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Sull'autonomia del politico di Tronti

di Toni Negri

Leonardo Cremonini 90Debbo confessare il mio imbarazzo nel discutere questo volume di scritti di Mario Tronti, complessivo della sua vita di studioso e militante. Quando ero giovane, non troppo tuttavia, attorno alla trentina, Mario m’insegnò a leggere Marx. Assunse molte responsabilità, facendolo – ed io gliene sono ancora grato. A partire da questa lettura, mi dedicai ad una vita militante. Ma nel 1966, sei o sette anni dopo quell’incipit, consegnandoci Operai e capitale, Mario ci lasciò – non dico “mi” ma “ci”, perché nel frattempo erano divenuti tanti gli “operaisti” presenti non solo nelle università quanto, soprattutto, nelle grandi fabbriche del nord Italia. Ci disse, nel 1966, che il decennio dei Sessanta era finito prima del suo termine e con esso il tempo dell’autonomia operaia, che bisognava trovare un livello più alto per le lotte che avevamo condotto e conducevamo, che bisognava portare la lotta nel Partito comunista italiano. Non era quello che già facevamo? Gli rispondemmo. Non fummo infatti, né allora né più tardi, insensibili al problema ed al compito di sviluppare politicamente le lotte operaie. Il fatto è che il Partito non lo gradiva affatto. Nel crescendo delle lotte operaia che doveva condurci al ‘68/‘69, non capimmo dunque perché lasciare a se stessa l’autonomia delle lotte. Mario disse allora che il ‘68 ci aveva definitivamente confuso. Secondo lui, avevamo preso per un’alba quello che invece era un tramonto. Ma quale tramonto? Certo, si annunciava la fine dell’egemonia dell’operaio-massa ma potevamo confonderla con quella della lotta di classe proletaria? Nel prolungarsi durante tutti gli anni ‘70 del lungo ‘68 italiano, quella conversione di Mario non poteva convincerci. Fu allora che smisi di leggere Tronti. Quando questo volume mi arrivò, mi accorsi che ne avevo già letto solo il primo terzo, due terzi mi restavano da leggere.

Certo, anche se non lo leggevo, Tronti non era assente dal mio quotidiano. In maniera stizzosa, ad esempio, lessi in quegli anni un saggio di storia del pensiero politico moderno che Mario pubblicò allora e che, ad uno spinozista quale stavo diventando, parve parziale e non certo grato nell’esaltazione senza riserve che ivi era fatta della teoria hobbesiana del potere.

Come se la storia del politico moderno non dovesse essere attraversata anche dal pensiero e dalla storia dei vinti, dalla linea della rivolta, dal sogno comunista, fino a rappresentarsi in Marx come critica dell’economia politica e potenza di soggettivazione classista. A questa figura della storia del moderno ero profondamente legato e da Operai e capitale avevo appunto appreso ad inseguire la “storia interna della classe operaia” – la storia cioè della sua progressiva soggettivazione. Facevo ciò sviluppando l’intuizione trontiana che indicava il punto nel quale la soggettivazione della forza-lavoro era maturata al punto di “contare veramente due volte dentro al sistema di capitale: una volta come forza che produce capitale, un’altra volta come forza che rifiuta di produrlo; una volta dentro il capitale, una volta contro il capitale” (Operai e capitale, p. 180). Perché allora, mi chiedevo, Mario dimentica nel lavoro storico la lotta contro il capitale ed il soggettivarsi potente del proletariato?

Poi ancora, in quegli anni, mi arrabbiai quando Cacciari ed Asor Rosa, sulla linea di Mario, attaccarono Foucault perché – dicevano – dissolveva lo Stato, oggetto e soggetto della loro concezione del politico. Fu allora che, probabilmente per la prima volta, in maniera piena, mi accorsi che il terreno politico scelto dai miei vecchi compagni era dato esclusivamente come apparato statale ed era staccato, separato radicalmente dal livello della lotta di classe. Che incredibile limitazione anche dal punto di vista offertoci da Foucault, il cui concetto di potere risonava talmente del dualismo del marxiano concetto di capitale!

Più recentemente, poi, mi domandai perplesso che cosa significasse operaismo, essendomi sentito chiamare “post-operaista”, quando invece avevo assunto come compito teorico, quello di espandere i dispositivi metodici e le intuizioni politiche del “grezzo” operaismo anni ‘60 nell’analisi della trasformazione delle composizione delle classi e della lotta di classe a livello internazionale. Ci tenevo molto, sul mercato globale del sapere, ad essere qualificato come “operaista”: non mi vergogno di dirlo e con piacere lasciavo il “post-” a chi davvero se n’era andato da un’altra parte. Ero certo “minoritario” ma, come spesso capita ai minoritari, sentivo che presto le opzioni partitiche statualiste di quelli che veramente venivano dopo gli (post-)operaisti, si sarebbero infrante nel rinascere della lotta di classe.

Tuttavia, per evitare arrabbiature sempre più frequenti, mi dissi infine: bisogna che vada a sentire di nuovo Mario. Ero in galera e Mario teneva, nel 2001, la lezione conclusiva della sua carriera accademica a Siena. Chiesi un permesso ai carcerieri e sorprendentemente me lo concessero. Rivedevo Siena dopo tanti anni di esilio, cosa non estranea alla mia richiesta di ascoltare Mario. “Politica e destino” si chiamò la lectio di Mario. Mi accorsi allora di quanto fossimo divenuti estranei. Conoscevo bene Freiheit und Schicksal (“Libertà e destino”), il testo del giovane Hegel, già tradotto ed interpretato in Italia da Luporini, che Mario assumeva come spunto del suo studio – ci avevo lavorato nella mia tesi di libera docenza. Ebbene, che cosa avveniva a quel testo fortemente repubblicano del giovane Hegel nella lettura di Mario? Egli operava uno scivolamento inaudito dalla Bestimmung hegeliana al Geschick heideggeriano, dalla determinazione etico-politica di Hegel e dal suo affidamento rivoluzionario alla Begeisterung popolare – da ciò dunque – alla decisione heideggeriana “dell’abbandono (dell’ente) nell’essere”. Ma perché questo passaggio? Come poteva giocarsi lo spostamento dall’entusiasmo hegeliano alla mortale riflessione heideggeriana? La risposta si rivelava essere fortemente metaforica. Era qui detta come presa di coscienza della definitiva crisi di un destino politico giocato interamente sull’appartenenza al Partito. Ma ora, nel 2001, non c’è più il Partito. Perché? Metaforicamente rispondeva dunque Mario a quella domanda: “Perché non c’è più popolo!” (Il demone della politica, p. 577). Era quindi caduta la “vocazione”, “il compito di organizzarci come classe dirigente, egemonicamente dominante”.

