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Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra

di Mimmo Cangiano

abe9fcbd 865f 4edc b334 d261f60deed3 large“... anche quando tutto sembra perduto bisogna
mettersi tranquillamente all’opera
ricominciando dall’inizio” (Antonio Gramsci)

Identità

Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica. Si è rilevato come si tratti di una soluzione da un lato assolutamente subalterna agli attuali vettori di organizzazione societaria (visto che ci è impossibile intervenire sulla struttura social-lavorativa ci rifugiamo nelle battaglie per i diritti civili e chiamiamo tale spostamento “rivoluzione”, come in una sorta di risarcimento psicologico), dall’altro pericolosa nel suo indiscriminato assegnare (è proprio il caso di Theresa May) patenti di “vittima” a figure sociali che solo mediante il misticismo delle identity politics possono apparire come tali, ché oggi, scriveva Natalia Ginzburg (aprile ’73), nessuno ama “essere nel numero dei privilegiati e tutti desiderano appartenere al numero degli oppressi”.

Si tratta infatti di un approccio che opera su due fronti di pensiero fra loro apparentemente in contraddizione: da un lato si dichiara nullo (anti-essenzialismo) il concetto di “identità” (abbiamo solo identità fluide, liquide, ecc.), dall’altro si ricorre ad un potenziamento di tale concetto, in questo caso il genere, per dare spiegazione ad alcuni fenomeni.

Così facendo, però, l’astrazione buttata giustamente fuori dalla porta (gli essere di genere maschile non possono permettersi di parlare a nome dell’intero genere umano; i bianchi non possono permettersi di parlare a nome dell’intero genere umano, ecc.), rientra comodamente dalla finestra, perché il concetto identitario (ancora il genere femminile in questo caso) va a rivestire di uniformità figure sociali che non militano sotto la stessa bandiera e non hanno in comune gli stessi interessi e bisogni. In questo caso, voglio dire, la patente di “vittima” nasconde il medesimo procedimento di astrazione. Appunto in tale contraddizione si origina poi, ad esempio, quel femminismo liberale (portato a critica da Gail Dines e Nancy Fraser fra gli altri) che tende, fra le altre cose, a supportare tanto figure femminili di successo distanti anni luce da qualsiasi battaglia di sinistra, tanto ad esaltarsi per biscotti avvelenati quali possono essere aberrazioni ideologiche come Black Panther[1] o i film Disney con le eroine al centro.

Mi si obietterà, a questo punto, “eh, per questo dobbiamo essere intersezionali”, dobbiamo cioè mantenere unito il fronte variegato delle lotte: genere, razza e classe, rivelando i vantaggi comuni in ogni forma di attacco e/o resistenza. È giusto, e lo dico senza ironia. L’intersezionalità è un’arma teorico-pratica assolutamente fondamentale e nessuno davvero interessato a rilanciare la sinistra può negarla. E però, vizio dei marxisti di non fermarsi alla teoria e guardare alla sfera della prassi, la teoria intersezionale non vive irrelata dalla situazione ideologico-politica che stiamo attraversando, cioè non vive irrelata dai rapporti di forza interni tanto alla società tout court quanto al suo sotto-settore “di sinistra”. La teoria intersezionale non sfugge cioè alla logica dell’egemonia che dalla società nel suo intero si riverbera all’interno della stessa società di sinistra. In un momento in cui la società si dimostra più o meno disposta ad avallare certe battaglie sovrastrutturali, e rifiuta con estrema decisione quelle strutturali (cioè quelle incentrate sui meccanismi di lavoro e produzione), non può essere un caso che la teoria intersezionale sia al momento poco più che un manganello teso a tenere a bada e a reprimere, all’interno dello schieramento di sinistra, qualsiasi posizionamento classista.

 

Contro l’identità?

Le battaglie diritto-civiliste si basano tutt’ora su una contraddizione non risolta concernente il concetto di identità: da un lato a tale concetto viene negato ogni valore dal momento che il meccanismo identitario è visto quale portato dei discorsi di “potere” finalizzati a racchiudere dentro schemi fissi il movimento desiderante e rizomatico della soggettività (non senza che ciò lasci trasparire chiari segni di sfrenato, disperato e impotente individualismo: “io non mi lascio mettere etichette”, “sono al di là dei cartellini”, ecc.), e dunque ad ogni definizione identitaria viene negato valore in quanto mero elemento astrattivo messo in atto dal potere, dall’altro, però, al meccanismo dell’identità si fa continuamente ricorso, a patto naturalmente che si tratti di un’identità accertata come subalterna (“le donne”, “le persone di colore”, “gli omosessuali”, ecc.), quando l’azione politica deve vivere il suo momento costruttivo (per esempio una manifestazione) o reattivo (per esempio portare a critica l’identità contrapposta di chi avrebbe creato Brexit).

