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Vecchi e nuovi soggetti sociali critici e antagonisti in Europa

di Alfonso Gianni

L’ ora più buia è sempre quella
prima dell’alba, si sta facendo
mattino, e io so che possiamo
ancora avere giorni cantati
Pete Seeger

In una intervista rilasciata al Manifesto (1), Etienne Balibar ha affermato che in Europa “c’è bisogno di resistenza e di protesta ma sfortunatamente la possibilità più visibile è quella offerta dalla destra e dall’estrema destra, anche se non siamo agli anni ’30, la storia non si ripete, non c’è un forte partito fascista, ma siamo di fronte a una crisi morale che può favorire derive molto pericolose nell’opinione pubblica. I socialdemocratici si accorgeranno troppo tardi di non avere fatto nulla per combattere questo”. E’ difficile trovare un’analisi più lucida e puntuale, per di più riassunta in poche parole, con una rapida pennellata verrebbe da dire, sulla questione politica europea.

A distanza di pochi mesi dal rinnovo del Parlamento europeo sono in diversi a preconizzare l’incremento tra quei seggi di rappresentanti del populismo di destra antieuropeo e antieuro (ovviamente le due cose non collimano concettualmente, ma spesso di fatto sì). Lo si vede in modo evidente ovunque si guardi, a Ovest come a Est, a Sud come a Nord, in lungo e largo per il Vecchio Continente. Ma Balibar giustamente, e questo è un punto da tenere ben fermo, ci mette in guardia dalla retorica del pericolo imminente di un ritorno del fascismo, ben consapevole che l’agitare un simile spauracchio è esattamente una delle giustificazioni delle politiche delle grandi coalizioni.

In realtà il pericolo è più sottile e più subdolo e corrisponde ad un imbarbarimento dell’opinione pubblica, quale conseguenza di una grande crisi etica e ideale, e naturalmente del suo substrato materiale, che non trova risposte positive. In questo male profondo che ormai percorre i nervi e le menti della popolazione europea, in un continente che nella sua lunga storia ha alternato vette di altissima civiltà con il peggio che la storia dell’umanità abbia mai prodotto in termini di distruzione e di autodistruzione, possono piantare radici ancora più tenaci soluzioni neoautoritarie, a- e anti- democratiche, commistioni fra oligarchie tecnocratiche e personalizzazioni assolute del potere, persino in forme caricaturali, poiché il sistema non teme più nemmeno la vergogna. Ricordando il titolo dell’ultimo libro di Tony Judt si potrebbe riferire all’Europa ciò che lui diceva del mondo: Ill fares the land (Guasto è il mondo, come è stato tradotto nell’edizione italiana) (2). Il che non è la stessa cosa del fascismo novecentesco, ma, se possibile, è peggio per la sua capacità di neutralizzare e di escludere in partenza ogni forma di opposizione organizzata. Insomma una forma di “mostro” un po’ più ruvido e meno “mite” di quello vagheggiato da Alexis de Tocqueville più di 150 anni fa, a proposito delle possibili involuzioni della dimensione istituzionale della società americana.


La regressione della socialdemocrazia europea

E’ a tutto ciò, ci dice Balibar, che i socialdemocratici si pentiranno del tutto tardivamente di non essersi contrapposti. Anzi di avere alimentato la crescita di un simile mostro, assecondandone, con maggiore o minore consapevolezza, tutte le tappe della sua crescita. Basta pensare, fuor di metafora, all’appoggio entusiasta dato al fiscal compact, o alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, o al two pack, che inibisce qualunque autonomia dei governi nazionali per ciò che riguarda la legge fondamentale di uno stato, quella di bilancio, o a tutte le cose insieme legate dal cappio delle politiche dell’austerity e dalla “Costituzione di Davos”, ovverodall’insieme dei principi e delle regole che garantiscono il comando del capitale finanziario. Solo qualche anno fa, prima della vittoria di Hollande in Francia e del rinnovamento della leadership nella Spd, si poteva ancora nutrire qualche speranzosa attesa. Ovvero si poteva anche sperare che la evidente falsificazione delle teorie e delle dottrine neoliberiste spingesse, al di là delle ispirazioni di partenza, verso qualche forma di effettivo riformismo anche la parte più moderata della sinistra.

