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il rasoio di occam

Contro l’universalismo (debole) dei diritti umani

Appunti per una nuova “politica di classe” in Italia

di Lorenzo Cini e Niccolò Bertuzzi*

È utile mettere al centro del discorso politico l'individuo? E qual è il rapporto fra individuo e soggetti collettivi? Che ruolo svolgono le identità religiose e culturali nel processo di emancipazione? A partire dal saggio di Cinzia Sciuto, "Non c’è fede che tenga", gli autori propongono una disamina critica della teoria dei diritti umani, considerata un universalismo "falso e, soprattutto, dannoso", al quale contrappongono la necessità di una nuova politica di classe

DIRITTI UMANI 499Disclaimer. Questo è un articolo polemico. La polemica è rivolta a chi ancora oggi spaccia vecchie idee come nuove ricette nel dibattito politico sul come rilanciare la sinistra in Italia. Punto di partenza e spunto per la nostra riflessione è la ricezione complessivamente positiva che in questo dibattito sta avendo il libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli 2018), una disamina critica ben fondata e, per molti aspetti, condivisibile sull’adozione di approcci multiculturalisti in società multietniche (come potrebbe ben presto diventare la società italiana).

Tuttavia, il libro spesso acquisisce una vita propria e, con essa, anche il contenuto originario si rende indipendente, giungendo così a significare qualcosa di completamente diverso. Questo ci sembra precisamente il caso del volume sopracitato, la cui divulgazione in Italia ha suscitato un rilevante dibattito pubblico, sulla necessità di rimettere al centro del vocabolario progressista la politica dei diritti individuali. Nucleo centrale di questa tesi è la seguente proposizione: per portare avanti un nuovo e coraggioso progetto riformatore occorre rilanciare con forza la politica dei diritti umani. In particolare, diritti umani da contrapporre ad ogni forma di autorità e identità religiosa e culturale. Lo diciamo subito: a noi questo approccio non convince. Non ci sembra coraggioso e onestamente nemmeno efficace. Ma soprattutto non aggiunge nulla di innovativo nell’odierno scenario politico, incancrenitosi nella contrapposizione apparentemente alternativa tra “sovranisti” e “globalisti”. A nostro modo di vedere, la politica dei diritti individuali non solo non offre un’alternativa credibile, ma di fatto propone un punto di vista che può potenzialmente piacere, su vari aspetti, ad entrambe le fazioni. Più radicalmente, la retorica liberale dei diritti umani contribuisce a rafforzare la dicotomia conservatrice tra “nuovi” nazionalisti e “nuovi” liberali.

Di fronte a questo, sentiamo l’esigenza di smascherare la vicinanza tra le varie posizioni e offrire qualche spunto di riflessione per lo sviluppo di una prospettiva politica realmente alternativa, ma soprattutto concretamente radicale.

Prima di entrare nel merito della discussione, chiariamoci su un punto. Nel criticare l’approccio dei diritti umani non intendiamo riproporre l’ennesima teoria politica, “debole” e “relativista”, imbevuta di “post-modernismo”, una narrazione che tanto ha affascinato l’intellettualità progressista occidentale negli ultimi tre decenni. Non tutti i valori o le idee sono uguali. Non è vero che sono i punti di vista e i luoghi dove tali idee emergono e vengono espresse a renderle complessivamente accettabili. Su questo, ma soltanto come questione di metodo, concordiamo con l’approccio dei critici del multiculturalismo. Per rilanciare una politica di emancipazione sociale e rivitalizzare le forze e idee progressiste sparse per il mondo, c’è bisogno oggi di una rinnovata visione universalista.

