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La follia senza speranza della Comune

di Valerio Romitelli

comne parigi 1871La proporzione è quasi certa: più le figure di rivoluzionari sono state sfortunate, “dannate”, più sono oggi rivalutate; più le loro biografie sono state con esiti tristi e tragici, più la sensibilità dominante si dimostra benevola, favorendo e accogliendo persino saggi, articoli, video o film che ne celebrano le gesta. Si pensi ad esempio ai casi di Rosa Luxemburg, Benjamin, Gramsci, Che Guevara o le Pantere Nere, tutti finiti nei peggiori dei modi e negli ultimi anni oggetto di un non trascurabile culto culturale.

Una spiegazione facile facile non manca: così in effetti si confermerebbe la predominanza contemporanea di quello che è stato chiamato il “paradigma vittimario”. Sarebbe a dire la propensione a dire male di tutto e tutti i più noti protagonisti della Grande Storia, salvo appunto le vittime, i perdenti di qualunque provenienza; con, come morale della favola, che solo tra questi ultimi si possono trovare dei paladini di autentici valori, comunque mai operativi, se non idealmente, e solo per “anime belle”.

Un’altra spiegazione la troviamo in La rivoluzione napoletana. Biografie, racconti, ricerche del 1799 scritto da Benedetto Croce[1]. Secondo lui non c’è alcun mistero del perché i protagonisti, per lo più giovani e raffinati intellettuali (come la famosa ed ammirata Eleonora Fonseca Pimentel), di questo breve e alla fin fine quanto mai tragico evento non possono non suscitare simpatie. La chiave di questa benevola e immarcescibile fama postuma starebbe proprio nel precoce e cruento spegnimento della loro impresa ad opera di lazzaroni incitati dal clero più oscurantista.

Solo così, solo ritrovandosi con le teste mozze in cima alle pertiche di controrivoluzionari furiosi, i brillanti governanti napoletani ispirati dagli ideali giacobini di giustizia, eguaglianza e libertà avrebbero potuto mantenere una loro credibilità imperitura. La morte precoce li avrebbe infatti esentati dal passare a quella realizzazione dei loro ideali che inevitabilmente li avrebbe trasformati in sinistri carnefici grondanti di sangue come Robespierre e Saint-Just. La morale della favola va da sé: che la rivoluzione politica e sociale è tanto più bella e buona, quanto più rapidamente e tragicamente viene soppressa, non lasciando dietro di sé che l’aleggiare di uno spirito reso innocuo e così persino apprezzabile per le sue fantasiose quanto irrealizzabili utopie.

Considerazioni tutte queste che si impongono in occasione del centocinquantenario della Comune di Parigi, così detta originariamente, non per una qualche assonanza con la parola “comunismo” – come a volte si equivoca –, ma semplicemente in riferimento al Comune di Parigi (in francese sostantivo femminile) insorto nel 1871 contro la Repubblica appena fondata. Se oggi abbondano le sue rievocazioni che non stentano a dimostrarsene simpatizzanti, e fino anche nostalgiche, pare invece in gran parte rimosso quanto fossero diverse le disposizioni nei confronti di questa esperienza da parte dell’opinione più condivisa durante e dopo il suo svolgersi. Tant’è che la sua fine, più che mai cruenta – con lo stermino sistematico di 20.000 e più dei suoi protagonisti e partecipanti – venne salutata da tutta o quasi l’Europa del tempo come estinzione finalmente giunta di un pericoloso focolaio di anarchia regressiva tra le classi subalterne.

Ci dovremmo dunque compiacere del “tempo galantuomo”? Ci dovremmo cioè compiacere del fatto che dopo centocinquant’anni si sarebbe giunti a ridare ascolto e ragione a quelle poche voci contemporanee della Comune che, allora del tutto fuori del coro, non temettero di schierarsi a suo favore? Più in particolare, alla voce di quel tal Karl Marx che, il 30 maggio 1871[2], contro tutti benpensanti dell’epoca giunse fino al punto di omaggiare questa pur brevissima e tragica esperienza (non durata più di una quarantina di giorni) esaltandola quale “glorioso araldo di una società nuova”, “forma finalmente trovata” del potere proletario, premessa necessaria dell’avvento del comunismo su scala planetaria? Così pare in molte rievocazioni di questa esperienza che si stanno più o meno esplicitamente rifacendo a questo giudizio, dandolo quasi per scontato, senza cogliere quanto fosse a suo tempo controcorrente. Ma il fatto che i comunardi, a loro tempo maledetti da tutta l’Europa, non godano più di tanta cattiva fama, è qualcosa che merita attenzione.