Mi chiesi allora: ma che cos’è questa mitologia egemonica che fa reagire Mario in maniera tanto drammatica e – a mio avviso – tanto disastrosa, dinnanzi al presente della lotta di classe? Ecco qui l’“enigma Tronti” – che non mi sembra impossibile da svelare: consiste nella dislocazione del “punto di vista” dal dentro/contro il capitale, al dentro al Partito con la proposta di imporne l’egemonia sullo sviluppo capitalista; nella discontinuità profonda fra il Tronti di Operai e capitale e quello dell’“autonomia del politico”. In parole povere, uno spostare dal basso all’alto la sorgente del potere e l’iniziativa della lotta di classe.

Nel 1972 era apparso in gran luce il concetto di “autonomia del politico”, in uno scritto così intitolato. Non era più il residuo di una tradizione storica, della memoria di Hobbes. Il concetto si organizza piuttosto sull’idea che bisognava finirla con il “monoteismo” marxiano, e cioè con la pretesa che critica dell’economia politica e critica della politica potessero avere la medesima sorgente. Si trattava invece, secondo Mario, di due pratiche critiche diverse. Politicamente questa duplicazione era giustificata – in maniera non del tutto paradossale – dall’idea che, negli anni ‘70, il capitalismo avesse dimostrato di essere insufficiente a sostenere lo Stato moderno, e cioè lo sviluppo capitalista nella forma dello Stato moderno. Ma se il capitalismo è in ritardo, è la politica che deve scuoterlo. Occorre sollecitare il politico a modernizzare lo Stato. Ma “politica” è oggi solo la forza della classe organizzata nel Partito. A chi dunque il compito di modernizzare lo Stato? Alla “classe operaia [che] risulta in questa chiave la sola vera razionalità dello Stato moderno” (DdP, p. 297). Qui il paradosso è pieno.

“Classe operaia come razionalità dello Stato moderno”: l’affermazione è ardua da giustificare sia nei confronti dell’operaismo “grezzo” dei primi anni ’60, sia guardando più avanti, al destino della classe come a quello dello Stato moderno. Ché, nel primo caso, la razionalità operaista aveva rappresentato l’opposto di una funzione progressiva dello sviluppo capitalista; se essa lo causava, lo faceva in quanto agente antagonista; in nessun caso come agente strumentale, tantomeno come funzione razionale. Nel secondo caso, guardando in avanti, e cioè allo sviluppo della dialettica lotta di classe/Stato, quel che si può dire è che, nei successivi decenni, essa si è esaurita nella forma metaforizzata da Tronti – nel senso che la classe, quando essa agisca come forza antagonista e propulsiva del capitale, non sarà mai più rappresentata dal Partito.

Ma torniamo a noi, al 1972. Tronti riconosce che tale autonomia del politico possa essere presa come progetto politico direttamente capitalistico. In questo caso, concede, essa risulterebbe come l’ultima delle ideologie borghesi. Tuttavia, essa può, oggi, anni ‘70, essere ancora realizzabile come rivendicazione operaia. “Lo Stato moderno risulta, a questo punto, niente meno che la moderna forma di organizzazione autonoma della classe operaia” (p. 298). Il rapporto è perfezionato una decina d’anni dopo, nell’epoca di Berlinguer, quando si comincia a parlare del “compromesso storico”. Dico perfezionato perché accompagnato da un’ulteriore sottovalutazione del ruolo rivoluzionario della classe operaia. Detto teoricamente da Mario: “La classe operaia, sulla base della lotta dentro il rapporto di produzione, può vincere solo occasionalmente; strategicamente non vince, strategicamente è classe, in ogni caso dominata; ma se non gioca semplicemente sul terreno di classe, se spariglia ed assume il terreno politico, si determinano momenti in cui il processo del dominio capitalistico può esser rovesciato”. Ecco, radicalmente compiuta, la rottura con l’operaismo anni ’60.

Nella discussione (quel testo sull’autonomia del politico è elaborato in una discussione) la tesi viene attenuata, si reintroduce talvolta il rapporto dualistico di capitale teorizzato in Operai e capitale: “Non c’è mai all’interno della società capitalista un dominio di classe univoco” (p. 305). Immagino – siamo nel ‘72 – che gli interlocutori ricordassero a Mario l’intensità delle lotte in corso. Ed ecco come Tronti reagisce: “Uno sviluppo capitalistico di questo tipo non può marciare se non elimina difronte a sé questo apparato statuale che non corrisponde più al livello attuale dello sviluppo economico capitalistico. Questa è la previsione che noi facciamo” (p. 307). Su questo Mario ha senz’altro ragione: è il momento nel quale il capitale si apre alla riorganizzazione globale della sovranità. Ma questa volta la “grande politica” gli sfugge. Assai ingenuamente infatti Tronti pensa ancora che si tratti di operazioni interne al tessuto dello Stato-nazione ed ingenuamente aggiunge: “Quando il capitale decide di spostare la sua azione su quel terreno [sott’intende ancora, evidentemente, il tema della riforma dello Stato], l’intero gioco della lotta di classe si sposta anch’esso, fatalmente su quel terreno. Secondo me, si tratta addirittura di anticipare la stessa mossa capitalista su questo terreno, affrontando il tema della strozzatura politica e quindi della riforma dell’assetto statuale prima ancora che il capitale ne prenda coscienza ed elabori un progetto di effettiva e concreta realizzazione di questa riforma. Così, il processo, io non direi di riforma ma di rivoluzione politica dello Stato capitalistico così com’è, è un progetto che la classe operaia deve anticipare” (p. 307). Ed ecco la rivendicazione dello strumento dell’autonomia del politico: “Noi troviamo un livello del movimento operaio, cioè un’organizzazione storica del movimento operaio, disponibile per un’azione di questo tipo” (p. 309). E ancora: “Noi ci troviamo difronte, per un progetto di questo tipo, a degli strumenti organizzativi che per una politica passata, per una loro struttura interna, sono disponibili per un’azione di questo tipo. È una situazione storica paradossale ma è un paradosso da utilizzare” (p. 309). Si potrebbe irridere a questo presunto “realismo politico”, ma a che scopo, quando si sia misurato, come a noi è oggi possibile, l’idealismo che lo sorreggeva?

La classe deve farsi Stato: questa è dunque l’“autonomia del politico” così come essa appare di nuovo ne Il tempo della politicadel 1980. Il testo è interessante. C’è una certa autocritica a proposito della condanna del ‘68. Si rivendica ad esempio la matrice operaia del ’68, si afferma persino che prima del ’68 c’è un ciclo di lotte operaie vittorioso, a livello europeo ed internazionale, che lo preparava. Tronti esemplifica sul “caso italiano”, sull’insieme dei processi che avevano portato gli operai in lotta ad uscire dalle fabbriche. Apre persino ad una prima definizione del “sociale” come nuovo terreno della lotta di classe. Ed impreca contro l’incapacità del Partito di assorbire e/o di dialettizarsi con i nuovi movimenti: “Lentezza di riflessi, paura del nuovo, istinto di autodifesa” (vedi pp. 382-390).