 

Critiche classiche all’universalismo dei diritti

Tuttavia, crediamo che quello dei diritti umani sia un falso e, soprattutto, dannoso universalismo. È basato su due premesse normative che giudichiamo erronee e pericolose. La prima è la vecchia proposizione liberale secondo cui l’individuo è il centro di ogni ordine sociale e storico. O detto altrimenti, ogni società umana può essere concepita come la semplice sommatoria degli individui che la compongano. Così negate, o comunque significativamente sminuite, sono l’insieme delle relazioni che strutturano e danno senso al vivere sociale. Tra i molti discutibili corollari politici che si possono derivare da questo postulato, vogliamo qui sottolineare quello che – a nostro avviso – è il più contestabile: l’idea che il vettore di ogni trasformazione sia l’agente individuale. Non occorre rifarsi ai grandi classici della tradizione sociologica per smascherare la fallacia di questa proposizione. Ai giorni nostri come nelle epoche passate, sono state anche, e soprattutto, forze collettive il motore principale del cambiamento sociale. Postulare la priorità ontologica dell'unità individuale significa quindi negare il dispiegarsi dei processi storici alla base della nostra società. Le critiche a questa prospettiva sono notoriamente svariate: la più classica è quella del comunitarismo. Autori come Sandel, Etzioni o MacIntyre, hanno sostenuto – in modi anche piuttosto differenti - che il soggetto possa trovare la propria identità non perseguendo un principio individualista ma solamente nelle relazioni interne a una comunità (che sia etnica, locale, religiosa o quant’altro). Non è tuttavia questa l’unica omissione imputabile al discorso liberale e multiculturale che si rifà all’individualismo. Esso ignora anche, o non capisce nella loro importanza politica, l’emergere di vari e differenti movimenti collettivi, la cui azione è stata propugnatrice di emancipazione radicale. I movimenti operai e studenteschi degli anni Sessanta, le lotte di liberazione degli Afro-Americani negli Stati Uniti e quelle della donna nel continente europeo, le mobilitazioni di liberazione coloniale dell’Africa mediterranea e sub-sahariana dagli anni Cinquanta, solo per citarne alcune, hanno formato esperienze di emancipazione collettiva, non riducibili o riconducibili all’entità individuale, che hanno trasformato in senso progressista l’assetto politico delle società in cui si sono manifestate.

Ergere l’individuo a totem, oltre ad essere criticabile in sé, nasconde una posizionalità arbitraria e partigiana. In termini più espliciti: sia le carte dei diritti umani sia l’individualismo moderno sono scritte da individui maschi, bianchi, borghesi, proprietari. E lo diciamo ben consapevoli di appartenere ad alcune di queste categorie. Crediamo, al contrario, che sia proprio il “noi collettivo” ciò che manca oggi a sinistra, sparito di fronte all’incapacità (o ancor più alla non-volontà) delle forze progressiste di farsene carico, e oggettivamente troppo marginale presso soggetti politici più radicali. Bisognerebbe pertanto andare nella direzione opposta rispetto a quanto propugnato dall’ideologia dei diritti umani, ricordando la rilevanza storica della dimensione collettiva (non solo quella di classe, ma anche quella subculturale e, in certi periodi e contesti, addirittura quella religiosa). Il discorso è valido in generale, come ricordato tramite gli esempi di movimenti sociali riportati sopra, ma anche pensando alla specifica situazione italiana dal dopoguerra agli anni recenti.

Si permetta a questo proposito un’ulteriore osservazione, relativa a una ricerca sulle classi popolari delle periferie italiane nella quale siamo personalmente coinvolti all’interno di un network - “Il Cantiere delle Idee” – composto da ricercatori e ricercatrici precari/e, e attivisti/e di movimenti sociali e associazioni: l’elezione dell’individualismo progressista a paradigma e modello si rivela fallace e partigiana non solamente in riferimento alla posizione occupata da chi la propone nella gerarchia sociale, ma anche in riferimento a una dimensione più propriamente geografica, omettendo dal proprio orizzonte tutte le periferie, sia quelle urbane sia quelle sociali e di significato.

