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David Harvey, “Geografia del dominio”

di Alessandro Visalli

harvey fbQuesto piccolo libro di David Harvey raccoglie estratti di “Space of capital: towards a critical geography” del 2001 e contiene un efficace riepilogo di un modello interpretativo del capitalismo unito ad un interessante tentativo di sistematica estensione di questo alle determinanti spaziali. Lo sfondo principale nel quale il libro si colloca è una riflessione sulle meccaniche e le conseguenze del passaggio dal “fordismo” (ovvero catena di montaggio, organizzazione politica di massa e intervento dello stato sociale) alla “accumulazione flessibile” (definita come insieme del perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale della produzione, del ritiro dello Stato-nazione da politiche interventiste, insieme a deregolazione e privatizzazioni). Una transizione alla quale è connessa, come sostiene nella prima parte del testo, quella alle forme postmoderne di pensiero. Ovvero al culto dei frammenti, la perdita della ricerca della verità, e via dicendo.

Questa transizione riguarda l’ampliamento della normale tendenza del capitalismo all’accelerazione e alla riduzione delle barriere spaziali, ovvero a quella che chiama “compressione spazio-temporale” (telecomunicazioni, trasporto con i cargo, containerizzazione, mercati finanziari, information technology, …). Il punto centrale dell’esposizione è che questa accelerazione pone in particolare rilevanza le “rendite di monopolio[1], ovvero quel valore che può essere estratto dal possesso di caratteristiche distintive e speciali. Tutti quei flussi di reddito che possono essere ottenuti grazie ad un controllo esclusivo su un oggetto negoziabile che, però, non sia per qualche ragione replicabile (almeno facilmente). Oppure (effetto indiretto), per le caratteristiche uniche di qualcosa che non viene direttamente commercializzato (ad esempio, il paesaggio senese).

 

Inquadramento dei temi e premessa

La trattazione di David Harvey parte dai suoi studi urbani di quegli anni e mette in relazione l’incipiente accelerazione della globalizzazione, sulla quale in quegli anni si dibatteva insistentemente anche nelle scienze del territorio[2]. La sua argomentazione parte dalla necessità interna alla compressione spazio-temporale ed al superamento dei vincoli posti dallo spazio (luogo della particolarità e del potere) da parte dell’appropriazione del tempo. Quindi alla dinamica tra concorrenza e monopolio, tanto più stretta e intima di quanto si pensi normalmente (in particolare per il trattamento ideologico che si fa dell’idealtipo della ‘concorrenza’ in ambito liberale). La dialettica reale non è tra concorrenza e monopolio, ma tra diverse scale spaziali dei secondi, da questa considerazione, articolata alla scala opportuna e messa in relazione con due unità di analisi connesse come vedremo, scaturisce una lettura delle dinamiche geopolitiche particolarmente robusta e soprattutto internamente coerente.

Harvey connette questo discorso con le dinamiche di sfruttamento delle caratteristiche uniche dei diversi territori e con la “dialettica spazio-luogo” (vero must di quegli anni), ma anche con una spiegazione della necessità di cicli di investimento ripetuti per effetto della causalità circolare e cumulativa che si tratta di attivare. Ma per comprenderlo allarga lo sguardo alla relazione tra il “modo di produzione” capitalista e la sua costante e necessaria generazione di eccedenze (di capitale e forza lavoro principalmente) e la necessità per queste di trovare sbocchi in dislocazioni territoriali, in un modello di crescita a spirale il cui effetto più importante è rendere più fluida la circolazione del capitale (e quindi il tempo socialmente necessario per il suo realizzo). Questa crescita è fortemente innestata sulle ‘macchine territoriali’ (che producono accumulazione per effetto della meccanica della rendita) e genera una forte causalità cumulativa. Il rischio è che si arresti e si avvii una spirale opposta di svalutazione di investimenti e forza lavoro (ma anche umanità).