Il quadro attuale è invece impietoso. In Francia Francois Hollande ha operato, dopo avere trangugiato il fiscal compact fin dall’inizio, una vigorosa virata verso il centro, aprendo alle agevolazioni fiscali alle imprese, puntando su un alleggerimento dei loro oneri e sulla riduzione delle spese pubbliche, in modo non dissimile da quanto avviene in Spagna o nel nostro paese. Come hanno osservato Paul Krugman e lo stesso Balibar nella citata intervista, Francois Hollande, seguendo una tradizione comune alle classi dirigenti francesi, le quali, piuttosto che puntare ad una vera integrazione politica dell’Europa, hanno mirato a sfruttare la collocazione in Europa per i propri interessi, ha tentato “di proteggere occupazione e industria da un lato e dall’altro di allinearsi sulla politica neoliberista europea cercando di diventare un allievo modello”, con la speranza “di ottenere dal padronato a breve-medio termine una crescita dell’occupazione che gli permetta di rimontare politicamente.” Ma tale disegno, non è difficile presagirlo, pare destinato al più squallido degli insuccessi, sia per ragioni politiche che economiche.

In Germania la Spd di Sigmar Gabriel ha sì contrattato con la Merkel qualcosa sul piano interno, per migliorare le condizioni retributive e per dare fiato alla domanda interna, ma al prezzo di lasciare totale mano libera alla cancelliera per ciò che riguarda la politica europea, che precisamente rischia di fare implodere l’intera Unione. Non solo, ma Martin Schulz, il candidato per il Pse alla Presidenza della Commissione europea, ha anche pubblicamente difeso la cancelliera, accusando i suoi denigratori di atteggiamenti antitedeschi, alimentando il legittimo dubbio che stia già mirando a farsi eleggere in quella carica con i voti della Merkel per rendere ancora più blindata la Grande coalizione tedesca estendendola direttamente agli organi europei.


L’alternativa di Tsipras

L’alternativa va quindi cercata altrove. Etienne Balibar la individua nell’immediato nella proposta di formare liste elettorali per le imminenti europee legate alla candidatura di Tsipras alla Presidenza della Commissione europea. Tsipras, ovvero l’esperienza di Syriza in Grecia, perché rappresenta emblematicamente un’alternativa tanto al dominio oligarchico dell’Europa che si esprime in una governance neoautoritaria quanto al populismo di destra del ritorno agli stati nazionali. Un’alternativa che si presenta concreta e imminente nel suo paese d’origine, dove Syriza, sia nel caso delle elezioni europee sia in quello, tutt’altro che improbabile, di elezioni anticipate in Grecia, è accreditato da molti come primo partito e quindi capace di dare vita a una nuova e inedita esperienza di un governo di sinistra nel sud dell’Europa. Un’alternativa però che deve ancora molto camminare per conquistare il cuore e le menti degli altri popoli europei, senza i quali non può sperare di capovolgere le politiche attualmente in atto nella Ue.

Attorno alle elezioni europee di fine maggio si gioca quindi una partita dai molti aspetti. Innanzitutto la possibilità per le forze di alternativa di contare nell’assise parlamentare. In Grecia l’opportunità di mettere in crisi il governo Samaras, rispetto al quale non vi è altra alternativa possibile che l’assunzione di responsabilità di Syriza ad accettare la sfida del governo della Grecia in una situazione economicamente e socialmente al limite della resistenza umana. Nell’insieme del continente il riaprirsi della possibilità di contendere al pensiero neoliberista il primato assoluto, se non ancora di rovesciare i rapporti di forza. E forse anche la possibilità di dare continuità a movimenti e soggetti critici che si sono manifestati in questi ultimi anni.


Esistono in Europa forze sociali e politiche per operare una svolta radicale?

E’ in particolare su questo ultimo punto che conviene fermare l’attenzione e concentrare la ricerca e la riflessione. La domanda è semplice quanto cruciale e impegnativa: esistono in Europa le forze sul piano sociale e sul piano politico, dentro e fuori le istituzioni esistenti, seppure in divenire per supportare un progetto di alternativa nelle politiche economiche, sociali e istituzionali europee che renda realistico un progetto di trasformazione della Ue e non di abbandono della medesima? A sinistra questa domanda si presenta perlopiù in termini esattamente rovesciati, condensati nella questione se l’attuale Unione europea è riformabile o meno. Un simile modo di porre la questione è totalmente sbagliato e impedisce qualunque soluzione che non sia puramente negativa, dal momento che certamente non è pensabile un processo di autoriforma, ovvero di presa di consapevolezza da parte delle classi dirigenti di avere imboccato la strada sbagliata.