Strettamente legata alla prima è la seconda premessa alla base della retorica dei diritti umani che qui critichiamo. Le società in cui i diritti umani hanno avuto origine, o nelle quali tali diritti si professano oggi a livello costituzionale, sono considerate moralmente superiori rispetto a tutte le altre forme di organizzazione umana: passate, presenti e future. Non c’è bisogno qui di richiamare la tesi sulla “fine della Storia” di Fukuyama (1992) o quella sullo “scontro delle civiltà” di Huntington (1996) per afferrare il pericoloso fanatismo di questa asserzione. I gruppi o le società che non abbracciano esplicitamente o costituzionalmente tali diritti sono considerate al di fuori dell’universo “umano” e quindi ogni azione o intervento nei loro confronti sono da ritenersi moralmente legittimi o addirittura necessari. Non ci pare un caso constatare come il principale corollario politico di questa visione sia stata la realtà delle “guerre occidentali” degli ultimi venti anni. Che siano state motivate dall’idea di “ripristinare i diritti umani” o di “esportare la democrazia”, dalla Serbia all’Iraq passando per l’Afghanistan, Paesi costituzionalmente portatori di questi diritti hanno condotto guerre di aggressione, definite “umanitarie”, nei confronti di altri Stati. A nostro avviso, non c’era niente di umanitario in queste guerre e nessuna superiorità morale dei promotori di queste ultime. In breve, l’ideologia dei diritti umani è una forma falsa e politicamente pericolosa di universalismo.

 

La finta alternativa tra globalisti e sovranisti

Fino a qui abbiamo presentato in modo breve e sintetico le critiche “classiche” che sono state tradizionalmente mosse nei confronti dell’ideologia dei diritti umani dalla teoria politica contemporanea. Essenziale esercizio di informazione (critica), ma nulla di nuovo rispetto al già noto o conosciuto. Adesso vogliamo invece aggredire il tema a partire dall’attualità politica italiana. Ripetiamo qui la nostra tesi iniziale: un manifesto contro il multiculturalismo non rappresenta alcun programma innovativo, radicale e coraggioso di emancipazione. A nostro avviso, introdurre la critica del multiculturalismo non aiuta a smascherare la falsa alternativa tra globalisti e sovranisti su cui è oggi incentrato il dibattito pubblico italiano. Anzi, accettandone le (false) premesse, consolida la loro centralità discorsiva e scoraggia lo sviluppo di una visione concretamente e radicalmente alternativa. La nostra è, in sostanza, una critica di carattere strategico-politico.

La premessa errata, ma implicitamente condivisa – secondo noi – da tutte queste prospettive, è l’idea che gli immigrati rappresentino oggi il principale problema della società italiana, in quanto portatori di credenze, valori e identità culturali e religiose estremamente diverse e, quindi, potenzialmente in conflitto con quelle autoctone. Mentre i globalisti propongono una qualche forma di integrazione sociale (dalla più soft: inclusione indifferenziata, alla più dura: educazione forzata), i sovranisti propendono per una chiusura identitaria (anche qui con diversi gradi e su diversi piani, sia politici che culturali). Tuttavia, ci sembra che nell’affrontare il problema nessuna delle due opzioni metta in discussione la centralità della dimensione culturale e identitaria. Come nelle migliori profezie auto-avveranti, nel parlare (bene o male) e nell’occuparsi solo ed esclusivamente degli aspetti inerenti l’identità etnica o religiosa dei gruppi non autoctoni si finisce per fare assumere a tale questione un elevato profilo ideologico-conflittuale. Così facendo, il dibattito pubblico rischia ben presto di polarizzarsi e di essere attraversato dal manifestarsi - e potenzialmente dallo scontrarsi - di identità culturali e religiose cristallizzate. Su questo aspetto, l’adozione di una prospettiva critica al multiculturalismo non sembra aiutare, ma anzi può rivelarsi un rimedio più pericoloso del male che intende curare.

