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“Per chi suona la campana”: etica ed epica di un capolavoro della letteratura mondiale

di Eros Barone

marina ginest 08bd1dca 11de 4bea b16c 01f99f9f961 resize 750 1.jpeg«Tu vai spesso dietro le loro linee» disse Karkov. [...] «Preferisco il fronte» aveva detto Robert Jordan. «Più si è vicini al fronte e migliore è la gente.» «E ti piace startene dietro le linee fasciste?» «Moltissimo. Abbiamo della gente in gamba là.» «Ebbene, cerca di capire che anche loro debbono egualmente avere la loro gente in gamba dietro le nostre linee. Noi li troviamo e li fuciliamo, e loro trovano i nostri e li fucilano. Quando stai dietro le linee loro, devi sempre pensare a quante persone loro debbono aver mandato dalla parte nostra.» «Ci ho pensato.»

Ernest Hemingway, “Per chi suona la campana”, cap. XVIII, Milano 1985.

Tutta l’opera di Hemingway è una critica della società: egli ha risposto ad ogni spinta morale del tempo, così come si fa sentire alla base dei rapporti umani, con una sensibilità che quasi non ha eguali [...]

Edmund Wilson, “La ferita e l’arco”, Milano 1973.

Ernest Hemingway amava profondamente la Spagna e la considerava come la sua seconda patria. Questa predilezione spiega l’intensità dei sentimenti con cui partecipò, fin dal luglio 1936, alla guerra civile spagnola, schierandosi ai primi posti tra i sostenitori della repubblica, come molti altri antifascisti americani ed europei. Nel corso di quella drammatica vicenda egli fu anche testimone dell’aspra lotta politica, ideologica e personalistica che divideva gli esponenti del governo repubblicano, i capi militari, i partiti e i rappresentanti delle forze internazionali che partecipavano alla guerra. Il romanzo “Per chi suona la campana”, scritto nel 1940, non narra soltanto un episodio significativo di quella vicenda militare, ma rispecchia anche i motivi politici e morali che, secondo l’autore, ne avevano segnato il cattivo andamento. Tuttavia, benché questi aspetti siano oggetto di una ricostruzione attenta e puntuale, il romanzo attinge il suo significato pregnante alla luce di una prospettiva ideale più ampia, fin quasi a configurarsi, per la carica simbolica che lo anima, come una vera e propria allegoria.

Una concisa sintesi della narrazione si rende perciò necessaria. Mentre in Spagna infuria la guerra civile, Robert Jordan, un giovane professore americano, si arruola come volontario nell’esercito repubblicano.

Inviato dietro le linee franchiste, raggiunge una banda di partigiani, con l’incarico di far saltare un ponte d’importanza strategica. Capo della banda, dopo il crollo morale di Pablo, che ne è il comandante nominale, è diventata Pilar, una fiera contadina. Nel gruppo c’è anche Maria, una ragazza di diciannove anni brutalmente violentata dai fascisti e salvata da Pilar. Jordan e Maria si innamorano al primo sguardo, ma gli avvenimenti precipitano e il disastro incombe. I franchisti attaccano un vicino avamposto partigiano e lo annientano. È chiaro che presto verrà la volta del gruppo di Pilar, ma Jordan, pur consapevole dell’inutilità della sua missione, fa ugualmente saltare il ponte. Quando sta per raggiungere i compagni, viene ferito a una gamba e rimane solo sulla collina ad aspettare il nemico e la morte.

Così, il ponte d’acciaio, che supera con un solo arco la ripida gola alpestre situata nel territorio controllato dalle forze franchiste e che Robert Jordan ha l’incarico di far saltare in concomitanza con l’inizio di un’offensiva repubblicana, sta al centro dell’azione narrativa dal primo capitolo all’ultimo: un’azione che, in questo romanzo di cinquecento pagine, occupa non più di una settantina di ore, vale a dire tre giorni scarsi e tre notti. I vari episodi, le conversazioni, i monologhi interiori e i richiami al passato ruotano tutti intorno al tema del ponte che occorre far saltare, finché Robert Jordan riuscirà nell’impresa, ormai diventata quasi inutile e il cui successo egli pagherà con la vita. Benché intuisca che il suo sacrificio e quello di molti altri non avrà di per se stesso alcun esito positivo, Robert riconosce nondimeno che «ci sono degli ordini necessari, di cui non avete colpa, e lì c’è un ponte, e quel ponte può diventare una svolta decisiva per il futuro dell’umanità. Come ogni cosa che accade in questa guerra. Tu hai una sola cosa da fare, e devi farla». Così diceva Robert Jordan a se stesso in uno dei primi capitoli, dopo aver ben studiato i luoghi della sua azione. E questa, nella sua cristallina semplicità, è la prima morale che il romanzo enuncia, collegandola strettamente all’impegno antifascista e socialista in nome del quale Rober ha scelto di partecipare, militando nelle file repubblicane, alla lotta contro il franchismo:

