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Il rimbalzo del gatto morto
di Leonardo Mazzei
Non ce ne voglia l’ignaro e simpatico felino, ma l’immagine è perfetta. In Borsa il “rimbalzo del gatto morto” descrive la ripresa, modesta e temporanea, di un titolo destinato a ricominciare alla svelta la sua corsa verso il basso. Che è esattamente quello che sta facendo l’economia italiana, nel suo complesso, dal 2008.
Nella figura sopra questo fenomeno è evidentissimo. Il primo “rimbalzo del gatto morto” si registra nel 2010-2011, poi seguito da una nuova recessione e da una sostanziale stagnazione fino al 2015. Qui inizia la ripresina del 2016-2018, il secondo balzo del micio deceduto, che ci condurrà alla stagnazione del 2019, fino alla catastrofica situazione attuale. Quando il grafico dell’Istat riporterà il tracollo in corso, il disastroso andamento dell’economia italiana risulterà ancora più chiaro.
Ma perché iniziare un articolo sulle prospettive economiche attuali con queste considerazioni? Primo, perché il passato, specie se non si cambia strada, ci parla inevitabilmente del futuro.
Secondo, perché la crisi del Covid è sopraggiunta quando l’economia italiana (e non solo) era già sull’orlo di una nuova recessione. Terzo, perché (come vedremo) tutte le previsioni economiche del momento indicano al massimo un nuovo rimbalzo del gatto morto. Quarto, perché gli effetti di lungo periodo dell’appartenenza all’eurozona solo questo consentono.
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Covid-19, l’opportunità per il progetto di classe dell’Università Italiana
I rapporti di forza non cambiano senza la lotta
di Noi Restiamo
Pubblichiamo questa analisi mentre ci prepariamo a scendere a Roma per la manifestazione nazionale del 10 giugno davanti al MIUR che abbiamo costruito insieme agli studenti medi dell’Opposizione Studentesca d’Alternativa e alle strutture sindacali delle educatrici delle funzioni locali, della scuola, dell’università e della ricerca della USB pubblico impiego. Una data che è il punto di arrivo di un percorso avviato in questi mesi di lockdown dalla campagna blocco affitto e utenze per giovani, studenti e precari e successivamente dai coordinamenti regionali per il diritto allo studio. Appuntamento che rappresenta una convergenza su una progettualità di lungo periodo di forze rappresentative di tutti i soggetti che compongono il mondo dell’istruzione, dell’alta formazione e della ricerca che lottano per un nuovo sistema formativo e di gestione della ricerca e dei saperi svincolati dalle esigenze del mercato e costruito a partire da una comprensione profonda della funzione di crescita generale e collettiva della società. Un punto di resistenza per un rilancio complessivo delle lotte nel mondo della formazione verso un autunno di lotta!
* * * *
In questo contributo analizziamo come la situazione emergenziale legata al diffondersi del Covid-19, virus con il quale probabilmente dovremo fare i conti ancora per diverso tempo, sia un’occasione per accelerare il processo di esclusione sociale e aziendalizzazione dell’istruzione universitaria.Un processo al quale dobbiamo saperci opporre fermamente.
Infatti, quando parliamo degli effetti che la crisi del Coronavirus avrà sull’Università e in generale sulle nostre vite dobbiamo tenere a mente le lapalissiane parole di Vittorio Colao, designato dal governo Conte per guidare la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese dopo la pandemia sanitaria. Ossia, «abbiamo l’opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi»[1].
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La “vera democrazia”
Introduzione
di Elisabetta Teghil
Elisabetta Teghil, Mai contro sole, Bordeaux 2018
«La “vera democrazia” si attuerà quando saremo tutt* colpevol*.»
La nostra società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza strutturale si è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione sociale a partire dalla miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi. Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti contro tutti, il cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa selezione, la traduzione nella vita quotidiana con l’assuefazione alla precarietà, all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con una precarizzazione così diffusa da ridurre il lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che questo ordine economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno della libertà e addirittura come società armoniosa.
E’ questo un momento storico che produce un inaudito cumulo di sofferenze. Tutto ciò a partire dal dominio assoluto della flessibilità con contratti a tempo determinato, con assunzioni ad interim, con una concorrenza spietata, non più quella tradizionale fra imprese, ma oggi all’interno della stessa impresa tra lavoratore e lavoratore con l’individualizzazione del rapporto salariale, con l’introduzione di colloqui preassunzione e successivamente di valutazione individuale. La valutazione permanente con una forte dipendenza gerarchica, con lo spacciare i lavoratori come categoria di operatori autonomi, con l’estensione a tutti del ”coinvolgimento” si traduce in un iperinvestimento sul lavoro e in una perenne condizione di insicurezza che tende ad abolire i riferimenti e le solidarietà collettive.
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Debito pubblico e lotta di classe nell'Unione europea
di Giulio Palermo
La crisi da coronavirus ha colto di sorpresa l’Unione europea. Quest’ultima era ancora alle prese con la crisi del debito pubblico iniziata nel 2009 e con un sistema bancario molto esposto su questo fronte. Nel campo dell’economia reale, poi, diversi paesi erano in recessione e, nonostante i livelli favorevoli dei tassi d’interesse, gli investimenti rimanevano compressi dalle basse aspettative di crescita e dalle difficili situazioni patrimoniali delle imprese. Sul mercato del lavoro, l’arretramento sul fronte dei salari e dei diritti, in un contesto di precarietà diffusa, non ha affatto stimolato la crescita — come promesso dalle ricette neoliberiste — ma, al contrario, ha compresso ulteriormente la domanda. Il blocco della produzione e le conseguenti tensioni sui mercati finanziari innescati dall’emergenza coronavirus si inseriscono in questo contesto di crisi preesistente.