Questa è la matrice delle contraddizioni sulla quale si concentra il geografo e sociologo marxista americano (come noto allievo del filosofo e studioso urbano Henry Lefebvre). La reazione normale del modo di produzione capitalista è di trovare una “soluzione spaziale” esportando le eccedenze di capitale e forza lavoro.

Ma qui si incontra un problema analitico proprio dentro, e profondamente, la tradizione marxiana. Il modello analitico originario è strutturalmente costruito intorno allo sfruttamento del tempo, ed è in seria difficoltà ad inquadrare le caratteristiche ed i funzionamenti spaziali. Questa linea di scontro si incontra continuamente, tra chi vede ovunque ripetersi fondamentalmente la stessa dialettica in rapporto al tempo dello sfruttamento (quella tra classi identificate in relazione alla loro relazione con il tempo, l’estrazione del tempo di lavoro, la sua funzionalizzazione ed appropriazione), e chi focalizza lo sfruttamento di luoghi verso altri. Si tratta dello scontro tra la tradizione del “marxismo occidentale” ed “orientale” (secondo quanto proponeva Losurdo) o tra Marx e Lenin. Lo scontro, dice Harvey, tra “due retoriche dello sfruttamento”. Ci sono tante questioni che vengono evocate da questa frattura, la questione dello Stato, della dialettica centro/periferia, dello ‘sviluppo del sottosviluppo’, della geopolitica e dell’imperialismo.

A questo punto nasce il tema di creare un’interpretazione dello sviluppo geografico, e delle relazioni spaziali, connesse internamente con le dinamiche dell’accumulazione ed a queste necessarie. Una teoria che possa spiegare anche il modo caratteristico di espressione dell’imperialismo nella fase della globalizzazione a guida anglosassone. Lo spostamento del focus analitico si sposta verso la dialettica tra i territori, senza perdere la comprensione della connessione con la lotta di classe entro questi.

La tendenza ad “annientare lo spazio attraverso il tempo” acquista tutta un’altra luce. Soprattutto se si comprende che lo spazio è sempre particolarità e che serve organizzazione spaziale per superare lo spazio stesso. Può sembrare un gioco di parole, ma è semplice ovvietà: qualunque processo di valorizzazione è fatto di connessione, e la connessione ad un livello di maggiore efficienza richiede sempre investimenti. La valorizzazione è dunque rapporto tra le possibilità date dalla organizzazione dello spazio e le decisioni di localizzazione, di spostamento. La continua tendenza alla riduzione del saggio di profitto, determinata dalla cattura dei monopoli locali in una rete di interdipendenze, che Harvey chiama “coerenza strutturata”, è quindi superata dalla controtendenza ad attraversare e rompere gli “spazi regionali” (questa è la coppia analitica strutturante). Questa è una tendenza interna del capitalismo, e porta continuamente a cercare nuovi sbocchi alle eccedenze (capitale e lavoro), determinando un’instabilità cronica.

Gli “spazi regionali” sono luoghi nei quali persiste, con qualche stabilità, in modo da consentire di esplicarsi alla rotazione socialmente necessaria del capitale e quindi alla valorizzazione, una ‘coerenza strutturata’. Ma perché questo sia possibile sono sempre anche luoghi di una ‘alleanza di classe’ con qualche stabilità, normalmente organizzata attraverso le forme statuali. Questa lettura consente di distinguere sistematicamente tra un ‘dentro’ ed un ‘fuori’. Le ‘alleanze di classe regionali’ distribuiscono beni e privilegi, consolidano un potere, attivano forme di solidarietà comunitaria, e competono. Come scrive, “i processi globali di lotta di classe sembrano dissolversi sotto i nostri occhi in una varietà di conflitti interterritoriali. Lenin aveva ragione”. Da quelle più riuscite vengono proiettate eccedenze (di capitale, tecnologia, lavoro) necessarie per conservare la stabilità interna ed evitarne la svalutazione (per sovrapproduzione), e determinano dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi costantemente economie subalterne, coerenze strutturate incomplete (perché dipendenti) e “alleanze di classe” nelle quali quelle superiori sono di fatto estese a livello inter-nazionale. Ovvero crea imperialismo.