D’altro canto la prova l’abbiamo già avuta. Particolarmente a cavallo del 2008 e del 2009 i pilastri delle dottrine neoliberiste sono stati scossi nel profondo non solo da punto di vista teorico ma anche da quello concreto, sia perché dopo anni di egemonia culturale e politica dei medesimi si materializzava una crisi di dimensioni ancora sconosciute nel mondo capitalista - di carattere sistemico, quindi non semplicemente una delle tante da cui il capitalismo possa risollevarsi più forte che pria -, sia perché parti rilevanti e di riferimento di quello stesso mondo adottavano politiche di intervento pubblico nell’economia, seppure a salvataggio in primo luogo delle banche, che si muovevano in direzione opposta alle scelte dominanti in Europa, ottenendo in ciò risultati evidentemente migliori da qualunque punto di vista. Eppure in Europa si è insistito - e tutt’ora con maggiore tenacia - nella linea del rigore appena temperata da qualche svicolamento tattico della Bce sotto la nuova direzione di Mario Draghi. Ma quest’ultimo è rimasto all’interno della politica monetaria, senza mai riuscire a provocare mutamenti di rotta nella reale economia produttiva, come dimostrano le cifre impietose sulla disoccupazione europea e sul declino economico di interi paesi. Fanno eccezione, è vero, la Germania e i paesi strettamente incorporati nel suo sistema economico-produttivo allargato, che in questa crisi ci hanno guadagnato. Ma non è pensabile che quella situazione di vantaggio possa protrarsi all’infinito. Di suo quindi l’attuale sistema della Unione europea non solo non è riformabile, ma tende alla comune rovina delle classi e dei ceti sociali in esso rappresentati e confliggenti, per parafrasare una celebre frase del più classico dei testi marxiani.

Se dunque l’autoriforma è da escludersi per negativa prova provata, l’attenzione non può che spostarsi sulla ricerca di soggetti sociali, economici, politici e intellettuali critici che possano essere portatori di quel cambiamento radicale tale da trasformare l’Europa in un soggetto solidale e democratico e in un fattore di pace. Vaste programme! E’ proprio il caso di dire. A maggiore ragione perché un simile processo più che a una riforma seppure radicale, assomiglia a una rivoluzione. Non a caso questo termine, così desueto e così storicamente carico di promesse e speranze non mantenute, viene oggi riusato dall’appello firmato dal gruppo di intellettuali, fra cui Barbara Spinelli, che ha promosso la lista di cittadinanza nel nome di Tsipras per le prossime elezioni europee.


Le forze e le debolezze dei movimenti per il lavoro in Europa

Abbiamo già ragionato in passato sulla necessità e sulla potenzialità di una nuova coalizione del lavoro in Europa (3), intendendo per essa un movimento che riesca a riunificare i vari volti che il lavoro ha assunto a seguito della grande controffensiva del capitale dagli anni Ottanta in poi. Un simile risultato non può ovviamente realizzarsi semplicemente sommando le condizioni materiali dei vari settori delle classi subalterne, né procedendo solo con qualche sincronizzazione sovrannazionali dei momenti di conflitto e di lotta. Non può avvenire insomma sul terreno puramente delle rivendicazioni economiche in un mondo del lavoro così frammentato e contrapposto nelle sue componenti parcellizzate. Richiede l’incontro tra un movimento reale di rivolta all’oppressione e alla crescente divaricazione della condizione sociale e, se non un pensiero politico compiuto, almeno un insieme di obiettivi condivisi. Sappiamo che la risposta non può giungere da ciò che resta della sinistra a livello europeo, a meno di un non breve processo di rifondazione culturale e politica, prima ancora che organizzativa. Del resto anche se la sinistra si fosse conservata in maggiore salute, di idee e di consensi, sarebbe tutta da provare la sua capacità di intercettare movimenti socialmente nuovi o addirittura inediti. Il ’68 docet. E’ vero che il nostro angolo di visuale, cioè l’Italia, è da questo punto di vista il peggiore per osservare e giudicare lo stato di salute della sinistra. Per fortuna c’è il caso greco che ci contraddice. Ma da solo non è certamente sufficiente a reggere lo scontro con un avversario così potente e agguerrito quale è il sistema di governance che il capitalismo si è dato con questo tipo di ’Unione europea.

Di per sé quindi la costruzione di una nuova coalizione del lavoro è un obiettivo di là da venire. Sarebbe però non solo inutilmente pessimistico, ma errato negare l’esistenza di soggetti attivi che possono concretamente muovere in questa direzione.

Possiamo partire, senza pretese di completezza, da uno sguardo sullo stato del più classico dei conflitti, quello all’interno dei rapporti di lavoro nella manifattura. Non perché si voglia qui sostenere la tesi certamente piuttosto frustra della centralità operaia nell’insieme dei conflitti nelle società capitalisticamente mature, quanto piuttosto negare la tesi opposta e ancor più fallace sulla inessenzialità o marginalità dei conflitti di lavoro nel campo dell’antagonismo sociale, tesi che si è andata diffondendo nel pensiero di quella sinistra radicale che, pur tra infinite gradazioni che non sottovaluto, può essere ricondotta alle teorie della moltitudine come integrale superamento di quelle basate sul conflitto di classe.


