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Dopo il neoliberalismo: analizzare il presente*
Stuart Hall, Doreen Massey and Michael Rustin
A poche settimane dalla sua morte, pubblichiamo il manifesto scritto nel 2013 da STUART HALL insieme a DOREEN MASSEY e MICHAEL RUSTIN
Con la crisi bancaria e creditizia del 2007-2008 e le sue ripercussioni in tutto il globo, è imploso il sistema neoliberale o del capitalismo del libero mercato, che a partire dal 1980 ha dominato il mondo per tre decenni. Quando la dimensione del debito tossico è diventata evidente, il credito e i prestiti interbancari si sono prosciugati, la spesa ha rallentato, le uscite sono diminuite e la disoccupazione si è impennata. I settori finanziari altamente inflazionati, che hanno speculato in attività in gran parte estranee all’economia reale di beni e servizi, hanno fatto precipitare una crisi le cui conseguenze catastrofiche si stanno ancora dispiegando.
Crediamo che il dibattito politico mainstream semplicemente non riconosca la profondità di questa crisi, né il conseguente bisogno di un ripensamento radicale. Il modello economico che ha sostenuto il regime sociale e politico degli ultimi tre decenni si sta disfacendo, ma apparentemente resta al suo posto il più ampio consenso politico e sociale. Proponiamo dunque questa analisi come un contributo al dibattito, nella speranza che aiuti le persone di sinistra a pensare maggiormente a come spostare i parametri del dibattito, passando dai piccoli palliativi e dalle misure restaurative all’apertura di una strada verso una nuova era politica e a una nuova interpretazione di ciò che costituisce la buona società[1].
Per tre decenni il sistema neoliberale ha generato grandi profitti per le multinazionali, le istituzioni di investimento e i capitalisti di ventura, notevoli accumulazioni di ricchezza per i nuovi super-ricchi globali, mentre ha vistosamente accresciuto il divario tra ricchi e poveri e ha approfondito le ineguaglianze di reddito, salute e possibilità di vita all’interno e tra i paesi, in un modo che non si vedeva da prima della seconda guerra mondiale.
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La rete conquistata a colpi di cinguettii
di Benedetto Vecchi
Tutto ha inizio quando il clima un plumbeo seguito al crollo del Nasdaq del 2001 comincia a diradarsi. In Rete c’è una società, Google, che fa parlare molto di sé. Fornisce un motore di ricerca che aiuta navigare in Internet. Fa molti profitti, vendendo a milioni di piccoli inserzionisti spazi pubblicitari a pochi centesimi di dollaro. I suoi fondatori, Larry Page e Sergey Brin, sostengono che mai e poi mai faranno come la Microsoft, ormai sorvegliata speciale da giudici e dal dipartimento della giustizia statunitense che l’accusano di pratiche monopoliste. Google fornisce i suoi servizi gratuitamente e nella sede a Mountain View campeggia il motto “Don’t be evil”, non essere il diavolo, chiara allusione proprio alle strategie della Microsoft. Usa programmi informatici open source e i suoi fondatori criticano apertamente le leggi sulla proprietà intellettuale, omettendo però il fatto che l’algoritmo alla base del suo motore di ricerca è coperto da un brevetto e che è stato sviluppato all’interno di un progetto di ricerca finanziato anche da soldi pubblici. Nel frattempo, un giovane e spregiudicato di nome Mark Zuckeberg ha lanciato un servizio per condividere con amici e conoscente impressioni, pensieri, immagini. Si chiama Facebook, ed è indicato come il secondo, rilevante segnale che il web è arrivato alla fase del 2.0.
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Oltre
di Elisabetta Teghil
Nel passaggio dalla sussunzione del lavoro da dominio formale a reale, il capitale conquista tutta la società,le relazioni sociali nelle sue condizioni di riproduzione, compreso il patriarcato.
Tutto lo spazio e il tempo della vita quotidiana di ognuna/o, di ogni individuo, viene sottomesso alle leggi del capitale ed il patriarcato ne è un momento. Il capitale, in questa stagione, sa ed è globale in quanto abbraccia tutte le relazioni sociali, non solo quelle classiche, il lavoro e la politica, ma anche quelle familiari, culturali, sentimentali.