Prima del coronavirus, l’Unione aveva affrontato la crisi del debito pubblico di singoli stati o, sarebbe più corretto dire, di singole banche. Nel caso della Grecia, ad esempio, la gestione della crisi da parte delle istituzioni europee fu un’abile manovra per salvare le banche francesi, tedesche e olandesi più esposte sui titoli del debito greco e far pagare tutto ai lavoratori greci. Perché una cosa è certa nei rapporti interni all’Unione: gli stati e i capitali nazionali non hanno tutti lo stesso ruolo e lo stesso peso. Dicendo di salvare lo stato greco, in realtà si salvavano le banche dei paesi europei più forti. Il tutto imponendo dure riforme contro i lavoratori greci redatte direttamente dalle istituzioni internazionali.
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Il labirinto del debito pubblico e privato in Italia
di Roberto Artoni
Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, l’Italia ha un forte debito pubblico, ma poco debito privato: nell’insieme ha una posizione più solida di altri paesi europei. Una mappa per non perdersi nel labirinto del debito, della finanza pubblica, delle politiche di bilancio
Nelle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco sul 2019, un passo è dedicato al confronto fra la situazione debitoria del nostro Paese e quella di altri Paesi dell’area euro. In particolare, nelle parole del governatore, “la posizione netta sull’estero dell’Italia ha raggiunto un sostanziale equilibrio”. “La ricchezza netta, reale e finanziaria delle famiglie italiani è elevata. Il debito delle famiglie è basso nel confronto internazionale ed è concentrato presso i nuclei con una maggiore capacità di sopportarne gli oneri“. “Nel complesso il debito era pari al 110 cento del Pil, oltre 50 punti in meno del valore medio dell’area dell’euro”.
Nella figura qui sotto è rappresentato il debito pubblico e privato in percentuale del prodotto interno di vari Paesi. Il debito pubblico italiano è pari al 130 % del Pil, contro poco meno del 100 % di Francia e Spagna; è invece sensibilmente inferiore in Olanda e Germania (intorno al 50 %). Il quadro è radicalmente diverso se si esaminano i debiti finanziari delle famiglie e delle imprese. In Olanda si raggiunge lo straordinario livello del 250 %, in Francia il 200 %, il 150 % in Spagna; infine, Italia e Germania si collocano intorno al 100%.
Questi dati devono essere ulteriormente elaborati se si vuole ottenere una descrizione più precisa della situazione finanziaria dei diversi Paesi, e individuare le opzioni di politica economica e istituzionale appropriate.
E’ mia opinione, infatti, che le analisi correnti tutte concentrate sul rapporto debito pubblico prodotto interno non rappresentino in modo compiuto la situazione finanziaria o le prospettive economiche e finanziarie che possono derivarne.
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In quale stato versa il padronato italiano?
Per una fenomenologia di Confindustria
di Lorenzo Delfino e Giacomo Salvarani
Dal negazionismo all’economia di guerra. La crisi
Il confindustriale è uomo pratico. Un secolo di addomesticamento nel capitalismo italiano ha reso mediocri le sue ambizioni. Decenni di gestione industriale l’hanno trasformato in un individuo refrattario a ogni avventura. Verrebbe perciò da sé credere che quest’abitudine a porsi solo problemi che può facilmente risolvere abbia portato il confindustriale a essere un capitalista discretamente realista. Non è così. Certo, il confindustriale per sua natura non può che detestare la fantasia, ma allo stesso tempo non si può nemmeno dire che apprezzi sempre la realtà!
A chi legge forse basteranno due istantanee del mese di marzo 2020 per suffragare questa nostra convinzione, restituendoci un perfetto spaccato della parabola schizofrenica che ha vissuto il povero confindustriale, che si è trovato prima a dover negare e poi pervertire la realtà. Il giorno 11, Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, dall’interno di una zona rossa del paese in cui si fa la fila anche per essere cremati, non esita a dichiarare: “Le fabbriche sono oggi il posto più sicuro”! È difficile per il confindustriale ammettere che qualcosa possa smuovere la sua realtà, che qualcosa possa sospendere i suoi profitti e la sua fetta di potere acquisito ormai tramandato per generazioni: questo lo manda su tutte le furie. Infatti, il confindustriale non si arrabbia solo per i soldi, a irritarlo davvero è l’idea che lo Stato possa dirgli cosa fare e che i suoi dipendenti poltriscano a casa, senza poterli licenziare. Non può proprio sopportarlo. Non può sopportarlo al punto che, dovendo fare i conti con la sua realtà, molti e molte dei suoi dipendenti non hanno poltrito mai, anzi. Nella lombarda Confindustriopolis, fiore all’occhiello della produzione nazionale, il 40% di operai e operaie non ha mai giovato del lockdown nazionale sulle poltrone di casa: il lavoro loro non si è mai interrotto.
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Il virus di Trump. Covid-19 e rapporti internazionali
di Andrea Catone*
Testo per l’Accademia marxista presso la CASS - Chinese Academy of Social Sciences
1. Due linee contrapposte. Il Covid-19 è un terreno di scontro tra progresso e reazione
È opinione comune che la pandemia, tuttora in corso, segni un punto di svolta nella storia mondiale, per cui si parlerà di un mondo prima e dopo il Covid-19. La pandemia ha aperto nel mondo una fase di crisi, che riveste caratteri generali, comuni a tutti i Paesi e si interseca con caratteri particolari propri di ciascun Paese. Come è stato per ogni crisi nella storia dell’umanità, anche questa crisi è aperta sostanzialmente verso due soluzioni antitetiche:
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Verso uno sbocco progressivo, che farà fare un importante passo avanti nel percorso storico dell’umanità, verso la realizzazione di quegli ideali di libertà, uguaglianza, solidarietà, sviluppo onnilaterale della persona umana (Marx) che furono alla base della rivoluzione francese del 1789 e poi delle rivoluzioni socialiste del XX secolo.