 

Competizione e monopolio

Partiamo dal fatto che c’è sempre una certa tensione potenziale tra il fatto che un bene sia ‘unico’ ed il suo sfruttamento commerciale, come anche la sua replica da parte del mercato. Inoltre, se è vero che la competizione tende sempre al monopolio (essendo una lotta, e il monopolio il suo premio) allora bisogna aver ben presente che la liberalizzazione tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario. Questo è un punto capitale, facilitare le comunicazioni e la “compressione spazio-temporale” tende normalmente alla creazione di monopoli più grandi, di tipo globale. Dunque la pura concorrenza ed il libero scambio sono strutturalmente instabili, e questo avviene a tutti i livelli. Se si comprende il contesto spaziale nel quale si realizzano i processi si vede che anche i piccoli esercizi economici “competitivi”, in effetti, riescono ad essere redditivi grazie allo sfruttamento di protezioni e privilegi, sono in effetti piccoli monopoli locali. Protezioni e privilegi determinati dalla struttura dello spazio (ovvero dall’attrito che questo comporta per chi non sia in una data posizione). Si può dire in modo abbreviato in questo modo: solo il monopolio giustifica il profitto e quindi, in condizioni capitaliste, l’esistenza di un’offerta. In condizioni realmente competitive (che sono un idealtipo) il profitto scompare e quindi anche il mercato stesso (riducendosi di fatto ad un processo di dono nel quale viene a mancare la componente di costrizione necessaria alla estrazione di valore dallo scambio).

È allora che la tendenza, propria del capitalismo globale, “all’annientamento dello spazio attraverso il tempo” si manifesta per la sua forza; la condizione di abilitazione è la perdita delle protezioni e privilegi di industrie e servizi locali determinata in primo luogo dallo spazio stesso. Un effetto che si verifica quando queste, a causa di investimenti materiali ed immateriali (come vedremo), sono costrette all’improvviso a competere con produttori di altri luoghi, via via sempre più lontani (e dunque numerosi). Quindi, come ricorda Harvey, che ricordo scrive nel 2000, “la recente intensificazione della globalizzazione ha significativamente ridotto le protezioni monopolistiche date storicamente dai costi elevati dei trasporti e delle comunicazioni, mentre l’eliminazione degli ostacoli istituzionali al commercio (protezionismo) ha diminuito pure le rendite di monopolio che con tali mezzi ci si può procurare. Ma il capitalismo non può fare a meno dei poteri monopolistici e tenta di riassemblarli” (p.26).

La risposta che si produce è quindi la centralizzazione del capitale in imprese sempre più grandi per dominare mercati resi più fluidi. Un’altra è implicita nell’arena dei “diritti di proprietà intellettuale” (attraverso i quali sono rafforzati i poteri dei monopoli industriali, ovvero delle grandi aziende multinazionali che possono permettersi le brevettazioni).

Bisogna però notare che tutte le caratteristiche descrivibili credibilmente come “locali”, e quindi rare o irriproducibili, sono esse stesse sfruttabili per creare e proteggere rendite di monopolio e questo vale, in condizione di piena mobilità anche, e tanto più, quando gli operatori sono internazionalizzati (si pensi alle strategie di marketing territoriale e alla relativa attrazione di capitale per investimenti diretti a mercati sovralocali). Si tratta della cosiddetta “dialettica spazio-luogo” che è tipicamente influenzata dalle coalizioni locali, spesso prodotte proprio per mettere in contatto una caratteristica distintiva con un flusso di valorizzazione al fine di estrarre una rendita di monopolio dal capitale fluttuante e dagli investimenti a lungo termine sull’ambiente costruito[3]. Molto spesso tra questi fattori, e tra gli stessi investimenti territoriali, si attivano dei processi di causalità circolare e cumulativa (se investo in un centro congressi avrò bisogno di alberghi, e questi di trasporti migliori, cosa che porterà ad ampliare la capacità ricettiva, etc…). Le ‘macchine per la crescita urbana’ sono dunque una cosa di questo genere: orchestrazione dei processi di investimento e fornitura di investimenti pubblici chiave, nel luogo e nel momento giusto, il cui scopo è di avere successo nella competizione interurbana e interregionale. Si valorizza qualche caratteristica, rendendola unica anche a mezzi di idonei investimenti, al fine di attrarre i capitali mobili. Del resto questo, in senso generale, è tipico dell’intera esperienza urbana e del suo ruolo nel processo di accumulazione capitalista[4].

