviso:
* Continuare la lotta per spezzare tutti i legami materiali, politici e culturali che da qui alimentano la macchina di distruzione e di morte sionista, mirando a un più ampio e profondo coinvolgimento del proletariato industriale – sarà questo il nostro contributo più efficace alla fine del genocidio e della fame a Gaza, alla sconfitta storica dello stato coloniale, terrorista, razzista, di Israele, già oggi delegittimato nel mondo come non mai.
* Operare alla sempre più stretta organizzazione del movimento internazionale per la Palestina, così da potenziarne la forza di impatto anzitutto sui governi dell’imperialismo occidentale, e da respingere insieme le crescenti misure repressive che ovunque si stanno abbattendo sui sostenitori della causa palestinese.
* Portare fino in fondo la lotta al governo Meloni, complice del genocidio, per arrivare ad abbatterlo dalle piazze. Come già abbiamo scritto, questo infame governo partecipa in prima fila alla corsa all’economia di guerra; si è impegnato a portare al 5% del PIL la spesa bellica italiana, e per farlo dovrà tagliare brutalmente le spese sociali già abbondantemente segate dai governi di tutti i colori degli ultimi 30 anni; ha dichiarato guerra agli emigranti e agli immigrati; sta militarizzando le scuole, le università, le città, l’informazione; sta diffondendo una cultura ferocemente sessista, d’intesa con le destre internazionali fascisteggianti; sta usando il “decreto sicurezza” per aggredire i picchetti operai, i cortei, le stesse forme di disobbedienza non violenta; ha al suo attivo gli ammirevoli record di morti sul lavoro e di suicidi in carcere; un passo dopo l’altro sta tagliando ogni vincolo allo strapotere dei padroni sui luoghi di lavoro e nei contratti di lavoro, e sta irridendo ogni vincolo ecologista – tante ragioni e tanti terreni su cui sviluppare iniziative di lotta da far convergere in vista di un attacco frontale al governo delle destre il prima possibile, dalle piazze – senza nulla delegare all’opposizione di sua maestà e ai suoi galoppini.
Il possibile accordo “di pace” che sembra profilarsi in queste ore a Sharm el-Sheikh non cambierà la situazione in modo radicale, perché Israele inventerà mille pretesti per violarlo nelle parti che riterrà sfavorevoli, come fa, sistematicamente impunito, da 80 anni, e forse avvierà nuovi attacchi nella Cisgiordania. La lotta allo stato sionista e ai suoi protettori e complici per la liberazione nazionale e sociale delle masse oppresse palestinesi resterà comunque, per tanto tempo, all’ordine del giorno. E dovremo collegarla in modo sempre più stretto alla ripresa della lotta di classe in difesa delle condizioni di vita e di lavoro aggredite ogni giorno da una classe dominante dalla avidità e ferocia illimitate, e alla lotta senza quartiere contro la preparazione di una nuova apocalittica guerra inter-imperialistica globale, di cui la guerra di sterminio a Gaza è parte.
Grandi sfide, ma questo è.
Add comment