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Oppure uno sbocco regressivo, che bloccherà per una fase storica lo sviluppo umano, che costituirà un arretramento nelle istituzioni politiche, economiche, sociali, che produrrà maggiore disuguaglianza, maggiore povertà, maggiori ingiustizie sociali, accrescendo il pericolo di guerra.
Il Covid-19 è un terreno di scontro tra progresso e reazione.
Già nel corso di sviluppo della pandemia e della sua diffusione con ritmi, tempi, modalità ineguali nelle varie aree e Paesi del mondo e del contrasto ad essa, si sono manifestate due opposte tendenze:
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‘È il virus economico, stupido!’. Naturalizzazione della crisi e ritorni al futuro del capitalismo zombie
di Fabio Vighi
La risposta globale alla crisi da coronavirus ha visto, da una parte, la richiesta incondizionata del ritorno a una fantomatica ‘normalità’, e dall’altra l’intervento massiccio delle banche centrali impegnate nell’esercizio, ormai dilagante, della creazione di fiumi di denaro dal nulla. Ma mentre il futuro torna al passato e la crisi si naturalizza, il capitalismo va esaurendo i conigli da estrarre dal proprio cilindro
Nel mettere in ginocchio la catena di montaggio globale, il virus ci ha posto di fronte a una scelta ontologica, di quelle che capitano una sola volta nella vita: o tornare alle condizioni preesistenti, o iniziare a politicizzare forme di socializzazione alternative a quelle che ci hanno portato il contagio. Per quanto rivelatasi illusoria, l’apertura dello sguardo sul possibile di ‘un altro mondo’ è stata senza dubbio l’unica conseguenza entusiasmante dell’isolamento da pandemia. In questo senso, però, è significativo osservare come tutti i dibattiti mediatici su Covid-19 siano stati predefiniti dal mandato ideologico del ripristino dello status quo ante. Per quanto la crisi possa aver prodotto, nel nostro immaginario, scenari sociali diversi da quelli imposti dalla circolazione del capitale, in modo fin troppo prevedibile ha trionfato l’esigenza del ritorno al business as usual. Almeno una cosa, dunque, è certa: la risposta globale alla pandemia conferma la nostra rinuncia a mettere in discussione le basi materiali e ideologiche di una società del lavoro ormai avviata all’implosione. Evidentemente, si dirà, non siamo ancora pronti a investire energie e passioni politiche nella progettazione di un altro modello sociale – ma, si potrebbe controbattere, se non ora, quando? L’irresistibile bisogno di ‘normalità pre-covidiana’ sembrerebbe ratificare la nostra perversa sottomissione ai diktat di una forma esausta di razionalità economica che continua a essere vista come l’unica strada percorribile, nonostante le voragini che ormai ci inghiottono. In estrema sintesi, l’accumulazione capitalista deve continuare ad absurdum.
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La crisi? Inizierà a settembre. E assomiglia purtoppo al 1929
di Maurizio Novelli, Lemanik
L’esasperazione del modello basato sui profitti generati da un eccesso di leva finanziaria e da una finanza fuori controllo ha fallito. E ha prodotto il risultato opposto: la nazionalizzazione del sistema causata da eccessi di speculazione finanziaria, esattamente quanto accaduto dopo la crisi del 1929
La fine del lockdown può certamente indurre a pensare che la crisi sia ormai in fase di superamento e da qui in avanti possiamo iniziare a scontare una ripresa dell’attività economica ed un ritorno alla normalità. Ma in realtà, la crisi inizia adesso.
Più passa il tempo e più emerge chiara la sensazione che il settore finanziario non sembra aver capito l’impatto e le implicazioni di lungo periodo di questi eventi né di quello che accadrà all’economia reale.
Sebbene le analisi di consenso si concentrino in prevalenza sui rischi di ricadute dovute a possibili ritorni del contagio, è molto più importante pensare alle conseguenze economiche che ci attendono senza ulteriori ipotesi.
Ipotizzare altri danni provenienti dai rischi di un ritorno dei contagi non credo sia un esercizio utile, anche perché se dovesse accadere, tutti siamo consapevoli di quello che potrebbe accadere. È molto più interessante invece cercare di capire cosa ci si puo’ attendere, dando per scontato che il problema pandemico sia risolto, e ipotizzando quindi uno scenario “virus free”.
L’economia mondiale è arrivata all’appuntamento con il Covid 19 nella peggiore delle situazioni possibili, con alta vulnerabilità al debito e alla leva finanziaria speculativa, e la pandemia ha avuto un effetto catalizzatore su tutta una serie di problemi che ormai erano evidenti da tempo.
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Dirsi socialisti oggi? Parliamo di democrazia economica e autogestione
di Jacopo Foggi
Lasciamo un attimo le miserie del nostro presente e proviamo a riprendere il filo delle grandi questioni di fondo. Visto che negli ultimi anni si è più o meno ricominciato a parlare con una certa forza di socialismo e neosocialismo, e visto che, contrariamente a quanto pensano i nostri battaglieri anti-sovranisti, vi sono innumerevoli persone dall’indiscutibile profilo democratico che si riconoscono apertamente anche in principî schiettamente “comunisti”, vorrei azzardarmi a gettare alcuni sguardi che esplicitino e chiariscano aspetti e concezioni provenienti da queste tradizioni nei quali possano riconoscersi anche i moderni socialdemocratici, e che mi sembrano più utili ad orientare una politica ispirata a tali concetti – per altri e molti ovvi aspetti ormai irrimediabilmente compromessi e irricevibili. Qui cercherò di restare su un piano ancora generale e limitato ad alcuni principi economici, data l’impossibilità di presentare compiutamente e in poche pagine tra i concetti più discussi e dibattuti degli ultimi due secoli.