Porre al centro del dibattito pubblico la contestazione dei diritti umani negati all’individuo appartenente a una qualche comunità religiosa o culturale non solo costituisce una forma odiosa di intervento statuale sulla vita delle persone dal vecchio sapore paternalista che speravamo fosse finito da tempo nelle società liberali avanzate, ma anche e soprattutto un modo molto efficace di contribuire a rendere tali comunità l’unica o principale fonte di significato esistenziale per quelle stesse persone. Gli stessi liberali fautori del controllo di “certificato dei diritti umani” da attuare in queste comunità religiose ci dovrebbero poi spiegare allora perché altrettanto non dovrebbe essere fatto verso altre comunità politiche e sociali, come ad esempio partiti e sindacati, al cui interno il rispetto dei valori democratici è oggi ben lungi dall’essere realizzato. Dovremmo quindi estendere il controllo statuale anche a queste forme di organizzazione sociale, negando però così uno dei principi fondamentali dello stato di diritto liberale (la libertà dall’autorità statuale) oppure dovremmo pubblicamente confessare che l’intervento statuale dovrebbe esclusivamente indirizzarsi alle comunità organizzate su base etnica o religiosa, riconoscendo così formalmente una disparità di trattamento giuridico e generando una pericolosa forma di razzismo di Stato? Focalizzandosi sul controllo del rispetto dei diritti umani da esercitare sulle varie comunità culturali (o presunte tali) dei non autoctoni si rischia allora di promuovere a identità sociale dominante di questi ultimi proprio quegli aspetti della loro vita che si intenderebbe discutere e correggere, contribuendo così alla loro essenzializzazione e radicalizzazione identitaria.

Questa dinamica di irrigidimento e radicalizzazione identitaria ci pare proprio essersi verificata recentemente nella Francia degli attentati terroristici di matrice islamista. Individuare una relazione di causalità diretta tra il modello repubblicano francese di integrazione (esplicitamente anti–multiculturalista) ed il proliferare di attentati islamisti sarebbe certamente azzardato e quindi poco scientifico. Tuttavia, rimane un dato su cui riflettere: la maggioranza dei terroristi coinvolti in questi attentati non erano persone venute da fuori, ma giovani cittadini francesi di origine magrebina di seconda generazione, per lo più musulmani non praticanti o da poco convertiti. Come suggeritoci da Olivier Roy (2015), uno dei massimi studiosi mondiali del fenomeno, questi dati mettono apertamente in discussione la facile e comoda (per noi) ipotesi politica della radicalizzazione dell’islamismo. In realtà – ci spiega Roy – nella società francese sembra precisamente dispiegarsi il fenomeno opposto, ossia, l’islamizzazione del radicalismo: giovani francesi di origine nordafricana, con situazioni di disagio economico e sociale alle spalle, decidono di abbracciare l’islamismo radicale come forma di riscatto personale e sociale verso una comunità politica che sentono distante ed escludente. In altre parole, più che a una pericolosa forma di radicalizzazione religiosa siamo davanti al manifestarsi di una rivolta generazionale. Di fronte a questo processo, non ci sembra fuorviante ipotizzare che nel caso francese sia in fallimento, tra le varie cose, proprio quel modello culturale di integrazione repubblicana che tanto si avvicina all’inverarsi di una comunità politica basata sul rifiuto del multiculturalismo.

In questo senso, alcuni episodi di mobilitazione sindacale di forza lavoro migrante avvenuti recentemente in Italia offrono un importante spunto di riflessione per uscire da questo dibattito con una visione più ottimistica riguardo al nostro futuro. Dalla seconda metà del 2011 si è infatti manifestata in Italia un’ondata di lotte dei lavoratori della logistica che ha coinvolto varie aziende del settore situate tra Piacenza e Bologna, tra cui anche diverse multinazionali, come TNT, DHL, GLS, IKEA, Granarolo, e Leroy Merlin. Una forza lavoro per lo più migrante, proveniente da vari Paesi del Nord Africa (in particolare, Marocco, Tunisia ed Egitto), su cui era stata applicata fino a quel momento una strategia di divisione etnica da parte aziendale, si è massicciamente ribellata, proprio facendo affidamento sulle reti sociali di solidarietà presenti nelle varie comunità migranti. Fondamentale in questo processo di ricomposizione è stato poi il ruolo attivo giocato dai sindacati di base che hanno incoraggiato la costruzione di legami politici tra le stesse comunità migranti, contribuendo al superamento delle loro diffidenze “razziali” iniziali attraverso l’adozione di un comune linguaggio di rivendicazione sociale. In altre parole, una condizione di debolezza - percepita come strutturale per la mobilitazione, quale la divisione etnica, - è stata invece trasformata in punto di forza, proprio grazie ad una strategia politica consapevole utilizzata dai gruppi organizzati presenti.