Pertanto investe, rinnova, rimodella, mantiene ed esalta il patriarcato.
Il nostro movimento di liberazione non può che essere la manifestazione di slanci ed episodi, spontanei ed organizzati, piccoli e grandi, continui e quotidiani, di rifiuto, di rigetto del modo di vivere patriarcale, così come si esprime oggi nella società neoliberista che non è altro che lo stadio dell’autosviluppo del capitale.
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Dopo il 'Dopo la fisica'
Recensione di un libro di Carlo Rovelli
Pierluigi Fagan
Metafisica è un termine che inizialmente venne coniato per ragioni editoriali da parte di chi si occupò di ripubblicare le opere di Aristotele prelevandole dall’oblio in cui erano sparite due secoli dopo la loro prima apparizione. Esso ebbe quindi un significato tecnico: gli scritti di Aristotele pubblicati dopo quelli della Fisica, -metà ta physikà-, dopo la fisica. Da allora, sino ad oggi, il termine ha perso il suo specifico tecnico ed è diventato il titolo di una nuvola di pensieri astratti che ha determinato il corso della nostra filosofia, quindi della nostra facoltà pensante, delle sue regole e procedure, del come determiniamo l’esistenza stessa degli oggetti del pensiero, quel pensiero con cui pensiamo noi ed il Mondo, che orienta le nostre azioni nel Mondo. Lo statuto di questa nuvola di pensieri e modi di pensare nasce ambiguo poiché lo stesso Aristotele, a cui era ignoto il termine metafisica, definiva quell’ambito “filosofia prima”. Quel “prima” ingenerava una gerarchia controintuitiva, poiché ciò che si leggeva per primo (il mondo fisico e fenomenico) era in realtà causato da un prima, da principi precedenti, di cui appunto si occupava la filosofia prima, che però compariva per seconda. Il mondo che ci appare per primo è secondo alla lettura dei principi che lo determinano oggetto di una filosofi prima che retrocede quella che ha in oggetto il mondo, a seconda.
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Ma Renzi lo conosce il Fiscal Compact?
di Thomas Fazi
E se la risposta è no, cosa ne avrà pensato Angela Merkel?
Cosa avrà detto ieri alla Merkel Matteo Renzi? Avrà senz’altro ammorbidito i toni rispetto a qualche anno fa – quando da sindaco si diceva pronto a violare il “patto di stupidità” –, e avrà ribadito che “nessuno si sogna di sforare il tetto” del famigerato 3% di rapporto deficit/Pil stabilito dal Trattato di Maastricht, come ha ripetuto in conferenza stampa. Chissà però se Renzi ha ripetuto quello che ha detto agli italiani e cioè che vorrà sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Patto. La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. L’annuncio sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che esso si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, cosa che sembra la Merkel gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Angela ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. Sembra che i tedeschi si siano orientati su quest’ultima possibilità.
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Sfuggire al capitalismo neo-liberale
Antonio Lucci
Con una piccola esagerazione (tale solo a causa dei giganti che ci accingiamo a portare come pietre di paragone) si potrebbe sostenere che uno dei più interessanti eredi del pensiero critico francese, dopo la morte di Deleuze, Debord e Baudrillard, sia un italiano, Maurizio Lazzarato.
Dopo La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013), Lazzarato continua la sua indagine sui modelli filosofici e antropologici sottesi alla nostra attuale condizione di “uomini indebitati”. Il lavoro precedente del filosofo e sociologo post-operaista da anni emigrato in Francia, era incentrato – a partire da Nietzsche e Deleuze – sulla ricostruzione di un modello antropologico che potrebbe essere definito come quello dell’ “uomo indebitato”: di quel particolare tipo di soggettività che gli apparati mediatici e di potere promulgano a viva voce quotidianamente a partire dallo scoppio della bolla economica degli immobili negli USA.
Rispetto a quel testo i saggi che formano Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista /DeriveApprodi, 2013) rappresentano sicuramente un passo in avanti, per lo meno dal punto di vista filosofico.
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Il moltiplicatore monetario è morto
di Frances Coppola
Il report trimestrale della Banca d'Inghilterra (BoE) contiene una descrizione dettagliata di come funziona la creazione di moneta nell'economia a corso forzoso del Regno Unito.