I conflitti di lavoro nella crisi economica

Un recente studio di Eurofound (4) ci aiuta a farci un quadro della situazione e dell’evoluzione del mondo del lavoro più tradizionale nel pieno dell’attuale crisi economica, nei 27 paesi della Ue e in Norvegia. Si tratta di uno studio ampio che prende in esame sostanzialmente tre aspetti: la crescita e la diminuzione del numero degli iscritti alle organizzazioni sindacali e datoriali, in relazione anche ai processi di frammentazione o di concentrazione intervenuti nell’organizzazione produttiva; gli sviluppi nella struttura della contrattazione collettiva, nel dialogo sociale e nei conflitti industriali e i cambiamenti sopravvenuti nelle pratiche delle relazioni industriali; l’andamento dei conflitti in termini di scioperi e di iniziative di parte padronale. L’espressione conflitti industriali va intesa in modo assai ampio. Riguarda l’insieme dei luoghi dove il lavoro è organizzato secondo il modello dell’impresa, quindi non ci si limita solo al settore industriale in senso stretto, ma si spazia da quello bancario a quello agricolo. In sostanza nello studio viene nettamente distinto solo il pubblico impiego. Qui prenderò per sommi capi in esame alcuni elementi del primo e del terzo aspetto riferiti solo alle organizzazioni sindacali dei lavoratori e ai conflitti agiti dalla parte del lavoro.

I precedenti studi basati sul Database dell’Amsterdam Institute for Advanced Labour Studies ci indicavano come i membri delle Organizzazioni sindacali fossero diminuiti lungo l’arco degli ultimi tre decenni in molti paesi dell’Europa. Tuttavia gli stessi autori, in una ricerca recente (5), avvertivano che quel declino non poteva essere considerato uniforme per tutti i paesi della Ue. Siamo quindi di fronte a un fenomeno, per quanto riguarda l’appartenenza e la militanza sindacale, tutt’altro che univoco. In particolare lungo il 2012 in alcuni paesi si è manifestata una certa ripresa della consistenza dei membri delle organizzazioni sindacali: si tratta in particolare del Belgio, della Francia, della Germania e della piccola Malta, come si vede paesi, almeno i primi tre, di antica tradizione industriale. Per un altro gruppo di nove paesi la situazione si è mantenuta sostanzialmente stabile, il che potrebbe anche preludere a un’inversione di tendenza, mentre il declino è proseguito nei restanti paesi. Naturalmente l’incremento o la tenuta della consistenza numerica degli iscritti al sindacato convive anche con una più complessa modificazione del suo ruolo, che quindi può vedere prevalere, e ciò accade in molti casi, l’elemento dialogante e concertante su quello conflittuale, nonché forme di rappresentanza nei luoghi decisionali e di controllo dell’impresa come nella esperienza della Mitbestimmung in Germania. Come vedremo, in alcuni paesi, come la Francia, l’incremento degli iscritti ai sindacati non comporta affatto un incremento del numero dei conflitti di lavoro. Va tenuto conto che in Germania l’occupazione durante la crisi non solo non è diminuita ma è cresciuta, anche se ciò è avvenuto soprattutto grazie ai cosiddetti mini-jobs, ovvero lavori scadenti e sottopagati. Un esame più attento, che qui non possiamo fare, richiederebbe quindi la taratura dei dati sulle iscrizioni salariali in rapporto alle performances dell’occupazione nei singoli paesi.

Pur con tutte queste avvertenze è interessante dare un’occhiata ai dati che in questa ricerca ci danno l’andamento della conflittualità nei luoghi di lavoro. Dal punto di vista numerico la quantità di paesi – 20 in tutto – nei quali i conflitti sono stati rari o assenti – 2 – oppure sono diminuiti rispetto agli anni precedenti - 18 – costituiscono indubbiamente la maggioranza. Tra questi ve ne sono di importanti, come la già citata Francia e il Regno Unito. D’altro canto in Inghilterra vi sono, come è noto, leggi restrittive sul diritto di sciopero – chi non ricorda la grande manifestazione londinese che si è dovuta fare di sabato, proprio per aggirare tali costrizioni – e in quel paese le azioni conflittuali lungo il 2012 sono state più incidenti nei settori del pubblico impiego. Emblematico è il caso dell’Ungheria, ove la rarefazione di azioni di sciopero è dovuta alla pesante legislazione repressiva intervenuta. Diversi tra i paesi, altro dato significativo, che registrano una diminuzione della conflittualità fanno parte di quello che ormai si può chiamare l’apparato produttivo tedesco allargato, come è il caso di parte dei Paesi bassi, della Polonia e dell’est europeo. Il che avviene mentre è in aumento la conflittualità nel centro di questo sistema produttivo, ovvero la Germania stessa.