Da chiedersi è allora come mai un simbolo per eccellenza comunista quale la Comune di Parigi, celebrato come fulgido esempio da tutti i “classici” del marxismo, non susciti più alcuno scandalo culturale, pur in un’epoca come la nostra sistematicamente e visceralmente anticomunista. Così sistematicamente e visceralmente anticomunista che ad esempio le burocrazie dell’Unione Europea arrivano addirittura a mettere nero su bianco di rivendicare un’identità fondata sull’equiparazione tra comunismo e nazismo.

La risposta ovvia non manca certo. Ed è che questa equiparazione riguardando evidentemente il comunismo coronato dai successi del socialismo “reale”, per ciò infamato come “totalitario” e al comando di regimi come quello un tempo sovietico, tutt’ora cinese, cubano e così via, lascerebbe innocente e, volendo, persino apprezzabile l’utopia comunarda e marxiana. Ma ecco allora che se è proprio così che la pensiamo dovremmo anche ammettere di non pensarla poi tanto diversamente rispetto al vecchio buon filosofo liberale, Croce: secondo il quale, come appena visto, le rivoluzioni buone sono alla fin fine quelle che non riescono e al più lasciano dietro di sé un’aura di ideali edificanti. Se lui sosteneva di non potere non dirsi cristiano, se Sartre ribatteva di non poter non dirsi comunista, oggi probabilmente sarebbe il caso che molta sinistra anche antagonista, “antitotalitaria”, ammettesse di non potere non essere neoliberale, democratico-neoliberale. Anche i democratici neoliberali, in effetti, in nome di quel “cambiamento” che osannano ossessivamente ovunque e a tutti i costi, non disdegnano affatto e anzi promuovono le rivoluzioni: di tutti i colori purché non riescano “rosse”, proprio come tra il 1945/75 erano invece riuscite addirittura in mezzo mondo, pur con tutti i loro difetti ed orrori. Lungo discorso.

Stando sul pezzo torniamo a Marx per notare qualcosa dei suoi scritti intorno alle vicende della Comune quanto mai trascurato, a mia conoscenza, tra le svariate rievocazioni di questo centocinquantenario. Si tratta del Secondo Indirizzo del Consiglio generale (dell’Associazione Internazionale dei lavoratori) sulla guerra franco-prussiana scritto a Londra il 9 settembre 1870, nove mesi circa della tremenda disfatta della Parigi nel frattempo insorta. Qui in effetti Marx dice qualcosa di quanto mai stupefacente. Egli rivolgendosi ai futuri comunardi si spinge a consigliare loro qualcosa che, pur esagerando e stravolgendo la cronologia, potrebbe comunque suonare in questi termini: guai a voi se la fate, la Comune! sarebbe una “follia senza speranza”! Leggiamo:

La classe operaia francese si trova dunque in una situazione estremamente difficile. Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo nella crisi presente mentre il nemico batte alle porte di Parigi sarebbe una follia senza speranza. Gli operai francesi devono fare il loro dovere di cittadini: ma non si devono lasciar sviare dalle tradizioni nazionali del 1792, come i contadini francesi si lasciarono ingannare dalle tradizioni nazionali del Primo Impero. Essi non devono ripetere il passato, ma costruire il futuro. Utilizzino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per rafforzare decisamente l’organizzazione della loro classe. Ciò darà loro nuove forze erculee per la rinascita della Francia e per il nostro compito comune – l’emancipazione del proletariato. Dalla loro forza e saggezza dipendono le sorti della Repubblica[3].

Qui in effetti siamo a sei mesi prima dell’insorgenza della Comune che avverrà attorno la metà di marzo dell’anno successivo. Il Secondo Impero di Napoleone III è da poco stato sconfitto dalla Prussia e sotto la tutela di quest’ultima è nata una Repubblica. Una Repubblica si potrebbe dire dunque “collaborazionista”, un po’ come lo sarà quella di Vichy sotto i nazisti negli anni Quaranta del ‘900. Tuttavia Marx prova a dissuadere da ogni idea di insorgere contro di essa. E ciò almeno per tre ragioni fondamentali.