Dotata di un manuale sulla moneta e di un paio di video esplicativi piacevolmente ambientati nei caveau dell’oro (vorrei sapere: dov’è il bancale etichettato "Germania"?), è una guida completa e chiara.
Ed è controversa. Rigetta le teorie convenzionali sui prestiti bancari e sulla creazione di moneta (il grassetto è mio):
• Non succede più che le banche ricevono depositi quando le famiglie risparmiano e poi li prestano, sono i prestiti bancari che creano i depositi.
• Normalmente, la banca centrale non determina la quantità di moneta in circolazione, e la moneta della banca centrale non viene ‘moltiplicata’ in altri prestiti e depositi.”
Di certo, numerose pubblicazioni di molti eminenti ricercatori e prestigiose istituzioni (inclusa la FED, l’FMI, la BCE e la Banca dei Pagamenti Internazionali) hanno dubitato che la teoria convenzionale fornisca una spiegazione adeguata della creazione di moneta in un moderno sistema a corso forzoso.
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Quando arrivano i nostri?
Considerazioni sul libro dei Clash City Workers
nique la police
Curiosamente, mentre leggo il lavoro collettivo dei Clash City Workers (Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, La casa Usher, Firenze-Lucca 2014) mi arriva un testo, ordinato, di due studiosi dell’Hamilton College di New York (Henry Rutz, Herol Balkan, Reproducing Class: Education, Neoliberalism, and the Rise of the New Middle Class in Istanbul, BerghahnBooks, Oxford-New York, 2013): insomma la questione del ripensamento del concetto di classe, e della sua morfologia reale, finisce sempre per raggiungerti da più parti. Certo, il lavoro di Rutz e Balkan non solo riguarda un’altra classe, quella media, ma anche un altro paese, la Turchia, in un periodo economico molto diverso. Infatti buona parte del lavoro etnografico di Reproducing Class risale al periodo in cui il Pil turco cresceva mediamente del 4% annuo, anni ’90, mentre una parte successiva è del periodo in cui il prodotto interno lordo ha sfondato persino il 7% (metà anni 2000). Eppure il lavoro di Rutz e Balkan, come vedremo, finisce per tornare utile proprio per completare il commento al testo collettivo dei Clash City Workers. Testo che parla, al contrario, non solo delle classi subalterne ma di un paese, come ricordato nell’introduzione, dove sono oltre 150 i tavoli di crisi aperti presso il ministero del lavoro. E in questo scenario la necessità impellente, che muove Dove sono i nostri, è quella di capire il profilo sociologico dei conflitti di classe in Italia.
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Che fine ha fatto il conflitto sociale?
Senza conflitto non c’è democrazia
di Lapo Berti
Il conflitto novecentesco
Il novecento è stato un secolo di grandi conflitti sociali che hanno segnato gli andamenti della politica e il divenire della società giungendo a condizionare anche il contesto economico. Si è trattato a lungo di conflitti che avevano come scenario privilegiato, se non unico, il mondo del lavoro e come teatro la fabbrica, in particolare la grande fabbrica in cui si è consumata l’era della produzione di massa e si è affermato il mito del fordismo. Le condizioni di lavoro, la remunerazione del lavoro, talora i rapporti di potere, erano la posta in gioco. La sospensione del lavoro era lo strumento, l’arma, con cui questi conflitti venivano combattuti. Il conflitto in fabbrica era nel contempo causa ed effetto di un processo di socializzazione che aveva al centro il processo lavorativo e le esperienze di condivisione e di riconoscimento che in esso si generavano. Si può forse parlare, in questo senso, di una vera e propria antropologia fordista, di un uomo forgiato dentro il crogiolo di un’esperienza collettiva assorbente e totalizzante perché fortemente congiunta con la speranza di un cambiamento radicale dei rapporti sociali e delle condizioni di vita.
Quei conflitti, che avevano nella grande fabbrica la loro matrice sociale e il luogo eletto della loro elaborazione e manifestazione, hanno plasmato la società del novecento, ne hanno condizionato l’evoluzione, ne hanno segnato la cultura.