Ci sono molti esempi famosi di simili strategie di crescita, in quegli anni quello di Barcellona, Berlino, nei quali il capitale internazionale si è impegnato alla valorizzazione di beni posizionali e distintivi (il particolare carattere di alcune città, la loro storia unica, l’ambiente sociale, etc.), giocando sulla loro autenticità e unicità, rischiando, però, di distruggerle (il centro storico di Barcellona era certo alquanto pericoloso a chi lo visitasse negli anni ottanta, ma dopo i duemila è diventato un poco, come dire, ‘plastificato’, e certo non vi abitano più le stesse persone, dunque non c’è più lo stesso ambiente sociale che ne costituiva, in ultima analisi, il valore).

 

Il motore interno della crescita

La comprensione di questi fenomeni richiede una rilettura abbastanza seria dello schema analitico marxiano, situando il concetto tendenzialmente astratto ed a-spaziale di “modo di produzione” in una specifica relazione con le caratteristiche spaziali che determinano gli effetti monopolistici e temporali, i quali sovraintendono al processo di circolazione (realizzazione). L’elemento da tenere presente nel modo di produzione capitalista è, infatti, la sua tendenza alla continua creazione di eccedenze di capitale e di forza lavoro, che sono generate ordinariamente e senza le quali non sopravvive (in quanto cessa l’accumulazione di profitti)[5].

Infatti il processo di circolazione deve avvenire entro un dato tempo, in modo da riavviare la valorizzazione, ed è sensibile alle differenze spaziali. Le eccedenze che si provocano costantemente, e che minacciano di rendere impossibile la realizzazione e quindi aprire alla crisi (per quanto su questo meccanismo si possa scendere in dettagli molto diversi secondo il lato dal quale si guarda), possono trovare sbocco in dislocazioni spaziali e temporali[6] che, a volte, comportano una quota di investimenti in capitale fisso (macchinari, impianti e infrastrutture, beni di consumo durevoli come le case, infrastrutture sociali …) e, nel migliore dei casi, contribuiscono ad accelerare la fluidità e valore di altri sezioni del capitale. Si innesca così una crescita “a spirale”, fortemente soggetta a causalità cumulativa. Se, però, la spirale si arresta si produce una crisi che trova normalmente la forma della svalutazione degli investimenti dati (le macchine si arrugginiscono inerti, gli impianti fisici restano inutilizzati, i quartieri degradano con le loro infrastrutture, tutto scende di valore drasticamente). Nel processo, insomma, si generano eccedenze che normalmente non possono essere riconvertite direttamente se non con grandi investimenti, ed a volte a nessun prezzo[7].

Esiste una “soluzione spaziale” a queste contraddizioni? Le eccedenze di forza lavoro e quelle di capitale possono essere esportate? Nel particolare scontro che oppone attori a diversa mobilità, le multinazionali, e tutti gli attori globali, traggono la propria forza. È la “capacità di spostare rapidamente capitale e tecnologia da un posto all’altro, di sfruttare risorse diverse, mercati del lavoro, del consumo e opportunità di profitto, organizzando la propria divisione territoriale del lavoro, trae gran parte del suo potere dal comando spaziale e dall’utilizzo di differenziali geografici in modi non consentiti all’impresa familiare” (p.67).