La ripresa di un’idea di comunismo e socialismo che sia capace di integrare in sé anche i valori democratici fondamentali della nostra tradizione europea (dall’Habeas Corpus alla divisione dei poteri e alle libertà di movimento, associazione, parola, espressione, religione, ecc.), cioè che non corra il rischio di ammiccare e prestare il fianco a forme sempre latenti di negazione del pluralismo, deve a mio avviso basarsi in particolare sui concetti di democrazia radicale, e di democrazia economica.
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Sintesi sociale, forma delle merci e legge del valore
di Bollettino Culturale
La merce fu il punto di partenza di Marx per la sua critica al capitalismo. Può essere definito come il prodotto del lavoro umano mediato dallo scambio. E ciò che chiamiamo "forma delle merci" non è altro che la trasformazione dei prodotti del lavoro in merci. Ma la merce sarebbe un elemento caratteristico, specifico o addirittura esclusivo del modo di produzione capitalista? Quando e dove il prodotto del lavoro umano è apparso per la prima volta in forma di merce?
Queste domande sono importanti, poiché la teoria di Sohn-Rethel si basa sul presupposto che la forma delle merci ha assunto un ruolo importante, come nesso sociale, sia nell'Antica Grecia che nel capitalismo. La domanda a cui dobbiamo rispondere, quindi, è: come possono gli stessi elementi (merce e denaro o forma di merce) costituire allo stesso tempo la sintesi sociale dell'Antica Grecia e del capitalismo, e di conseguenza offrire forme di conoscenza diverse, rispettivamente la filosofia greca e la scienza moderna? Questo problema ci impone di abbandonare la teoria di Sohn-Rethel o, al contrario, possiamo specificarla in modo che questa incoerenza possa essere risolta?
Sembra consensuale concepire l'emergere delle merci molto prima dell'emergere del capitalismo. E non solo per la merce, ma anche per il denaro. Tuttavia, la data esatta è molto difficile da specificare. Lo scambio di merci, secondo Engels, risale "a un'era precedente a tutta la storia scritta, che risale in Egitto ad almeno 3.500, forse 5.000 anni, a Babilonia, a 4.000 e forse 6.000 anni prima della nostra era".
Sohn-Rethel calcola che il denaro è diventato necessario dal VI secolo a.C. nelle transazioni verso l'estero per l'acquisizione di cereali da Naukratis e Ponto e per l'acquisizione di olio d'oliva e vino dall'Attica.
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Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere
di Alessandro Visalli
Su “La fionda” si sta svolgendo un dibattito di grande interesse che ha preso avvio il 21 maggio con un articolo[1] di Rolando Vitali, per poi alimentarsi in particolare con il denso articolo[2] di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti del 27 maggio, e al momento concludersi con il pezzo[3] del 4 giugno di Lorenzo Biondi. La posta di questo scambio è l’analisi strategica del presente e delle forze che in esso si muovono, e quindi l’identificazione delle azioni politiche e relative alleanze. Dunque, è una posta di primaria importanza.
Per confrontarsi con queste posizioni bisognerà ricostruire gli argomenti portati, in particolare dall’articolo centrale, e descrivere cosa sta accadendo in questa fase, quale è la forza che muove la situazione, come si può tentare di reagire ad essa.
Parte prima: l’argomentazione.
L’articolo di Melegari e Capoccetti, che svolge un ruolo centrale di sistemazione delle analisi e dei concetti, muove dal corretto sentore di un disastro incombente sul paese per dedurne l’urgenza di un’azione e, insieme, da quella che chiama “asfissia politica” dell’area del sovranismo costituzionale, democratico e di ispirazione socialista, al quale sente di appartenere. Ed al quale sono diretti, di converso, gli strali polemici di Vitali. Chiama “asfissia”, ovvero la mancanza di fiato e quindi di vita, “politica” la condizione nella quale si respinge l’energia vitale degli unici che effettivamente si muovono. Questa mossa è prodotta, a loro parere, da una non ben chiara, ritrosia a comprendere, o ad accettare, che la presunta dicotomia tra la piccola borghesia ed i ceti dei lavoratori dipendenti proletari sia stata ormai definitivamente superata, o almeno confusa, dalle trasformazioni neoliberali seguite al crollo del “compromesso keynesiano”.
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Attenti a quei due
di Giuseppe Germinario
La videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione della von der Leyen al Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione Europea, almeno nelle intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità. Lo stile adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente. Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto alla ricorrente tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole e rozza retorica intrisa di lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del clamore di tanti precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una battaglia politica vera tra i vari paesi europei e all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle classi dirigenti più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha confermato una volta di più l’attendismo e la passività del ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli uni hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli altri hanno mostrato scetticismo sulla sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle procedure e ai canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per credere!
Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo.
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La millenaria oppressione delle donne?