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George Orwell e la critica della modernità
di Robert Kurz
Nella storia della letteratura, sono apparse, regolarmente, alcune "opere universali" o "opere del secolo": metafore di tutta un'epoca per le quali l'effetto è stato così importante che la loro eco continua a risuonare fino ai nostri giorni. Non è assolutamente per caso che la forma letteraria di tali opere sia stata spesso la parabola. Questa forma permette di rappresentare idee filosofiche fondamentali di modo che esse vengano recepite come se fossero delle storie pittoresche ed accattivanti. Una tale doppia natura fa sì che l'opera non comunichi la stessa cosa a chi è già formato teoricamente, da una parte, e al bambino o all'adolescente, dall'altra, però entrambi possono divorare il libro allo stesso modo. Ed è proprio questo ad alimentare la profonda impressione lasciata da tali opere nella coscienza mondiale, fino a renderli topos del pensiero quotidiano e dell'immaginazione sociale.
Nel XVIII secolo, Daniel Defoe e Jonathan Swift, con le loro grandi parabole, hanno fornito dei paradigmi al nascente mondo della modernità capitalista. Il Robinson di Defoe divenne il prototipo dell'uomo diligente, ottimista, razionale, bianco e borghese, che crea, dopo aver concepito un piano rigoroso, un mondo fisico sull'isola selvaggia, in quanto custode della sua anima e della sua esistenza economica, un luogo piacevole a partire dal niente, e che riesce inoltre ad elevare per mezzo del "lavoro" l'uomo di colore "sottosviluppato" ai meravigliosi comportamenti civilizzati.
Al contrario, il Gulliver di Swift vaga attraverso dei mondi favolosi, tanto bizzarri quanto spaventosi, nei quali la modernizzazione capitalista si riflette in quanto satira mordente e come parodia delle "virtù dell'uomo moderno" di Defoe.
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“Neoliberalismo. Un’introduzione critica”
Recensione
di Piotr Zygulski
Il saggio di Giovanni Leghissa Neoliberalismo. Un’introduzione critica, edito da Mimesis nel 2012, è un libro che si propone di scavare nella pervasività della “condizione neoliberale” per problematizzarla criticamente.
Come si può già intuire dal lessico utilizzato in questa premessa, l’Autore mostra un’esplicita impostazione foucaultiana, che fa ampio uso di concetti quali biopolitica, dispositivo, antropotecnica e govermentalità per analizzare lo scenario presente. Al contempo, egli presta attenzione a non cadere in un impasse “malinconico” che a suo dire caratterizzerebbe il neoliberalismo. Per spiegarci meglio, la “malinconia neoliberale” sarebbe causata dall’impossibilità di separare la sfera politica – ossia l’ambito in cui perseguire la felicità – dalla sfera economica dello scambio di beni.
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Il governo Renzi e la finanza
di Guglielmo Forges Davanzati
Il Governo Renzi annuncia un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (con eccezione dei titoli del debito pubblico), per provare a recuperare risorse per finanziare i provvedimenti che, nello stesso programma, dovrebbero creare le condizioni di fuoriuscita dell’Italia dalla recessione.
Le obiezioni sollevate sono molteplici e riconducibili alle seguenti. In primo luogo, non è assolutamente certo che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari dal 20 al 26 per cento saranno in grado di generare entrate di entità tali da garantire la totale copertura del taglio dell’Irap. L’aumento dell’aliquota potrebbe determinare un calo della domanda di titoli, di entità tale da generare semmai una riduzione del gettito. In secondo luogo, l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie attuata da un singolo Stato (sebbene questo provvedimento ponga la tassazione italiana sulle rendite più in linea con quella europea) – in mercati finanziari globali pressoché totalmente deregolamentati – rischia di generare fughe di capitali e, anche per questa via, di vanificare l’obiettivo di recuperare risorse.