Ma poi, come se niente fosse, riprende l’insistenza sul Partito come chiave di ogni processo. Quello che è letteralmente insopportabile è che tutto questo discorso si dà ormai a partire dalla cancellazione di ogni approccio critico all’economia politica e sostenendosi su un volontarismo bizzarro. “Rosenzweig indicava una prospettiva di lettura della politica moderna, von Hegel zu Bismarck. È possibile tirare oltre la linea e continuare il discorso e rimescolare le carte, von Bismarck zu Lenin? Può scandalizzarsi solo chi non ha spirito di ricerca, chi ha paura di sporcarsi le idee manovrando le pratiche del nemico, chi pensa in piccolo, per linee di coerenza ideologica e non sulla base della produttività politica di una scelta teorica” (p. 408). Può essere. Ma io vi ricordo che, dopo aver assaggiato quel passaggio attraverso Bismarck, Rosenzweig aveva concluso alla mistica Stern der Erlösung (“La stella della redenzione”). Non si offenderà Tronti perché è lo stesso cammino che egli farà.

Ci ritorneremo. Ma ora seguiamo ancora il tema dell’autonomia del politico. 1998, un altro importante documento: Politica Storia Novecento. “Si chiude la fase dell’autonomia del politico”, dichiara qui Tronti (p. 524). Perché si chiude la fase dell’autonomia del politico? Perché “la sconfitta del movimento operaio [siamo nel 1998] si mostra senza un seguito di possibile riscossa” (p. 325). Ed ecco la sequenza-fuga: “La classe operaia non è morta […] ma è morto il movimento operaio. E la lotta di classe non c’era perché c’era la classe operaia, la lotta di classe c’era perché c’era il movimento operaio” (p. 528). Dopo la subordinazione della lotta di classe all’autonomia del politico, con la fine del PCI finisce anche la lotta di classe. Come dunque volevasi dimostrare, posso aggiungere. E proporre un’ulteriore risposta alla domanda sulla fine dell’autonomia del politico: perché la linea del pensiero di Tronti va da ogni errore politico ad una trasfigurazione trascendentale di questo (dal fallimento del “Partito in fabbrica” all’idea dell’“autonomia del politico”, dalla crisi del ’68 all’affermazione della classe come Stato, dal fallimento del compromesso storico alla teologia politica) in una fuga in avanti che non ha termine.

Ci concede Tronti che restino le rivolte dei subordinati… “nel loro corso eterno” (p. 529). Come volevasi dimostrare, il discorso va ora all’eterno (vedi ancora pp. 530-534). “Il Dio che si fa uomo e l’uomo che si fa Dio non si sono alla fine incontrati… e l’XI delle tesi di Marx su Feuerbach (“Finora i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo, adesso è venuto il momento di cambiarlo”) va pesantemente messa in dubbio… cade il dogma della prassi”. È finito il PCI, è finita ogni politica rivoluzionaria. Ma anche progressista o riformista. Se non fosse tanto urlata, questa convinzione potrebbe darsi in una luce crepuscolare e ordinare insieme la nostalgia (quante volte richiamata) del “popolo comunista” e il senso di tempi nuovi incomprensibili. Un’aura pasoliniana.

Nello scritto Karl und Carl (pp. 549-560) ritorna il discorso sull’autonomia del politico, ma sublimato. Tronti ce lo dà come “l’ultima cosa che resta”. L’autonomia del politico, cioè, non più collegata alla storia del movimento operaio o alla sua politica ma qui finalmente data come fatto ontologico, come necessità del pensiero, della vita e della convivenza umana. Non è più un modo ma un attributo dell’essere: si potrebbe dire ironicamente. Tronti riconosce che “l’ingenua occasione dell’incontro” con Schmitt fu all’inizio, per gli operaisti che nel ‘70 entravano nel PCI, prodotta “dall’ambizione pratica di carpire a Schmitt il segreto dell’autonomia del politico per consegnarlo come arma offensiva al Partito della classe operaia” (p. 556). Ciò conferma, appunto, la nostra ipotesi precedentemente espressa. Ma bisognava, aggiunge Tronti, andare oltre la contingenza. Bisognava riconoscere che si era fatto un passaggio strategico, assumendo da Schmitt il pensiero “dell’originarietà del politico, della politica come potenza originaria” (nelle parole stesse di Schmitt). La logica non poteva essere più consequenziale. Si era costruito un nuovo monoteismo opposto a quello denunciato in Marx.

Che dire del resto di questo libro? Che spesso confonde il giudizio politico sulla realtà presente dentro risonanze spirituali, teologiche e trascendentali. Il potere si destoricizza definitivamente. Subentra intero il teologico-politico. Il senso del religioso viene assunto come tonalità di un nichilismo conseguente alla dichiarazione della fine del linguaggio politico moderno e del suo mondo – fine contemporanea all’esaurirsi XX secolo. Siamo dinnanzi ad una precipitazione catastrofica, inarrestabile. Ormai tutto è uguale, e l’unica funzione del pensiero politico non può essere che quella katekhontica: di bloccare, di disaccelerare quella precipitazione.

Mi spiace sinceramente che l’originario tentativo di Operai e capitale di riconquistare il politico attraverso la soggettivazione dell’attore proletario nella lotta di classe, termini in una triste commiserazione dell’umana “virtù”. Questa si era incrociata alla “fortuna” e così, nel Partito, potevamo non solo salvarci dalla rovina ma costruire un nuovo mondo. Ma venuta meno la “fortuna”, anche ogni “virtù” decade. Come è poco machiavellico questo destino. Nell’opera machiavellica quella “fortuna” che scompare è comunque portatrice, nella sua latenza, di nuova “virtù”. Tale è oggi la situazione. Ed un pensiero geneticamente robusto come quello di Tronti non avrebbe dovuto perdere la capacità di avvertirlo: la fine del Partito registra sì la fine di un’epoca ma segnala la nascita di nuove soggettivazioni.

Lamentare la sconfitta produce una oziosa rinnovata fuga metafisica – è invece necessario un faticoso ma positivo ripiegamento sulla critica dell’economia politica, una nuova interrogazione sulla “composizione” tecnica e politica della classe lavoratrice che, su queste contingenze, viene costituendosi in nuove figure. Come si sono modificati la forza-lavoro ed il capitale variabile nel loro rapporto al capitale fisso, dentro le trasformazioni del modo di produrre capitalista e nel passaggio dalla fase industriale a quella post-industriale? Che cos’è quell’“intellettualità” che costituisce la nuova moltitudine di lavoratori e quali le forme del suo essere produttiva? E la nuova centralità della cooperazione lavorativa, la sua aumentata intensità nel lavoro immateriale, cognitivo, in rete, ecc., questa trasversalità potente, quali conseguenze determina? Se l’“operaio sociale” diviene “lavoratore cognitivo” ed innesta sulle qualità del primo (mobilità e flessibilità) cooperazione linguistica e tecnologica, in che maniera si possono configurare il rapporto ed il salto da composizione tecnica a composizione politica del nuovo proletariato? Se è vero che all’interno di questo tumulto trasformativo la sola cosa che non si modifica, è che il capitale vive di plus-lavoro e continuamente riconfigura plus-valore e profitto al suo interno, quel rapporto tra composizione tecnica e politica è possibile, è un dispositivo latente da sviluppare ed un compito da farsi.

