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Vogliamo altro. Appunti per una critica al concetto di produttività, di lavoro e di cittadinanza

di Cristina Morini

Se il lavoro va perdendo le caratteristiche del lavoro per assumere quella della vita che cosa dobbiamo fare noi, donne e uomini, nel presente? Per poterci riappropriare delle nostre vite e dei nostri desideri dobbiamo procedere a bombardare le radici stesse del lavorismo che ci ha costruiti. Anch’esso ha contribuito a fare in modo che il lavoro esondasse in modo indifferenziato dai limiti suoi propri. Senza una critica radicale al concetto stesso di produzione e di norma socio-economica, senza una messa in discussione di queste fondamenta, non solo non potremo liberarci, né cambiare di segno al lavoro e al sistema, ma viceversa dovremo rassegnarci alla colonizzazione progressiva di ogni spazio vitale, all’asfissia totale. L’attualità non fa che regalarci esempi molto espliciti, in questo senso: quando non sarà la precarietà a piegarci, ci saranno straordinari coatti, pause più corte, meno giorni di malattia, mobilità selvaggia… Noi vogliamo altro.


Vita attiva e…

Serve una veloce premessa. Con il termine “spazio pubblico” si è inteso indicare storicamente l’ambito dell’azione politica, ovvero di quelle attività che riguardano la vita, l’interesse, il bene dei cittadini collettivamente intesi. Con il termine “spazio privato” si considera solitamente un ambito  di relazioni ristrette in cui l’individuo provvede a sé e ai congiunti e amici che gli stanno intorno. Questo il senso comune, che non esaurisce la complessità teorica della distinzione. Nella pratica, gli esclusi dallo spazio pubblico sono stati i non-cittadini, gli schiavi, le donne. Tutti confinati nelle occupazioni del “privato” (oikos), quelle legate all’adempimento dei bisogni del corpo (sussistenza, igiene, cura, sessualità), mentre la vita activa (Arendt, 1951) si dava là fuori, nello spazio pubblico, appunto.

A partire da qui, attraverso molti passaggi della storia, arriviamo alla concezione modernadi un tipo di vita autenticamente attiva – nella quale si impegna una parte crescente delle classi più elevate -  e che non è affatto interessata al bene pubblico ma mira esclusivamente alla produzione e all’accumulazione di ricchezza privata (Hirschman, 1982). Ed è così che passioni fino a ieri ritenute tristi, addirittura pericolose per la società, come l’ambizione, l’avidità, l’attrazione per il successo e il potere vengono sdoganate e assumono un significato positivo. Prende il sopravvento l’ideale liberale di una vita activa in senso economico, che fa coincidere la felicità con l’ottenimento di un maggior benessere materiale per se stessi e la famiglia. Accanto allo spazio pubblico politico si affaccia lo spazio pubblico economico. E progressivamente, la sfera pubblica-economica si dilata a tal punto da diventare il contenuto e il fine stesso della politica: l’agire politico si riduce alla difesa del benessere materiale di singoli individui o gruppi e viene misurato in base alla crescita economica, o ai livelli di consumo, che riesce ad assicurare.

Il quadro si complica ulteriormente quando la politica (anche economica) si trasforma da dominio sul territorio in dominio sui corpi (e sulle menti) della popolazione (Foucault, 2005). E’ a questo punto che assistiamo all’annullamento della distinzione fra pubblico e privato. Ma purtroppo – conviene sempre essere sinceri – non è grazie a una delle storiche teorizzazioni del femminismo (la non separazione tra spazio pubblico e privato) che noi possiamo salutare la cancellazione della classica dicotomia tra questi due ambiti, ovvero di quello tra produzione e riproduzione.


… vita produttiva

E’ il dispositivo biopolitico di governance a prevalere, e vale per tutti, di qualsiasi genere si decida di fare parte. E’ qui che si sviluppa le linee precedentemente e troppo frettolosamente tracciate: il mercato trova, finalmente, “la sua formulazione teorica nell’economia politica”. In questo senso la biopolitica è soprattutto una bioeconomia (Fumagalli, 2007). La sfera dell’economico s’innesta, senza mediazioni alcune, sulla/nella vita e sui/nei desideri. Il corpo e l’anima divengono oggetti del processo di valorizzazione contemporaneo, assumendo contemporaneamente accesso pieno allo spazio pubblico economico. Questo fatto comprende il tema della centralità crescente della produzione cognitiva e relazionale nel capitalismo contemporaneo, il ruolo dal general intellect e la mutazione del rapporto tra capitale fisso e capitale variabile. E poi: che cosa succede se noi immettiamo il desiderio all’interno dello scambio tra capitale e lavoro? Qualcuno fatica ad ammetterlo, ma l’esperienza ci dice che la vita, oggi, si qualifica e assume identità e riconoscibilità sociale solo all’interno di una dinamica di immediata utilità/spendibilità economica. Vengono indotte dinamiche di soggettivizzazione che non cercano di resistere ma piuttosto di rimuovere il dualismo capitale-lavoro, incorporando (letteralmente) il lavoro, desiderando che tutto questo si compia. Il lavoro si ristruttura, sussunto nel dispositivo biopolitico in forma d’impresa individuale (precaria): il potere ha assunto la capacità di captare e di mettere al lavoro la soggettività, la differenza, tenta di fare propria la riproduzione.