 

Verso una nuova “politica di classe”

Nessuna di queste opzioni (sovranismo vs. globalismo) sembra quindi offrire una risposta adeguata alle sfide complesse che attanagliano il nostro presente. Né le nuove forme di liberalismo né tanto meno quelle di nazionalismo appaiono ipotesi politiche percorribili o utilizzabili per rilanciare un progetto progressista di profilo universalista. Che fare dunque? La nostra proposta è una sorta di “ritorno al futuro”. La nostra tesi è che una forma autentica di universalismo radicale sia in realtà già esistita nella Storia moderna. Quella forma è l’ideale emancipatore del movimento socialista. Dalle prime lotte operaie nelle manifatture inglesi e francesi della seconda metà dell’Ottocento alle lotte di liberazione coloniale in molti Paesi africani e asiatici dopo la seconda guerra mondiale, passando per le rivoluzioni comuniste della prima metà del Novecento, dalla Russia alla Cina fino all’America Latina, si è manifestato a livello globale un movimento concreto e reale che ha coraggiosamente messo al centro del dibattito pubblico l’emancipazione sociale e politica di gruppi oppressi e sfruttati. Per quanto relativamente vario a seconda delle latitudini geografiche e delle specificità storico-culturali in cui si è presentato, questo movimento politico deve essere considerato universale perché, a differenza dell’universalismo dei diritti umani, è sorto spontaneamente dalle lotte degli oppressi e degli sfruttati e si è diffuso globalmente attraverso la loro solidarietà. Lotte sviluppate concretamente e realmente dal basso, appunto. In altre parole – a nostro modo di vedere – l’unica forma possibile e auspicabile di universalismo progressista è soltanto quella forgiata nella e dalla lotta di classe. O, per dirla con Gramsci, dalla lotta dei subalterni. Vogliamo quindi proporre un discorso politico che attualizzi la pratica della "lotta di classe" all'interno delle odierne situazioni di subalternità. In questo senso, il “noi collettivo” non è più da cercarsi e costruirsi solo ed esclusivamente nelle fabbriche o nei luoghi del lavoro contemporaneo, ma deve sapere emergere e svilupparsi anche sul terreno sociale da un comune rifiuto verso tutte le strutture di oppressione e sfruttamento della società capitalista. È soltanto promuovendo un’alleanza sociale di tutti gli oppressi, in una dimensione appunto collettiva e intersezionale, che si può puntare a scardinare l’ordine esistente. Questo vuol dire guardare al discorso di classe intersecandolo però anche con altri tipi di oppressione e subalternità, come quelli di genere e quelli etnici.

Che fare allora per rilanciare oggi una nuova politica di classe in Italia? Modelli costruiti in laboratorio e calati dall’alto – abbiamo appena visto – non esistono. Ci sono però delle tendenze politiche che si stanno sviluppando da qualche anno in vari Paesi europei, e oltre, che ci sembrano degni di considerazione. Pensiamo qui a nuove forme di socialismo radicale che si stanno rilanciando o creando ex novo in vari movimenti e partiti politici. Nuovi partiti e movimenti, come Podemos in Spagna e La France Insoumise in Francia, o vecchi partiti rinnovati e resi più radicali dall’ingresso di leader di orientamento socialista, come Bernie Sanders negli Stati Uniti o Jeremy Corbyin nel Regno Unito, sembrano indicarci una possibile direzione politica: la via maestra per rilanciare una forza progressista è proporre una programma radicale di redistribuzione della ricchezza.[1] Questo sembra – per noi – l’unico manifesto possibile, innovativo e coraggioso, da provare ad adottare oggi in Italia. D’altra parte, non ci pare per nulla un caso il fatto che la sinistra oggi si dimostri più forte precisamente in quei contesti, sopracitati, dove rivendica pubblicamente un’agenda politica di redistribuzione sociale. Un socialismo per il ventunesimo secolo, dunque. A scanso di equivoci e di malintesi, noi lo chiamiamo qui una nuova politica di (lotta di) classe.