Quel che è certo è che l’operaismo va aggiornato, e può esserlo, quando la socializzazione produttiva e l’operare cognitivo investono l’accumulazione e la vita intera. Non a caso, nella riproduzione sociale, nella vita, i movimenti femministi divengono centrali. Non solo: il punto di vista dei “subordinati” rivela interamente la sua connessione con i movimenti di classe. Non si poteva riattualizzare qui, nelle nuove lotte di questi soggetti, quel punto di vista che aveva creato l’operaismo – quel vedere ogni sviluppo storico della lotta per la liberazione dal lavoro “dal basso”, dalla lotta di classe degli sfruttati? E quindi la capacità di dare a questo punto di vista un’intensità biopolitica ed un’estensione universale? Non accade che, dopo la fine della centralità della fabbrica, la lotta di classe riconquisti qui, interamente, la sua virtualità rivoluzionaria?

Arresto qui le domande e suggerisco quello che, a partire da quell’inchiesta sulla nuova composizione tecnica del proletariato, si può ricavare per l’ipotesi di una nuova composizione politica. Essa può darsi quando, riconoscendo l’eccedenza produttiva del lavoro cooperativo e/o cognitivo che caratterizza la nuova accumulazione, la classe lavoratrice si rivolta e si mostra capace di reggere nel tempo la rottura del rapporto di produzione, di costruire contropotere e di istituire in tal modo legittimità costituente. Qui il nome del politico si riaggancia a quello del produrre, non in senso economicista ma nel senso che le lotte hanno costruito, come libera capacità di produrre e comandare sulla vita.

Per finire. Un punto fortemente polemico nei confronti di Mario. Diversamente da quanto egli sostiene, in ogni momento nel quale articola la sua teoria del politico e/o del potere, Lenin non ha nulla a che fare con l’autonomia del politico. Perché Lenin fu, appunto, monoteista, ma in senso opposto a quello schmittiano, ricavando da Marx anche l’idea del politico che, nella materia, consisteva essenzialmente nella proiezione massificata del lavoro vivo; nella forma, nell’organizzazione di partito ricalcata sulla fabbrica operaia, sulla comunità produttiva; nel progetto, in un’impresa rivoluzionaria di costruzione del comune. Non c’è, in Lenin, modo di staccare la materia dalla forma. Il riferimento qui spesso fatto alla NEP, per mostrarci il realismo opportunista di Lenin, introduce alle politiche staliniane che seguiranno, piuttosto che al modello politico leninista, dove dominano il tema dell’estinzione dello Stato, di una transizione come fase di riappropriazione e trasformazione da parte del proletariato dei poteri dello Stato, e la volontà di creare una società senza classi. È ben vero che Tronti attenua, avanzando nella sua distruzione della tradizione comunista, quest’assegnazione di Lenin all’autonomia del politico. L’autocritica trontiana (fosse tale! Si presenta invece sempre come superiore potenza di verità) – l’autocritica sembra cambiare terreno. La mitologia dopo la teoria, l’ascesi dopo la mistica: “Il marxismo del XX secolo, nella forma del leninismo, è molto filosofia della mitologia”. Benvenuta comunque questa modificazione. Estremamente pericoloso era avanzare sull’idea di un Lenin dedito all’autonomia del politico poiché in ciò è implicito un forte accento di revisionismo storico. Dopo Lenin uguale a Bismarck, viene Lenin uguale a Hitler, idea del tutto accettabile per Schmitt – ma da noi davvero no.

Il riferimento al trascendentale politico, tipico della patologia statalista novecentesca, Ahi, quali lutti addusse agli Achei!, ha d’altronde fatto il suo tempo. Nel mondo globalizzato, ogni reminiscenza statalista è destinata a piegarsi al sovranismo, all’identitarismo, e rinnova derive fasciste, mentre la figura dello Stato impallidisce nel contesto della globalizzazione. Ben lungi dal riapparire come soggetto autonomo, lo Stato assume un ruolo subordinato nel “gioco globale del tasso di profitto”. Come dicono altri compagni tutt’ora operaisti: “Sicché si può ben concludere che lo Stato non è oggi sufficientemente potente nei confronti del capitalismo contemporaneo. Al fine di riaprire una prospettiva politica di trasformazione radicale è assolutamente necessario qualcosa d’altro, una differente sorgente di potere” (Mezzadra-Nielson, The Operations). Ecco dove la prospettiva operaista, quella che Tronti ci ha regalato e che da parecchio tempo rifiuta, può aiutarci. Se la mia lettura del volume si ferma dunque al suo primo terzo, non è detto che proprio di lì, da quel primo terzo, non si possa nuovamente procedere alla scoperta del politico marxiano.

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Comments

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ernesto rossi
Tuesday, 23 April 2019 14:02
TU, che hai demolito intero Impero trasformandolo in litote, con le due ultime righe, dedicate a S. Francesco... La verità è che neanche a più di ottanta anni entrambe non avete il coraggio di un Robert Kurz! E' comunque ci vuole una bella faccia tosta a non ammettere oggi, quel che Tronti di disse ieri, a ragion veduta.... Sì, si trattava di un tramonto non di un'alba! Ammesso che non lo volevi capire all'epoca, adesso come fai? Lascio sotto un pezzo di Mario Tronti, che ritengo opportuno.
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ernesto rossi
Tuesday, 23 April 2019 13:56
fare società con la politica