Primo, qualunque scontro militare condotto da volontari in armi e diretto contemporaneamente contro l’esercito prussiano occupante e l’esercito francese “collaborazionista” – entrambi allora tra i più potenti del mondo – sarebbe destinato a sicura sconfitta. Secondo, nella Francia del tempo a dominare negli ambienti rivoluzionari non sono i seguaci dell’Associazione Internazionale a nome della quale Marx interviene, ma svariate frazioni, proudoniane, blanquiste e altre tra loro in dissidio, facendo dubitare della possibilità di una strategia unitaria tra gli eventuali insorti. Terzo, un punto che mi pare quanto mai importante: che l’organizzazione dei proletari richiede tempi e luoghi ad hoc; sarebbe a dire che l’organizzazione – contrariamente ad una vulgata quanto mai perniciosa – non nasce dalla, nella lotta, ma è quest’ultima che può essere vincente o perdente, se non disastrosa, a seconda dell’organizzazione o meno di chi la scatena: e appunto secondo quanto dice il passo or ora riportato di Marx gli operai francesi nel 1870, organizzati a loro modo non lo erano affatto in modo adeguato alle circostanze.

Che dire allora dei ben diversi giudizi dati sempre da Marx nove mesi dopo, nel 30 maggio 1871, quando la Comune non solo è già insorta, ma è anche già finita in un orripilante bagno di sangue? Quei giudizi nei quali, ben lungi da considerare questa esperienza a livello di una “follia senza speranza” o di una vana “ripetizione del passato” (come nel testo appena riportato del 9 settembre 1870), la si celebra tutto al contrario quale “araldo di una nuova società”? Come comprendere un simile cambiamento di opinione nel breve arco di circa nove mesi, per di più nonostante che le catastrofiche previsioni sulle sorti della Comune anticipate nel settembre 1870 si fossero dimostrate del tutto esatte a fine maggio 1871?

Certo, l’organizzazione dal basso, quartiere per quartiere, l’insorgenza del popolo in armi, il formarsi di battaglioni di volontari, le misure in favore dei poveri, del riscatto del femminile, della separazione tra stato e chiesa, la promozione di associazioni per una giusta divisione del lavoro, le discussioni per riduzioni degli orari operai e per aumenti salariali, la promozione di una scolarizzazione laica, il ridimensionamento delle burocrazie statali, ma anche la mobilitazione febbrile ed entusiasta delle masse meno abbienti, l’imporsi del loro linguaggio, dei loro atti simbolici rivoluzionari, socialisti e comunisti, fino anche lo sventolio inaugurale della bandiera rossa: certo, tutto ciò e tanti altri fatti e gesti dei quali il Comune di Parigi fu teatro tra il marzo e il maggio del 1871 devono aver fatto trasalire Marx: devono avergli fatto trovare conferma e rilancio delle sue idee ad un livello di intensità mai visto dagli oramai lontani giorni del Quarantotto.

In quei giorni risalenti a più di trent’anni prima, qualcosa di assai simile alla Comune era già avvenuto, un po’ ovunque tra le fiamme, le fucilate e le barricate che allora erano pullulate ovunque in Europa, e specialmente in quella Repubblica Romana tardiva (tra il marzo e il luglio del 1849) cui l’ancora giovane autore del Manifesto del Partito Comunista non ebbe occasione di dedicare alcuna particolare attenzione. Ma se alla fine del maggio 1871 per parlare della Comune Marx ricorre al tono da svolta epocale è anche e soprattutto in ragione di un motivo del tutto particolare. E per nulla felice. Questo motivo è evidentemente proprio il massacro di circa 20.000 comunardi (seguito da circa 10.000 condanne e deportazioni) avvenuto durante la famigerata “semaine sanglante” conclusasi il 28. In altre parole, l’indirizzo nel quale Marx definisce questa esperienza come araldo di una nuova società è da intendersi anzitutto come una sorta di epitaffio funebre. Come in ogni epitaffio funebre anche in questo cosa si fa infatti? Giustamente, si esaltano le virtù e si trascurano i difetti degli scomparsi. Rispetto a quando aveva cercato di dissuadere dall’insurrezione non è dunque che qui Marx dimostri di avere cambiato idea. Più semplicemente cambia obbligatoriamente punto di vista. Obbligatoriamente: perché prima della eroica e terribile primavera parigina del 1871 non si era mai visto ed udito ciò di cui i comunardi per brevissimo lasso di tempo loro concesso si erano dimostrati capaci: tutto quell’enorme pacchetto di rivendicazioni, atti e dichiarazioni emancipatorie, socialiste e comuniste da loro sbattuto in faccia al mondo intero era certo un’invenzione collettiva senza precedenti[4].