Negli ultimi 60 anni pochi concetti sono stati vivisezionati come questo. Non solo ogni identità fattuale (di genere, sesso, razza, nazionalità, religione, ecc.) è stata giustamente decostruita, ma gli stessi assunti teorici che hanno guidato alla formazione di concetti identitari sono stati (sempre giustamente a mio avviso) privati di qualsiasi validità speculativa e ridotti alle loro ragioni storiche, come finalizzati all’azione politica, alla colonizzazione, allo sfruttamento e anche allo sterminio. Ciò, secondo ad esempio Gayatri Spivak, avrebbe lasciato le posizioni progressive, le stesse che hanno epistemologicamente demolito il concetto d’identità, alle prese con la costruzione di un soggetto rivoluzionario frammentato perché a sua volta privato delle generalizzazioni identitarie, e dunque costretto a ricorrere, per operare con efficacia sul piano politico, a semplificazioni identitarie che sa artefatte. In tale prospettiva l’anti-essenzialismo alla base della demolizione dei concetti identitari resta la realtà, vale a dire la sicura coscienza di una giusta impostazione epistemologica, mentre l’essenzialismo della politica (estremizzato nelle identity politics) sarebbe solo una necessità operativa. Ora, al di là dei carichi di misticismo che tale essenzialismo si porta comunque dietro (ex. “le donne non fanno la guerra”; “le culture distrutte dalla civilizzazione occidentale avevano la fluidità di genere”, ecc.), mi pare che la questione resti in un’impasse finché posta nel doppio binario essenzialismo vs. anti-essenzialismo. Non mi pare di affermare niente di eretico nel dire che se siamo stati in gradi di riconoscere la costruzione di identità ‘oggettive’ come meccanismo determinato dal sistema delle relazioni sociali e di potere, dunque come meccanismo storico, sia necessario storicizzare anche il meccanismo e la necessità della sua decostruzione. Come un problema filosofico d’importanza capitale quale quello simbolizzato nella “morte di Dio” (problema fra l’altro strettamente correlato alla crisi dell’identità) non dipende ovviamente dal fatto che a un certo punto siamo diventati più intelligenti, ma semplicemente dal fatto che la nostra conformazione societaria, la nostra struttura economica e, dunque, il nostro modo di vivere, ci hanno portato a un certo punto a non credere più all’esistenza di Dio, allo stesso modo la morte dell’identità va intesa sul piano storico-sociale, va intesa cioè come correlata alla struttura storico-sociale. Ciò però non va fatto semplicemente per rivelare (come fa certa sinistra che sogna il ritorno a identità più salde) le connessioni fra l’epistemologia anti-identitaria e lo sviluppo del nostro capitalismo (connessioni pure esistenti), ma va fatto anzitutto per liberarci dai feticci epistemologici dell’esistenzialismo e dell’anti-esistenzialismo, per riporre finalmente il problema dell’identità sul piano storico, e sul piano non dell’Essere (o dell’anti-Essere), ma del fare. Da un lato, infatti (in ciò i teorici anti-identitari hanno assolutamente ragione), l’oggettività astratta che è dietro i meccanismi identitari legati alla sfera dell’Essere sono stati (e sono) conformazioni di potere tese a colpire chi non poteva (o non voleva) rientrare in determinate identità (e rispetto a tali meccanismi il capitalismo della deregulation che viviamo ha effettivamente qualche effetto progressivo), dall’altro però le teorie anti-identitarie e anti-astrattive, non riconoscendo se stesse in rapporto dialettico con la prassi sociale (prassi che è fatta dai movimenti subalterni di resistenza, ma è fatta anzitutto dalle classi dominanti) tende a immaginarsi come stadio ultimo della teoria epistemologica, invece che come un portato (anche psicologico) di questa in correlazione a una fase storico-sociale. In tal senso quelli che sono i portati psicologico-soggettivi della fase storica che stiamo vivendo, vengono trasposti su di un piano generale e si fanno a loro volta oggettivi (l’oggettività dell’assenza di oggettività; l’identità dell’assenza di identità; l’ideologia della fine delle ideologie) e conducono alla stessa immobilizzazione del processo storico delle precedenti direttive identitarie. Ecco perché anti-essenzialismo dell’epistemologia corrente e essenzialismo delle identity politics possono lavorare insieme: non perché il secondo esprima mediante “essenzialismo strategico” quell’azione politica che il primo ha indebolito mentre indeboliva le identità, ma perché entrambi operano in un proposito in realtà immobilizzante e oggettivante; le identity politics secondo il consueto meccanismo dell’oggettivazione identitaria (sebbene ora in senso apparentemente progressivo), la teoria epistemologica anti-identitaria mediante l’immobilizzazione del nesso dialettico fra teoria e prassi, e dunque fra teoria e storia, perché tesa a presentare se stessa non come riflesso di determinati nessi storici, ma come portato ultimo di un’epistemologia (e anche dietro a ciò vi è parecchio frustrato individualismo) che non vuole riconoscersi in rapporto dialettico alla prassi sociale. Il pensiero egemonico, dal secondo ‘900 in poi, non si barrica più, se non in rari casi, dietro una presunta atemporalità, ma naturalizza il principio stesso del movimento, del flusso, ciò che è poi, socialmente, il principio dell’atomizzazione. La frammentazione sociale è così solo superata nelle modalità di una teoria che non include né la prospettiva storica né quella prammatica, e che quindi ripropone lo stesso desiderio di staticità che è alla base del modo di funzionamento del sociale. Il pensiero borghese non riesce a uscire dalle modalità del corrente funzionamento di un società che ha anzitutto il desiderio di evitare qualsiasi trasformazione sul piano della prassi. Si trova in ogni caso costretto a formalizzare un’idea di staticità. Dall’altro lato vi è ovviamente la coscienza dialettica secondo cui i portati dell’epistemologia contemporanea (e la stessa egemonia di questa) sono dettati da modificazioni avvenute sul piano della prassi sociale e collettiva, e possono dunque essere modificati, storicamente, modificando quella. A partire da tale coscienza sarebbe forse anche possibile recuperare un’idea, come si diceva, d’identità politica costruita a partire dal “fare”, e non dall’Essere (o dall’anti-Essere), vale a dire un’idea di identità che bypassa la dicotomia fra essenzialismo e anti-essenzialismo perché (ed in ciò è anche intersezionale) non si basa su ciò che una persona è, ma su ciò che una persona fa all’interno di un insieme sociale (a partire dall’idea, anzitutto vichiana, che il mondo lo capiamo a partire da ciò che vi facciamo dentro), nella coscienza che ciò che siamo è correlato alla nostra posizione nel sistema dell’insieme delle relazioni sociali.