Elementi di una critica del femminismo
di Marino Badiale
I. Introduzione
Questo scritto vuole essere l’inizio di un lavoro di discussione critica di alcuni punti della visione femminista del mondo e della storia. Credo sia giusto provare a fare questo lavoro perché il femminismo (e più in generale, il “politicamente corretto”) è ormai diventato uno dei pilastri ideologici delle moderne società occidentali, e mi sembra doveroso esaminare criticamente i fondamenti razionali di tale visione del mondo e indicarne le debolezze. È curioso il fatto che questo lavoro critico sembra negletto, almeno all’interno del mondo intellettuale “ufficiale” (in particolare nell’accademia). Esiste certamente una produzione intellettuale di critici del femminismo (che si esprime tramite libri e, soprattutto, sul web), ma si tratta di elaborazioni che restano marginali e minoritarie. Sembra cioè che, mentre nel mondo intellettuale occidentale si può essere individualisti o comunitaristi, keynesiani o antikeynesiani, pro-Stato oppure pro-mercato, marxisti o antimarxisti, non si possa essere antifemministi. Questo è di per sé un tema interessante di riflessione, ma non è il tema di questo scritto. Preciso solo che, per quanto mi riguarda, “antifemminismo” non significa contestazione della tesi dell’uguaglianza fra gli esseri umani e della sostanziale unità del genere umano. Non è questo che intendo parlando di “critica del femminismo”; intendo piuttosto la critica di una interpretazione del mondo e della storia. Intendo cioè dire che nel mondo intellettuale contemporaneo vi è una notevole produzione di tesi e affermazioni di tipo femminista che riguardano la realtà degli esseri umani, presenti e passati, e che mi sembra un lavoro necessario quello di prendere in esame alcune di queste affermazioni per saggiarne la solidità, e rifiutarle se appaiono infondate. È questo il compito che mi propongo, in questo intervento e in altri che seguiranno.
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Il fascismo in Brasile
Diario alla vigilia di un possibile colpo di stato
di Alessandro Peregalli
Mentre il Brasile è già il secondo paese per numero di contagi di Covid-19, nonostante mantenga l’indice più basso di tamponi del Sudamerica (0.62ogni 1000 abitanti), e veleggia ormai spedito verso il secondo posto anche per numero di morti, una crisi politica sempre più acuta si innesta, e si potenzia vicendevolmente, con la crisi epidemica. Non si tratta di una semplice crisi “di governo”, è la crisi della democrazia liberale brasiliana.
Da alcuni anni, con la crescita esponenziale dell’estrema destra in tutto il mondo, si sprecano i paragoni tra il presente momento storico e quella che Eric Hobsbawm ha chiamato “Era della Catastrofe” (1914-45), e sulla possibilità o meno di parlare di fascismo contemporaneo. Il problema si pone a partire da due domande. La prima: le diverse espressioni della nuova destra, dal trumpismo negli USA al lepenismo in Francia, da Lega e FdI in Italia a Vox in Spagna, da Jair Bolsonaro in Brasile a Narenda Modi in India, da Viktor Orbán in Ungheria a Rodrigo Duterte nelle Filippine, da Tayyip Erdogan in Turchia al governo golpista ucraino, si possono tutte definire alla luce dell’espressione “neofascismo”? La seconda: laddove questi personaggi e forze politiche sono giunti al governo, hanno portato alla creazione di regimi politici fascisti?
E’ difficile dare risposte univoche a queste domande. E’ però evidente che esistono alcuni elementi comuni al di là delle specificità dei singoli contesti, considerando che anche i fascismi storici furono esperienze ben più eterogenee tra loro di quanto l’adozione di modelli “classici” faccia sembrare. E che, tanto nel caso dei fascismi storici come in quello delle nuove destre, si tratta di fenomeni che appaiono in momenti di turbolenza globale e di profonda crisi di riproduzione sociale del capitalismo.
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Senza la firma del Mes l’Italia non avrà più aiuti dalla Bce
L'ultima mossa tedesca
Federico Ferraù intervista Alessandro Mangia
Sarà la Banca centrale europea a determinare l’ingresso dell’Italia nel Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Ecco come
L’Italia, grazie al governo Conte, entrerà – o meglio, dovrà entrare – nel Mes per non vedersi rifiutare gli acquisti di Btp dalla Banca centrale europea. È un rovesciamento di prospettiva: finora gli avversari del vincolo esterno si sono opposti al Mes contando sugli acquisti della Bce. C’è la Bce, dunque il Mes non ci serve. Ma se la Bce dovesse interromperli? Lo scenario è l’ingresso dell’Italia nel Mes come contropartita degli acquisti: il nostro paese dovrebbe entrare nel Meccanismo europeo di stabilità per consentire la prosecuzione degli acquisti illimitati. Con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, cominciamo dalla fretta che Christine Lagarde ha messo ieri alla Commissione. La presidente della Bce ha chiesto di approvare rapidamente il Bilancio 2021 e il Recovery Fund. Come dire, sbrigatevi, perché il gioco non può continuare.
* * * *
Da Lagarde è arrivata una sorta di “fate presto” con il Recovery Fund. È così decisivo?
Beh, decisivo per chi? Bisogna distinguere. Ci sono paesi messi meglio e paesi messi peggio. Noi, naturalmente, siamo tra quelli messi peggio. Se pensa che solo una settimana fa Visco ha preannunciato un calo del 13% sul Pil, si ha la misura della situazione.
Obiezione: a che cosa ci servono i prestiti di Recovery Fund e Mes se la Bce sta facendo gli “straordinari”?
A rigore non dovrebbe servire a nulla. La Bce sta facendo quello che avrebbe fatto la Banca d’Italia prima del divorzio Ciampi-Andreatta del 1981. Che è poi quello che stanno facendo tutte le banche centrali del mondo. Solo che lo deve fare di nascosto, coprendosi dietro cortine fumogene.