 

E’ partendo da queste riflessioni che è obbligatorio riconsiderare non solo il concetto di spazio pubblico/privato ma anche quello di cittadinanza a essi strettamente correlato.

Agli esordi, con l’insorgere del capitalismo, la cittadinanza funzionava, anche qui e ancora una volta, per l’homo oeconomicus, ovvero un uomo (di sesso maschile) razionale, produttivo (di plus-valore) e massimizzante la sua soddisfazione. La Rivoluzione Francese rappresenta un tentativo di ri-considerare i diritti di cittadinanza come diritti inalienabili dell’essere umano, ovvero qualcosa che precede i diritti di natura economica collegati all’essere “produttivi” nello spazio pubblico. Come detto, con il dispiegarsi del paradigma industriale e poi fordista, noi assistiamo all’apoteosi progressiva del produttivismo e dunque alla coincidenza tra diritti di cittadinanza e diritti del lavoro. Nel fordismo il controllo sul lavoro – e quindi il dispiegarsi dei meccanismi di sfruttamento – era demandato alla disciplina imposta dalla tecnologia e dall’organizzazione del lavoro, ovvero era imposta dall’“esterno”, dalla macchina. Nel fordismo era meno evidente, meno immersivo il rapporto tra lavoro e “vita”. I diritti di vita (i diritti di cittadinanza – suffragio universale, contrattazione collettiva, welfare pubblico, ecc.)  potevano essere, almeno formalmente, validati e generalizzati senza che ciò creasse problemi al meccanismo di disciplinamento nel rapporto capitale-lavoro.

Con il passaggio al biocapitalismo, i meccanismi di sfruttamento si modificano, la base dell’accumulazione si allarga sino a inglobare l’esistenza, stravolgendo la classica separazione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra produzione e riproduzione. Viene così anche deformato il rapporto tra diritti di cittadinanza e diritti del lavoro. Il controllo sul lavoro diventa sempre più controllo della vita stessa degli individui, delle loro differenze (di sesso, di razza, di genere, di cultura, di sensibilità), dei loro processi di apprendimento, del loro immaginario, della vita emotiva, dei corpi-mente. Il controllo sul lavoro non è più demandato ai processi di disciplinamento esterni, ma si costruisce sull’auto-disciplinamento e sull’auto-controllo del soggetto stesso. L’homo oeconomicus si è appropriato della vita activa.

Ed è in questo passaggio dalla disciplina di fabbrica alla dimensione del controllo sociale generalizzato, che i diritti di cittadinanza, ovvero i diritti di vita, si mostrano per ciò che, in realtà sono: strumenti di discipinamento sociale, intesi come forma di controllo del/sul lavoro. Diventa esplicito, conclamato, evidente, manifesto il meccanismo già certamente soggiacente a tutta la storia moderna: i diritti vengono concessi selettivamente, in base a un principio produttivista, in base all’idea esclusiva di “utilità” del soggetto. Concetto di utilità che viene imposto dal capitalismo, sia chiaro, e che ha sempre teso a creare gerarchie tra le varie forme di vita e di attività umana. Oggi non è affatto detto, per esempio, che, come è stato invece nel passato, la differenza sessuale determini di per sé un’esclusione. Assistiamo allo sviluppo di gerarchie diverse, ricombinate con il tema della classe e della razza.

Oggi, rispetto a ieri, i diritti rappresentano una forma di più sofisticata segmentazione e frammentazione tra le soggettività. Essi non sono più in nessun modo scindibili dall’attività produttiva in senso stretto. Oggi l’idea di cittadinanza è lo strumento che interviene a definire il senso del rapporto capitale-lavoro. Inclusione ed esclusione si giocano interamente sul piano della produttività garantita dal soggetto. Il lavoro-cittadinanza vincola direttamente la vita.