Ma ecco appunto: nel 1871. Non oggi. Non dopo centocinquanta anni. Oggi le rivendicazioni, gli atti, dichiarazioni che soprattutto per bocca di Marx resero famosi i comunardi sono già ampiamente note perché nel frattempo sperimentate in mille modi vincenti e perdenti, giusti e sbagliati, felici e maldestri. Il che non vuol dire che possiamo permetterci di dimenticare quel fulgido momento aurorale dell’emancipazione umana. Esso certo va sempre rievocato ogni volta che ci si chiede come contrastare il persistente sfruttamento capitalista e le mai ridotte ingiustizie sociali che esso alimenta.

Tuttavia, a questo stesso scopo, non va neanche dimenticato ciò che sempre Marx aveva paventato come “follia senza speranza” e che ha fatto finire nel peggiore dei modi questa stessa esperienza: la volontà avventurista prevalsa a Parigi dopo il settembre 1870 di “ripetere il passato”, cioè di fare da sé, di rompere precocemente con la Repubblica “collaborazionista”, di provare subito, senza alcuna preparazione politica e militare adeguata, a ricorrere alla insurrezione come nel 1789, nel 1830 e nel 1848, con, da ultimo, come inevitabile conclusione, lo schiantarsi di fronte all’artiglieria e alle cariche dei due eserciti tra i più potenti del tempo. Un disastro estremo, questo, che oltre tutto privò tutta l’Europa del tempo del meglio degli operai e intellettuali più politicamente capaci e impegnati, provenienti anche dall’estero, ritrovatisi sulle barricate di Parigi e lì per lo più sterminati o deportati in colonie penali.

Giuseppe Ferrari, dimenticata figura di spicco del nostro Risorgimento, filosofo della rivoluzione, amico di Proudhon, francese di adozione, in più saggi dedicati ai fatti che precedettero e seguirono la Comune non aveva dubbi: ciò che la rese possibile e la portò alla rovina fu il prevalere tra i rivoluzionari parigini di quello che chiamò “il partito della guerra ad oltranza”[5]. Egli certo aveva un’ottica del tutto distante da quella di Marx, ma il suo parere non era quello di un conservatore o di un reazionario e a ben vedere convergeva con quello espresso da Marx quando, nel settembre del 1870, provava a dissuadere dall’intento di volere ripetere l’esempio insurrezionale delle rivoluzioni francesi precedenti.

Rievocare anche questo lato oscuro della Comune è importante per una precisa ragione. Perché, rifacendosi sempre all’ultimo indirizzo di Marx sulla Comune (quello del 30 maggio 1871) che la glorifica e trascurando invece l’indirizzo precedente dal contenuto del tutto contrario, la tradizione comunista e marxista ha finito per alimentare una delle sue propensioni meno proficue. La propensione ad idealizzare la guerra, la lotta, l’insurrezione, lo scontro violento quasi come un rito obbligatorio, intrinsecamente salvifico, da esaltare e anticipare comunque, anche a scapito di un’adeguata elaborazione intellettuale, strategica e organizzativa. L’estetica velleitaria, trasgressiva e ribellista, quanto il cupo burocratismo militaresco (solo apparentemente tra loro in reciproca esclusione) sono due tra le peggiori conseguenze di questa propensione che ha segnato i destini della tradizione marxista e comunista. Per essere fedeli al meglio di questa tradizione e all’immensa opera che in suo nome è stata fatta in termini di pensiero e sperimentazione politici, celebrando centocinquant’anni dalla Parigi insorta del 1871, penso sarebbe il caso di ripensare con più attenzione a questo suo lato oscuro e a quanto Marx stesso lo avesse previsto e paventato, in quanto “follia senza speranza”.


Note
[1] (1926), Bibliopolis, Napoli, 1988.
[2] Marx, Engels, Werke, XVII, 1964, Dietz Verlag, Berlin, pp. 3-8: Reperibile in Italiano on line in www.marxists.org/italiano/marx-engels/1871/gcf/secondoindirizzo.htm. Per un’analisi dettagliata di questi testi mi permetto di rinviare al mio Sulle origini e la fine della Rivoluzione. Clueb, Bologna, 1996, pp.150-4.
[3] Marx, Engels, Werke, XVII, cit., pp. 271-9. Anche questo reperibile in Italiano on line in www.marxists.org/cit.
[4] È su questo che insiste l’oggi spesso citata “dichiarazione” del filosofo dell’evento, Alain Badiou, in La comune di Parigi. Dichiarazione politica sulla politica, Cronopio, Napoli, 2004, dove comunque non si affronta la questione della contraddittorietà di questo evento, su cui sto invece qui insistendo.
[5] Cfr. Il destino della repubblica in Francia e L’incendio di Parigi, entrambi del 1871 pubblicati in G. Ferrari, Scritti Politici, Utet, Torino, 1973.

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