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Dialogo sopra un libro, un virus ed altri “smottamenti”
Il Lato Cattivo intervista Raffaele Sciortino
I nostri quattro lettori sanno che non siamo usi a piaggerie. Ma quando – in ambito teorico o pratico – qualcosa di proficuo, valido o stimolante da altri viene fatto, e fortuna vuole che ce ne giunga notizia, non esitiamo certo a darne atto.
È già da qualche tempo che avevamo intenzione di parlare del libro di Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios, Trieste 2019). Si tratta di un contributo importante per la teoria comunista, uno dei rari provenienti dall’arido contesto italiano. Contributo importante – dicevamo – perché riesce a tenere assieme, in una visione articolata e di ampio respiro, il corso economico del modo di produzione capitalistico nel decennio inaugurato dalla crisi mondiale del 2008, con quello delle relazioni internazionali e della lotta di classe nelle sue forme di manifestazione peculiari, in un fertile tentativo di comprendere come questi diversi piani agiscano gli uni sugli altri. In ciò risiede la differenza rispetto alla gran parte della pubblicistica consacrata a questi temi ognuno per sé, non da ultimo per la capacità dell’Autore di intuire il punto di caduta verso cui si dirige il movimento reale – nel bene e nel male, ovvero nei suoi esiti possibili tanto potenzialmente sovversivi quanto eventualmente disastrosi.
La rilevanza accordata al piano delle relazioni internazionali non mancherà di far storcere il naso a qualcuno, e vale la pena spendere qualche parola al riguardo per difenderne la legittimità. In termini generali, la rinnovata intensità della contesa nell’arena geopolitica è in tutta evidenza un tratto saliente del periodo aperto dalla crisi del 2008. Tutte le questioni che la mondializzazione, nella sua fase ascendente, sembrava aver spazzato via per sempre tornano all’ordine del giorno in forme anche inedite. È in questo quadro complessivo che si inscrive il cosiddetto “ritorno della geopolitica”: guerra dei dazi fra Cina e Stati Uniti, tensioni crescenti all’interno dell’Unione Europea fra paesi del Sud e paesi del Nord, riconfigurazione in divenire di tutta l’area denominata MENA (Middle East North Africa)… la lista non è esaustiva, ma basta a rendere l’idea.
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Gli “aiuti” europei? Briciole
Per l'Italia una grande banca pubblica e la moneta fiscale
di Enrico Grazzini
Per affrontare la gravissima crisi del coronavirus il governo italiano dovrà contare soprattutto sulle proprie forze senza attendere passivamente gli “aiuti” della Unione Europea. Se il governo Conte si affiderà al nuovo Recovery Plan, ridenominato Next Generation EU, rischia di morire in pochi mesi travolto da proteste e ribellioni sociali. Il grande rischio è che il piano di “aiuti” europei, il Next Generation EU, se verrà, arriverà troppo tardi e troppo poco per salvare l’economia italiana, che quest’anno potrebbe perdere anche più di 200 miliardi di PIL. Il governo Conte nutre delle aspettative eccessive sul “Piano di Rinascita” – come lo ha ridenominato Conte – proposto dalla Commissione UE. Le cifre vere si sapranno solo alla fine, ma molti indicano che il piano europeo è poco più che fumo negli occhi e che, anche nelle migliori delle ipotesi, non può risolvere i problemi dell’economia italiana.
Robero Perotti su Repubblica, Federico Fubini sul Corriere della Sera e Wolfgang Munchau sul Financial Times hanno cominciato a fare i conti (peraltro solo provvisori): ma tutti avvertono che il decantato Next Generation non è certamente manna dal cielo. È quantitativamente insufficiente per l’Italia e arriverà quando prevedibilmente la crisi del coronavirus sarà cessata da un bel pezzo.
L’unico vero incisivo sostegno viene e verrà dalla Banca Centrale Europea, che però può solo fornire nuova moneta di riserva alle banche e abbassare così gli interessi sul debito pubblico; ma non può – a causa dei vincoli del Trattato di Maastricht – dare soldi direttamente agli stati e all’economia reale, alle imprese e alle famiglie, e quindi non può portarci fuori dalla crisi.
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Andrà tutto… come prima
di Alessandro Di Grazia
Al punto in cui siamo dire ancora qualcosa di sensato sulla pandemia appare cosa piuttosto impervia. Approfitto di questo intervento leggermente fuori tempo per fare qualche riflessione che esula necessariamente, viste le mie scarsissime competenze, dal piano strettamente epidemiologico e sanitario.
Al di là dei tentativi di identificare alcuni nodi che hanno caratterizzato questo tempo – penso ad Agamben, a Esposito o a Badiou solo per citare alcuni esempi significativi – cercherei piuttosto, al netto delle emergenze, dei numeri e delle curve di diffusione, di cogliere alcuni aspetti sintomatici.
Il cosiddetto lockdown, ha fatto emergere infatti certi discorsi che hanno attraversato non solo i politici, che di professione si incaricano di utilizzare determinate retoriche, ma soprattutto la società civile e l’opinione pubblica, e che hanno messo in luce un diffuso sentimento di disagio per il nostro stile di vita.
La quarantena ha obbligato un po’ tutti, eccetto ovviamente chi svolge le professioni sanitarie, a riconsiderare criticamente la dinamiche in continua accelerazione della nostra vita, cosa che comporta una certa dose di iniquità. Una sorta di strisciante mistica della lentezza ha così invaso le nostre menti, tanto da farci considerare il virus oltre che un pericolo, anche come un’occasione provvidenziale, un aiuto a riumanizzare le nostre giornate.