 

La frattura nella tradizione marxiana

Inoltre è qui che si manifestano quelli che David Harvey chiama “gli scismi e le ferite” all’interno della stessa tradizione marxista. Marx, infatti, ha abbozzato nel suo lavoro una teoria della storia capitalistica fondata sulla rappresentazione dello sfruttamento di una classe sull’altra. Questa teoria sale ad un livello di astrazione sensibile al tempo (il meccanismo della valorizzazione e della circolazione), ma molto più in difficoltà con lo spazio (che tende, come la scienza newtoniana, a considerare liscio e uniforme). Lenin sviluppa, grazie al confronto con problemi del tutto diversi, una tradizione che chiama “differente”. Egli assume “la centralità dello sfruttamento delle persone in un luogo da parte di quelle che sono in un altro (la periferia da parte del centro, il Terzo Mondo da parte del primo)”.

Il punto è che “le due retoriche dello sfruttamento coesistono in modo non facile e la loro relazione resta oscura”.

Certo Marx ammette in più luoghi cose come l’opposizione città/campagna, la divisione territoriale del lavoro, la concentrazione delle forze produttive, i differenziali geografici e quindi l’importanza delle connessioni; inoltre quando si è confrontato con la questione irlandese ha inquadrato la questione della rilevanza per il processo di valorizzazione delle differenze regionali e culturali. Ma tutto ciò, pur importante, non è secondo Harvey integrato nella teoria al livello necessario. Come dice “la variazione geografica è esclusa come una sorta di ‘complicazione non necessaria’. In conclusione, la sua visione politica e la sua teoria sono minate dalla sua incapacità di costruire una dimensione geografica e spaziale sistematica e distintiva” (probabilmente a causa della relazione profonda tra l’astrazione e il concetto di lavoro ‘scientifico’ che lo contraddistingue).

Lenin sembra colmare questo vuoto specifico. Le dimensioni geografiche e spaziali sono messe in relazione con lo sviluppo capitalistico in modo molto più profondo e strutturale[8], spostando l’attenzione sull’importanza dello Stato e dei relativi conflitti geopolitici (determinati dalla tendenza alla concentrazione monopolistica e alla gestione delle eccedenze).

 

Verso una teoria generale dello sviluppo geografico

A questo punto il compito che resta è descritto in questo modo da Harvey:

“il nostro compito è di costruire una teoria generale delle relazioni spaziali e dello sviluppo geografico nel capitalismo che possa, tra l’altro, spiegare il significato e l’evoluzione delle funzioni statali (a livello locale, regionale, nazionale e sovranazionali), lo sviluppo geografico diseguale, le disuguaglianze interregionali, l’imperialismo, il progresso e le forme di urbanizzazione, e così via. Solo in questo modo possiamo comprendere come vengano plasmate e rimodellate le configurazioni territoriali e le alleanze di classe, come i territori perdano o guadagnino in potere economico, politico e militare, quali siano i limiti esterni all’autonomia interna dello Stato (compresa la transizione al socialismo), e come il potere statale, una volta costituito, possa diventare esso stesso una barriera alla libera accumulazione del capitale, oppure un centro strategico in cui condurre le lotte di classe o i conflitti interimperialistici”.

Ne segue che “la geografia storica del capitalismo dev’essere l’oggetto della nostra teorizzazione, il materialismo storico-geografico il metodo di indagine”.

Per cominciare bisogna comprendere che l’enorme differenziazione geografica presente nel mondo, effetto di secoli di azione umana e di differenziazioni sia culturali sia socio-strutturali, può essere influenzata ma non completamente schiacciata dalla, pur enorme, forza omogeneizzante della circolazione del capitale. E quindi dalla capacità di estrarre come valore, codificare e tradurre in bene di scambio, rendere liquido; come dice Saskia Sassen, di “estrarre dei beni in qualche parte del mondo per inviarli altrove” (sotto forma finanziaria)[9].