27 giugno 2008
Il senso di questo impegnativo titolo, che tuttavia sembra
avere per me una sua immediata chiarezza, si ricaverà dal
giro del discorso. Però prima vorrei inquadrarlo nel contesto
di una contingenza. Mi è capitato più volte di sostenere che
la politica, o meglio la politica moderna, è nient’altro che
il possesso strategico della congiuntura. Il fatto che oggi si
pensi che si possa fare a meno di questo è causa non ultima
dell’attuale decadenza della società umana.
E allora vorrei dire subito una cosa. Questo è un mo-
mento favorevole. Perché c’è un passaggio di fase. Non di
epoca. Non è concesso al nostro tempo di vivere un’epoca.
Dobbiamo accontentarci delle fasi. Del resto, le epoche sono
rare, arrivano all’improvviso, spezzano il continuum storico,
mettono il mondo fuori dai cardini e da lì tutto ricomincia.
Poi vengono i tempi normali, lunghi, interminabili, in cui
invece tutto si riassesta, si riordina, si riequilibra. E non
succede più niente. Il meglio che ti può capitare è un 1968.
Tutto il resto è peggio. E un 1648, un 1789, un 1917, cioè
i momenti, lì intorno, in cui si tagliano le teste dei re, beh
quelli, beato chi ha la fortuna di viverli.
Ora, a parte questa parentesi di filosofia della storia, in
che senso cambia la fase? Per capire, credo che dobbiamo
mettere a tema le «convergenze parallele», tra le due transi-
zioni che hanno occupato l’ultimo ventennio: la transizione
di sistema politico, e la transizione di organizzazione della
sinistra. Il discorso sul ventennio è essenziale e pensiamo di
farlo in un appuntamento ad hoc. Se è vero che la transizione
Relazione tenuta all’assemblea annuale del Centro per la Riforma
dello Stato il 27 giugno 2008 e successivamente pubblicata in «Non si
può accettare», Roma, Ediesse, 2009, pp. 97-111, dal quale riportiamo la
presente versione.
623italiana si è chiusa, o si va chiudendo – ma questo è tema
di discussione – a destra, dobbiamo chiederci se è proprio
vero che la transizione della sinistra italiana si è chiusa, o
si va chiudendo, sul centrosinistra.
O se non ci sia un’altra opzione. Questo è il tema di
riflessione che si propone qui.
Un anno fa proponemmo un Laboratorio di cultura
politica a sinistra, con l’intento di tenere il filo di un rap-
porto tra le varie anime della sinistra, a livello appunto di
lavoro culturale che, non ho mai capito perché, viene in
genere sospeso quando si assume una funzione di governo.
Il mutamento di fase consiglia, secondo me, una correzione
d’accento. Il Laboratorio di cultura politica deve diventare,
provvisoriamente, un Laboratorio di politica.
Del resto, il confine tra politica e cultura politica è un
filo sottile, che appena appena si scorge. E ci vuole arte per
attraversarlo di qua e di là, senza calpestarlo, a seconda dei
bisogni del momento.
Io non ho nulla contro quella che spregiativamente si
chiama politique politicienne. La vera politica è sempre solo
politica e non tutte le altre cose assai più belle che le si
vogliono appiccicare addosso. Il difetto sta non nella forma
della prassi politica ma nella qualità del ceto politico. È
questa soprattutto e prima di tutto che bisogna restaurare.
Credo che adesso sia il momento di un’iniziativa tutta
politica. Questo è, con la necessaria modestia, il senso
dell’uscita con le Undici Tesi 1 . La necessità di portare a
compimento la «nostra» transizione detta, essa, l’ordine del
giorno ai temi di cultura politica.
C’è allora un compito immediatamente politico, che
personalmente sento dettato da un’etica della responsabilità,
più che da un’etica della convinzione, che ci impone, nel
tempo medio, cioè in un tempo né breve né lungo, di porci
l’obiettivo di chiudere il dopo 1989.
1
[All’indomani delle elezioni italiane dell’aprile 2008, l’esecutivo del
Centro per la Riforma dello Stato, diretto da Tronti, aveva elaborato una
riflessione sulla nuova fase politica, condensata in un testo intitolato
Undici tesi dopo lo tsunami].
624Questa può essere la dodicesima tesi – queste tesi con-
sideriamole in progress – e integriamo, aggiungiamo, sop-
primiamo, in un lavoro collettivo, da laboratorio appunto.
Chiudere il dopo 1989 vuol dire superare la diaspora che
ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla
unitariamente, in grande, in avanti. Questa è la tesi e vediamo
adesso – sinteticamente – quali condizioni sono intervenute
che rendono possibile questo passaggio.
Il passaggio di fase corrisponde a un passaggio di ciclo.
Viviamo in una struttura-mondo e dentro questo ordine delle
cose dobbiamo ragionare. Sta sotto i nostri occhi l’esauri-
mento del ciclo neoliberista. Che lo sviluppo capitalistico
abbia un andamento ciclico, come ci avevano insegnato i
maestri, da Marx a Schumpeter, ce lo siamo dimenticato. E
invece la soluzione neoliberista è stata assolutizzata, come
fosse l’approdo definitivo della storia del capitale. Non a
caso è intervenuto lì quell’apparato ideologico che è andato
sotto il nome di «fine della storia», dopo la sconfitta del
socialismo.
Il ciclo, che è partito dalla Trilaterale, si è espresso nelle
politiche thatcheriane e reaganiane, ha occupato gli anni
Ottanta, ha impiantato una globalizzazione selvaggia in nome
del primato dell’economia, e di una economia finanziarizzata,
volge al termine, o no? Discutiamone. Io vedo i segni di
un ritorno di primato della politica, in nome dei bisogni di
sistema, in presenza di un rallentamento dello sviluppo e
di una perdita di competitività, non di questo o quel paese,
ma dell’intero occidente rispetto a un resto del mondo, che
comincia a sfuggire alla sua egemonia.
La nuova destra riparte da qui.
C’è stato un segnale premonitore, che noi, sinistra, come
al solito, per pigrizia intellettuale, non abbiamo colto. È stata
l’emergenza neo-con negli Usa. Io l’ho guardata con grande
interesse. Un’emergenza breve nella durata ma durevole
nelle conseguenze. Noi abbiamo visto il Bush della guerra,
ma quella guerra, meno dettata da interessi economici e più
preoccupata degli spazi geopolitici, era una forma di ritorno
del primato della politica visto da destra. Questo dicevano
l’enduring freedom, l’esportazione della democrazia, la guerra
625permanente, che scimmiottava la rivoluzione permanente, e
così portava pezzi di cultura europea dentro la Casa Bianca.
Insomma, se la svolta neoliberista era partita dal Rap-
porto della Trilateral, la svolta neoconservatrice parte dal
libro di Huntington sullo scontro di civiltà, un grande libro
di cui si è letto spesso solo il titolo, senza cogliere l’analisi
della nuova geopolitica 2 . Di lì è ripartito un episodio di
rivoluzione conservatrice. E la rivoluzione conservatrice
ha anch’essa un andamento ciclico dentro la modernità
