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La “pace” europeista irride le esigenze di sicurezza di Mosca e significa guerra
di Fabrizio Poggi
Ecco servita la “pace” che vogliono i furfanti europeisti: un esercito ucraino ancora più forte, armato con soldi europei e rimpinguato di armi yankee. Stando a Bloomberg, dopo l'incontro del 18 agosto alla Casa Bianca, USA ed Europa inizieranno immediatamente a lavorare per fornire garanzie di sicurezza all'Ucraina, volte a rafforzarne le forze armate.
Le fonti citate da Bloomberg sottolineano che l'obiettivo è proprio quello di eludere le richieste russe sulla limitazione delle forze armate ucraine nel quadro del futuro accordo di pace. Al contrario, le garanzie saranno «incentrate sul rafforzamento delle forze e delle capacità militari ucraine senza alcuna restrizione, come ad esempio quella di un limite al numero di truppe» e sarà compito della cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, guidata da Gran Bretagna e Francia, assicurare tali garanzie. Lo aveva del resto detto, demonia von der Leyen, che l'Ucraina deve trasformarsi in un "porcospino d'acciaio" che nessun aggressore possa digerire. La guerra: ecco ciò a cui lavorano gli avvoltoi delle cancellerie europeiste.
E non dimentichiamo che il 18 agosto, a Washington, erompe impettito il signor Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera, gli europei hanno dimostrato di essere «in grado di tenere il punto, in difesa dei propri valori e dei propri interessi»: i valori liberal-terroristici di affamamento delle masse popolari e gli interessi del complesso militare industriale. Non fa una piega.
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Marx incostituzionale
di Nicolò Monti*
Sembrava una vittoria storica quella del “Forum serale Marxista per la politica e la cultura”, abbreviato Masch, nei confronti dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione, ma le motivazioni della sentenza del Tribunale di Amburgo hanno spazzato via il già molto cauto ottimismo. L’8 Marzo scorso l’associazione, che aveva citato in giudizio lo Stato per essere stata classificata come associazione di “estrema sinistra”, togliendole lo status di organizzazione no profit, ha ottenuto la riabilitazione e il proprio status. In un clima così fortemente anticomunista, questa sembrava davvero una bella notizia per le associazioni e le organizzazioni marxiste tedesche.
Come sappiamo però, ogni tribunale che emette una sentenza ne pubblica dopo un certo lasso di tempo le motivazioni per la quali è stata emessa. Il 6 Agosto sono arrivate e non suonano affatto come una vittoria politica, anzi. Per il Tribunale infatti l’unico motivo che ha portato a dar ragione a Marsch è stato che i membri non avevano un "atteggiamento attivo e combattivo" tale da essere pericoloso per la Costituzione. Insomma, per i giudici i militanti di Masch sono “poco attivi” per poter essere considerati una minaccia, per il momento. Oltre ciò, che già di suo farebbe sorridere se non fossero così maledettamente seri, le motivazioni arrivano al nocciolo della questione.
Prima di fare la disamina delle stesse però è necessario spiegare cosa sia Masch. L’organizzazione nasce nel 1981 ad Amburgo affiliata al DKP, Partito Comunista Tedesco, che nell’allora Germania Ovest era messo al bando e vittima di persecuzioni. Lo scopo di Masch è la formazione marxista tramite conferenze, corsi e lezioni e riprende le caratteristiche delle scuole operaie nate nel 1925 in Germania. La loro importanza negli anni 20 e 30 era tale che tra insegnanti e partecipanti ai corsi vi si poteva leggere nomi del calibro di Bertolt Brecht. Oggi continua la sua opera di formazione politica e culturale marxista, ma con una ampia autonomia dal DKP.
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L’irrealtà europea tra Kiev e Mosca
di Barbara Spinelli
In attesa del vertice trilaterale fra Trump, Putin e Zelensky, o di precedenti incontri bilaterali Mosca-Kiev come preferirebbe Putin, occorrerà distinguere con precisione quel che separa l’apparenza dalla realtà.
L’accordo di cui Trump ha discusso lunedì a Washington – con Zelensky, i capi di Stato o di governo di cinque paesi europei, la Nato, la presidente della Commissione Ue – sembrerebbe chiaro: cessione alla Russia di gran parte dei territori perduti da Kiev (Donbass soprattutto), compresa la Crimea annessa nel 2014 quando Washington organizzò lo spodestamento del presidente Yanukovich, giudicato troppo filo-russo; solide garanzie di sicurezza, con una presenza di soldati francesi e inglesi in quel che resta dell’Ucraina, con eventuale copertura aerea e satellitare Usa; “riarmo forte” dell’Ucraina; fine degli aiuti militari Usa ma acquisto di armi statunitensi destinate a Kiev da parte degli Stati europei, per un totale di ben 100 miliardi di dollari (le spese sociali saranno ancora più tagliate); impegno a difendere l’Ucraina in caso di attacchi, “sul modello articolo 5” della Nato (l’attacco a un Paese è un attacco contro tutti) ma senza adesione alla Nato.