Ci sono alcune specificità dello spazio che vanno tenute in conto, detto in modo abbreviato, “lo spazio geografico è sempre il regno del concreto e del particolare”. Dunque il problema si pone in questi termini: “è possibile costruire una teoria del concreto e del particolare nel contesto delle determinazioni universali e astratte nel contesto delle determinazioni universali e astratta della teoria dell’accumulazione capitalistica di Marx? Questa è la questione fondamentale da risolvere”.

Quando si fissa l’attenzione sul tempo, diviene centrale controllare il tempo del pluslavoro e la sua conversione in profitto rispettando un tempo di rotazione socialmente necessario, lo spazio è in questo contesto un inconveniente seccante, da superare. In questo senso specifico la valorizzazione capitalista consiste nell’annientare lo spazio attraverso il tempo.

Ma, obietta Harvey, tutte queste cose si ottengono solo se prima vengono prodotte configurazioni spaziali idonee. Serve infatti sempre organizzazione spaziale per superare lo spazio. Diventa allora cruciale il rapporto tra le possibilità date dall’organizzazione dello spazio (ad es. dalle infrastrutture di comunicazione e trasporto) e le decisioni di localizzazione, ovvero di spostamento. Molto spesso infatti la tendenza alla caduta del saggio di profitto viene contrastata dalla liberazione della produzione dalla dipendenza che si era creata nel tempo dalla localizzazione di alcune competenze lavorative, o di materie prime, di forniture di prodotti intermedi, energia, etc. Ovvero modificando, guadagnando margini di libertà, la “coerenza strutturata” tra produzione e consumo entro un dato ambito spaziale. Chiamando con tale formula le forme di produzione, le tecnologie, le quantità e qualità dei consumi, i modelli di lavoro, e le infrastrutture. Una definizione di questo insieme è “quello spazio in cui il capitale può circolare senza i limiti del profitto nel tempo di rotazione socialmente necessario, ecceduto dal costo e dal tempo di movimento” (p.73). Quindi nel quale è presente un mercato del lavoro coerente, che in genere è garantito da uno Stato.

Ecco comparire la proposta di unità di analisi di David Harvey, leggiamo attentamente:

“Vi sono quindi in atto processi che definiscono spazi regionali al cui interno produzione e consumo, domanda e offerta (di materie prime e forza lavoro), produzione e realizzazione, lotta di classe e accumulazione, cultura e stile di vita, si fondono in una sorta di coerenza strutturata dentro una totalità di forze produttive e rapporti sociali”.

Questa coerenza è centrale, ma ci sono processi che la minano. In primo luogo è lo stesso capitalismo, nel momento in cui tende costantemente all’accumulazione ed espansione, per se stesse. Esso, infatti, crea continuamente e continuamente deve assorbire di nuovo, pena la svalutazione, eccedenze di capitale e forza lavoro. Crea, quindi, in ogni regione dotata di ‘coerenza strutturata’, e per questo funzionante sotto il punto di vista capitalistico, delle pressioni che si trascinano all’esterno (esportazione di capitali, previa esistenza delle opportune infrastrutture) o verso l’interno (l’immigrazione).

La seconda dinamica da considerare è che ogni regione tende a specializzarsi tanto più quanto più si collega, coerentemente con il suo stato di evoluzione tecnologica.

Tutto questo genera una instabilità cronica. Ma costringe anche a prendere atto che “le contraddizioni interne del capitalismo si esprimono attraverso l’inquieta formazione e ri-formazione di paesaggi geografici”, in una continua tensione tra fissità e mutamento.