Su una direttrice affine si sono articolate le riflessioni che hanno evidenziato il nesso tra abusi ambientali e insorgenza della pandemia. Per l’ecologismo, e non solo, questo evento era atteso.
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Idee e proposte per affrontare la prossima crisi economica
di Emiliano Gentili
Una lunga riflessione sulla fase attuale di crisi vista nella prospettiva dei comunisti
Premessa
Ad avermi spinto a scrivere questo articolo è stata senz’altro la voglia di veder tornare i comunisti nuovamente competitivi nell’arena politica. Lontano dall’idea di redigere un improbabile “ricettacolo” politico, ho cercato – ed è questa la prima caratteristica di queste pagine – di stimolare il lettore comunista ad un’auto-riflessione sulle modalità della propria personale attività di militanza, e del contesto nel quale essa è inserita. Una delle ragioni della vastità degli argomenti trattati, così come della grande varietà degli input forniti nonché del modo disorganico con cui vengono forniti, sta proprio nel carattere pedagogico di questo lavoro, che lascia ai lettori parte della responsabilità di collegare dati e riferimenti e trarne indicazioni utili, semplici idee, ma anche riflessioni autonome. Partendo da una descrizione critica della situazione politica ed economica attuale (La situazione attuale, La gestione capitalista della crisi) si passa a considerare l’odierno attivismo comunista, mostrando alcune ragioni delle nostre difficoltà politiche e tentando di individuare problematiche e insufficienze da risolvere (L’atteggiamento dei comunisti oggi). Nell’ultima sezione (Proposte pratiche), analizzando le recenti innovazioni tecnologiche del sistema produttivo e i mutamenti organizzativi che queste stanno generando al suo interno, si individuano nella “rete delle competenze” e nell’accorciamento della filiera produttiva due elementi fondamentali per riflettere in maniera innovativa su come articolare le future lotte politiche. Se questo, in breve, è lo scheletro di questo lavoro, il suo obiettivo dichiarato (nel finale) è quello di stimolare ulteriori contributi da parte di altri militanti.
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Industria 4.0 e lavoro operaio
di Matteo Gaddi
1. Le parole
Il termine Industria 4.0 è stato coniato in Germania e indica sia un insieme di tecnologie applicate alla produzione industriale per aumentare la produttività, sia una precisa strategia politica del governo tedesco per mantenere e rafforzare la competitività del proprio sistema manifatturiero.
Il progetto di Industria 4.0 si è rapidamente diffuso, diventando in breve tempo un programma di politica industriale per tutti i governi europei. In effetti si tratta di una strategia per la trasformazione del settore manifatturiero, che utilizza un insieme di tecnologie in grado di modificare i processi di produzione, in particolare grazie a strumenti di comunicazione, connettività, raccolta ed elaborazione dati. Indubbiamente anche la robotica e l’automazione di nuova generazione possono essere considerate parte di Industria 4.0, ma i fenomeni di automazione, anche spinta, dei processi produttivi, sono conosciuti e praticati da decenni. La vera novità della trasformazione in corso è la connettività come portato delle Information and Communication Technologies (ICT): se strumenti di lavoro, impianti, stabilimenti e prodotti sono connessi, allora possono comunicare direttamente tra loro e con sistemi centralizzati (questo è il punto fondamentale!) di raccolta ed elaborazione dati, a una velocità tale da poterlo fare in continuo e in tempo reale.
In questo modo i processi produttivi diventano interamente computer-driven.
L’aumento della computerizzazione dei sistemi manifatturieri e l’utilizzo delle tecnologie di rete e ICT consente infatti di integrare tutte le parti del sistema in un network informativo.
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Usa, un virus di classe per la guerra civile
Italia: virus morto o virus vivo?
di Fulvio Grimaldi
Medicina agli ordini, o Medicina libera
Si parva licet componere magnis (se ci è permesso di confrontare il piccolo con il grande), la bomba che ha messo in crisi l’assetto viraldispotico e tecnoscientifico del nostro paese si potrebbe definire la sineddoche della sollevazione popolare che sta mettendo a ferro e fuoco almeno 40 dei 50 Stati della Federazione nordamericana. Quanto alla bomba, se è perfettamente adeguato dare del “bomba” al generale Pappalardo, bravo a trasformare in oro di visibilità la paglia coltivata nei cervelli di un po’ di arrabbiati, i suoi gilet arancioni non sono che il mortaretto che deve distrarre dal grosso botto con cui altri hanno scardinato il castello di carte false su cui da quattro mesi si erge il coronavirus.
Prima di addentrarci alle fiamme che bruciano quanto resta del più potente e violento paese del mondo, lasciatemi dire di questo ordigno finito tra i piedi dei congiurati col coltello ficcato nella schiena del popolo italiano. Tutto stava precedendo serenamente verso l’annunciata (e perciò programmata) seconda ondata della pandemia, vuoi a fine giugno, vuoi a ottobre, quando uno, che ai colleghi virologi da salotto tv e da comitato tecnico-scientifico, sta come l’Apollo del Belvedere sta ai finti Modigliani pescati a Livorno, decideva di dire basta! Il virus è morto, il virus non c’è più, lo spettacolo è finito, buonanotte ai musicanti.
Alberto Zangrillo, primario di terapia intensiva del S. Raffaele, sarà il medico di Berlusconi ma è anche il primatista italiano di studi epidemiologici pubblicati nelle più autorevoli riviste mediche del mondo.