capitalistica: e segna sempre una rivendicazione della logica
del politico sulla logica dell’economico. E non è reazione,
come semplice ritorno al passato, è restaurazione moderniz-
zatrice, è, secondo una formula molto felice, «modernismo
reazionario».
Questa è la destra permanente nel Moderno, prodotto
genuino della forma permanentemente rivoluzionaria del
capitalismo. Ma allora non bisogna ridurla alla momentanea
irruzione delle soluzioni totalitarie. Questa rozza identifi-
cazione è, sì, essa, un lascito del Novecento. Come ben
sapete, tutti vogliono uscire dal Novecento. C’è una ressa a
chi guadagna prima l’uscita. Poi accade questa cosa strana:
che i più vogliono uscire dalle cose giuste del Novecento,
rimanendo nelle sue cose sbagliate. Sbagliata è oggi – oggi
non ieri – questa riduzione della destra a fascismo.
Nel 1994 «Democrazia e diritto», la rivista del Centro per
la Riforma dello Stato, pubblicò un fascicolo monografico
sulle destre. Lì c’era il saggio di un ricercatore storico del
Crs. Pasquale Serra, un uomo di grande spessore intellettuale
ed umano – e vi assicuro, per lunga esperienza degli esseri
umani, che tenere congiunti in una persona spessore intellet-
tuale e spessore umano è cosa molto molto rara –, un saggio
dal titolo Destra e fascismo. Impostazione del problema, in cui
si leggono all’inizio queste parole: «È stata la connessione
2
Cfr. S.P. Huntington, M.J. Crozier e J. Watanuki, La crisi della
democrazia. Rapporto alla Commissione trilaterale (1975), traduzione di
V. Messana, Milano, Franco Angeli, 1977; S.P. Huntington, Lo scontro
delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), traduzione di S. Minucci,
Milano, Garzanti, 1997.
626fascismo-passato (e destra-fascismo) a dissolvere la destra
come oggetto significativo di conoscenza» 3 . Se allora furono
parole inascoltate, adesso è il momento di ascoltarle. E chi
ha dissolto la destra come oggetto specifico di conoscenza?
Si rispondeva lì, con questa ipotesi di lavoro: «è stato il
nesso che la cultura azionista ha istituito tra antifascismo e
modernità e tra fascismo e tradizione» 4 .
La cultura azionista ha recato seri danni, soprattutto
qui in Italia, al pensiero, e purtroppo non solo al pensiero,
del movimento operaio.
Nel dopo 1989 si è conquistata quell’egemonia che la
forza del Pci le aveva giustamente negato.
È emerso un apparato ideologico in cui il berlusconismo
ha fatto le veci del fascismo. Del tutto offuscando e nascon-
dendo, come è proprio delle ideologie, la realtà delle cose.
A una destra per vocazione premoderna si voleva con-
trapporre una sinistra per vocazione moderna.
Di fatto invece abbiamo vissuto una campagna elettorale
in cui la prima forma di bipartitismo quasi perfetto ha visto
una destra moderna e una sinistra postmoderna.
Il leggio di Spello e l’Arcobaleno: due metafore di una
sola sconfitta.
Quella realtà delle cose si potrebbe dire in tanti altri
modi: una destra concreta e una sinistra astratta, una destra
pesante e una sinistra leggera, una destra realista e una si-
nistra ideologica, una destra dei bisogni e una sinistra dei
diritti, una destra sul territorio e una sinistra nelle piazze,
una destra storica e una sinistra senza storia.
Messa così, non c’era partita.
So che cosa state pensando: la solita sopravvalutazione
dell’avversario. Ma quando diciamo destra, non ci deve venire
in mente Berlusconi, i suoi affari privati e l’Italietta che lo
segue. Dobbiamo fare il punto sull’attuale fase politica, di
crisi/sviluppo, del ciclo capitalistico. E lì andare a capire il
recupero di questo solido consenso a destra.
3
P. Serra, Destra e fascismo. Impostazione del problema, in «Demo-
crazia e diritto», 1, 1994, p. 5.
4
Ibidem, p. 4.
627Mauro Calise ha parlato dell’eclissi del voto razionale, e
dell’emergere di un voto carismatico macropersonale. Aldo
Bonomi ci ha richiamato a quegli elementi prepolitici (stress,
spaesamento, insicurezza, rassegnazione) che spostano i
livelli di autorappresentazione dalla coscienza di classe alla
coscienza di luogo.
È vero, sono tendenze reali: la destra può permettersi di
solo rappresentarle, la sinistra deve contrastarle, alla radice,
intervenendo sulla condizione sociale di massa.
Il problema non è di radicarsi nel territorio, ma di cam-
biare il territorio. Una città, una provincia, una regione, sono
la stessa cosa che il paese: non si amministrano, si governano.
Fare società con la politica è direzione orientativa dei
processi. È un lavoro di ardua progettazione e difficilissima
esecuzione. Presuppone un ceto amministrativo e un ceto
politico di alta qualità. La rete di Fondazioni, che si va pro-
filando, riapra il grande capitolo della formazione politica.
Il ricambio generazionale, va bene. Ad una condizione: che
nei fatti, nel pensiero, nella parola, nella consistenza umana,
i figli si mostrino migliori dei padri.
Lavoro arduo per ragioni più di fondo. C’è un passaggio
nelle Tesi che non sarà sfuggito ai lettori più attenti. Diceva:
la destra corrisponde di più e meglio al lato oscuro dell’a-
nimo umano. Miei cari, è così. Il buco antropologico, che il
marxismo ci ha lasciato, non lo riempiremo raccontandoci
la favola borghese-progressista dell’individuo sovrano.
L’homo oeconomicus descrive ancora benissimo la sostan-
za di questo individuo neutro, neutro, perché, purtroppo,
è senza differenza. La foemina oeconomica è lì, non solo
simbolicamente, alla presidenza di Confindustria, ma diffusa
nella società civile, in queste insopportabili donne in car-
riera, che non contestano, ma esercitano il potere maschile.
E l’homo democraticus descrive benissimo questa figura
nostra contemporanea del cittadino-massa, la moltitudine
che partecipa al rito delle primarie, credendo di contare,
ma in realtà essendo solo contata.
Insomma, quella società civile, che la modernità ci aveva
realisticamente presentata come sistema dei bisogni, la post-
modernità ce la ripresenta ideologicamente come non-luogo
628dei desideri. E allora, al brusco risveglio, ecco che riparte
il lamento: non conosciamo più questa società.
E il discorso finisce lì. E lì rimarrà, finché non si
procederà dicendo: non conosciamo più la struttura della
società perché manca la forma dell’organizzazione politica:
organizzazione del conflitto sociale, della lotta politica, della
battaglia culturale, organizzazione del governo. Perché,
quando acquisiremo l’idea che governo non è gestione, ma
è direzione, cioè forma istituzionale di organizzazione del
sociale? Attenzione: su questo punto delicato insistono due
diversità: una diversità di forma tra sinistra e nuova destra
e una di sostanza tra sinistra e centro-sinistra.
Questa destra risolve, dove può, la decisione in una
verticalizzazione istituzionale. Il populismo/leaderismo pre-
