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Perché l'eccesso di mortalità non è dovuto né al Covid né alle mancate cure
di Alessandro Bagnato
Ora che anche la BBC pubblica un tweet come quello qui sotto, possiamo presumere che l’aumento della mortalità registrato in questi ultimi due anni nel mondo, e in particolare i paesi del mondo occidentale, sia un dato condiviso anche da chi prima lo negava.
L’eccesso è particolarmente anomalo sia per la sua ampiezza sia perché arriva quando, con l’affievolirsi della pandemia, era atteso un rientro della mortalità in direzione della media pre-pandemica.
A questo fenomeno è stato spesso associato quello delle morti improvvise, le cui notizie riempiono con sempre maggiore frequenza le cronache locali. Sono soprattutto giovani sani, che muoiono improvvisamente nel sonno, sui banchi di scuola, in monopattino, al bar, al museo, mentre fanno sport, ecc.
Qualcuno ha fatto rilevare che i malori improvvisi ci sono sempre stati e quindi non ci troviamo davanti a nessuna novità.
E’ proprio così?
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La distopia globalista di Davos
di Thomas Fazi
Sul sito Unherd una interessante analisi di Thomas Fazi sulla filosofia di base di questa organizzazione, che può essere considerata un emblema quasi caricaturale delle istituzioni globaliste: l'obiettivo è scindere la politica dal processo democratico e il mezzo per garantirne il successo è l'infiltrazione nelle istituzioni statali e internazionali. Aldilà di ogni complottismo, perché tutto è dichiarato in maniera aperta
Migliaia di membri dell’élite mondiale si sono riunite in questi giorni a Davos per il loro più importante raduno annuale: l’incontro del World Economic Forum (WEF). Accanto ai capi di Stato di tutto il mondo, sono discesi nella capitale svizzera, tra gli altri, gli amministratori delegati di Amazon, BlackRock, JPMorgan Chase, Pfizer e Moderna, come anche la presidente della Commissione europea, la direttrice operative del FMI, il segretario generale della Nato, i vertici dell’FBI e del MI6, l’editore del New York Times e, naturalmente, il famigerato “Cicerone” dell’evento, il fondatore e presidente del WEF, Klaus Schwab. Fino a 5.000 soldati sono stati mobilitati a protezione dell’evento.
Data la natura elitaria quasi caricaturale di questo “festival”, è naturale che l’organizzazione sia diventata oggetto di ogni sorta di teoria del complotto riguardo al suo presunto intento malevolo e alla sua “agenda segreta” legata al cosiddetto “Grande Reset”. In verità, non c’è nulla di cospiratorio nel WEF, nella misura in cui le cospirazioni implicano segretezza. Al contrario, il WEF – a differenza, ad esempio, del Bilderberg Group – è molto aperto sulla sua agenda: si possono persino seguire le sessioni in streaming online.
Fondato nel 1971 dallo stesso Schwab, il WEF è “impegnato a migliorare lo stato del mondo attraverso la cooperazione pubblico-privata”, nota anche come “governance multistakeholder”. L’idea è che il processo decisionale globale non dovrebbe essere lasciato ai governi e agli Stati-nazione — come nel quadro multilateralista del dopoguerra sancito dalle Nazioni Unite — ma dovrebbe coinvolgere un’intera gamma di “stakeholder”, o parti interessate, non governative: organismi della società civile, esperti accademici, personaggi dei media e, soprattutto, multinazionali.
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Racconti di piombo
di Davide Carrozza
#1
Quella mattina di Giugno del ‘76 Marcella aprì discretamente la porticina del mio scompartimento. Un dolce quasi impercettibile “permesso” confermò che quella donna bellissima avrebbe viaggiato con me. Subito per istinto nascosi tutti i ritagli di giornale nella cartellina non badando al loro ordine. Mentre dicevo “lasci non si preoccupi” avevo già preso la sua mastodontica valigia e con uno sforzo sovraumano l’avevo issata sul porta bagagli. Parlammo. Era di Pisa, stava tornando li per andare a votare. Io invece stavo andando a Genova ad unirmi al comando brigatista che di lì a pochi giorni avrebbe freddato il giudice Coco. Ovviamente non glielo dissi.
In quel periodo avevo paura di chiunque incontrassi, cercavo di carpire in ogni volto segnali di pericolo per la mia incolumità da buon clandestino, ma quella donna non mi fece paura, forse me ne stavo già innamorando. Finalmente mi trovavo a parlare con agio con un membro della società civile, anzi una vera e propria borghese in carne e ossa, e che borghese! Che lo fosse lo avevo capito dagli occhiali e dalla camicia di raso con fantasia di rombi, nonostante i jeans sportivi a vita altissima. “Noi abbiamo sempre votato lo scudo crociato e ci siamo sempre trovati bene” Stranamente non provai ribrezzo a queste parole, ma un’incredibile curiosità, la stessa curiosità che mi faceva volerle strappare di dosso quella camicia. Anni dopo, sulle mura del carcere di Poggio Reale vedevo il mio fantasma, quello che sarei stato. Come sarebbe stata la mia vita se invece di combattente comunista fossi diventato impiegato d’azienda borghese, marito di Marcella?