Porre la questione dell’identità in tale modo permetterebbe anzitutto di superare qualsiasi misticismo identitario (tanto quelli egemonici della destra quanto quelli subalterni della sinistra), permetterebbe poi di evitare qualsiasi oppiacea pretesa di libertà individuale (“faccio quello che mi pare”, ecc., ché chi può far ciò che gli pare è sempre un più o meno protetto soggetto borghese) perché renderebbe auto-evidente il rapporto dialettico fra individuo e società, e infine rivelerebbe la presenza di tendenzialità egemoniche anche all’interno del discorso intersezionale (ché la società non è il giardino dei Mini Pony), ma meglio permetterebbe di sviluppare l’alleanza fra le varie posizioni a sinistra appunto perché il confronto fra le varie anime dello schieramento non avverrebbe più all’interno della contrapposizione senza uscita fra essenzialismo e anti-essenzialismo.

 

Comunità

Lo svuotamento del concetto d’identità (da Purezza e pericolo di Mary Douglas, alla stessa Spivak, a Remotti, ecc. ecc.) ha inoltre posto in crisi uno dei miti politici romantico-moderni che con quello era in diretta connessione: l’idea di comunità. Se infatti ogni identità è esclusivamente un feticcio finalizzato a mantenere vigenti determinati rapporti di potere, l’idea di società organica che la comunità presuppone, viene fatalmente meno, perché la nostra conformazione associativa, sull’identità basata, si riconosce altrettanto artefatta. Quella coesione che la comunità presuppone (dove gli interessi del singolo e della comunità sono indivisibili) è un trucco finalizzato a preservare lo status quo sociale, i rapporti vigenti di genere, razza, e classe. Eppure, eliminato tale feticcio, non eliminiamo il problema della conformazione sociale, ci troviamo anzi davanti all’orrore della nostra atomizzazione, vale a dire di una coesione basata esclusivamente su accordi e convenzioni regolative direttamente costruite sul contrasto fra gli stessi individui che compongono la società, e necessarie a regolare in via più o meno pacifica tali contrasti. Se nell’inesistente comunità a permanere era la logica formale dell’unione, dove il valore che il singolo individuo dava a una cosa rifletteva il valore assegnato a quella dall’intera comunità, nella società domina una tensione individualistica (dove ogni individuo è nemico dell’altro) sottratta alla volontà comune e unicamente tesa a far accettare alla società, per via contrattuale e convenzionale, la propria volontà come senso comune. Tale situazione associativa conduce alla negoziabilità dello stesso concetto di valore. Questo non può più essere dato come valore assoluto e unificante ma solo essere stabilito sulla base della convenzionalità societaria che però, non fondata su valori tradizionali e ripetitivi, è necessariamente mobile. In tal senso il valore stesso, cioè l’etica, diventa a sua volta prodotto e strumento dell’opinione pubblica.