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Cattivi maestri e cattivi padri
Appunti di una pedagogia per orfani
di Gerolamo Cardini
La pedagogia, in quanto studio dei processi formativi degli esseri umani che coinvolgono unitamente educazione e istruzione, è da sempre troppo intrisa di politica per lasciarla ai pedagogisti. Se il suo intento disciplinante, di per sé non deprecabile se si fa riferimento alla disciplina come forza autonoma, può diventare oppressivo, l’opposizione a essa, spesso supportata da una credenza, secondo la quale crescere ‘spontaneamente’ e ‘naturalmente’ è salutare – fingendo di non sapere che spontaneità e natura sono costruzioni artificiali – ha portato a processi di emancipazione da codici autoritari, moltiplicatori, quando non addirittura forieri, di disuguaglianze d’ogni genere. Non ha saputo, però, tenere separata la necessità della critica al sapere e ai modi della sua trasmissione dall’istigazione della società ad abbracciare l’etica del «godimento», che si sta diffondendo, secondo alcune recenti riflessioni di Massimo Recalcati[2], grazie alla capacità del capitalismo contemporaneo di mettere in crisi, se non addirittura di far evaporare, il ruolo del Padre
Il Padre o il Maestro è, non solo simbolicamente, «un personaggio che ‘ne sa di più’, e che, in grazia di questo maggior sapere, ha posizione egemone su di un altro che ‘ne sa di meno’»[3]: una posizione in cui il maggior sapere porta di solito con sé anche un maggior potere.
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Ce la farà lo spaccone Renzi?
di Leonardo Mazzei
Lo show del premier e i vincoli dell'euro
Com'è nello stile del personaggio, per ora siamo agli annunci, anzi allo show. Vedremo poi cosa seguirà. Occorre una certa prudenza nel giudicare il senso complessivo delle scelte comunicate ieri dal presidente del consiglio. Tanti gli interrogativi che non hanno ancora una risposta, dato che per ora si conoscono i titoli ma non il contenuto dei singoli provvedimenti. Limitiamoci dunque ad alcune considerazioni di carattere generale.
1. Il piccolo Berlusconi cresce
Lo stile non è tutto, ma ha la sua importanza. Dopo aver incassato alla Camera un sì assai risicato alla super-truffa della sua legge elettorale, Renzi ha deciso di giocare immediatamente all'attacco sul terreno fiscale e del lavoro. Lo ha fatto in maniera smaccatamente elettoralistica, promettendo mille euro di sgravi fiscali ai 10 milioni di lavoratori con un reddito netto inferiore ai 1.500 euro mensili. I primi effetti in busta paga dovrebbero arrivare a maggio, il mese delle elezioni europee...
Manterrà questa promessa? Non lo sappiamo, ma ancor meno sappiamo sui meccanismi tecnici che dovrebbero portare a questo risultato, probabilmente un mix di maggiori detrazioni e ricalibratura delle aliquote Irpef. Da dove arriveranno questi 10 miliardi ancora non si sa, ma di certo i tagli di spesa di Cottarelli non saranno sufficienti. L'imprecisione è tale che Berlusconi, quello vero, ha parlato di una manovra che fa apparire la famosa "finanza creativa" di Tremonti come una cosa da ragazzi. Una valutazione che probabilmente nasconde una certa invidia per il suo clone in salsa piddina...
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Il terrorismo della virtù
Marco Bascetta
Eduard Meyer, il grande storico dell’antichità tedesco (1855–1930) definì una volta il giacobinismo come un sistema per mandare a morte migliaia di persone colpevoli di non essere virtuose. Non gli si può dare del tutto torto sebbene, nel pieno di una rivoluzione, l’idea di virtù non risponda perlopiù al suo significato ordinario e si presti a ogni sorta di manipolazioni. Ai guasti della rivoluzione giacobina vorrebbe richiamarsi idealmente il titolo di un libro uscito a fine febbraio in Germania, Der neue Tugendterror («Il nuovo terrorismo della virtù») che si propone in quasi 400 pagine di demolire la dottrina del «politicamente corretto», attraverso la quale l’egemonia della sinistra sul mondo dei media impedirebbe l’espressione di ogni pensiero dissonante con lo scopo di occultare scomode verità e scabrose circostanze.
Ma a dire il vero tutto può essere imputato al «comitato di salute pubblica» salvo di esser stato politicamente corretto.