Tra i paesi dove i conflitti sono aumentati vi sono il Belgio, la Bulgaria, Cipro, l’Estonia, la Germania, l’Italia, il Portogallo e la Spagna. Vale la pena di citarli uno per uno solo per sottolineare che il quadro della movimentazione sociale in Europa non è affatto omogeneo e non può essere facilmente suddiviso in zone geopolitiche o geoeconomiche. E’ evidente in questo campo la preponderanza di paesi che sono rimasti pesantemente colpiti dalla crisi e nei quali si è realizzata una vera e propria rivoluzione nei rapporti di forza all’interno della sinistra. Ma ad unire questi due fattori è solo la Grecia, mentre il nostro paese può solo fare valere una tradizione sindacale antica, anche se vittima di un processo di snaturamento profondo, fatta eccezione per alcune categorie, fra cui naturalmente i metalmeccanici della Fiom. Tuttavia neppure in tutto l’Est europeo la discesa della conflittualità appare un fenomeno uniforme. In Bulgaria vivace è stata la lotta soprattutto dei minatori, dei metalmeccanici e dei chimici. Ma anche in questo caso l’analisi richiede pazienza e capacità di differenziazione. Nel caso delle industrie chimiche in particolare alcune delle agitazioni verificatesi sono avvenute contro il movimento verde che considerava dannose per l’ambiente le produzioni in atto. Lo scontro tra lavoro, ambiente e salute, di cui abbiamo un emblematico caso nell’Ilva di Taranto, costituisce un problema largamente irrisolto nel contesto europeo, sia nei paesi di antica tradizione sindacale sia, a maggiore ragione, in quelli in cui questa è assai più debole e recente. Né può essere sottaciuto che manifestazioni di solidarietà ad esempio nei confronti del popolo greco non hanno certo abbondato, in particolare nel nord dell’Europa. In Germania la Spd ha lungamente trattato con la Merkel le condizioni per varare il governo di coalizione, ottenendo anche qualche risultato per la situazione dei lavoratori in quel paese, come l’incremento di un salario orario minimo, ma non ha minimamente introdotto alcun elemento di solidarietà verso i popoli del Sud d’Europa, lasciando inalterata la politica estera della cancelliera.


Complessità e ambiguità dei conflitti di lavoro

Siamo quindi di fronte a un quadro del conflitto nel mondo del lavoro europeo che non è riconducibile a facili sintesi e tantomeno a definizioni ultimative. In esso compaiono anche fenomeni regressivi. La crisi ha accentuato tutti i fattori disgregativi. Ha provocato ulteriori processi di delocalizzazione e di decentramento produttivo e insieme a questi anche ritorni nella madre patria da parte di alcune unità produttive di multinazionali. Ha allargato enormemente su scala continentale la disoccupazione. Ha reso regola il precariato. Ha spezzato ogni confine fra tempo di lavoro e di non lavoro. Ha curvato la normativa europea e di ogni singolo paese in questa precisa direzione. Ha, nello stesso tempo, rotto il quadro concettuale di riferimento con cui la sinistra leggeva questi fenomeni, senza che essa sia stata finora in grado di dotarsi di uno nuovo. E infatti non riesce a leggerli o quantomeno è in corso un dibattito tuttora irrisolto – spesso oscuro e confuso - sull’uso delle stesse categorie interpretative e persino sui concetti fondamentali, primo fra tutti quello stesso di lavoro che molti dilatano fino a ricomprendere ogni atto della vita biologica e sociale dell’individuo, postulando così un’assoluta pervasività del capitale che non lascerebbe spazio ad alcun “residuo” – per usare il famoso termine di Claudio Napoleoni - da cui fare ripartire la resistenza e la controffensiva. Una lettura più attenta e continua – ciò che conta non è mai la fotografia dell’esistente ma le linee di tendenza che si possono cogliere – dei processi sociali dimostra invece quanto siano riduttive letture analitiche basate su paradigmi già dati, soprattutto quando si scambiano i processi in corso, suscettibili ancora di deviazioni e contrasti, con fenomeni già conclusi e pacificati.