Numerosi sono gli esempi possibili. I casi più eclatanti, più evidenti, riguardano la forza-lavoro migrante, il lavoro di cura delle donne, la disabilità. Ma non va certo dimenticato il lavoro cognitivo e di relazione che subisce per intero l’accanimento feroce del meccanismo della precarizzazione. Le forme di asservimento attuali della forza lavoro significano la negazione diretta dei diritti di cittadinanza anche per queste fasce di lavoratori e di lavoratrici, attraverso la frammentazione e l’intermittenza, che vuole dire svalorizzazione, negazione delle competenze, sudditanza agli immaginari, alle ideologie totalitarie del “lavoro che manca”, nell’ingrassare delle gerarchie, dei signoraggi, delle rendite di posizione. Questa fascia di lavoratori, sempre più spesso, assiste alla subordinazione di tutti i diritti alla condizione lavorativa, tramite lo sviluppo di meccanismi di ricattabilità e di controllo sociale (mentale) resi sempre più spessi, impenetrabili, dalla precarietà.


La cura

Maria Rosa Dalla Costa nel suo libro Potere femminile e sovversione sociale scrive:

“Il capitalismo attraverso il salario obbliga tutte le persone, anche in difficoltà fisica, alla funzionalità sotto la legge della divisione del lavoro, in funzione dello scopo che – anche se non immediatamente – essi saranno infine utili  all’espansione ed estensione del capitale stesso”.

Partiamo dal vecchio Marx, però, che ci dice che il lavoro produttivo è solo quello che produce plus-valore. Tutto il resto è, dal punto di vista del capitale, lavoro improduttivo (Marx fa il celeberrimo esempio dei preti, ma lo stesso discorso vale per il lavoro domestico, il lavoro di cura, la cooperazione sociale e creativa senza scopo di lucro). Secondo questo tipo di analisi, insomma, tutto ciò che costituisce la potenza della politica e dell’esistenza non ha lo stesso valore del lavoro produttivo. Eppure, come già è stato sottolineato, il lavoro improduttivo non è solo utile ma indispensabile per la comunità, da esso dipende addirittura la sopravvivenza della specie umana. Dall’altro lato, il lavoro produttivo, quello che produce plus-valore, è spesso inutile quando non esplicitamente nocivo e pericoloso per l’umanità (genera consumismo, povertà, danno ambientale).

Il primo, è lavoro come potenza costitutiva del mondo sociale, il secondo, è però il lavoro che produce plus-valore. Nella logica produttivistica del capitale ciò che conta veramente non è né il lavoro concreto né il valore d’uso (anche se, come detto sopra, di questi aspetti del lavoro e della merce il capitale non può farne a meno), ma il lavoro astratto che produce valore di scambio, ovvero plusvalore. Ciò che conta è l’accumulazione e la crescita del capitale. Il lavoro concreto, che crea valore d’uso, è comunque una caratteristica che appartiene anche ai lavori improduttivi, che non producono plus-valore. Ma questo aspetto che in un contesto fordista, fabbrichista è stato il problema dell’invisibilità e del mancato riconoscimento del lavoro concreto, oggi si trasforma e interroga lo stesso marxismo ortodosso: la naturale propensione a cooperare dell’uomo, nella spinta a divenire gratuito del lavoro, oggi è infatti in grado di creare plus-valore e accumulazione.

Tutta l’enfasi viene, come sempre, posta sulla produttività e sul valore di scambio ma, nella modificazione di paradigma, esiste la comprovata tendenza a tradurre tutto in valore di scambio. Ecco il punto da enfatizzare: nel biocapitalismo la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo tende a sfocare, esso prova ad appropriarsi del patrimonio indissolubile (human nature, bios) di ogni individuo, fondamento della sua propria “cittadinanza”. Il lavoro improduttivo (riproduzione), un tempo dimenticato da tutti, si trasforma improvvisamente in lavoro produttivo sempre più visibile. Le categorie, anche di genere, che su tali distinzioni si erano basate e sviluppate, necessitano oggi di una profonda rivisitazione. La critica femminista deve applicarsi a svelare il rapporto che si va costruendo sempre più strettamente tra mercato e controllo dei corpi e dei desideri.

Va inoltre argomentare la necessità collettiva (politica) di un recupero della centralità del concetto della cura fuori dalla logica della produttività o della sovranità – che va, viceversa, smantellata. Vorrei riprendere alcune suggestioni di Bruno Gullì  nel suo libro Eartly Plenitude (2010), che sottolineano quanto sia falsa l’idea di un individuo indipendente, narcisista, completamente autonomo su cui pretende di basarsi la società contemporanea. Va messa al suo posto la nozione infinitamente più sensibile di dipendenza come elemento ineliminabile della condizione umana.