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“Le potenze del capitalismo politico”: economia e sicurezza nazionale nella sfida Usa-Cina
Andrea Muratore intervista Alessandro Aresu
L’Osservatorio Globalizzazione torna a conversare con Alessandro Aresu, analista di “Limes” e saggista, confrontandosi con lui sulla sua più recente pubblicazione, “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, edito da “La Nave di Teseo” e incentrato sullo studio delle dinamiche cruciali per la determinazione dei rapporti di forza nell’era contemporanea. Tra rivalità tecnologica, uso “geopolitico” del diritto, corsa agli investimenti e sfida commerciale Washington e Pechino sono ora le uniche potenze in grado di governare gli strumenti del “capitalismo politico”, che incardina le priorità dell’economia nell’agenda della sicurezza nazionale delle due grandi potenze.
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Nel suo saggio lei definisce il capitalismo politico “la compenetrazione di economia e politica in un tutt’uno organico” in cui, inevitabilmente, sono le priorità e i ritmi della seconda a dettare i tempi. Stati Uniti e Cina sono i due attori che hanno la capacità di portare avanti un vero e proprio capitalismo politico: come si somigliano e come divergono, nei sommi capi, i loro approcci?
In Cina esiste il Partito Comunista, negli Stati Uniti c’è l’apparato militare e di sicurezza. Nel primo caso il “titolare” del capitalismo politico è un soggetto di 90 milioni di membri, che influenza in modo decisivo tutta la società. Nel secondo caso, non siamo in un sistema autoritario perché ci sono libertà politiche, ma alcune decisioni cruciali sono comunque prese dall’apparato militare, generando un allargamento del dominio della sicurezza nazionale rispetto al funzionamento dei mercati. Un’altra formula del “tutt’uno organico” si ha nelle modalità di controllo e nella pervasività di talune aziende digitali nelle nostre vite, di cui si potrebbe parlare a lungo.
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Il ritorno della Tragedia
di Jacopo Simonetta
L’idea di un ritorno della Tragedia nelle nostre vite è dell’amico Nicolò Bellanca. Un testo molto simile a questo è stato pubblicato su “Effetto Cassandra” il 13/03/2020 col titolo: Il ritorno del Fato. Cosa fare quando nessuna scelta è soddisfacente?
Si chiana “triage”. E’ ciò che viene fatto nei reparti di emergenza quando l’afflusso dei malati o dei feriti supera le capacità ricettive della struttura. I medici decidono allora chi soccorrere prima e chi dopo, se sarà ancora vivo. Ho sempre pensato che sia la cosa più brutta che possa capitare di fare ad un dottore, ma accade e i medici, come gli altri professionisti dell’emergenza (pompieri, militari, poliziotti, ecc.), sono almeno in parte preparati ad affrontare queste situazioni.
Noi gente normale no, ma non per questo possiamo esimerci dal fare delle scelte quando anche non-scegliere avrà comunque delle conseguenze.
Sta infatti svanendo la straordinaria bolla di pace e benessere che ha avvolto l’occidente per 70 anni, rendendoci completamente impreparati ad affrontare il concetto stesso di “tragedia”.
Non mi riferisco qui alle crisi di isterismo collettivo che ci travolgono ad ogni minima difficoltà, bensì all’incapacità di sostenere il peso della responsabilità di scelte che, qualunque cosa si decida di fare o di non fare, provocheranno gravi danni e sofferenze. Al di fuori della nostra fatiscente bolla, questo tipo di situazioni è invece frequente ed è stato magistralmente illustrato in molti capolavori della filosofia e della letteratura antica.
E’ la dinamica del Fato: gli uomini non sono semplicemente trascinati da un “destino beffardo”; al contrario sono chiamati a fare delle scelte le cui conseguenze saranno però ineluttabili, tanto che neppure Zeus le potrà modificare.
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Gli effetti perversi della moderazione salariale e la proposta di Stato innovatore di prima istanza
di Guglielmo Forges Davanzati
Stesura provvisoria – febbraio 2019
1 - Introduzione
Le politiche economiche messe in atto in Italia negli ultimi anni, in piena coerenza con quanto suggerito dalla commissione europea e con quanto realizzato in altri Paesi europei, si fondano essenzialmente su due assi: consolidamento fiscale e riforme strutturali. Il consolidamento fiscale viene raggiunto attraverso compressioni di spesa pubblica e aumento dell’onere fiscale, con riduzione, in particolare, della spesa sociale e per servizi di welfare e con aumento della tassazione – peraltro sempre meno progressiva – soprattutto a danno dei lavoratori. Le c.d. riforme strutturali riguardano i processi di privatizzazione e liberalizzazione e, soprattutto, ulteriori misure di precarizzazione del lavoro.
L’obiettivo di questa nota è (i) dar conto del fallimento di queste misure in relazione all’obiettivo dichiarato di generare ripresa della crescita economica e aumento del tasso di occupazione; (ii) articolare la proposta di un maggior intervento pubblico finalizzato a far diventare lo Stato occupatore e innovatore di prima istanza. Si tratta di una proposta tratta dalla tradizione teorica postkeynesiana (Minsky, in particolare) e ripresa nei tempi più recenti dagli studiosi della modernmoney theory. Su quest’ultimo aspetto, verrà articolata una critica ‘simpatetica’, basata sulla convinzione in base alla quale lo Stato, in un assetto capitalistico, non è un attore ‘neutrale’ rispetto ai rapporti di forza esistenti e verificati nel mercato del lavoro. Tutt’altro. Le politiche economiche risentono profondamente del conflitto capitale-lavoro (incluse le rendite finanziarie) e dei conflitti intercapitalistici. In tal senso, la proposta in oggetto, più che essere criticata sul piano ‘tecnico’ (possibili effetti inflazionistici, eventuale aumento del debito pubblico), dovrebbe tener conto della natura intrinsecamente di classe delle scelte di politica economica.
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