Malgrado tutte queste considerazioni che non spingono certamente a facili entusiasmi, si può sicuramente escludere che sul versante diciamo così più classico e tradizionale del movimento operaio e sindacale siamo di fronte a un quadro puramente regressivo o a un encefalogramma piatto. Tentativi di collegamento sovrannazionale tra lavoratori di imprese e settori dello stesso ramo produttivo sono e vengono compiuti di continuo, con qualche passo in avanti concreto. Certo non aiuta la struttura burocratica ed elefantiaca della Confederazione sindacale europea (Ces). Tuttavia la proclamazione di uno sciopero generale europeo da parte della Ces per il lavoro contro le politiche di austerità il 14 novembre del 2012 ha rappresentato un indubbio successo. Né può essere dimenticata la recente raccolta di 1.600.000 firme per difendere il carattere pubblico del sistema idrico in Europa, fatta dal sindacato dei servizi aderente alla Ces, l’Espu, di intesa con i movimenti operanti in questo settore. Cosa in sé rilevante per il tema, il carattere pubblico del servizio e i legami che questo ha creato, e che ci auguriamo non vadano dispersi, con i cittadini e i movimenti. A tutto questo però è mancata continuità e incisività in alcuni momenti topici, infatti è non vi è stata alcuna mobilitazione di rilievo in sostegno del popolo greco, vera e propria cavia di quelle politiche di austerità. Eppure la data del 14 novembre 2012 ha lasciato un segno soprattutto perché ha costituito un impulso per sviluppare la mobilitazione in settori non tradizionali, come quelli del precariato ed è stato accompagnata da una forte mobilitazione solidale degli studenti e dei movimenti antagonisti in tutto il continente.


I nuovi movimenti antagonisti

E’ su quest’ultimo versante che si manifestano le novità più importanti. Per evidenti ragioni di spazio sono qui costretto a trascurare quei movimenti sociali che, per la loro forte ambiguità politica, richiederebbero una robusta analisi differenziata, come, ad esempio, il cosiddetto movimento dei forconi in Italia. I movimenti antagonisti, un tempo chiamati non del tutto propriamente no-global, hanno conosciuto una rapida ascesa e diffusione, seguita da un periodo di stasi se non di vera e propria crisi. Gli apici di Genova e delle manifestazioni mondiali contro la guerra non sono più stati toccati, quanto a estensione e influenza. Ha pesato il fatto che tutti quegli obiettivi sono stati mancati. Del resto non erano obiettivi di poco conto, come la sconfitta del neoliberismo e della sua politica di guerra permanente. La grande crisi economica ha colto di sorpresa anche quei movimenti, mettendo a nudo la fragilità delle costruzioni teoriche e degli obiettivi con cui erano venuti crescendo. Ma è la stessa crisi economica e la politica della Ue che l’ha accentuata che nel tempo ha ridato fiato e argomenti per il ritorno, seppure in forma meno clamorosa, dei movimenti antagonisti.

Visto che non voglio tracciare mappe e indici, valga per tutti l’esempio degli Indignados spagnoli e di Occupy Wall Street. L’uno prodotto autoctono europeo, l’altro importato dagli Usa e poi articolato in tanti obiettivi rappresentativi del potere finanziario in ambito europeo. L’analisi sociologica, soprattutto fatta sui secondi nel loro paese d’origine, mette senz’altro in luce una composizione di classe legata ai processi di spoliazione, di pauperizzazione e di mancanza di futuro dei ceti intermedi, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni. In conseguenza di ciò alcuni attribuirebbero un’eccessiva morbidità a questi movimenti, emblematizzata nella scelta della non violenza come forma di lotta. Ma non mi pare affatto questo un buon motivo, sia nel contesto americano che in quello europeo, per guardare dall’alto in basso quelle esperienze, cioè come elusive del grande tema del conflitto di classe. Vale invece la pena di concentrarsi sugli obiettivi che le caratterizzano e quindi sugli elementi di consapevole soggettività critica che le compongono.

Rispetto ai movimenti della prima parte degli anni duemila vi è un sensibile spostamento degli obiettivi. I movimenti precedenti individuavano il loro avversario in alcuni organi specifici del governo del processo di globalizzazione, come il WTO, oppure si muovevano lungo la discriminante pace e guerra. Quelli più recenti hanno radicalizzato ed essenzializzato la loro analisi nei confronti del sistema capitalista globale, hanno cercato di penetrare i meccanismi di formazione della ricchezza, i modi di funzionamento dell’economia e hanno individuato come nemici direttamente i centri del potere finanziario stesso. Si è quindi elevato il tasso e il bisogno di analisi e di teoria, di conoscenza dei meccanismi finanziari e di accumulazione con cui funziona il sistema capitalistico, e non solo dei suoi epifenomeni sul terreno istituzionale o politico. Finanza e rendita fondiaria – da qui l’importanza della lotta per la casa per la crescita dei movimenti urbani e della difesa dei beni comuni per lo sviluppo dei movimenti sul territorio in senso lato - sono state viste giustamente come modernissime espressioni dell’attuale capitalismo. Il dibattito attorno alla natura di questo moderno capitalismo è diventato centrale e su questa base hanno cominciato a intrecciarsi rapporti meno occasionali con movimenti politico culturali come quella della Marx Renaissance. Conseguentemente, ammaestrati anche dalle disillusioni subite nelle fasi precedenti, i nuovi movimenti hanno adottato forme di protesta legate ad un’occupazione continua del territorio, sia quello materiale che quello virtuale, più che affidate a grandi manifestazioni o eventi. E’ nata così la pratica dell’acampada, l’idea dell’assedio, la valorizzazione del web come spazio di discussione e strumento di comunicazione e di auto- convocazione, l’orizzontalità come modalità relazionale-organizzativa, l’esaltazione, a volte in forme anche ingenue, di pratiche di democrazia diretta.