Riferimenti bibliografici:
Fukuyama, F. (1992) The End of History and the Last Man, New York: The Free Press.
Huntington, S. (1996) The Clash of Civilisations and the Remaking of World Order, New York: Simon & Schuster.
Roy, O. (2015) Quella dei jihadisti è una rivolta generazionale e nichilista, Internazionale  https://www.internazionale.it/opinione/o...], ultimo accesso: 22/10/2018.
Sciuto, C. (2018) Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Milano: Feltrinelli.

Note
[1] Ci teniamo comunque a fare dei distinguo fra i vari casi presentati come modelli cui guardare con interesse. Al momento, esprimiamo maggiori dubbi verso il partito/movimento francese che, seppur portatore di un’agenda di redistribuzione radicale, sta ultimamente assumendo caratteri sempre più esclusivi e nazionalisti, scivolando pericolosamente verso uno degli orizzonti di pensiero che critichiamo in questo articolo.

* Scuola Normale Superiore di Pisa

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Paolo Selmi
Friday, 07 December 2018 10:12
Caro Moreno,
hai perfettamente ragione... ma quelli sono diritti umani di serie B... sono quelli che non servono come casus belli, sono quelli che non servono per fare i palmari che usiamo tutti i giorni e le batterie delle future auto elettriche: tutti metalli rari estratti in condizioni disumane da schiavi nel Congo e da altri (un po' meno schiavi) sparsi fra tutti i continenti.

Forse, questo è un paradosso che ci aiuta a leggere meglio le attuali contraddizioni: chi si crede "avanguardia", "oltre la destra e la sinistra", parla di "ecologia", di "green economy", promuovendo - di fatto - un capitalismo x.0 (non so a quale versione siamo arrivati...), dal momento che lascia intatto tutto l'impianto del vecchio modo di produzione. E oppone ai "sovranisti", ovvero altri esponenti di un capitalismo più incazzato e becero, ammantato di nazionalismo, di "menefrego", perché "ora basta", ecc., le verdi praterie di un futuro "sostenibile". Poi, andiamo più a fondo (in realtà basta grattare un pochino), e vediamo che la tecnologia attuale, per mantenere gli attuali costi di produzione, si fonda su una concezione dell'economia disumana e disumanizzante, al pari della prima. Oltre a farci riflettere su eventuali "spostamenti" del problema (dal consumo degli idrocarburi alla produzione di energia elettrica che non può essere tutta affidata alle cosiddette "energie rinnovabili"), e non soluzione.
Un problema, peraltro, che è esso stesso frutto di uno spostamento o, meglio, di una concentrazione di problemi su una ulteriore fonte di profitto per il capitale privato. Se è un dato che le prime 15 navi portacontainer al mondo inquinano come TUTTE le macchine messe insieme, perché continuare a intasare i porti delle stesse? Anzi, creare porti nuovi? Quando tra vent'anni quella regione del Congo sarà una enorme miniera a cielo aperto con schiavi 10 volte gli attuali, per sostenere il mercato delle auto elettriche in espansione e in barba ai diritti umani di serie b per uomini di serie b (e non preoccupiamoci, in quanto PIGS siamo già anche noi, per qualcuno, uomini di serie b, come i greci di dieci anni fa, anche se non ce ne accorgiamo e trattiamo noi stessi i migranti e i rom come uomini di serie b) ma, anche ammesso questo, il traffico via mare sarà raddoppiato rispetto ai livelli attuali e l'inquinamento atmosferico dovuto alle centrali termoelettriche sarà aumentato in conseguenza della aumentata domanda di energia elettrica (e non prendiamoci in giro, in vent'anni non sarà sostituito e non resterà uguale, Polonia di questi giorni docet), cosa avremo "guadagnato"?