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Totalitarismo liberale e struzzi di sinistra
di Carlo Formenti
Il governo Meloni cade come il cacio sui maccheroni per una sinistra alla disperata ricerca di un nemico di comodo su cui dirottare l'attenzione delle masse, nella speranza che queste non le chiamino a rispondere delle loro responsabilità. Così si evoca l'immagine anacronistica di un fascismo da operetta, con tanto di orbace, saluti romani e inni al nuovo duce in gonnella, associandola a una forza politica che incarna piuttosto l'ala più duramente e coerentemente neoliberale della borghesia, mentre opera in piena coerenza e continuità con tutti (senza distinzioni ideologiche) i governi che l'hanno preceduta negli ultimi decenni: attacco ai salari e all'occupazione, smantellamento dello stato sociale, privatizzazioni, svendita degli interessi nazionali al "partito dello straniero" come lo chiamava Gramsci, infeudamento agli interessi strategici della NATO e d'una UE totalmente allineata (contro i suoi stessi interessi) ai comandi di Washington.
Mentre milioni di francesi sfilano per le strade di Parigi contro la riforma delle pensioni voluta da Macron, e mentre i lavoratori inglesi tornano a scioperare contro la politica economica imposta dal governo conservatore, le preoccupazioni della sinistra de noantri sono tutte per l'arretramento dei diritti civili e individuali, che considerano la più grave, se non l'unica, minaccia generata dalla svolta a destra sancita dalle ultime elezioni. Svolta dovuta al fatto che milioni di proletari, avendo ormai perso fiducia nelle sinistre, hanno preso sul serio le esternazioni "populiste" e "sovraniste" della destra, o hanno comunque sperato che sarebbero state seguite dai fatti, (considerati gli ultimi sondaggi, sembra non abbiano ancora perso le illusioni in merito).
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Linee imperialiste nella guerra d'Ucraina
di Guido La Barbera1
Brzezinski e Kissinger sull’Ucraina. A partire da La grande scacchiera, due politiche estere a confronto nella gestione degli interessi vitali delle potenze: Stati Uniti, Russia e Cina. Da Paginauno n. 80, dicembre 2022 – gennaio 2023
“Ma, Zbig, quante volte puoi mettere uno stecco nell’occhio alla Russia, senza che reagisca? Noi abbiamo preso l’abitudine, negli anni della debolezza russa sotto Eltsin, di mettergli le dita negli occhi un sacco di volte, facendola franca. Non sta finendo quel periodo? Non dobbiamo prenderli sul serio quando dicono «Questo è fondamentalmente contrario ai nostri interessi e resisteremo»?”
Così David Ignatius del Washington Post, terza voce in America and the World del 2008, libro intervista con Zbigniew Brzezinski e Brent Sco- wcroft, il primo consigliere per la sicurezza nazionale per Jimmy Carter, il secondo per George Bush e Gerald Ford, nonché consigliere militare di Richard Nixon. Da quella dialettica tra due decani della politica estera dell’imperialismo americano emergevano con nettezza due linee nei confronti dell’imperialismo russo e delle sue ambizioni a riprendere il controllo, nel “vicino estero”, dello storico dominio dell’impero zarista.
Brzezinski risolutamente a favore dell’inclusione dell’Ucraina nella NATO.
Scowcroft contrario, sulla falsariga delle obiezioni che erano anche di Henry Kissinger: i legami storici e identitari della Rus’ di Kiev col potere moscovita; la divisione dell’Ucraina tra un Ovest filo-occidentale e un Est russificato.
L’imperialismo europeo vi compariva solo sullo sfondo: Scowcroft a ricordare la contrarietà europea a un’azione così intrusiva nei confronti della Russia e a lamentare la confusa sovrapposizione tra l’ambito della Ue e quello della NATO; Brzezinski a impugnare il fatto che sulla questione ucraina gli europei erano “divisi”.
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Chi comanda nel mondo?
di Roberto Pecchioli
I.
Un amico, conversando davanti a un caffè, ci ha posto la domanda da un miliardo di dollari: chi comanda nel mondo? Ha aggiunto di non volere una risposta complessa e che gli interessa sapere nomi e cognomi. Vasto, arduo programma, rispondere a un quesito che ci tiene chini sui libri da anni; ancora più difficile indicare persone fisiche in un tempo in cui il potere – più oligarchico e chiuso che mai – ha una dimensione reticolare, in cui ogni snodo, ciascun anello è strettamente legato in una ragnatela che, tuttavia, ha un centro che può essere identificato.
Al nostro amico abbiamo ripetuto un concetto espresso da Giano Accame, grande giornalista e finissimo intellettuale: comandano coloro dei quali non si può dire male. Sembra una battuta – o un’elusione della risposta – e invece è il primo gradino per arrivare alla verità. In ogni ambiente – tutti ne abbiamo esperienza – c’è qualcuno (persona, gruppo, consorteria, grumo di interessi) di cui non si può dir male, pena le rappresaglie, la discriminazione, la punizione. Così funziona il mondo, in basso e in alto, alla faccia delle anime belle. Possiamo allora formulare un primo livello di risposta: comanda chi può far diventare legge o senso comune la propria volontà – applicando sanzioni a chi trasgredisce o dissente – ed è in grado di screditare prima, vietare poi, rendere illegale o pericoloso formulare critiche o sollevare obiezioni nei suoi confronti.