L’autore del monumentale pamphlet si chiama Thilo Sarrazin ed esprime opinioni non dissimili dalla nostra Oriana Fallaci ultima maniera, o da Giampaolo Pansa. E anche la lamentazione sull’improbabile spettro di una egemonia culturale della sinistra (che una sola apparizione di Matteo Renzi farebbe immediatamente scomparire) è ben nota da un pezzo alle nostre latitudini.
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Viaggio in Italia
Maurizio Sgroi
Nella morsa degli opposti automatismi
E poi a un certo punto mi viene da ridere.
Stavo leggendo con raro masochismo l’ultimo Macroeconomic imbalances dedicato all’Italia della Commissione europea, di cui tutti hanno parlato ma chissà quanti hanno letto. I giornali se la sono cavata con i soliti titoli riciclati sulla bocciatura italiana e l’hanno subito buttata in politica: Saccomanni qua, Renzi là, e il solito balletto di frasi fatte e indignazioni.
Un vero peccato. Perché nelle 68 pagine del rapporto europeo ci stanno un sacco di informazioni che aiutano a capire bene lo straordinario cul de sac nel quale siamo finiti.
Una di quelle situazioni da romanzo nelle quali qualunque cosa fai sbagli.
Solo che non è un romanzo.
Perciò a un certo punto mi viene da ridere. Mi trovo a pagina 44 e leggo “che un calo nella domanda domestica in Italia colpisce negativamente i paesi dell’area euro”. E poco prima, sempre la commissione, aveva ammonito sulla delicatezza dei link finanziari fra banche italiane e del resto del mondo, europeo in particolare.
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Ma quanti governi contiene il governo Renzi?
nique la police

Come si sa, a meno di non essere in preda ad una delle tante forme esistenti di complottismo, non esistono governi organici. Ogni governo è, dal punto di vista politico, un incrocio di complessità e di instabilità, di imprevisti che ritroviamo, in sottofondo, anche nelle dittature. Il governo Renzi sembra proprio, nonostante il marketing, essere fin troppo attraversato da complessità e instabilità, per non parlare degli imprevisti.
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Democrazia autoritaria
di Elisabetta Teghil
La Repubblica rifondata sulla sicurezza interna è una scelta dello Stato e dell’iper-borghesia o borghesia imperialista contro la conflittualità sociale e dettata dalla necessità di realizzare compiutamente il neoliberismo. Quest’ultimo è un’ideologia nel senso più compiuto del termine come visione onnicomprensiva della società. E’ l’approdo inevitabile dell’autoespansione del capitale così come l’iper-borghesia è l’autovalorizzazione di una borghesia transnazionale.
Il neoliberismo ha bisogno dello smantellamento delle situazioni economiche marginali e di sussistenza, l’iper-borghesia dell’emarginazione sociale ed economica di tutti gli altri strati della borghesia. Da qui le guerre neocoloniali e il rovesciamento di governi asimmetrici a questo progetto. Ed, altresì, il depauperamento di ampi strati della popolazione nei paesi occidentali.
La così detta crisi non è qualche cosa di inatteso o di correggibile con questa o quella formula, ma è un momento costitutivo della società neoliberista.
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Europeismo, euroscetticismo e sovranità nazionale
di Enrico Grazzini
La sinistra vuole un'altra Europa, una Europa rifondata: ma prima occorre prendere coscienza che per realizzarla è necessario smantellare l'attuale architettura dell'Unione Europea e demolire i presupposti alla base dell'unione monetaria. Riformare i vigenti trattati europei è un tentativo nobile. Ma è anche una missione pressoché impossibile perché occorre l'unanimità del voto di tutti i 28 paesi UE per modificare il trattato di Maastricht. Anche per innovare lo statuto della Banca Centrale Europea occorre l'assenso dei 28 paesi. Basterebbe l'opposizione di un solo stato, di un solo governo, per bloccare ogni tentativo di riforma! E' più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli!
Sul piano politico, è improbabile riformare la UE in senso progressista dal momento che i governi europei che contano, con l'eccezione della Francia socialista, sono conservatori (Gran Bretagna), di centrodestra (Spagna) o di larghe intese (Germania, Italia). Per costruire un'Europa socialmente e ambientalmente sostenibile occorrerebbe però (condizione necessaria ma certo non sufficiente) che nei maggiori paesi della UE, Germania compresa, nel giro di pochi anni andassero al potere governi di sinistra. Tuttavia lo spostamento a sinistra dell'Europa è davvero molto difficile. E' già arduo riuscire a eleggere un governo di sinistra in un solo paese, figuriamoci nella maggioranza dei 28 paesi!