Tema preminente è stato la garanzia di sicurezza per l’Ucraina, com’è naturale. Ma neanche un cenno è stato fatto alle garanzie di sicurezza chieste da Mosca: garanzie non solo militari, ma concernenti i cittadini russi e russofoni, la cui lingua deve tornare a essere lingua ufficiale accanto a quella ucraina, secondo Putin. Mosca chiede anche la riabilitazione della Chiesa ortodossa canonica, illegalmente messa al bando da Zelensky nel 2024.
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Pensiero critico. Perché progressismo e sinistra perdono le elezioni?
di Álvaro García Linera*
Le sinistre e i progressismi al governo non perdono le elezioni a causa dei troll dei social network. Né perché le destre sono più violente, e tanto meno perché la gente che ha beneficiato delle politiche sociali è ingrata.
Le battaglie politiche sui social non creano dal nulla ambienti politico-culturali espansivi nelle classi popolari maggioritarie. Le radicalizzano e le conducono lungo percorsi isterici. Ma la loro influenza presuppone, in precedenza, l’esistenza sociale di un malessere generalizzato, di una disponibilità collettiva al distacco e al rifiuto delle posizioni progressiste.
Allo stesso modo, le destre estreme, autoritarie, fascistoidi e razziste sono sempre esistite. Vegetano in spazi marginali di militanza rabbiosa e chiusa in sé stessa. Ma la loro predicazione si espande a causa del deterioramento delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice, della frustrazione collettiva lasciata da progressismi timorosi, o della perdita di status di settori medi.
E quanto a quelli che sostengono che la sconfitta sia dovuta all'”ingratitudine” di quei settori precedentemente beneficiati, dimenticano che i diritti sociali non sono mai stati un’opera di beneficenza governativa. Sono state conquiste sociali ottenute nelle strade e attraverso il voto.
Per tutto questo, senza alcuna scusa, un governo progressista o di sinistra perde le elezioni per i suoi errori politici.
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Per l’Ue ogni passo verso la pace minaccia l’industria bellica
di Pasquale Pugliese
L’incontro tra Trump e Putin in Alaska ha coinciso con il quarto anniversario della precipitosa fuga dell’esercito Usa da Kabul dopo vent’anni di occupazione: un quarto di secolo di guerre, iniziato nell’ottobre del 2001, come vendetta e punizione collettiva – modello futuro per Netanyahu – per l’attacco terroristico subìto l’11 settembre.
L’invasione dell’Ucraina ne è stata anche l’estremo effetto, un effetto farfalla nel tempo e nello spazio secondo l’intuizione di Edward Lorenz, che impregna di sé anche le complesse relazioni internazionali: il battito d’ali di una farfalla in una parte del mondo genera un uragano dall’altra. Ossia il diritto internazionale vale per tutti ovunque – dall’Afghanistan all’Iraq, dall’Ucraina alla Palestina – oppure è impossibile farlo valere solo per qualcuno.
L’Europa si è stracciata le vesti per la sua esclusione dall’incontro di Anchorage, insieme a quella di Zelensky, ma la sua assenza – recuperata solo quattro giorni dopo con l’anticamera dei “volenterosi” alla Casa Bianca, nell’incontro tra Trump e il presidente ucraino – è frutto della rinuncia sdegnosa a essere, fin dall’inizio, terzo rispetto alla guerra russo-ucraina. L’Ue, scegliendo la cobelligeranza con una parte “fino alla vittoria”, attraverso la reiterata fornitura di armi all’Ucraina “per tutto il tempo che sarà necessario”, e imponendo 18 ondate di sanzioni economiche all’altra (ma zero ad Israele), anziché essere attivamente neutrale come chiedevano i movimenti pacifisti, è esattamente il Terzo assente secondo la formula usata da Norberto Bobbio nel 1989: il terzo mancante nel conflitto.
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La vittoria di Trump nella guerra dei dazi
di Alfonso Gianni
La partita dei dazi fra Usa e Ue si è giocata non a caso a Turneberry, in uno dei campi di golf di proprietà di Trump e si può tranquillamente dire che è stata una debacle per gli interessi europei. Ci vuole una buona dose di faccia tosta per affermare, come ha fatto Ursula Von der Leyen, che si è trattato di un risultato “enorme” corrispondente al “massimo” che si sarebbe potuto ottenere. Tanto più che si era partiti da dichiarazioni da un lato ottimistiche, dall’altro bellicose. Le prime facevano credere che si potesse puntare a un risultato finale sul tipo di uno “zero per zero”. Le seconde che si poteva percorrere la strada di una guerra commerciale di non breve durata. La prima ipotesi è stata subito bersagliata dall’aggressività spavalda di Trump che ha continuamente alzato l’asticella delle tariffe doganali. Una tattica del continuo rialzo che però già prevedeva un punto di caduta. Esattamente quel 15% che aveva trovato già una sua applicazione nel confronto con il Giappone e che in quello con la Ue rappresenta una indubbia vittoria tutt’altro che solo simbolica da parte di Trump.