Gullì cita Martha Nussbaum (2006) che si è occupata molto di disabilità per dirci, per esempio, che non è importante creare le condizioni perché le persone disabili vengano maggiormente impiegate nel meccanismo e nella macchina del capitale. Piuttosto è importante declinare diversamente, in modo radicalmente differente, il concetto di lavoro e di utilità della persona. Nel modello di produzione capitalistico noi vediamo agire anche un progressivo processo di normalizzazione e di depotenziamento delle differenze. Mentre l’attività umana andrebbe considerata nella sua essenza e sostanza, sempre differente, e non solo a partire dal punto di vista del capitale e dell’efficienza.

A questo proposito, forse è utile fare un esempio legato all’attualità italiana. A partire dal collegato sul lavoro (n. 1167), tra le varie altre nefandezze già sottolineate, possiamo aggiungere che se i migranti e le migranti, a causa della crisi economica, vengono messi in mobilità (dopo la cassa integrazione o immediatamente) essi divengono clandestini, dunque ricadono nel reato di clandestinità e possono essere espulsi o imprigionati nei centri di identificazione ed espulsione. Esempio che conferma quanto prima dicevo a proposito della totale subalternità dei diritti di cittadinanza dal lavoro produttivo.

Il tema della disabilità è dunque, a mio avviso, molto interessante perché è paradigmatico, nel senso che ci consente di vedere la limitatezza dell’idea della produttività capitalistica. Nel modello capitalistico di produzione, nel quale la produttività che crea plusvalore e profitto è il fine principale dell’attività umana, tutti i valori, compreso la dignità, sono sottomessi al valore di scambio e a un prezzo. Perfino la cooperazione viene piegata al profitto, alla velocità, alla massima efficienza, diventa, di fatto, escludente. Né ci aiuta il contrattualismo moderno, basato come è, anch’esso, su un’idea di inclusione e di esclusione, che declina, come detto in attacco, i diritti sulla base dell’utilità (capitalistica) e rende i diritti invisibili per moltissimi, come abbiamo detto sopra. Diane Pothier e Richard Devil (2006) parlano di un regime di dis-citizenship (dis-cittadinanza).

Fuori dalla logica produttivista, il tema della cura (la cura del mondo) ritorna allora come caratteristica fondante della produzione della vita sociale. Convengo con Gullì che non possano esserci vie d’uscita fino a che non capiamo che la socialità è prigioniera della logica del capitale e non ci poniamo dentro un’ottica alternativa. Un’etica universale della buona vita per tutti richiede allora il passaggio dalla trasformazione sociale.

In questo nuovo ordine è molto utile la formulazione di Elisabeth Bubeck (1995) che auspica il passaggio dal concetto di homo oeconomicus a quello di persona carans, dove il valore di un individuo non è economico ma ontologico, poiché la cura è una attività umana più profonda e certamente più basilare della produzione, dello scambio, del commercio, dell’essere impiegati. Nelle condizioni adatte, gli esseri umani possono vivere senza tutto questo, mentre è pressoché impossibile che riescano a cavarsela facendo a meno l’uno dell’altro. Il corpo abile, utile, produttivo è anche lo specchio della norma, anche della norma sessuale, che diventa paradigma eterosessuale. Il corpo disabile aiuta a decostruire la norma che ci condiziona e ci rende ottusi. Una politica della trasformazione può partire anche dalla critica della disabilità, a partire dalla convinzione che la disabilità è una costruzione sociale. Se non affrontiamo una profonda critica del concetto di produttività e di lavoro – a partire dalla nostra esperienza di donne – ogni discorso che stabilisce la necessità di una maggiore inclusione nella cittadinanza e nel diritto verso una buona vita “risulta solo una contraddizione e una aporia”.


Dalla cura al comune (commonfare)

Sono stata sollecitata dai ritorni che ho avuto negli scambi con tante donne, in questo periodo, a rivedere il termine cura che ho utilizzato spesso, ultimamente. Certamente, va chiarito che nell’esperienza delle donne, dietro (dentro) il concetto di cura si celano anche il sudore, il sudiciume, le lacrime, l’oblatività, la noia. Non tutto riluce, nella pratica della cura. Va ricordato che la cura rimanda anche a esperienze non care alle donne. Ruoli imposti, costruzioni sociali, obblighi, norme, “naturalità” innaturali.