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La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes
Riccardo Bellofiore
Le note che seguono sono nient’altro che appunti, incompleti, sulla ‘socializzazione degli investimenti’: espressione che compare, in modo cruciale, nell’ultimo capitolo della Teoria generale di Keynes. Il termine, negli anni a noi più vicini, è diventato di moda, soprattutto in una certa sinistra (quella che non si sa più come chiamare: alternativa, radicale; certo non di classe). Come di consueto, ciò è avvenuto in modo generico e acritico, all’interno di una troppo confusa ripresa di Keynes. Essendo stato tra quelli che la socializzazione degli investimenti la avevano, per così dire, nel proprio codice genetico da decenni, ma in un senso non poco diverso dalla lettera dell’economista cantabrigense, ciò che proporrò qui è un percorso di lettura (spesso costituito da pure e semplici citazioni, parafrasi), che aiutino ad orientarsi. Seguirà un breve richiamo agli usi che ne ho proposto in passato, ben prima della nuova vulgata in formazione, e qualche considerazione più strettamente teorica e politica.
Keynes
L’ultimo capitolo del libro del 1936 si apre con la affermazione, comprensibile ma limitata e discutibile, che i limiti principali della società economica in cui viviamo son costituiti dall’incapacità di dar vita al pieno impiego (senza l’intervento attivo dello Stato) e da una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito (se non vi sono interventi correttivi).
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Nessun appello per le scienze umane
di Annalisa Andreoni
L’appello di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia in difesa delle discipline umanistiche uscito su una rivista autorevole come il Mulino (6/2013) ha la singolare capacità di far fare al dibattito sulla crisi culturale in corso un incredibile salto all’indietro di alcuni decenni. L’assunto di fondo è che in questa fase storica stia avvenendo un ripudio dell’umanesimo a favore della scienze dure, a partire dagli insegnamenti scolastici. Gli studi umanistici sarebbero gli unici che “assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita”, mentre le discipline scientifiche sarebbero ovunque le medesime e tenderebbero a esprimersi tutte in una medesima lingua, l’inglese.
Il declino degli studi umanistici si rifletterebbe sulla crisi del “politico” che oggi abbiamo di fronte: ciò in particolare in Italia, perché “l’elemento più intrinseco della cultura letteraria e filosofica italiana è costituito proprio da quest’anima politica”, dato il ruolo quasi di supplenza esercitato in Italia dalla cultura storica, letteraria e filosofica, rispetto alla mancata unità politica. I tre intellettuali tracciano un breve profilo storico-ideologico su questa linea, tutta desanctisiana, che mette in fila Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni (e Cattaneo) e concludono che, se il politico è la chiave interpretativa della cultura italiana, la soluzione sta nel recuperarlo e nel rimettere il ruolo e le ragioni della politica al di sopra di quelle dell’economia, che negli ultimi anni è stata prevaricante.
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La trappola del Fiscal compact
di Thomas Fazi
Per mezzo dell’invenzione del bilancio strutturale, il Fiscal compact prima, il six pack e il two pack poi, hanno eliminato definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Condannando così l’Europa all’austerità permanente
Si parla tanto del Fiscal Compact ma pochi sanno come funziona veramente. E non solo in Italia. Nei corridoi di Bruxelles la voce che gira è che il testo completo del patto “l’hanno letto in 10 e capito in 3”. Quanto c'è di vero, dunque, su quello che si sente in giro?
Tanto per cominciare, c’è da dire che il Fiscal Compact di nuovo introduce molto poco. Il testo poggia in buona parte sul Trattato di Maastricht (1991) e sul patto di stabilità e crescita (1999) – le tavole su cui sono incise le sacre regole di bilancio dell’Ue –, e poi riprende e integra un insieme di disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-11 e per la maggior parte già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, come il Patto per l’euro e in particolare il six-pack e il two-pack.
