La teologia narrativa di Francesco
di Geminello Preterossi
Il pontificato di Francesco presenta delle ambivalenze che affondano le radici in una tensione storica tra la Chiesa e la modernizzazione estrema dell’Occidente. Uno dei suoi grandi meriti è stato quello non di innovare la dottrina ma di cambiare profondamente il linguaggio
Il pontificato di Papa Francesco ha segnato questo decennio in modo largamente positivo, soprattutto sul piano della politica internazionale. Francesco ha rappresentato — e rappresenta — una voce autonoma, critica, libera e anche assennata, direi, rispetto ad alcune derive del nostro tempo.
La guerra mondiale a pezzi, un movimento tettonico
Una di queste derive riguarda innanzitutto lo scivolamento verso un’idea di guerra totale. Colpisce, infatti, come si stia sdoganando il concetto stesso di una ostilità totalizzante. Negli anni del secondo dopoguerra, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, l’uso della bomba era ancora un tabù condiviso da tutti: intellettuali, scrittori, uomini di Chiesa, politici di ogni orientamento.
Come diceva anche Norberto Bobbio: “La guerra non si può più fare, perché sarebbe l’ultima guerra”. Oggi, però, non sarei più così convinto che quel tabù esista ancora. Anzi, come abbiamo sentito poco fa, sembra proprio che sia venuto meno.
Si parla ormai apertamente dell’uso di armi nucleari tattiche, di armi di distruzione di massa… e non soltanto in modo ipotetico. Non è solo un delirio, un’illusione: forse è anche il segno di un cinismo estremo. Ma, comunque, è indicativo di una deriva culturale profonda.
In questo contesto, Papa Francesco — con la formula, ormai nota, della “terza guerra mondiale a pezzi” — ha trovato una chiave espressiva efficace. Mi pare che sia pienamente consapevole del fatto che oggi ci troviamo davvero di fronte a un rischio estremo.
Si tratta di un cambiamento che ha anche delle ragioni strutturali, nel senso che siamo davanti a un cambio di paradigma geopolitico e geoeconomico che genera inevitabilmente degli scossoni, una sorta di movimento tettonico.
Il politico e lo spirituale
Mi sembra interessante, in particolare, un profilo: il rapporto tra politica e spiritualità che ho sempre più la convinzione siano profondamente intrecciati.
Il politico e lo spirituale non coincidono, non si sovrappongono completamente, ma si alimentano a vicenda. In questo senso, è evidente che anche il pontificato di Francesco presenta delle ambivalenze. La Chiesa, infatti, è in parte condizionabile anche sul piano etico e vive una situazione di difficoltà. Ma si tratta di una difficoltà che non nasce oggi, che affonda le radici in una tensione storica tra la Chiesa e le trasformazioni della società, in particolare di fronte alla modernizzazione estrema dell’Occidente, quell’Occidente che si propone come vettore dominante di senso e potere.
Credenti e non credenti
E proprio in questo contesto, credo sia utile e necessario affrontare queste posizioni in modo articolato, tirarle fuori e discuterle apertamente.
Sia all’esterno che all’interno della Chiesa, il pontificato di papa Francesco solleva interrogativi. Intanto, il fatto che venga spesso osannato da ambienti laici, a volte perfino da militanti anticlericali, pone qualche problema. È curioso, e per certi versi significativo, che piaccia così tanto a chi non crede, o addirittura a chi si sente estraneo — se non ostile — al cristianesimo.
Questo fatto non può non sollevare dubbi in quel mondo credente che, pur mettendo al centro la dimensione religiosa e spirituale, si chiede perché proprio questo Papa incontri tanto consenso in contesti che, tradizionalmente, non amano il cristianesimo o lo considerano irrilevante.
Ora, io non intendo semplificare. Diciamo che provengo da un mondo nei confronti del quale mantengo una certa dialettica critica, sia verso l’esterno che all’interno della Chiesa stessa. Tuttavia, credo che questa questione sia rilevante anche da un punto di vista laico, e andrebbe affrontata senza pregiudizi.
Ricordo che Gian Enrico Rusconi, alcuni anni fa, colse subito questa ambivalenza e le diede una forma interessante in un piccolo libro pubblicato per Laterza, dedicato a quella che definiva la “teologia narrativa” di papa Francesco. Un’interpretazione suggestiva, che merita di essere riletta oggi con attenzione.
L’unità — davvero un concetto chiave, anche se spesso maltrattato o svilito — meriterebbe di essere rivalutata con più coraggio, anche da parte del mondo cattolico. Lo dico da persona che, per gran parte della vita, si è riconosciuta in un orizzonte agnostico, totalmente esterno sia alla tradizione religiosa in generale sia al cristianesimo in particolare. Eppure, anche da quella posizione, riuscivo a cogliere con chiarezza una serie di problemi.
Cambio di linguaggio
Uno dei grandi meriti di Papa Francesco, secondo me, non è stato quello di innovare la dottrina, ma di cambiare profondamente il linguaggio. È un passaggio enorme, di portata culturale e simbolica straordinaria. Alcune delle frasi che ha pronunciato — apparentemente casuali, magari dette a braccio durante un volo, e certo non ex cathedra, hanno avuto un impatto potentissimo, contribuendo a modificare mentalità consolidate, soprattutto su certe categorie di persone colpite in passato da stigma e giudizi morali.