Stiamo ora guardando in faccia, ed è sicuramente un progresso, il nostro capitalismo. Senza identità e senza comunità siamo al centro delle sue disconnessioni, ostili l’uno all’altro, alienati l’uno dall’altro. Senza valori comuni, collettivi, sovrapersonali, l’identità viene a coincidere con noi stessi, urla a gran voce la propria libertà, il proprio diritto a essere ciò che si vuole, mutevoli e fluidi quanto ci aggrada, libertà di godimento e desideri, finché la conformazione sociale in cui siamo comunque inseriti non torna a battere alla porta ricordandoci che i desideri hanno il volto sofferente dei bisogni, e il nostro godere (cioè il nostro far valere la nostra identità, anche quando fluida) non vive separato dalle regole sociali.

La destra fa il suo solito gioco: dinnanzi a un capitalismo che avanza distruggendo ogni tipo di legame socio-comunitario, sbandiera, con una mano, sogni regressivi di comunità (noi e loro), e con l’altra continua a favorire, sia strutturalmente (togliendo soldi alle strutture pubbliche) sia ideologicamente (“armiamoci e difendiamoci”), l’avanzata del capitalismo stesso. Così facendo, vecchia tecnica, concede l’illusione di fermare quei portati capitalistici che in realtà favorisce; trasferisce le colpe di un sistema economico sulle spalle dei settori più deboli della società (siano i migranti o i poveri). Certa sinistra, altrettanto regressiva, individua giustamente la natura atomizzante del capitalismo, e altrettanto giustamente legge le ideologie della sinistra diritto-civilista come in connessione con quello, ma si richiude poi in sogni comunitari pericolosi o, ed è anche peggio, completamente inutili (ma attenzione che fra Fusaro che sogna il ritorno dell’istituzione familiare e della coesa comunità nazionale, e le identity politics che spostano tale sogno in qualche isolato villaggio africano o in qualche comunità matriarcale, la differenza è solo nella scelta del soggetto).