Com’è noto, il Trattato di Maastricht – successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita – si componeva di due “regole d’oro”:
a. Il divieto per gli stati membri di avere un deficit pubblico superiore al 3% del Pil. Questo limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivo (Pde) obbligava i paesi “in difetto” a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione.
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Pasolini al «Corriere della Sera»
di Valerio Valentini
1. La «rivoluzione antropologica in Italia»
Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Gli Scritti corsari e le Lettere luterane1 sono la testimonianza di un dialogo che Pasolini intessé con l’intera società a lui contemporanea: ascoltare un solo protagonista di quel colloquio, costringerlo ad una monologante ripetitività, rischia di svilire lo spessore di un intellettuale che, solo se studiato tenendo conto della pluralità delle voci che con lui dibatterono, può essere adeguatamente compreso.
Non solo. Rileggere gli interventi di Pasolini nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, rivela un altro importante elemento. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.
Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropologica degli italiani.
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Dai territori dell’Europa orientale
Catene produttive, lavoro migrante, finanza
Intervista con Devi Sacchetto
Euronomade: Tu hai lavorato molto sull’Europa dell’Est e in almeno due direzioni: la prima concerne i flussi migratori e la composizione della forza lavoro; la seconda, mi sembra di poter dire, riguarda i processi di riorganizzazione del comando di impresa. Ci puoi dare qualche impressione di quadro?
Seguo le vicende dei paesi dell’Europa orientale da più di quindici anni. Mi pare che la situazione sia oggi molto articolata. Dal punto di vista spaziale si tratta di un’area che è attraversata contemporaneamente da processi di emigrazione (e talvolta ritorni), immigrazioni, rilocalizzazione e anche di ulteriore ri-rilocalizzazione. Questi fenomeni hanno assunto dimensioni di massa, basti pensare da un lato alle migrazioni dei romeni, dei polacchi o anche dei lituani e dall’altro lato agli investimenti produttivi nella Repubblica ceca, in Polonia, Ungheria, ma anche in Romania. L’area dell’Europa orientale è stata etichettata come la maquiladora dell’Europa occidentale dedita prevalentemente all’esportazione. È uno spazio però nel quale le stratificazioni sono ben visibili sulla base sia delle condizioni storiche sia anche dei nuovi processi che si sono sviluppati negli anni più recenti.
Per quello che riguarda le emigrazioni esse oggi si articolano in modo assai diverso da come gli studi solitamente presentano questi movimenti, mettendo a soqquadro le categorie di circolarità, permanenza, pendolarità.
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Vecchi e nuovi soggetti sociali critici e antagonisti in Europa
di Alfonso Gianni
L’ ora più buia è sempre quella
prima dell’alba, si sta facendo
mattino, e io so che possiamo
ancora avere giorni cantati
Pete Seeger
In una intervista rilasciata al Manifesto (1), Etienne Balibar ha affermato che in Europa “c’è bisogno di resistenza e di protesta ma sfortunatamente la possibilità più visibile è quella offerta dalla destra e dall’estrema destra, anche se non siamo agli anni ’30, la storia non si ripete, non c’è un forte partito fascista, ma siamo di fronte a una crisi morale che può favorire derive molto pericolose nell’opinione pubblica. I socialdemocratici si accorgeranno troppo tardi di non avere fatto nulla per combattere questo”. E’ difficile trovare un’analisi più lucida e puntuale, per di più riassunta in poche parole, con una rapida pennellata verrebbe da dire, sulla questione politica europea.
A distanza di pochi mesi dal rinnovo del Parlamento europeo sono in diversi a preconizzare l’incremento tra quei seggi di rappresentanti del populismo di destra antieuropeo e antieuro (ovviamente le due cose non collimano concettualmente, ma spesso di fatto sì). Lo si vede in modo evidente ovunque si guardi, a Ovest come a Est, a Sud come a Nord, in lungo e largo per il Vecchio Continente. Ma Balibar giustamente, e questo è un punto da tenere ben fermo, ci mette in guardia dalla retorica del pericolo imminente di un ritorno del fascismo, ben consapevole che l’agitare un simile spauracchio è esattamente una delle giustificazioni delle politiche delle grandi coalizioni.
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