ferirebbe convertirlo in un populismo/presidenzialismo. Per
noi il problema è di garantire la decisione entro un circuito
istituzionale e, direi, qui conta la nostra particolare vocazione,
anche dentro un circuito sociale, passando a ridisegnare una
mappa di corpi e poteri intermedi, non come concessione
al locale, ma come sussunzione di territori e di interessi a
livello centrale.
Credo sia venuto il tempo di lavorare a proporre noi,
da sinistra, la grande riforma costituzionale.
Il nostro modello dovremmo farlo girare intorno al perno
di un decisionismo senza presidenzialismo.
Come assicurare una decisione politica che non abbia
bisogno di una forma istituzionale verticalizzata. Che è lo
stesso problema di ripensare una forma della rappresentanza
non personalizzata. Che è poi lo stesso problema di libe-
rarci dal fascino delle parole nuove e vuote – governance,
governamentalità – e riacciuffare il tema serio e classico del
governo politico dei processi.
Qui c’è il grande tema delle élite, l’unica cura ancora
a nostra disposizione, se riusciamo a ritrovare i luoghi e
i tempi della loro selezione, contro queste malattie della
politica che sono populismo e leaderismo.
Io credo che la grande tradizione giuridica europea,
l’eredità di quel monumento storico che è stato lo jus pu-
blicum europaeum, e non solo, quella filosofia del diritto
629che va da Roma a Weimar, abbia ancora molto da dire se
la smette di parlare in inglese, cioè se la finisce di pensare
che modello Westminster e Washington consensus siano
soluzioni universali.
Ecco, dopo il Novecento: riprendo, brevemente, que-
sto tema, a me molto caro. Per una considerazione, a cui
riflettevo, proprio in questi giorni.
Il passato che non passa, e come, con quali forme, con
quali idee, fare in modo che passi: questo è un nostro tema. Il
problema della tradizione è problema politico per eccellenza. segue sotto
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ernesto rossi
Tuesday, 23 April 2019 13:35
Abbiamo imparato dal Novecento che i residuati bellici
politico-ideologici rimangono sul terreno, nascosti, molto
più a lungo delle realizzazioni sociali o istituzionali. Le
forme crollano, a volte rapidamente, e invece, non tanto le
idee, ma qualcosa di più profondo, forse di più inconscio,
gli attaccamenti, le abitudini, i comportamenti, quelli che
Tocqueville chiamava i costumi, resistono e sopravvivono.
Si credeva, dopo il 1991, che si stabilizzasse una struttura
internazionale unipolare. Questo l’ha creduto il Dipartimento
di Stato e l’ha fatto credere al movimento no global. Non
è andata così. Da una struttura bipolare si è passati, si sta
passando, a una struttura multipolare. Che è il fenomeno
più interessante che sta sotto i nostri occhi. L’unica luce
che attualmente si accende per il pensiero politico. Visto
che dall’interno dei nostri singoli paesi siamo praticamente
a luci spente.
Il passaggio attraverso il socialismo in soli paesi non
è stato recuperato pacificamente dentro una storia eterna
del capitalismo-mondo. Non c’è stata semplice integrazio-
ne, come poteva apparire nell’immediato dopo 1989. Il
«secondo mondo» non si è dissolto, si presenta in altro
modo. Lì non si è ripartiti dal prima, si è ripartiti dal dopo.
Non si ritorna mai al prima, o meglio mai al prima della
contingenza storica, mentre si torna al prima dell’eterno
ritorno della storia, quello che porta in corpo le regolarità
della politica. Ed è iniziato quello che è stato chiamato il
nuovo «grande gioco».
Il passaggio «ideologico» attraverso il socialismo ha
ridepositato un livello diverso, a scala allargata, di politiche
630di potenza. E attraverso questo una diversa divisione del
mondo, non più bipolare, ma multipolare.
La mia idea è che noi, sinistra, italiana ed europea, do-
vremmo attrezzarci per una politica su due livelli: usando
metafore gramsciane, una guerra di posizione sulla scena
del paese e del continente, una guerra di movimento sullo
scenario mondiale.
Perché Russia e Cina non sono integrabili in un ordine
internazionale a egemonia unica? Primo: perché lì c’è stato
un evento rivoluzionario, scaturito dall’interno delle loro
viscere. Secondo: perché sono grandi spazi, e grandi numeri.
Mai dimenticare questo. Terzo: perché portano una storia di
lunga durata, nazionale, statuale, imperiale, civiltà abituate,
esse, a una posizione egemonica.
La globalizzazione economico-finanziaria produce
politica-mondo, o è da essa prodotta, o, come è probabile
ma non sicuro, si producono in reciproco contemporanea-
mente? Sta di fatto che noi, eredi eretici del marxismo, non
riusciamo a decifrare il nomos della terra.
Di fronte all’emergere del Bric – Brasile, Russia, India,
Cina – possiamo solo sapere che se il tramonto dell’occi-
dente ha prodotto nel Novecento grande cultura, dopo il
Novecento dovrebbe produrre grande politica.
Ma, ecco, che cosa voglio dire, con questo discorso ap-
parentemente divagante su destini che non sono certo nelle
nostre mani? Voglio dire una cosa semplice, conclusiva. Non
possiamo fare tutto, possiamo fare solo certe cose.
Marx diceva: sono gli uomini che fanno la storia. E
noi, dopo che abbiamo corretto dicendo: sono gli uomini
e le donne che fanno la storia, dobbiamo però comunque
continuare la frase: ma la fanno in condizioni determinate.
Bisogna riappropriarci di tutta intera questa verità.
Io non credo che esista una verità assoluta, valida per
tutti. Credo che esistano delle verità assolute valide per al-
cuni, per molti, anche per uno solo. Verità assolute di parte:
che tu devi acquisire e coltivare e difendere e sviluppare. Io,
dicono che faccia il filosofo. Ebbene, ho sempre considerato
come assoluta, per me, la verità che i filosofi non devono
limitarsi a interpretare il mondo, ma devono interpretarlo
631per cambiarlo. Come vedete, la professione di relativismo
la lascio volentieri ai girotondi di «MicroMega».
Credo che tra i compiti più attuali della sinistra ci siano
oggi quelli di ritrovare e ridare alcune certezze, mettere dei
punti fermi, offrire segni di orientamento, riprendersi un
senso di affidabilità, basato sulla durata, sulla consistenza,
sulla serietà, sulla profondità.
Va superato questo gap che si è formato tra una perma-
nenza della pulsione di destra e l’effimero di una ragione di
sinistra. Pensate a quanti nomi e simboli abbiamo cambiato
in questi vent’anni, anche nell’offerta elettorale. E potrete
registrare il senso di disorientamento permanente che questo
ha provocato.
Io sbaglierò, ma è più di un’impressione quella che ho e
cioè che l’esaurirsi del ciclo neoliberista e il riemergere di una
destra identitaria va a costringere la sinistra a chiudere questa