Non è – ancora – una risposta. Un altro livello di riflessione è in negativo: chi non comanda, ossia chi, in fatto e in diritto, non è in grado di esercitare un potere?
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Tappe e percorsi della dialettica hegeliana: la Rivoluzione d’ottobre e il pensiero di Hegel
di Giovanni Sgro’*
1. I contributi raccolti nel volume che qui si presenta1, ricostruiscono dettagliatamente un incontro “epocale” nella storia della filosofia (e non solo della filosofia!) contemporanea: la recezione e l’influenza della filosofia di Hegel nel e sul pensiero filosofico e politico russo. Questo incontro non inizia però - né, tanto meno, termina - con la Rivoluzione d’Ottobre. Infatti, prima ancora che l’opera di Hegel giungesse in Russia, fu l’intelligencija russa a recarsi a Berlino per conoscere e studiare l’opera di Hegel2. Anzi, come è stato giustamente osservato3, lo stesso incontro tra il pensiero di Hegel e gli intellettuali russi è di tipo dialettico: è avvenuto molto presto ma, allo stesso tempo, anche molto tardi. Molto presto cronologicamente, in quanto i primi contatti si sono avuti già all’indomani della morte di Hegel (1831), negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento ( Vormarz); ma a un livello di elaborazione molto tardo, in quanto l’immagine di Hegel che gli intellettuali russi assimilarono e che poi si adoperarono a diffondere e a propagandare nel loro paese era profondamente formata e mediata dall’interpretazione dei Giovani hegeliani.
Vissarion Grigor’evic Belinskij (1811-1848), Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876) e Aleksandr Ivanovic Herzen (1812-1870) distinguevano nettamente il metodo rivoluzionario dal sistema conservatore, consideravano quindi la dialettica hegeliana come un’arma rivoluzionaria, offrivano un’interpretazione in chiave dinamica dei rapporti tra reale e razionale e, nel complesso, aderivano pienamente a una lettura in chiave progressista e rivoluzionaria della filosofia hegeliana4.
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L’Europa fornirà all’Ucraina carri armati e missili che non ha
di Redazione Contropiano - Gianandrea Gaiani
Dopo 11 mesi di guerra non c’è bisogno della tv per sapere cosa chiede la junta di Kiev alla Nato: “armi!”. E la Nato riunita a Rammstein ha convenuto ancora una volta di mandargliene in grande quantità, “migliorando” però il livello tecnologico, ossia, la capacità offensiva. Ergo, ammettendo di voler essere parte attiva della guerra anche più esplicitamente di quanto non avesse detto finora.
Ci stiamo abituando ad essere in guerra secondo il principio della “rana bollita”… Ossia abituandoci a considerare “normale” ogni piccolo passo in avanti dell’escalation, fin quando la temperatura dell’acqua – pardon, del clima bellicista – non sarà mortale per tutti noi.
In questo modo non ci rimane nulla in testa, men che mai la capacità di valutare – e dunque capire (di “sapere” è escluso per principio, in guerra) – se e quanto certi annunci sono aderenti alla realtà. Ossia “realistici” in senso stretto.
Eppure quando si parla di armi “pronta cassa” qualche dubbio sarebbe bene tenerlo vivo. Non stiamo infatti parlando di finanza, per cui “basta un click” e voilà, il capitale è spostato da un’altra parte…
Per esempio. Fabbricare certi armamenti o “sistemi d’arma” come carri armati, batterie antimissile o direttamente lanciamissili terra-aria e terra-terra richiede qualche tempo, se non ce ne sono in quantità abbondante nei magazzini.
Usare certi sistemi d’arma non è esattamente come usare fucili o bombe a mano, per cui comunque serve un minimo di addestramento (se vuoi evitare di fare strage nelle tue stesse truppe).
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Propagande e “complottismi”
di Andrea Zhok
Quando si parla di propaganda e di manipolabilità della popolazione è un luogo comune, spesso ripreso, quello per cui il livello culturale sarebbe una variabile decisiva, in quanto capace di ostacolare l’influenzabilità dei soggetti. Questo assunto, oltre al pregio di essere gradevolmente consolatorio per chi di cultura si occupa, sembra seguire un semplice sillogismo. Dopo tutto uno non è facilmente ingannabile sulle cose che conosce, chi ha un’istruzione superiore per definizione dovrebbe conoscere più cose, ergo chi ha un’istruzione superiore dovrebbe essere meno ingannabile. Questo ragionamento è tanto apparentemente intuitivo quanto sciaguratamente sbagliato.
È possibile distinguere due forme distinte di manipolabilità soggettiva, che possiamo nominare schematicamente come manipolabilità (da istruzione) primaria e manipolabilità (da istruzione) terziaria.
1) Sulla manipolabilità primaria
Per istruzione primaria si intende la scuola dell’obbligo, e oggi possiamo considerare questo livello di istruzione come livello base, assumendo che tutti i cittadini ne abbiano goduto. Soggetti che abbiano limitato la propria istruzione a questo livello tendono ad entrare per primi nel mondo del lavoro con mansioni a basso tasso di specializzazione. Chi abbia questo retroterra culturale (naturalmente al netto della coltivazione autonoma di propri interessi) è sensibile ad alcune specifiche forme di manipolazione: quelle che fanno uso di una retorica della semplificazione e di appelli ad un presunto buon senso comune.