«Uno sentiva, a dispetto di tutta la burocrazia e l’incapacità e le liti di partito, qualcosa come il sentimento che uno si aspettava di avere e che non aveva avuto quando aveva fatto la prima comunione. Era il sentimento di consacrarsi a un dovere verso gli oppressi di tutto il mondo, di cui era difficile e imbarazzante parlare, così come di un’esperienza religiosa; e tuttavia era autentico come il sentimento che si prova ascoltando Bach, o quando nella cattedrale di Chartres o nella cattedrale di Leon si vede la luce penetrare attraverso le grandi finestre, o quando uno guarda i Mantegna, i Greco e i Brueghel al Prado. Uno aveva la sensazione di partecipare a qualche cosa in cui poteva credere interamente, completamente e nella quale sentiva un’assoluta fratellanza con tutti gli altri partecipanti. Era qualcosa che non aveva mai conosciuto prima, ma ora la provava, e uno dava tanta importanza a quel sentimento e ai suoi motivi che la sua stessa morte gli sembrava assolutamente irrilevante; una cosa da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento del proprio dovere. Ma la cosa migliore era che quel sentimento e quella necessità si potevano esprimere in qualche modo: combattendo».

Ma proprio perché al centro del suo romanzo sulla guerra civile spagnola Hemingway ha posto il dovere internazionalista verso gli oppressi di tutto il mondo, fondamentale è chiarire la posizione che assume Robert, in quanto intellettuale antifascista, di fronte alla violenza della guerra: tra i temi cruciali affrontati vi è infatti la discussione dei problemi di disciplina, di rendimento militare e di sviluppo della coscienza politica dei membri dei gruppi resistenti (un esercito che non è un esercito), assieme alla meditazione sulla violenza (franchista, ma anche partigiana) e sulle responsabilità personali che Robert ha verso gli altri uomini del distaccamento (la cui morte o sopravvivenza dipende dal successo della sua impresa). Da questo punto di vista, in “Per chi suona la campana” sono importanti le posizioni espresse dal generale sovietico Karkov. Il quale spiega a Robert il ruolo essenziale della disciplina militare e della necessità dell’osservanza di un’ortodossìa ideologica nei gruppi partigiani, affinché lo sviluppo di una salda coscienza politica rinnovi negli uomini l’entusiasmo della lotta. Una coscienza politica matura, egli osserva, fa da pieno supporto al rendimento militare delle brigate in guerra, perché solo essa rivela il fine ultimo per cui si combatte. L’educazione politica del partigiano permette al singolo di comprendere le motivazioni sociali della lotta e di rendersi conto delle finalità generali. Per questo, ricorda Karkov a Robert, «un esercito che è fatto di elementi buoni e cattivi non può vincere una guerra. Tutti debbono essere portati a un certo livello di sviluppo politico, tutti devono sapere perché stanno combattendo e l’importanza della lotta. Tutti debbono credere nella battaglia che debbono combattere e tutti debbono accettare la disciplina». L’argomentazione è stringente: “tutti”, nessuno escluso; ogni individuo deve sapere, credere, combattere, accettare; e l’unico modo è dimenticare le ragioni private e abbracciare i fini ultimi, dimenticando se stesso. È una posizione, questa, che Robert accetta da un punto di vista militare: si tratta, per l’appunto, della disciplina comunista. «Qui in Spagna – osserva Robert - i comunisti erano la gente più disciplinata e facevano la guerra nel modo più intelligente e sano. Egli accettava la loro disciplina perché, nella condotta della guerra, il partito comunista era l’unico il cui programma e la cui disciplina egli potesse rispettare».