Va sempre considerato che la guerra dei dazi è stata cominciata dal tycoon all’interno di una più ampia strategia di politica economica e finanziaria giocata a livello internazionale. E’ quanto sta scritto nel corposo documento del novembre del 2024, stilato dal suo principale consigliere economico, Stephen Miran, che suggerisce all’Amministrazione americana di alternare il “bastone e la carota” (testuale nel paper citato) nei rapporti con i vari paesi sullo scenario internazionale. In questa visione l’applicazione dei dazi e la loro ipertrofica minaccia preventiva, costituisce il bastone, mentre la carota sarebbe rappresentata dalla continuazione di una protezione militare, o meglio la rinuncia a un totale o parziale abbandono della stessa. Qui emerge già un primo elemento che pone fin dall’inizio in vantaggio la posizione negoziale (si fa per dire) di Trump.
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Non esistono garanzie senza rischi
di Gianandrea Gaiani
Come spesso è accaduto da quando è iniziata la guerra russo-ucraina, la situazione è grave ma non seria, come sta dimostrando il dibattito sulle garanzie di sicurezza da offrire Kiev.
Garanzie necessarie in un ipotetico scenario futuro in cui un’ipotetica pace si instauri tra Mosca e Kiev in seguito a un ipotetico accordo di cui al momento non si vedono i presupposti, neppure quelli ipotetici considerato che l’Ucraina non ha accettato di cedere i territori perduti e già in mano ai russi, prima condizione per portare Mosca al tavolo delle trattative.
I leader europei sono rientrati esultanti da Washington tra lo scetticismo di molti osservatori che, come Analisi Difesa, hanno cercato di valutare gli eventi con un approccio pragmatico.
Il giornale web americano Politico evidenzia infatti che vi sono profonde divergenze tra gli alleati occidentali sul tipo di garanzie di sicurezza da offrire all’Ucraina.
Nella sua edizione europea, Politico sottolinea come, nonostante le pressioni del presidente statunitense Donald Trump e l’apertura a protezioni simili all’articolo 5 della NATO” come proposto dall’Italia, non sono stati definiti ne’ il perimetro ne’ le modalità di attuazione di tali garanzie.
Durante l’incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i leader europei del 18 agosto, Trump ha escluso l’invio di truppe statunitensi in Ucraina, lasciando l’onere agli alleati europei. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha confermato l’impegno a lavorare a una “forza di rassicurazione” da schierare in caso di cessazione delle ostilità. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di una missione congiunta con Regno Unito, Germania e Turchia, ma i dettagli restano vaghi, precisa Politico.
Fonti europee riferiscono che gli scenari ipotizzati prevedono un possibile mandato di combattimento per le truppe occidentali, senza però attribuire loro il compito di far rispettare la pace. Concetto non molto chiaro che sembra sottintendere che la responsabilità militare resterebbe alle forze armate ucraine.
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Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua
di Diego Giachetti
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
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Metti la cera, leva la cera: NITAG e teatro d'agosto
di Il Chimico Scettico
Schillaci fa il NITAG, Schillaci sfa il NITAG.
In mezzo e dopo, il teatro.
Un teatro costruito su una vicenda marginale, come spesso capita in agosto.
La comunità scientifica
Una settimana di ferragosto in cui, come palline da ping pong, rimbalzavano su tutti i media italiani "scienza" e i suoi derivati: io scienzio, tu scienzi, egli antiscienza, essi comunità scientifica.
Bellavite protestava: non sono un no-vax, ma uno scienziato (si, ok...). Poi FNOMCeO (Associazione di ordini professionali), comunità scientifica, Società Italiana di Pediatria (associazione medica), comunità scientifica. Parisi, premio Nobel per la Fisica, comunità scientifica, anche se parla di sanità o medicina - ma quando si accetta il ruolo di uomo immagine dell'iperrealtà scientifica questo è. E poi i grandi classici: la lettera o la corrispondenza su una rivista internazionale, e anche questa volta chi scrive è italiano - i precedenti in tempi di COVID (BMJ) e all'epoca dell'obbligo vaccinale pediatrico (tante se ne videro tra 2017 e 2018). Lo schema è sempre lo stesso, lettera a Lancet o a Nature in inglese, sì, ma per parlare al dibattito italiano, anche perché per gli anglofoni la cosa non è che in generale sia quella più interessante del mondo. Tutto armamentario già usato per questioni di ben altro spessore.