fase di innamoramento, subalterno, al leggero, al transitorio, al
mediatico, al virtuale, e la costringa, se non vuole continuare
a perdere, a ridefinirsi, sì, ma soprattutto a ricollocarsi, a
ristabilirsi, anzi, a ristabilizzarsi. La metafora, mitologica, del
passaggio da Proteo ad Anteo, questo voleva dire.
La nuova fase, neoconservatrice e neomodernizzatrice,
della destra ha seppellito le due opzioni dominanti nella
sinistra del dopo Novecento: un dopo Novecento precoce,
perché cominciato nei due decenni finali. Due opzioni
creative, ognuna, di un consistente apparato ideologico.
L’una è il governo della Terza Via, l’altra è il movimento
no global, o new global.
Il blairismo, con il suo intellettuale di riferimento
Anthony Giddens, e con sullo sfondo il clintonismo, ricor-
diamolo, non era la classica terza via tra socialdemocrazia
e comunismo, o tra capitalismo e socialismo, era la terza
via tra sinistra e destra. Una scelta che credeva di essere
un intelligente centrismo, pensate alla Mitte di Schroeder,
finita coerentemente nella grosse Koalition. La competizione
era su chi sarebbe stato capace di gestire meglio il ciclo
neoliberista, visto, ripeto, come l’approdo definitivo della
modernizzazione e della globalizzazione. Una scelta subal-
terna con pretese egemoniche.
632Non era di fatto meno subalterna, malgrado i simpatici
toni antagonisti, l’opzione della generosa contestazione
movimentista. Quell’inseguire sulle piazze gli spostamenti
dei summit delle organizzazioni economiche e finanziarie
mondiali, per scomparire subito dopo, presenti spettaco-
larmente davanti ai capi e assenti materialmente davanti ai
poteri, era la simbologia di un rapporto di forze dramma-
ticamente squilibrato.
C’è una diversità di fondo tra le due opzioni. Quella
governativa ha prodotto grigi ceti politici amministrativi
e gestionali. Quella movimentista ha visto uno splendido
materiale umano politicamente sprecato.
La prospettiva di ricostruzione di una Grande Sinistra,
ripeto gli aggettivi, moderna, critica, autonoma, autorevole,
popolare, vuole saltare oltre questi ostacoli.
Si capisce se stessi attraverso la conoscenza dell’avver-
sario che si ha di fronte. Io ho una provvisoria definizione
dell’attuale destra, che vi invito a discutere: destra demo-
cratica illiberale. Una definizione compatta, che andrebbe
sciolta, per essere utilizzata. Quello che non si può fare è
semplicemente rovesciarla, come abbiamo fatto, presentan-
doci come sinistra democratica liberale. Non bisogna mai
essere solo anti, bisogna costringere l’avversario ad essere
solo anti. Questo decide su chi ha in mano l’iniziativa. E
chi ha in mano l’iniziativa, salvo eccezioni, di solito vince.
Guardate come è vivo e vegeto ancora l’anticomunismo.
Il comunismo, anche dalla tomba, costringe i capitalisti ad
essere anticomunisti. Perché? Perché è stato un grande
soggetto del Novecento. La sinistra deve tornare ad essere
una forza con cui bisogna fare i conti.
E certo il tema della libertà deve declinarlo in proprio.
Non prenderlo dal bagaglio liberale e nemmeno da quello
democratico. Ma riscoprirlo dalla tradizione socialista e comu-
nista e da quella cristiana, tutte tradizioni non borghesi della
libertà umana. Ma qui freno, per non andare a sbattere. So
che in questo discorso mancano molte cose, alcune mancanze
volute, altre dimenticate. Io non sono in grado di declinare una
sinistra, come si dice, plurale. Mi mancano delle competenze,
delle conoscenze, delle sensibilità. Invito altri però a farlo.
633C’è ad esempio il tema delle nuove culture. Ma mi diceva
ieri Fulvia Bandoli: non è che poi queste culture siano nuove,
il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo hanno ormai
qualche decennio di vita. Allora non chiamiamole culture
nuove, chiamiamole culture altre, rispetto alla tradizione
del movimento operaio.
C’è un bell’intervento di Peppe Allegri, nella discussione
sulle tesi che guarda queste cose da un altro punto di vista,
che è quello della generazione degli anni Settanta, quella
generazione che ha scartato violentemente dalla nostra storia
e non l’abbiamo più recuperata. È quella cultura metropoli-
tana, così vicina al sentire dei giovani d’oggi e così lontana
dalle nostre abitudini e dalle nostre frequentazioni. Guai a
farsi scappare lì la parola Partito. E dunque bisogna spiegarsi,
perché contro quella parola c’è adesso una santa alleanza
di tutte le potenze, nuoviste e reazionarie, dell’antipolitica.
Anche le culture altre devono però ricollocarsi nella
nuova fase. E prendere l’iniziativa di mettere i piedi nella
congiuntura.
È una raccomandazione che farei in particolare al fem-
minismo della differenza, che tra quelle culture è quella che
sento più vicino, per quanto mi ha dato di spunti, di idee,
di scoperte. Mi pare di scorgere una similitudine tra la sua
situazione e la situazione attuale della sinistra. Anche se
la rivoluzione femminile eccede il problema della sinistra.
Ma, ecco, vedo un’analoga crisi di consenso. Un isola-
mento e un’autoreferenzialità, che non arriva quasi per nulla
al sociale e prende spesso il politico per il lato sbagliato,
rivendicando un criterio di quantità, invece che fare perno
su uno specifico di qualità, che sarebbe invece reso possi-
bile dalla ricchezza culturale dell’elaborazione. E cioè una
potenzialità non espressa e quasi repressa. E il motivo mi
pare stia nella stessa difficoltà della sinistra a tenere tra le
dita il filo fra tradizione e innovazione.
Il passo indietro per saltare in avanti non è stato molto
apprezzato. È scattata la sindrome progressista, che è stata
la matrice comune della sinistra, di quella rivoluzionaria e
di quella riformista. La fiducia nelle magnifiche sorti della
storia mi ha sempre fatto pensare a quella vignetta con
634l’ubriaco romanaccio attaccato al lampione che diceva: se
er monno gira, casa mia deve passa’ qua davanti.
Ho trovato citata una frase di Enzo Paci, un moderno
fenomenologo, scritta per il terzo Catalogo della casa edi-
trice Il Saggiatore, una frase di eco benjaminiana. «La vera
novità è un passo verso il passato e la vera comprensione
del passato è un passo verso l’avvenire» 5 .
Vi ricordate quando Vittorio Foa teorizzò la mossa del
cavallo. L’abbiamo fatta. Non mi pare che abbia funzionato.
Forse dobbiamo rifare la mossa della torre: riprendere la
strada diritta e lunga.
La cosa che lascerei in dubbio è se fare un grande partito
della sinistra o un partito della grande sinistra.
5
E. Paci, Nulla di nuovo e tutto di nuovo, in Il Saggiatore, Catalogo
n. 3, Autunno-inverno 1959-1960, Milano, Il Saggiatore, p. 16 [cfr. Il
Saggiatore 1958-2008, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 21].
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