E invero, il fatto che la fisionomia etico-politica di Robert, così come viene tratteggiata da Hemingway, sia quella, insieme, di un valente uomo d’azione, di un amante appassionato e di un intellettuale rigoroso, non caratterizza solo il protagonista di “Per chi suona la campana”, ma risponde ad un clima morale che pervade l’intero romanzo. La lezione che se ne ricava è quella di un’attitudine aperta e generosa, d’impegno pratico – tecnico e morale insieme – nelle cose che si dovevano fare. Di questa lezione faranno tesoro, fra molti altri, scrittori come Elio Vittorini, autore di “Uomini e no”, romanzo sulle azioni dei Gap, e come Italo Calvino, autore del “Sentiero dei nidi di ragno”, romanzo che narra le peripezie di una banda partigiana in Liguria. Sennonché ciò che, sulle orme di Hemingway, questi scrittori della Resistenza italiana intendono suggerire è che la scelta di un impegno umano fondamentale non va orientata, da chi la compie, in un’unica direzione, poiché in tal modo l’attivismo rischia di trasformarsi o in fanatismo o nella rinuncia ad avere con la vita un rapporto libero e pieno. La convinzione di Hemingway è che in questo campo non vige la “divisione del lavoro”, ma occorre agire per uno scopo e nel medesimo tempo non escludere altre esigenze che sembrino anche contrastare per il momento con tale scopo. Il pericolo che incombe su chi compie una scelta di impegno totalizzante è infatti quello di vedere le cose da una parte sola, finendo per cedere alla brutalità o all’automatismo, laddove la finalità precipua di coloro che non intendono adottare un simile modello di comportamento dovrebbe essere quella di non risultare già morti dentro di sé quando ancora si è vivi. Non per nulla il messaggio del romanzo, fondato come è sulla coincidenza di etica ed epica, è risolutamente contrario all’individualismo e al disimpegno nei rapporti con gli altri: due atteggiamenti cui “Per chi suona la campana” è del tutto estraneo, come indicano in modo inequivocabile i celebri versi di John Donne, che Hemingway ha messo come epigrafe del romanzo e che vengono ripresi già nel titolo.

«Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso... Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. [...] Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te.»

D’altra parte, è opportuno aggiungere, riguardo alla costellazione simbolica di cui questo romanzo è il veicolo narrativo, che il significato più profondo di quei versi non riguarda solo il morire fisicamente, ma nasce dalla scoperta agghiacciante che vivere fra ‘morti-che-vivono’ è già avere la morte in casa.

Ecco perché di Robert Jordan e di “Per chi suona la campana” vanno salvaguardati, dal punto di vista della costruzione di un’etica rivoluzionaria, i punti di forza essenziali e irriducibili: l’etica del fare e la coerenza morale, che tengono ben fermo il senso storico delle azioni di ognuno di noi. Ed è in questo quadro etico-politico che Hemingway inserisce la stessa vicenda sentimentale di Robert e di Maria. In “Per chi suona la campana” è infatti l’amore che Robert nutre per Maria l’esperienza che lo porta a raggiungere una piena chiarezza: fa parte del suo processo di autocoscienza, gli fa accettare il proprio destino e lo rende consapevole che quel destino è un destino di liberazione umana, sia a livello individuale che a livello collettivo.

« […] e, dimmi, faccio bene ad amare Maria? «Sì» rispose a se stesso. Anche se una cosa come l’amore non può essere ammessa in una concezione puramente materialistica della società? Quando mai hai avuto una simile concezione? Egli stesso si domandò. Mai. E non avresti nemmeno potuto averla. Tu non sei un vero marxista e lo sai. Tu credi nella Libertà, nell’Eguaglianza e nella Fraternità. Credi nella Vita, nella Libertà e nella Ricerca della Felicità. Bada a non confonderti troppo con la dialettica. La dialettica va bene per certuni, ma non per te. Bisogna intendersene, per non essere messo nel sacco. Tu hai messo temporaneamente molte cose in second’ordine per vincere la guerra. Se questa guerra sarà perduta, tutte quelle cose saranno perdute. Ma in seguito potrai scartare le cose nelle quali non credi. Ci sono una quantità di cose in cui non credi e una quantità di cose in cui credi. Un’altra cosa. Non prendere mai alla leggera l’amore. La verità è che la maggior parte della gente non ha mai avuto la fortuna di amare qualcuno. Tu non l’avevi mai avuta sinora, questa fortuna, e ora l’hai. Quello che tu e Maria avete, che duri solo oggi e una parte di domani, o duri tutta una lunga vita è la cosa più importante che può capitare a un essere umano. Ci saranno sempre persone che diranno che non esiste perché non possono averla. Ma io ti dico che è vero, che tu la possiedi e che sei fortunato, anche se domani morrai.»