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Dossier: perchè no al MES
di Coordinamento nazionale di Liberiamo l’Italia
Bisogna proprio essere dei mascalzoni (vedi la Meloni, Giorgetti e compagnia), per giustificare l’accettazione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) come lo scambio con la promessa modifica del PNRR. Rinfreschiamo la memoria ai nostri lettori pubblicando il DOSSIER su cosa è davvero il Mes e quanto ci spiegava Leonardo Mazzei sulla reale natura del cosiddetto Pnrr.
* * * *
Il contesto da cui nacque la bestia del MES
Dopo decenni di finanziarizzazione dissennata, nel 2007-2008, scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei mutui subprime, in sostanza la più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929. La conseguenza fu il cosiddetto “credit crunch”, il sostanziale blocco dell’offerta di credito da parte delle banche. L’onda d’urto globale travolse anzitutto l’Occidente, ma colpì in modo letale l’eurozona. I governi di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, dopo qualche esitazione, decisero di obbligare le loro banche centrali ad esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort), ovvero stampare la moneta necessaria per prestarla a banche e istituti simili, in grave crisi di liquidità. Il paracadute fornito dalla banche centrali evitò in effetti la catastrofe e l’economia poté riprendersi presto.
Per farci un’idea di quanto massiccia fu la manovra della Federal Reserve, basti ricordare che questa acquistò titoli sul mercato per circa 4500 miliardi. Risultato: vero che il deficit salì al 4,2% e il debito pubblico passò al 102% del Pil, ma la disoccupazione scese sotto il 5%, il Pil tornò a crescere del 2% e Wall street tornò presto ai livelli pre-crisi. Una linea “interventista” che la FED non ha mai abbandonato, se è vero, com’è vero, che nel settembre scorso è intervenuta con una gigantesca operazione di 260 miliardi in soccorso di diverse banche a rischio di collasso.
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Diario della crisi | Appunti per una critica del diritto prossimo venturo
di Gianni Giovannelli
In questo secondo appuntamento del Diario della crisi – rubrica nata dalla collaborazione tra Effimera, Machina e il periodico El Salto – Gianni Giovannelli analizza la crisi del diritto. L’autore sostiene che non si tratta di una generica stretta repressiva limitata al diritto penale, bensì di una trasformazione più complessiva delle norme ordinamentali, civili, amministrative, lavoristiche, marittime, militari, interstatuali. Soprattutto in una situazione di approfondimento della crisi, viene mostrato come le differenti forme di dissenso diventino immediatamente criminali. Perciò analizzare le trasformazioni del diritto è un importante angolo prospettico attraverso cui ripensare le armi della critica.
Fu un linguaggio del dispotismo
e della tirannia il dire che la sola
regola della legislazione è la volontà
del legislatore.
Gaetano Filangieri
(La scienza della legislazione, I, III
Napoli, Raimondi, 1780)
Costituisce un dato di fatto, oggettivo e incontestabile, che siano in corso mutamenti profondi nella legislazione italiana e che questi mutamenti trovino un puntuale riscontro anche negli altri territori del pianeta, perfino a prescindere dalle diverse strutture politico-istituzionali. Non si tratta di una generica stretta repressiva limitata al diritto penale, come un esame soltanto superficiale potrebbe indurre a credere; la trasformazione – di questo si tratta come ogni giorno appare sempre più evidente – si estende all’insieme complessivo delle norme ordinamentali, civili, amministrative, lavoristiche, marittime, militari, interstatuali.
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Per Dante, svoltare a destra
di Stefano Jossa
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d'Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
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L’età delle catastrofi
di Roberto Finelli
Un’epoca della modernità s’è evidentemente conclusa. Il capitalismo è infatti divenuto capitalismo universale. Ma pandemia e guerra stanno lì a dimostrare quanto la sua modernità, che almeno dal XVI° sec. ha significato crescita progressiva della ricchezza e allargamento dei beni primari a masse sempre più estese della popolazione, si sia venuta ormai estenuandosi.
Potremmo definire “età delle catastrofi” il periodo storico nel quale l’umanità si accinge ad entrare, o meglio nel quale è già entrata a partire dalla globalizzazione dell’economia neoliberale che s’è iniziata storicamente con l’implosione dell’Unione Sovietica e la diffusione dell’economia a dominanza di capitale all’intero pianeta. Nel giro di trent’anni il neoliberismo, vale a dire il capitalismo come espansione illimitata del capitale, nella sua forma di capitale produttivo, capitale finanziario e capitale commerciale, ha mostrato dopo un decennio di diffusione e sviluppo, tutti i suoi intrinseci limiti, per proporsi, nell’orizzonte di un passaggio egemonico dagli Stati Uniti alla Cina, come sintesi di tre catastrofi che sempre più si apprestano e stanno per attraversare e devastare la vita del XXI° secolo.
Tale nuova età delle catastrofi si configura attraverso la compresenza del suo agire su tre livelli distinguibili ma pure riconducibili a facce di una stessa realtà.
- La catastrofe ecologica.
- La catastrofe geo-politica.
- La catastrofe antropologica della mente.