Mi pare di poter dire che anche in questo caso abbiamo a che fare con un’idea di comunità (intendendo per comunità tanto il soggetto politico quanto l’immagine futura della società che vogliamo) da ricostruire al di là del binomio essenzialismo / anti-essenzialismo. La necessità della comunità è tutt’altro che defunta, anche in chi, a partire dalla critica anti-identitaria, vi nega qualsiasi valore epistemologico. Dinnanzi alla progressiva disconnessione dei legami sociali, si fa anzi sempre più forte la richiesta di comunità, il bisogno di riunirsi sotto bandiere comuni che permettano, prima ancora che la prassi, una lettura coesa (di gruppo) del reale. Quell’atomizzazione che alla base cioè della corrente epistemologia porta comunque con sé dolore, inerzia, senza di impotenza, e richiede di essere superata. Comunità sono i vegani, il Me too, i seguaci di Greta Thunberg (e i suoi oppositori), l’UAAR, le xeno-femministe, i marxisti sovranisti e Casa Pound, ecc. ecc. ecc. Con che tipo di comunità, lato sensu, ci stiamo confrontando? Si noti che non sto facendo riferimento a comunità di tipo semplicemente intellettuale, a circoli, ma esclusivamente a comunità che presentano un intento pragmatico, che hanno cioè come obiettivo la trasformazione del mondo in cui viviamo. C’è, mi pare, un elemento comune che può subito essere rilevato: a differenza delle più importanti comunità novecentesche (a cominciare ovviamente dai Partiti) l’aggregazione non segue più una linea che dal posizionamento sociale porta a quello ideologico, ma una linea che dal posizionamento ideologico conduce al posizionamento e all’azione etica o etico-politica. È un passaggio credo epocale, perché de-materializza le ideologie medesime, le stacca cioè dal loro retroterra sociale di formazione e le lega, di conseguenza, a filo doppio all’azione etica, cioè le mantiene indefessamente nell’ambito dell’ideologia, permettendo per tale via tanto il risorgere di certi universalismi di tipo illuminista (non si tratta più, del resto, di affermare a livello pragmatico il punto di vista di un settore della società che porta con sé, storicamente, una determinata ideologia, ma banalmente di affermare le “idee giuste”, il giusto posizionamento etico: si pensi a Burioni), tanto il consueto sfaldarsi del legame fra teoria e prassi come emerge, è un esempio fra tanti, nelle ideologie anti-identitarie ad assolutismo epistemologico. Dall’altro lato, formandosi tali comunità su base non socio-pragmatica ma etico-teoretica, le medesime comunità perdono completamente di vista l’effetto di “consenso” che dal farsi pratico del reale ricade sulle teorie medesime (lo perdono di vista appunto perché a loro volta non si ritengono formate a partire da una data situazione e posizionamento sociale). Si creano così ingenuità intellettuali come la richiesta di maggiore libertà sessuale nel mondo del capitalismo avanzato, richieste cioè fatte sì contro la destra troglodita ma non certo contro ciò da cui essa nasce (serve davvero citare Pasolini?), oppure vere e proprie aberrazioni teoretiche quali quelle che affermano, soprattutto in area franco-americana (ma stanno arrivando anche da noi) ogni discorso teoretico degli intellettuali quale “discorso di potere” teso all’indirizzamento coatto della massa-vittima. Tale punto è in realtà la cartina di tornasole della modalità in cui tali ideologie sorgono. Mancando il riferimento dialettico a un preciso gruppo e al suo posizionamento sociale di cui la teoria vuole essere autocoscienza politica, la teoria stessa rifiuta di educare perché non si riconosce più a sua volta educata dalla prassi di quel preciso gruppo, e così smarrisce completamente il rapporto dialettico fra teoria e prassi. Afferma, con modestia, di non poter sovrapporre se stessa al gruppo, ma in realtà così facendo ribadisce la propria presunta autonomia teoretica, cioè ancora il proprio isolamento dalla sfera della prassi. Ecco che la sua prassi non potrà essere altro che etica, perché la scelta etica permette, a differenza di quella pragmatica, di continuare a pensarsi al sicuro dalla sfera del consenso, dalla prassi creato, che ci determina.

Naturalmente anche tale situazione è un portato sociale. Un tempo la scelta per la “libertà” consisteva nel darsi al movimento pragmatico di un soggetto sociale, e questo piegarsi al consenso storico creato dal movimento di quel soggetto era l’unico modo per salvarsi dal consenso creato dal movimento storico-pragmatico del suo avversario: le classi dominanti. Ora, parecchio confusi fra chi sono i dominati e, soprattutto, chi i dominanti, pensiamo di salvarci dal consenso sventolando, come in una will to believe, spazi incontaminati di autonomia e di libertà, e in questi le nostre comunità non possono altro che essere specchio dell’atomizzazione sociale (e ideologica) che stiamo vivendo.

La risposta, credo, deve essere quella intersezionale, ma questo concetto ha bisogno di chiarirsi sul piano del posizionamento sociale del suo variegato soggetto, e può fare ciò solo a partire dalla classe, cioè non da un salda idea di comunità (inevitabilmente artefatta), ma da un chiaro termine sociale che porta con sé un chiaro avversario. Non si tratta di partire dalla classe perché è più giusto rispetto al partire da genere o razza. Si tratta di partire dalla classe perché è più utile, perché solo a partire da tale soggetto è possibile far evolvere il posizionamento etico in posizionamento politico, perché solo tale soggetto, fra quelli subalterni, è legato alla sfera “storica” del fare, e non a quelle, anti-storiche, dell’Essere o del non-Essere.

Ma certo per far ciò molti di noi, soprattutto di noi intellettuali, dovrebbero rinunciare alla pretesa di essere vittima, e mi rendo conto che non è facile.


Note
[1] Michele Marchioro ha inteso benissimo il problema: https://www.ilmanifestobologna.it/wp/2019/01/black-panther-un-film-politico-da-cui-si-originano-molteplici-letture/

Comments

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Mario Galati
Wednesday, 19 June 2019 14:06
Eleonora Forenza è una sedicente gramsciana. A mio avviso, è tanto gramsciana quanto io sono il papa.
Se volete una lampante conferma, leggete un suo vecchio articolo apparso su Liberazione, il vecchio quotidiano del PRC, "Gramsci per noi trentenni". Povero Gramsci.
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