Concordo anche sulla tua critica a questo articolo. Penso che tu abbia inquadrato bene l'approccio. Da vecchio lavoratore dell'intercultura, da prima della Turco-Napolitano per intenderci (però se sono invecchiato...), quando ancora fresco di laurea pensavo di riuscire ad aiutare gli operai cinesi delle chinatown milanesi a trovare un "lavoro con padrone italiano" (意大利老板的工作), che per loro, schiavi in italia dei loro stessi connazionali, sarebbe già stato un terno al lotto, penso che questo finto dibattito tra "multiculturalisti" e "sovranisti", non solo sia la riproposizione tragica, non farsesca, di problemi triti, ritriti, stratriti.

Qualcuno parlava, tanto tempo fa, di contraddizioni principali e contraddizioni secondarie: lo fece poi anche Mao, per motivi del tutto strumentali. Oggi non lo fa più nessuno.

Per questo, cari Lorenzo e Niccolò, il vostro articolo è davvero interessante e ricchissimo di spunti, davvero una frase dietro l'altra, mi han fatto venire in mente tante cose da dire. Ma concordo anche con Moreno sul fatto che una
"nuova politica di (lotta di) classe" è necessaria solo perché quel "nuova" deve rappresentare la sua attualizzazione a oggi. Ma attualizzazione di che cosa? di - almeno - un secolo e mezzo di lotte e assalti al cielo! In primis, di storia dell'URSS e del cosiddetto "socialismo realizzato". Anche se non si è d'accordo, certamente. Ma per essere in disaccordo, occorre prima conoscere l'oggetto del disaccordo. Anche per non arrivare tra vent'anni a scoprire l'acqua calda. Io, almeno, a volte - e parlo per me, sia inteso - ho questa questa sensazione quando mi viene un'intuizione e poi la trovo scritta su un libro di mezzo secolo fa, o di un secolo e mezzo fa.

Grazie a tutti per gli spunti che mi avete dato.
Un caro saluto.
Paolo
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FABER
Friday, 07 December 2018 06:52
"serve una diversa visione universalista"
Concordo: serve una visione universalista imperniata non sulla rivendicazione del debito ...
(rivendicare un diritto, per quanto astratto e universale esso sia, equivale a rivendicare un debito) ...
ma sul giubileo dell'annullamento dei debiti e della ridistribuzione equa e solidale.
Questa è la nuova civiltà (in realtà la riscoperta della civiltà babilonese) che supera radicalmente il capitalismo.
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MorenoD57
Tuesday, 04 December 2018 19:07
Non è che la lotta di classe sia da contrapporre alla libertà dell'individuo , come sembra da questo articolo un po' approssimativo e confusionario ( che come fonte usa tra l'altro di autori di destra e , sempre tra l'altro , citati anche a caso ) . Marx in tutte le sue opere mette al centro la libertà dell'individuo : la lotta di classe è il mezzo per raggiungerla .

Poi non è che Marx nella Questione Ebraica critichi i diritti umani come idea in sé . Il contrario . Marx critica i diritti borghesi , non quelli umani ; in breve Marx critica i diritti dell'uomo e del cittadino perchè non abbastanza umani e universali .

Ma siamo a fine XVIII secolo , e da allora i diritti dell'uomo hanno continuato ad allargarsi includendo sempre nuove categorie che inizialmente non erano formalmente ed esplicitamente considerate ( i non proprietari , le donne , gli abitanti delle colonie etc.etc. )

Il problema non sono i diritti umani , anzi i diritti umani in sè sarebbero un ottimo strumento di lotta di classe . Il problema è la strumentalizzazione dei diritti umani fatta da qualche imperialismo occidentale e dalle destre in generale . E' una strumentalizzazione che nasce con la Guerra Fredda . Grazie a ideologi della Guerra fredda come Isaiah Berlin , i diritti umani presero ad essere identificati con quell’insieme di diritti compatibili con l’ordine capitalista e le classi medie , senza mai nominare quei "diritti umani" nati nel 1948 che gettavano enormi problemi al regime capitalista . A mia conoscenza, nessuna campagna è mai stata organizzata dal fronte Occidentale della Guerra Fredda ( o dal più recente imperialismo Occidentale ) in difesa , per fare un esempio , dell’Articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ovvero l’articolo che garantisce “un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere… con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”. E , come il 25 , ce ne sono ovviamente tanti altri di articoli .
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