1. La catastrofe ecologica
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Guerra, crisi e sfide per il futuro
di Alessandro Pascale
Relazione sulla politica estera e le ricadute economiche e sociali per il Comitato Scientifico di Democrazia sovrana e popolare, 14 gennaio 2023
Vorrei iniziare ricordando la particolarità del periodo storico che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dell’impero statunitense e dall’ascesa di un mondo multipolare caratterizzato dall’egemonia crescente della Cina comunista. È in questo quadro che dobbiamo situare gli eventi degli ultimi anni, compresa la guerra alla Russia e la pandemia COVID.
Il mantenimento stabile nell’ultimo secolo di un assetto imperialista ha fatto sì che l’Occidente abbia potuto fondare il proprio benessere sullo sfruttamento del “terzo mondo”. Il passaggio alla globalizzazione neoliberista, avvenuto dagli anni ‘70, ha però mostrato tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, facendo perdere sul lungo termine competitività all’Occidente. La guerra in corso non è quindi un evento episodico e casuale, ma la risposta delle élite transnazionali occidentali alla perdita del controllo monopolistico dei mercati ricchi di risorse dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.
Che la pace non sia in effetti salutare per l’Occidente era emerso dagli esiti del World Economic Forum, che a partire dalle elaborazioni di Klaus Schwab ha lanciato la necessità di un “great reset” per garantire il rinnovamento del processo di accumulazione capitalistica occidentale: in estrema sintesi mentre non si fa nulla per cancellare gli enormi squilibri dovuti ad un’economia finanziaria ipertrofica, totalmente sganciata dall’economia reale, si lancia l’idea di una conversione economica in senso ecologicamente sostenibile.
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Disumane dipendenze
di Salvatore Bravo
Il totalitarismo tecnocratico si svela nella pratica pedagogica e didattica. Il totalitarismo si caratterizza per il controllo massiccio e pervasivo della formazione di ogni ordine e grado. Sulla formazione il dominio si gioca il futuro, in quanto la scuola e l’università preparano la futura classe dirigente, pertanto controllare l’ordine del discorso e filtrarlo significa controllare i saperi e attraverso di essi le parole e le coscienze. Il totalitarismo è una megaoperazione di filtraggio dei contenuti e dei messaggi. Il potere riproduce se stesso con il controllo e la programmazione pianificata delle parole che possono essere pronunciate e pensate. Il linguaggio crea mondi ed ermeneutiche, pertanto formare al linguaggio del capitalismo implica disegnare confini invalicabili, imporre frontiere al linguaggio e al logos. Le tecnologie sono il mezzo più efficace per la riproduzione del dominio, sono controllate da privati che selezionano informazioni e siti, e nel contempo, sono un immenso affare. I dispositivi tecnologici sono la merce più acquistata dalle giovani generazioni e non solo.
In assenza di una paideutica all’uso consapevole dei mezzi tecnologici si assiste all’occupazione dello spazio e del tempo delle nuove generazioni, le più indifese, con i dispositivi tecnologici. Per il nuovo totalitarismo è un doppio affare: le nuove generazioni sono un mercato fertile per il plusvalore, e inoltre comprano ciò che, in non pochi casi, li rende destrutturati nel carattere e nello spirito con la dipendenza dai dispositivi. Lo schiavo compra le proprie catene, poiché il dispositivo tecnologico consegna chi lo usa al sistema attraverso le informazioni che la rete acquisisce e mediante i messaggi che circolano in rete, i quali “possono colonizzare” la mente.
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In morte di Prospero Gallinari
19 gennaio 2013 - 19gennaio 2023
di Michele Castaldo
A dieci anni dalla morte di prospero Gallinari, ripubblico un articolo di commento nei giorni immediatamente successivi alla sua morte e che titolavo: In “morte” di Prospero Gallinari, in “vita” del giudice Caselli.
* * * *
« ….La morte del brigatista rosso Prospero Gallinari ed i suoi funerali potevano essere l’occasione per chiudere definitivamente una pagina tragica degli anni di piombo in Italia, e invece al suo funerale si sono risentiti slogan che rievocano quegli anni terribili ».
Così aprivano i maggiori telegiornali italiani nella giornata in cui si sono celebrati i funerali di Prospero Gallinari. Di qualche giorno prima, Giancarlo Caselli, sul giornale ‘Il fatto quotidiano’ del 18/1/13, metteva in guardia le nuove generazioni e in un articolo intitolato « il paese dei cattivi maestri» scriveva:
«Prospero Gallinari, prima di intraprendere la carriera di brigatista “culminata” con la spietata esecuzione (forse) del “prigioniero” Aldo Moro, si era reso celebre anche per certe singolari sfide che lanciava, tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero tutta la notte. La sua morte ha ora scatenato sul web una pattuglia di nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo. Risulta così confermata la patologia che, secondo Barbara Spinelli, affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia e porta a una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica. Così prosegue – con effetti devastanti – l’appropriazione indebita dei valori della resistenza partigiana e dell’antifascismo da parte di chi non ha l’intelligenza o l’onestà intellettuale di condannare la violenza organizzata praticata contro una democrazia: un arbitrario che ha potentemente contribuito all’indebolimento di quei valori.
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Come ho cominciato ad amare la bomba ….. ovvero …… la fisica sul tavolo di casa
di Paolo Di Marco
La Fisica è associata, nei titoli di giornali e nell’immaginario, a esperimenti costosi in laboratori con attrezzature esotiche: dai grandi acceleratori di particelle ai razzi interplanetari. E così appare sempre più qualcosa riservato a un mondo alieno e rarefatto di cui poco è dato sapere e soprattutto comprendere ai comuni mortali.