È questa primordiale dialettica di morte e di felicità che rafforza l’impegno di Robert nella guerra e nella sua missione: proprio attraverso ragioni che sono individuali e personali (l’amore dell’altro) s’illuminano e si chiariscono le ragioni della lotta collettiva che, di conseguenza, diventa una «cosa esatta», in cui ogni elemento deve stare al suo posto per il suo convergere sul fine perseguito. Non solo: questa chiarezza porta anche ad eliminare le paure (di cui si riconosce la natura irrazionale) e a conoscere ed accettare il proprio destino, quale che esso sia («Sai quello che potrai fare e sai quello che può accadere»), nella consapevolezza che l’agire individuale, in un contesto più ampio, non si ferma all’individuo che compie le azioni, ma ha una risonanza collettiva: anche la morte propria («sai quello che può accadere») è «una cosa da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento del proprio dovere».

«Sai che fino a che ti ho incontrata non avevo mai chiesto nulla? Né desiderato niente? Né pensavo a niente tranne al movimento e a vincere questa guerra? Sono veramente stato un puro. Ho lavorato molto e ora ti amo» diss’egli abbandonandosi completamente a tutto ciò che non sarebbe mai stato, «ti amo come amo tutto ciò per cui abbiamo combattuto. Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli uomini di lavorare e di non aver fame. Ti amo come amo Madrid che abbiamo difesa e come amo tutti i miei camerati che sono morti. E ne sono morti molti. Molti. Molti. Tu non puoi sapere quanti. Ma io ti amo di più. Ti amo molto, coniglietto. Più che non possa dirti. Ma ti dico ora questo per dirtelo un poco. Non ho mai avuto una moglie ed ora ho te per moglie e sono felice.»

L’amore per Maria alimenta dunque la lotta, la rende più urgente e ne palesa le ragioni («Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli uomini di lavorare e di non aver fame»). La felicità che deriva dall’amore in ultima analisi rafforza, non diminuisce, la determinazione a «vincere questa guerra». «Una guerra in cui, qualunque cosa facciano, i partigiani portano, alla gente che offre loro asilo e collabora con loro, nuovi pericoli e sventure. Perché? Perché un giorno ogni pericolo sia vinto e il paese sia un posto dove si viva bene. Questo era vero anche se suonava banale. Se la Repubblica avesse perduto la guerra non ci sarebbe stato più posto in Spagna per quelli che ci avevano creduto […] poiché sapeva quello che era accaduto nelle regioni già prese dai fascisti.»

Ma «perché un giorno ogni pericolo sia vinto e il paese sia un posto dove si viva bene» occorre comprendere che è necessario agire nelle retrovie del nemico e far saltare quel ponte: due azioni strettamente connesse in cui Hemingway ha riconosciuto, sia pure a livello simbolico ma con una profonda intelligenza storica e una capacità evocativa impareggiabile, il programma della rivoluzione e il presupposto indispensabile della lotta per un mondo migliore.


Indicazioni bibliografiche
Ernest Hemingway, “Per chi suona la campana” (“For Whom the Bell Tools”, New York 1940), traduzione di Maria Napolitano Martone [1945], Milano 1985
Georges Bataille, “Heminway à la lumière de Hegel”, «Critique», marzo 1953
Anthony Burgess, “L’importanza di chiamarsi Hemingway”, Roma 2008
Italo Calvino, “Hemingway e noi”, «Il Contemporaneo», 13 novembre 1954
Giovanni Cecchin, “Invito alla lettura di Ernest Hemingway”, Milano 2013
Andrea Dini, “Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»” [cfr. sulla Rete]
Elio Vittorini, “Diario in Pubblico”, Milano 1957 [cfr. ‘ad vocem’]
Edmund Wilson, “La ferita e l’arco”, Milano 1973
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