In questi nuovi – o rinnovati – movimenti l’elemento della solidarietà si è subito visibilmente e sentitamente manifestato. Anche in questo caso con processi di crisi di vecchie esperienze e tentativi di farne nascere di nuove. Infatti, da un lato, si è verificato il sostanziale esaurirsi dell’esperienza così positiva del forum sociale europeo partito a Firenze nel 2002, dove ebbe un successo straordinario a tutti gli effetti. Le ragioni non sono organizzative, ma squisitamente politiche. Persino nel forum sociale europeo sono emerse infatti quelle divisioni e quelle spaccature indotte dalla crisi economica che hanno contrapposto le rivendicazioni dei movimenti del nord a quelli del sud e viceversa. Emblematica, ad esempio, è stata finora la sostanziale indifferenza dei primi alla cruciale questione del rifiuto del fiscal compact, che distrugge direttamente ogni possibilità di rinascita dei paesi dei secondi.

Per fortuna diverso è stato l’esito dei recenti incontri del forum sociale mondiale. Il filo rosso che ha tenuto insieme i variegati movimenti è stato il richiamo alla cosiddetta primavera araba, vero crogiuolo per nuove lotte e solidarietà. Anche per la novità e la complessità di quella esperienza, tuttora in rapida e improvvisa invo - evoluzione. Si può quindi dire che il forum sociale europeo è entrato in crisi nella sua precedente formazione, ma senza sparire, bensì spostando più a sud il proprio baricentro e diventando a tutti gli effetti un forum euro mediterraneo. Del resto questo è precisamente il bacino culturale e l’insieme di connessioni sentimentali su cui si sta sviluppando la lista Tsipras in Europa e segnatamente nel nostro paese.


Il dibattito sulle tendenze dei nuovi movimenti

Le innovazioni di comportamenti e di pratiche non rappresentano probabilmente solo una sensibile modificazione sul piano dell’organizzazione dei movimenti, ma rivelano qualcosa di più profondo nelle modalità espressive e nella cultura dell’antagonismo sociale. Il dibattito nel mondo intellettuale sta diventando assai vivace ed interessante su questa questione. Vari modelli interpretativi si fronteggiano, a volte guardandosi in cagnesco. Invece è bene evitare di rinchiudere tutto quanto accade in prematuri tentativi definitori che spesso sono limitativi per la comprensione dei fenomeni. L’esperienza di questi ultimi anni mette a confronto, con qualche semplificazione, almeno due modelli nel campo dell’antagonismo, della costruzione e dell’azione dei movimenti. Entrambi reali, tutt’altro che teorici.

Il primo è quello dei riots, delle rivolte vere e proprie. Il fenomeno ha cominciato ad interessare oltre che le questure e gli apparati repressivi anche i sociologi di tutto il mondo dopo l’esplosione delle banlieues parigine e non solo nel 2005. Il tema si è riproposto, anche se con minore durata ed intensità, nell’agosto del 2011 in Inghilterra, dove il bilancio fu comunque pesante: 5 morti, 4mila arresti, circa 15mila persone attivamente coinvolte. L’analisi sociologica e anagrafica dei partecipanti mette in luce la componente prevalentemente giovanile, i tre quarti sotto i 24 anni; l’assoluta prevalenza maschile, oltre il 90%, la provenienza, oltre il 70% da aree a forte disoccupazione, la minore incidenza, rispetto al caso francese di alcuni anni prima, della componente razziale, almeno il 33% dei rivoltosi erano bianchi. Un quadro sociale che sembra onorare a posteriori la fervida immaginazione di James Graham Ballard, lo scrittore britannico scomparso nel 2009. Qualunque sia il giudizio che si voglia dare di questi avvenimenti è francamente difficile, pur nella constatazione di differenze, ad esempio la schiacciante componente nera nel caso francese che non si ripete in quella del Regno Unito, è difficile non vedere fra essi una certa continuità di tipo carsico, come un fiume del furore che si inabissa, ma ricompare a distanza di anni e di chilometri, avendo sempre come scenario principale il territorio urbano di società capitalisticamente mature.