Ma non solo la ‘Fisica povera’ dei laboratori scolastici, ma anche quella esotica può essere fatta a casa propria, anche da qualcuno digiuno di scienza.
1- il caos (il rubinetto di Henon)
Nonostante se ne sia fatto molto parlare tempo fa il caos è ancora oggetto misterioso per la maggior parte di noi. Il fatto che evochi l’eterna lotta con l’ordine lo carica anche di significati morali tanto drammatici quanto impropri.
L’unico modo di esorcizzarlo è capirlo, e la strada migliore gli esperimenti.
Quello che vi proponiamo richiede solo un recipiente con un rubinetto di quelli classici.
Mettiamo il recipiente sul tavolo, e per terra una vaschetta con della carta argentata sul fondo (Se avete un rubinetto di quelli classici, cilindrici, potete farlo anche nel lavandino di casa..).
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Alle origini dell’ Unione Europea: Richard N. Coudenhove-Kalergi
di Gerardo Lisco
A leggere Kalergi, nello specifico il saggio “L' idealismo pratico”, nella speranza che la traduzione renda fedelmente il suo pensiero, ho la conferma di quanto talune teorie siano fondate sul nulla, soprattutto quando la lettura di un saggio sostanzialmente mediocre come quello appunto di Kalergi viene preso a riferimento per sostenere complotti da affezionati seguaci del Furher e del Duce. Il saggio di Kalergi sul piano della elaborazione teorica, come dicevo, è piuttosto mediocre, è da ascrivere alla vasta letteratura che in diversi contesti ha provato a delineare le tendenze future circa gli sviluppi dell’Umanità. Per Kalergi << La campagna e la città sono i due poli dell’esistenza umana. (…) L’uomo rustico e l’uomo urbano costituiscono antipodi psicologici (…)>>. Le due categorie di Uomo sono rintracciabili in qualsiasi contesto storico: dall’antichità fino all’età moderna. <<L’apogeo dell’uomo rustico è il nobile proprietario terriero, lo Junker, l’apogeo dell’uomo urbano è l’intellettuale, il Letterato>>. L’umanità rustica rappresenta la conservazione, la consanguineità, quindi la tradizione; l’umanità urbana è il prodotto di incroci e mescolamento tra appartenenti a gruppi sociali ed etnie diverse. Per Kalergi, << Nelle grandi città s’incontrano i popoli, le razze, le posizioni sociali. Come regola generale l’uomo urbano costituisce il tipico esempio di un meticciato degli elementi sociali e nazionali tra i più diversi. In lui si avvicendano senza elidersi le singolarità, i giudizi, le inibizioni, le tendenze di volontà e le visioni del mondo contraddittorie dei suoi genitori e dei suoi nonni, o almeno si indeboliscono tra loro (…) L’uomo del lontano futuro sarà un meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno vittime del più grande superamento dello spazio, del tempo e dei pregiudizi. La razza del futuro, negroide ed eurasiatica, simile nell’aspetto a quella dell’Antico Egitto, è destinata a sostituire la molteplicità dei popoli con una molteplicità di personalità peculiari (…)>>.
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Tug of War
di Enrico Tomaselli
In inglese, tiro alla fune si dice ‘tug of war’, che letteralmente sarebbe ‘tipo di guerra’. Un espressione che si addice perfettamente a quanto sta accadendo in Ucraina, ma non perché le parti si stiano reciprocamente tirando dall’una e dall’altra parte, in un sostanziale stallo; il vero tiro alla fune vede infatti da una parte la realtà e dall’altra la narrazione, da un lato i fatti e dall’altro la propaganda. E più va avanti il conflitto, più i due capi della fune si allontanano, come se questa fosse elastica.
E questa divaricazione tra la guerra ed il suo racconto è ciò che oggi racchiude la vera minaccia di escalation.
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Soledar, la piccola cittadina appena a nord di Bakhmut, è nel suo piccolo un paradigma di molte altre cose. È, innanzi tutto, un esempio ormai classico di come procede l’esercito russo, in questa campagna d’Ucraina. Una volta identificato un punto del fronte che abbia una certa rilevanza tattica o strategica, comincia a premere in forze, impegnando il nemico in una battaglia di logoramento e contemporaneamente inizia a premere ai lati, sviluppando una manovra di aggiramento. Quando le ali della manovra si sono spinte abbastanza in avanti, tanto da minacciare le linee di rifornimento dell’obiettivo principale, il gioco è già sostanzialmente fatto. Sganciarsi e ritirarsi diventa estremamente complicato per il nemico, che quindi prova a resistere e lanciare controffensive. Finché la situazione si fa drammatica e l’aggiramento rischia di chiudere in un calderone l’intera forza dispiegata. A quel punto, inevitabilmente, ciò che accade è che una parte delle truppe viene sacrificata, lasciata sul posto a coprire la ritirata, mentre il grosso si sottrae all’accerchiamento.