Non ha sovvertito la dottrina, ma ha spostato l’accento. Ha riportato al centro le persone in carne e ossa, e con esse la dimensione della giustizia sociale, il richiamo agli ultimi, ai poveri, agli esclusi. Anche qui, è innegabile che Francesco abbia riannodato i fili con quella corrente fortemente ispirata al Concilio Vaticano II che in parte era stata interrotta o, quantomeno, neutralizzata negli ultimi decenni.
Un Papa “alter-globalista”?
Naturalmente, restano anche delle domande, dei dubbi legittimi, che riguardano piani diversi: culturale, politico, spirituale. Ad esempio, ci si può chiedere: Papa Francesco piace tanto perché rappresenta un’istanza “alter-globalista”? Probabilmente sì, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un Papa che viene dal Sud del mondo, dal Sud America.
Chi conosce quei luoghi sa che è quasi inevitabile, lì, sviluppare una sensibilità “altra”, rispetto alle logiche occidentali dominanti. Eppure, bisogna anche dire che quella stagione alter-globalista si è in parte esaurita nei primi anni Duemila: con Genova, con l’11 settembre, si è chiuso un ciclo. E oggi dobbiamo domandarci quali nuove forme può assumere quella visione nel mondo globale di oggi.
L’idea di una globalizzazione dal volto umano, fondata sul presupposto che la globalizzazione sia in sé un fatto positivo da “raddrizzare dall’interno”, si è rivelata, purtroppo, un progetto fallimentare. È un’ipotesi che oggi non è più davvero all’ordine del giorno. È fallita anche perché è stata sabotata: penso, ad esempio, a quella sorta di stato d’eccezione a Genova durato tre giorni, un atto sì simbolico, ma significativo. Tuttavia, è fallita anche per limiti interni: limiti intellettuali, di cultura politica, dell’idea stessa che bastasse cambiare il segno della globalizzazione per redimerla.
Ma la globalizzazione e l’“alterglobalismo” non sono entità neutre. Sono figlie del neoliberismo, del capitalismo finanziarizzato, del Washington Consensus. Non è così semplice piegarle ad altro. Forse, allora, è il caso di uscire da certi equivoci retorici, da una visione un po’ di maniera, per riconoscere che il mondo è multipolare, è un multiverso. È fatto di differenze, anche urticanti, che però esistono e con cui dobbiamo misurarci.
Un vero internazionalismo non può nascere da una pretesa omologante, ma dal riconoscimento dell’esistenza e della legittimità di soggettività politico-culturali differenti. Non si tratta di dire “tu devi diventare come me”, ma di dire: “Tu esisti, ed è legittimo che tu esista”. Poi ci confronteremo, collaboreremo, magari divergeremo. È questa una visione critica ma realista, che potrebbe aiutarci a superare anche le caricature interne alla Chiesa, tra tradizionalisti e innovatori “a prescindere”, o tra chi rifiuta in blocco il concetto di sovranità e chi lo difende in modo integralista.
La sovranità è una cosa seria. Giuristi e filosofi del diritto – da Bodin in poi – lo sanno bene. Certo, oggi è una nozione dislocata, usata spesso in modo polemico, per rivendicare o per attaccare. Ma il tema rimane: se vogliamo un vero internazionalismo, dobbiamo riconoscere soggettività autonome e formalmente paritarie, anche se nei fatti qualcuno sarà sempre più forte di qualcun altro.
E quando si ripropone la logica dello scontro di civiltà torna in gioco anche questa questione. Perché oggi si tende a stigmatizzare una parte del mondo non occidentale come autoritaria, retrograda, pericolosa. Ma così facendo, si costruisce una realtà fittizia, che però diventa performativa, cioè finisce per produrre effetti reali.
Da Benedetto XVI a Francesco. L’Europa ridotta a provincia?
E qui si apre un tema profondo: quello dell’identità dell’Europa e della modernità. Anche la Chiesa è sfidata da questa questione. Io stesso, lo confesso, in passato ero più critico verso Benedetto XVI. Ma rileggendolo oggi, riconosco che su alcuni punti aveva ragione, soprattutto sul piano dell’Europa. È stato frainteso. Aveva una consapevolezza profonda dell’importanza del dialogo tra religioni, e rifiutava tanto il sincretismo quanto l’esclusivismo.
Sull’Europa diceva una cosa fondamentale: le sue radici sono molteplici, ma sono anche potentemente cristiane. La modernità, la secolarizzazione, non sarebbero esistite senza il cristianesimo. È paradossale, ma vero. Il cristianesimo ha generato – anche nel conflitto con sé stesso – la religione dell’uscita dalla religione. Il libro di Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo, lo mostra in modo straordinario.
Anche quando difendiamo lo Stato costituzionale, dobbiamo ricordare che i nostri costituenti ne erano consapevoli. Scriveva Norberto Bobbio che la libertà moderna è anche figlia del cristianesimo, non solo dei pensatori laici, da Locke a Kant. Se si fa una genealogia profonda della modernità, non si può ignorare questo legame.
Ecco perché oggi, di fronte alla crisi dell’Europa, alla sua difficoltà di dire qualcosa di nuovo, è importante che anche gli intellettuali laici tornino a interrogarsi sulle risorse di senso che fondano lo Stato costituzionale. Io di questo sono convinto, e non ho paura di dirlo.
Papa Francesco, in questo quadro, appare profondamente consapevole di questa complessità. Ma allo stesso tempo – e lo dico come provocazione – a volte sembra che, provenendo dal Sud del mondo, tenda a vedere l’Europa come una provincia. Eppure, proprio l’Europa ha una matrice culturale e spirituale da cui non si può prescindere, se vogliamo costruire un internazionalismo che non sia solo astratto o moralistico, ma radicato nella realtà storica e culturale.