 

Gli “spazi regionali” e le loro alleanza di classe

Quindi la ‘coerenza strutturata’, che determina lo ‘spazio regionale’, si fonda sulle decisioni degli agenti economici (individui, organizzazioni e istituzioni) circa la circolazione del proprio capitale o l’impiego della propria forza lavoro, restando entro la tensione tra la spinta a spostarsi verso luoghi con tasso di remunerazione del fattore più alto, o il mantenimento della posizione. Questa tensione si esprime in alleanze di classe regionali, normalmente organizzate attraverso lo Stato, e che distribuiscono variamente tra le frazioni opposte che le compongono (ad esempio il capitale ed il lavoro), beni e privilegi. Questo è il processo attraverso il quale si consolida un potere in uno spazio dato che al suo interno cerca di attivare un certo grado di solidarietà comunitaria, ma all’esterno compete con altri. La conseguenza è che “i processi globali di lotta di classe sembrano dissolversi sotto i nostri occhi in una varietà di conflitti interterritoriali. Lenin aveva ragione”.

Quel che avviene è che dalle più riuscite regioni dotate di ‘coerenza strutturata’ vengono proiettati flussi di capitale in eccesso, per il quale non sussistono le condizioni per un investimento interno (ad esempio perché surriscalderebbe il mercato del lavoro, indebolendo la posizione contrattuale dei detentori dei capitali e quindi contribuendo al calo del tasso di profitto). Ma se una data alleanza regionale, che vuole mantenere la sua coerenza, può anche prevenire la sovraccumulazione dei fattori e quindi la loro svalutazione, esportandoli, sul lungo periodo questo processo quando ha successo crea sempre più capitale locale. E questo capitale creato tende a fare concorrenza alla regione di partenza (alcuni esempi storici a scala mondiale sono gli Stati Uniti che crescono all’ombra della potenza inglese, attraendo i capitali e le persone in eccesso e finiscono per fare concorrenza e vincerla, oppure la Germania verso le potenze industriali consolidate, ovvero ancora Inghilterra e Usa).

La soluzione è lo sviluppo dipendente, che crea economie subalterne, alle quali la prospettiva della concorrenza è esclusa per via politica. Di qui l’analisi delle lotte imperiali che fu propria anche di Lenin[10].

Dunque, “di fronte agli inesorabili processi di formazione delle crisi, la ricerca di una soluzione spaziale converte la minaccia di svalutazione in una lotta tra alleanze regionali instabili su chi deve sopportare il peso della crisi”. Ancora, un esempio storico è la lotta competitiva aperta negli anni sessanta tra l’egemone Usa, sfidato in Vietnam e logorato dal doppio deficit, e i paesi ex sconfitti, ormai industrializzati, per chi, appunto, dovesse sopportare il peso della sovrapproduzione, traducendolo in svalutazione[11].

 

Questa è la geopolitica del capitalismo.

Se si fa astrazione dalla dimensione spaziale il vantaggio è che ci si muove sul piano della teoria della sovraccumulazione-svalutazione, ovvero della crisi, sulla base di una purezza concettuale che permette, per così dire, di coglierla in vitro. Ma se si presta attenzione alla conversione di questi processi in lotte economiche, politiche e militari, capaci di funzionare come controtendenza, allora compare la questione dell’imperialismo.

È infatti la ricerca di ‘soluzioni spaziali’ a problemi generati dal ‘tempo’, ad avviare il circolo vizioso della competizione sulla scala globale, e rischiare la violenza.

L’accumulazione del capitale è, in questo senso, una questione geografica, “senza le possibilità connesse all’espansione geografica, alla riorganizzazione spaziale e allo sviluppo geografico diseguale, il capitalismo avrebbe smesso da tempo di funzionare come sistema economico politico” (p.100).

Come detto, il diverso livello di sviluppo, maturità e coesione, e quindi di eccedenze, induce ad una lotta costante per sottomettere lo spazio e quindi determinare dipendenze. Questa necessità interna di equilibrio (dei rapporti sociali di potere) crea quindi, sul piano della geopolitica, costantemente economie subalterne, forza le coerenze strutturate di queste ad essere “incomplete” (ed a completarsi solo con il contributo delle eccedenze importate) e le relative “alleanze di classe” ad essere estese alla scala sovranazionale. Nel senso decisivo che queste coinvolgono in posizione di super-élite anche la parte esteroflessa delle élite ‘centrali’.