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‘La Terza Guerra Mondiale è iniziata’
Le Figaro intervista Emmanuel Todd
Se guardiamo i voti dall'ONU, vediamo che il 75% del mondo non segue l'Occidente, che così appare piccolissimo. Vediamo che questo conflitto, descritto dai media come conflitto di valori politici, è un più profondo conflitto di valori antropologici
Grande intervista – Emmanuel Todd è antropologo, storico, saggista, prospettivista, autore di numerose opere. Molte di esse, come “La caduta finale”, “Illusione economica” o “Dopo l’impero”, sono diventati classici delle scienze sociali. Il suo ultimo lavoro, “La terza guerra mondiale”, è apparso nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.
Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “Rebelle Destroy” con le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia indifferente. L’autore de “La caduta finale”, che ha previsto nel 1976 il crollo dell’Unione Sovietica, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina. L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi al pubblico giapponese, perfino pubblicando nell’arcipelago un titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è già iniziata”. Per “Le Figaro”, descrive in dettaglio la sua tesi iconoclasta. […]
Oltre allo scontro militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sull’opposizione tra l’Occidente liberale e il resto del mondo che ha acquisito una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli che sono ritenuti tali.
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Le Figaro. – Perché pubblicare un libro sulla guerra in Ucraina in Giappone e non in Francia?
Emmanuel Todd. – I giapponesi sono altrettanto anti-russi quanto gli europei. Ma sono geograficamente lontani dal conflitto, quindi non c’è un vero senso di urgenza, non hanno la nostra relazione emotiva con l’Ucraina. E lì, non ho affatto lo stesso status.
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Don Chisciotte e la sanità pubblica
di Valerio Miselli
Torniamo a scrivere di salute, di Sistema Sanitario Nazionale, del nostro stato di salute durante un periodo di epidemia influenzale, l’ennesima emergenza sanitaria che si abbatte su un sistema già reso fragile dall’impatto col COVID, dopo anni di tagli e revisioni, senza un posto fisso nell’agenda politica di chi ci governa, da molto tempo. Poi compaiono due articoli sulle pagine dei quotidiani, lettere di protesta nelle pagine riservate ai lettori, la figlia di una donna di 98 anni che è costretta ad aspettare per 12 ore su una barella al Pronto Soccorso, un giornalista molto conosciuto che ha la stessa sorte con il padre ultraottantenne che sta facendo chemioterapia, storie di visite negate, attese infinite, dignità umana calpestata, sofferenza. Storie quotidiane che non si vorrebbero sentire in un Paese che si vanta di avere un buon Sistema Sanitario Nazionale, dove la salute è garantita a tutti, per legge.
Le storie di malattia entrano in conflitto con il nostro sistema di cura, le persone diventano malati. La figura del paziente sottoposto al controllo smette di corrispondere in toto con la persona malata che comincia invece a rivendicare di aver voce in capitolo per ciò che riguarda il proprio corpo. Diventiamo tutti un po’ “Narratori feriti” secondo l’espressione di Arthur Frank. Il modello classico di cura per una patologia acuta (in pratica, chiamare il medico o telefonare al 118) non sempre riesce a soddisfare il bisogno emergente, la frattura narrativa che la malattia genera in ciascuno di noi, la necessità di un ripristino urgente dello stato di salute precedente.
Peggio ancora per chi vive con una patologia cronica, dove spesso cresce il divario tra il dolore che aumenta e l’agenda dei medici che prendono in mano la situazione critica: mentre uno pensa che la sua vita stia deragliando, arrivano rassicurazioni inutili, perché non possono essere colte in quel momento.
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Un contadino nella metropoli degli anni ‘70
di Alessandro Barile
Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Pgreco 2023, pp. 352, € 20,00.
La ripubblicazione di Un contadino nella metropoli a dieci anni dalla morte del suo autore, Prospero Gallinari (1951-2013), è opportuna almeno per due motivi. Il primo, rimettere in circolazione un libro stranamente introvabile, nonostante la prima edizione affidata a Bompiani, la notorietà della persona, l’attenzione (a volte genuina, più spesso morbosa) riguardo agli anni Settanta e alla lotta armata nel nostro paese. Vi è poi l’occasione di celebrarne il ricordo a dieci anni dal suo funerale-evento: al cimitero di Coviolo, Reggio Emilia, il 19 gennaio 2013 si convocarono spontaneamente un migliaio di persone, compagni di tutta Italia, reduci e giovani, brigatisti, non brigatisti, anti-brigatisti, chiunque si sentì toccato da una morte che sembrava trascinare con sé un’intera epoca. Una foto di gruppo, tra parenti spesso litigiosi, eppure accomunati, e non solo dal ricordo umano.
Ma la ripubblicazione di questo libro di «ricordi di un militante delle Brigate rosse» può servire anche ad altro, forse di più importante, o almeno di più utile. È un libro di memorie, e come tale è andato a suo tempo ad ampliare la già vasta produzione memorialistica sugli anni Settanta. Una memorialistica che, negli ultimi venti anni, ha dapprima lasciato spazio alla contro-memorialistica delle vittime (delle vittime reali ma, molto più di frequente, delle vittime indirette: familiari, amici, conoscenti); per poi cedere il passo a una storiografia che si è andata occupando molto di anni Settanta e del loro enigma indecifrato. La ricostruzione storica è rimasta però alquanto sterile. Nell’attuale, spasmodica, convalida di un suo statuto scientifico, la ricerca storica ha generato una tecnicizzazione degli eventi studiati. Siamo stati così invasi di libri sul lungo Sessantotto italiano, sulla lotta armata e sulla «strategia della tensione», sui profili umani e su quelli disumani.