Sarà necessario, nel tempo, ripensare completamente la terminologia che abbiamo a disposizione e tutto ciò che ne consegue. I neologismi aiutano sempre a fare passi in avanti. La parola cura appartiene però a un’attrezzatura lessicale, immediatamente individuabile, che ha il pregio di fornire riconoscimento istintivo a una dimensione, rimossa e poi soggiogata dal produttivismo e dalla logica della merce, che può subito porsi al di fuori, al di là. Storicamente è più collegata all’esperienza femminile ma che non va come intesa come pratica solo confinata in quell’ambito. La cura evoca quell’ineludibile dipendenza dall’altro che ci spinge a costruire società, mondo. Penso alla necessità di riappropriarci del significato politico della cura. Nell’Ermeneutica del soggetto (2003), Foucault affronta il tema della soggettivazione e mette al centro l’esercizio della cura di sé. La nuova genealogia dei soggetti dovrà certamente liberarli da certe discipline e da certe identità, ma dovrà recuperare anche il tema della cura di sé (responsabilità; un “io che decide”) non già come esercizio solipsistico, ma come pratica sociale. In questo senso a cura di sé – o il farsi carico della cura che gli altri devono avere di se stessi – si trasforma in un’esaltazione dei rapporti sociali.

Questo elemento è ciò che sta anche alla base della costruzione del comune (Hardt, Negri, 2010). Potremmo chiamare altrimenti questa cura per il mondo, nominandola perciò come tensione verso il comune. E che cos’è il comune, in questa luce, se non propriamente l’infinita rete dei rapporti umani densi di significato che noi conosciamo e sperimentiamo? Non è forse questa riproduzione sociale, questa fatale cooperazione umana, la quale ci sostiene negli infiniti atti della nostra esistenza, un bene comune da difendere, per il quale combattere, al pari dell’acqua o alla terra? Non va forse evitata la sua canalizzazione forzata verso la privatizzazione (marcantilizzazione), che significa oltre al suo sfruttamento, anche il suo depotenziamento? Non ne vanno viceversa liberati i potenziali, attraverso il ricorso a forme adeguate di commonfare? Non è questa la via per riconvertire il concetto di cittadinanza dopo un adeguato percorso di ridefinizione delle identità (Ross, 2003) sganciato dal lavoro, che vuole dire anche un ritorno all’autenticità del soggetto, a quell’umano oggi lì inglobato, sussunto, imprigionato? Il valore di scambio va sganciato dal lavoro d’uso, la creazione va sganciata dalla produzione. Ritrovare dunque il tratto comune (umano) della riproduzione sociale, del lavoro vivo, del valore d’uso. Porre la riproduzione sociale al riparo dai vincoli della valorizzazione economica e della funzionalità produttiva.

E’ possibile parlare cioè, da donne, di comune, intendendo con questo termine quello spazio pubblico che oggi – al di fuori della grammatica produttivista – viene negato non solo a noi ma a tutti (uomini e donne insieme). Facendo perno sul valore – finalmente esplicito! – della riproduzione per pretendere altro. L’individualizzazione dei rapporti di lavoro spinge a favore della necessità del soggetto di far prevalere il proprio “io” a discapito di ogni dimensione collettiva. La forte competitività che caratterizza il contesto contemporaneo, incita ciascuno all’iniziativa individuale, “ingiungendogli di divenire se stesso” (Ehrenberg, 1999), utilizzando a questo scopo, laicamente, ogni parte di sé, senza pregiudizi. Il fine giustifica il mezzo e non sempre è facile accorgersi che si tratta, a ben vedere, di una nuova e paradossale normatività: l’intera responsabilità delle nostre vite si colloca esclusivamente in ciascuno di noi. L’ideologia dell’autorealizzazione, sconvolge dalle fondamenta l’idea di società e di collettività (che chiamo cura ma è comune), che viene accantonata in nome di una stimolazione narcisistica, particolarmente accentuata dal capitalismo cognitivo. “La persona deve diventare in se un’impresa, deve diventare in se stessa, in quanto forza lavoro, un capitale fisso che deve essere continuamente riprodotto” (Gorz, 2003) e al quale nessun vincolo può essere imposto dall’esterno. In qualche misura, corriamo il rischio di assistere a una “espropriazione del mondo” da parte del capitalismo, che dopo aver corroso lo spazio politico, minaccia, infine, l’intero universo naturale.

In questa dimensione lo spazio pubblico assume il significato pienamente politico dell’azione collettiva che dà voce all’eccedenza che inevitabilmente si produce, cascame ineliminabile dei processi di captazione del sistema sul vivente. Le molteplicità sociali emergenti in questo contesto devono provare a tracciare un nuovo spazio del politico. Lo spazio del comune.

* Rielaborazione da un intervento al Macba di Barcellona, giugno 2010.
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