Questa è la forma contemporanea dell’imperialismo.


Note
[1] - Per la questione della rendita, applicata al territorio, che come vedremo è il tema centrale della riflessione di Harvey, si veda “Qualche nota sulla rendita urbana e il consumo di suolo”. Mill chiamava la rendita “diventare ricco nel sonno” (1848), qualcosa che “proviene dai frutti delle fatiche altrui, che non ricevono”. In altre parole, l’estrazione di rendita è effetto di un mutamento nella distribuzione della capacità di sostentamento socialmente istituita ed è un effetto del sistema generale di distribuzione del valore. Quando interviene la leva della finanza, in particolare, si tratta di giovarsi di una sorta di automoltiplicazione ricorsiva che sembra generale dal nulla valore, innestandosi in un feedback tra la disponibilità di risorse mobili (le decisioni di allocazione di queste di attori economici attivi), l’attesa di una valorizzazione futura, e l’attivazione di credito.
[2] - Per un misero esempio lo scrivente nel 1997 ha discusso una tesi di dottorato in Pianificazione Territoriale ed Urbana che aveva esattamente questo oggetto, se pur letto sotto un profilo indiretto della ridefinizione delle modalità di regolazione e della formazione di queste.
[3] - Si veda, ad esempio, “Città, rendita urbana, suolo: il caso del Crescent a Salerno” o “Saskia Sassen, Londra si autodistrugge: del ciclo edilizio al tempo della finanza estrattiva”.
[4] - Si veda David Harvey, “L’esperienza urbana”, 1989.
[5] - Per un riepilogo generale si veda Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”, 1944.
[6] - La “dislocazione temporale” è quella creata dagli strumenti “derivati” della finanza strutturata, che si manifestano come scommesse sul futuro, anticipazioni di valore, etc.
[7] - Uno stabilimento siderurgico potrebbe essere nel ‘posto sbagliato’, contribuendo con la sua presenza a svalorizzare il suo intorno, ma la sua demolizione potrebbe essere di grande complessità economica e sociale, le forze lavoro impiegate possono essere difficili da riconvertire o da riassorbire, molte competenze lungamente acquisite e tradizioni possono andare perse per sempre, insieme alla sua unicità che ne costituiva il valore.
[8] - Si veda Lenin “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, 1916.
[9] - Saskia Sassen, “Espulsioni”, 2014.
[10] - Ovviamente si veda il libro del 1916, op.cit.
[11] - Per un’analisi della crisi degli anni sessanta (alla metà), si veda Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi economica mondiale”, 1974, Leo Huberman, Paul Sweezy, “La controrivoluzione mondiale”, 1968, Leo Huberman, Paul Sweezy, “Teoria della politica estera americana”, 1962.

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Alfonso
Monday, 25 November 2019 10:49
In una conferenza-lezione di un paio di anni fa, David Harvey pone l'attenzione su quello che definisce produzione (capitalista) di natura e produzione (capitalista) di natura umana, connettendo con i movimenti del capitale fittizio e la sospensione dell'oro come moneta mondiale. A questo punto, afferma che per poter comprendere, la rendita differenziale, in particolare di tipo II, è cruciale. Costoro, dice, fanno la guardia alla accumulazione, ma non è che una volta terminato il compito di regolare il profitto la chiudono lì : perseguono la propria agenda. Ossia, non sono la stessa classe. Ma come già Storper, Walker e altri geografi radicali degli anni passati erano molto restii a passare da un 'modello a due' a un 'modello a tre' (classi) anche Harvey lo è. E forse la chiave è quella suggerita da Marx riguardo Ricardo, la rendita assoluta. Ma non si può pretendere da Marx una Critica della rendita, mancando all'epoca i requisiti per una scienza di essa anche solo vicina alla economia politica.
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