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Gli Usa tornano nel Mediterraneo
di Fabrizio Verde
Se durante le precedenti amministrazioni gli Stati Uniti si erano sostanzialmente disinteressati al Mediterraneo perché maggiormente presi dagli sviluppi geopolitici in differenti quadranti geografici, adesso sembrano essere tornati a voler occuparsi del Mare Nostrum, un medioceano come lo definisce la rivista di geopolitica Limes.
Principalmente perché il Mar Mediterraneo si inserisce così nella disputa globale per l’egemonia tra gli Stati Uniti e vassalli occidentali da una parte che rappresentano l’unipolarismo in decadenza, e le potenze multipolari in ascesa guidate da Cina e Russia. Senza dimenticare poi paesi come la Turchia, che seppur inserita nel sistema di alleanze occidentali, in primis la NATO, non rinuncia al conseguimento dei propri interessi strategici anche quando questi vanno a cozzare con quelli del blocco occidentale. Così Ankara da tempo fa sfoggio di equilibrismo strategico anche se negli ultimi tempi sembra propendere di più verso est.
In questa partita Washington vuole mantenere il controllo del Mediterraneo per non perdere la sua influenza sui paesi costieri e per avere agilità di movimento tra gli oceani. Il declino dell'influenza degli Stati Uniti in Europa aveva creato, in una certa misura, un vuoto strategico intorno alla regione mediterranea. Ma con l’operazione di sostegno al regime di Kiev in Ucraina gli Stati Uniti hanno di fatto preso il pieno controllo sull’Europa. Un’Europa immolata sull’altare degli interessi economici e strategici di Washington.
La strategia statunitense prevede ovviamente il coinvolgimento dell’Italia, in funzione degli interessi statunitensi, anche se in Italia qualcuno cera di occultare il vassallaggio di Roma provando a dipingerlo come un rilancio del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.
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Movimento comunista in Italia
di Raffaele Gorpìa*
Delle ragioni legate all’assenza nel nostro Paese di un partito comunista degno di tale nome, dopo il suicidio del PCI, si è lungamente (e improduttivamente) dibattuto senza tuttavia che vi sia stata una univocità sostanziale di vedute che potesse contribuire alla ricostruzione di un soggetto politico rivoluzionario. Il fallimento del Partito della Rifondazione Comunista (neppure percepito come tale dai suoi attuali residui militanti), ha ulteriormente complicato le cose nell’immaginario collettivo perché avvenuto solo dopo pochi anni dal crollo del Muro di Berlino; a tal proposito, giova ricordare che oggi siamo ben lungi dall’avere una uniformità di vedute non solo riguardo alle cause che hanno portato alla dissoluzione dell’Urss ma anche rispetto alle cause profonde che hanno condotto alla morte del PCI. Possiamo però, in riferimento all’ultimo trentennio, dopo la scomparsa del PCI, in mancanza di una ricostruzione storica sistematica, almeno ripartire da alcuni elementi storici recenti e da alcune dinamiche significative di vita politica del Partito della Rifondazione Comunista nonché delle sue schegge fuoriuscite nelle varie scissioni, per cercare di comprendere alcune delle cause della drammatica fase vissuta attualmente dai comunisti in Italia, dovendo, nel frattempo, constatare ancora una volta come la storia, come diceva Antonio Gramsci, è sì maestra di vita, ma (ancora oggi), non ha scolari.
Un periodo decisivo i quadri intermedi di maggioranza del PRC lo ebbero nel momento della votazione per la partecipazione o meno ai due governi Prodi, già predisposti come erano a sostenere e votare in maggioranza le direttive del gruppo dirigente; ai quadri intermedi carrieristi interessava entrare nel governo, anche in alleanza con forze politiche antagoniste, e non importava se ciò avvenisse tenendo il cappello in mano e senza alcun reale rapporto di forza.
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La guerra capitalista
di Roberto Romano
Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, 2022
La guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, arricchita dalla postfazione di Roberto Scazzieri, riprende e attualizza una delle più importanti tesi di Marx: la tendenza verso la centralizzazione del capitale, “una tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani, che disgrega l’ordine liberaldemocratico e alimenta la guerra militare tra nazioni”. Come sottolineano gli autori nella introduzione, all’interno del libro viene spiegato e approfondito “il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia” (p. 9). L’intuizione di Marx relativa al processo di centralizzazione dei capitali viene pertanto trattata e approfondita alla luce delle recenti dinamiche economiche internazionali. La forza della legge relativa alla centralizzazione del capitale viene aggiornata e sistematizzata grazie alla network analysis. Gli autori calcolano un nuovo indice di network control che misura la percentuale degli azionisti detentori dei pacchetti di controllo della parte preponderante del capitale azionario quotato nelle borse (p. 99-137). In tal modo è possibile pervenire al “valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107) .
Attraverso l’impiego di un modello vettoriale autoregressivo bayesiano (che viene ben spiegato in modo molto chiaro nella appendice a cura di Milena Lopreite e Michelangelo Puliga) Brancaccio, Giammetti e Lucarelli possono mettere in relazione la politica monetaria delle Banche Centrali con gli indici di centralizzazione precedentemente ricavati: una politica monetaria restrittiva, cioè un aumento dei tassi di interesse, “conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale” (p. 124).
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