Il secondo modello è quello che, prendendo a prestito una definizione di Pierre Rosanvallon, si potrebbe definire come “l’organizzazione della sfiducia”, ovvero di movimenti che non si pongono il problema della conquista del potere ai suoi vari livelli, ma preferiscono puntare sulla contestazione permanente o sul controllo del medesimo. Insomma, secondo lo storico francese, “l’idea di un popolo che governa” lascerebbe “il posto all’idea di un popolo che diffida”. Ne deriverebbe quindi una strategia di contenimento e di riduzione del potere, di istituzionalizzazione di contropoteri, di zone liberate. Come si può facilmente capire i due modelli, pur essendo diversi, nelle modalità d’azione, nei protagonisti, nei livelli culturali e di progettualità che li attraversano, non sono necessariamente e strutturalmente contrapposti. La precipitazione della crisi in un particolare punto, con fenomeni accentuati di massacro sociale, può riunire tutte queste modalità, dalla lotta classica operaia agli scoppi insurrezionali, passando per la costruzione di contropoteri sempre più conflittuali. La selezione di nuovi gruppi dirigenti in queste dure esperienze di lotta può forgiare una nuova organizzazione politica, capace anche di sfidare positivamente il tema del governo sulla base di un politica alternativa non solo al governo preesistente ma alla governance politico-economico-istituzionale della attuale Unione europea. E’ il caso greco.


L’Europa non è un deserto pacificato

Ma anche laddove questo ancora non avviene o almeno non con forme e tempi così netti e rapidi, non si può trascurare che i vari movimenti, anche quelli più tradizionalmente sindacali, hanno lasciato una sedimentazione che fa sì che nessun nuovo movimento sia tale completamente, ma che sempre in esso siano riconoscibili, accanto alle diversità, tratti comuni con i precedenti. Si può parlare quindi più in generale di una continuità di tipo carsico dei movimenti nelle loro diverse espressioni, che resiste al processo di omologazione delle tradizionali organizzazioni sindacali quali strumenti del governo allargato dell’economia e allo snaturamento della sinistra tradizionale. In essi il soggetto di classe di una volta, la classe operaia, la “rude razza pagana” per dirla con Tronti, non ha più la stessa centralità, intesa come capacità egemonica di fornire un modello di lotta e di organizzazione a tutti gli altri segmenti dell’antagonismo sociale. Né potrebbe averla visti i processi di scomposizione e frammentazione operati in lunghi anni di riorganizzazione del capitale e del suo sistema. Ci avviciniamo certamente più a una situazione di molteplicità di soggetti antagonisti privi di un punto di riferimento egemonico, senza perciò cadere nelle indeterminatezze delle teorie della “moltitudine” o nella rivalutazione del populismo proposta da Ernesto Laclau (6). In un quadro simile la responsabilità del pensiero politico come elemento riunificante è ancora maggiore rispetto al passato. Nello stesso tempo è impensabile che esso prima nasca in ambiti ristretti e poi si incontri con il grande fiume dei movimenti, come fu per il leninismo e la storia del movimento operaio politico novecentesco. Il processo deve muovere con modalità e tempi molto più simbiotici

Ma il problema mi appare esattamente rovesciato a come lo pone Carlo Formenti secondo il quale “trent’anni (1980-2010) di esperienze politiche caratterizzate dai ‘nuovi movimenti’ – femminismo, ambientalismo, pacifismo, No Global, fino alle più recenti insorgenze di Primavera Araba, Occupy Wall Street e Indignados – dimostrano che la rinuncia alla centralità del soggetto di classe e la sua sostituzione con identità di genere, culturali, di status ecc. hanno determinato il crollo della capacità delle sinistre – radicali e non – di contrastare l’attacco del capitale”.(7) In realtà tutte quelle esperienze si sono sviluppate malgrado il declino ideale e politico delle sinistre e il loro suicidio, con i limiti di settorialità, di parzialità, di tangenzialità che i movimenti sociali in quanto tali e quando sono tali non possono non avere, in maggiore o minore misura. Ma è grazie a loro se la vittoria della grande rivoluzione conservatrice del capitale non ha prodotto un deserto pacificato.

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Note:
  1. il manifesto, domenica 2 febbraio 2014
  2. Tony Judt Guasto è il mondo, Laterza, 2013
  3. Vedi Alternative per il Socialismo n.16, maggio 2011 e il più recente Alternative per il Socialismo n.25, aprile 2013, numero monografico sul movimento sindacale italiano e internazionale
  4. Industrial relations and working conditions developments in Europe 2012, Eurofound, This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. or This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
  5. Rebecca Gumbrell-Mc Cormick, Richard Hyman Trade Unions in Western Europe. Hard Times, Hard Choices, Oxford University Press, 2013
  6. Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza, 2008
  7. Carlo Formenti, Utopie letali, Jaca Book, 2013 

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