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“L’ora delle decisioni irrevocabili”, ovvero fatela finita
di Francesco Piccioni
La situazione dell’Unione Europea davanti alla guerra in Ucraina è molto simile a quella di un investitore di piccolo taglio davanti al calo di prezzo dei titoli azionari su cui ha puntato: vendere (fare la pace) accettando di formalizzare perdite sostanziose oppure “tenere” (continuare la guerra) sperando che i prezzi risalgano?
A guardare l’ostinazione acefala con cui si insiste – anche dopo il maltrattamento subito a Washington dal loro “alleato-padrone” – a ripetere sempre le stesse richieste (cessate il fuoco prima di trattare, nessuna cessione di territorio, altre sanzioni contro Mosca, ecc) effettivamente si ha l’impressione di vedere in azione degli idioti irrimediabili.
Ovviamente, nonostante la loro infima “statura da statisti”, non sono affatto degli idioti, ma se non altro dei furbastri che sono stati capaci di arrivare al vertice dei rispettivi paesi sfruttando meglio dei concorrenti le opportunità fornite da “donatori importanti”.
Il problema nasce dal fatto che anche tutti insieme continuano a contare come se ognuno fosse comunque “da solo”, ovvero dal fatto che il progetto europeo era sostanzialmente sbagliato (facciamo prima l’unità economica – peraltro basata sulla competizione interna – poi quella monetaria ma non quella fiscale e bancaria, poi quella politica e militare, anzi no, ci si arma ognuno per conto suo).
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Lo sfondo teologico-politico: Gaza è il rimosso che torna in superficie
di Davide Sabatino
“Tutti gli schemi della politica sono anticipati dalla teologia”. Questa frase particolarmente intelligente l’ha pronunciata qualche tempo fa, udite udite, Pier Luigi Bersani in una trasmissione TV su La7. Quando si dice che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora esatta. Infatti, come dargli torto? Anzi, c’è da stupirsi che ogni tanto nei talk show televisivi si riescano a formulare frasi “eretiche” come queste. Ovviamente il conduttore (in questo caso Floris) si è guardato bene dal cercare un approfondimento sul punto “teologico-politico” (l’unico che sarebbe stato opportuno indagare). Infatti, è facile dire che esiste una connessione fra “mondo religioso” e “mondo politico”; difficile è, invece, riconoscere quali siano gli effettivi rapporti vigenti fra questi due mondi, che solo apparentemente risultano distanti e contrapposti.
Nel libro Cristo in Politica: per un’allegra rivoluzione, pubblicato quest’anno con le Edizioni Paoline, ci siamo interrogati a fondo sulla qualità del tempo apocalittico che stiamo vivendo. In questo testo abbiamo sottolineato l’urgenza di ritrovare una chiave di lettura filosofico-politica che sia all’altezza delle sfide antropologiche attuali. D’altronde, se è vero che l’Unione Europea si trova umiliata quotidianamente dalla Russia e dagli Stati Uniti, come spesso ribadisce Alessandro Orsini nei suoi interventi pubblici; se è vero che il genocidio che si sta compiendo ormai da più di due anni in Palestina non sarà affatto un caso isolato ma, come denuncia Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite, è destinato a diventare il solo e unico modo che questo Sistema criminale della guerra ha per gestire le masse; se — in ultimo — è vero, come vediamo ogni giorno, che né il diritto internazionale né l’Onu riescono ad arginare le follie disumane del governo israeliano, che non solo bombarda a suo piacimento gli altri Stati vicini, sfruttando le faglie economiche e morali interne al governo Trump, ma arriva perfino a sparare contro i civili affamati in cerca di cibo nelle zone preposte agli aiuti umanitari, come denunciato dall’inchiesta di Haaretz; se tutto questo è vero, ed è purtroppo vero, allora studiare scientificamente ed economicamente le cause di un imbarbarimento politico-antropologico così evidente può essere utile ma di sicuro non sufficiente.
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I palestinesi non sono responsabili dello stermino degli ebrei. Perché ne pagano la colpa?
di Alessandra Ciattini
Certamente i palestinesi non sono responsabili dello sterminio degli ebrei e, pertanto, non può essere invocato contro di loro. D’altra parte, stiamo assistendo ogni giorno al massacro dei palestinesi, ridotti ormai a dei cadaveri viventi, i cui figli malnutriti se non moriranno non si riprenderanno mai. Eppure, si insiste nel negare la parola genocidio, nonostante le esplicite dichiarazioni dei leader israeliani che intendono fare di Gaza tabula rasa. Per un paradosso storico gli stessi poteri che non mossero un dito per salvare gli ebrei dai campi di sterminio, cui sfuggirono pochi fortunati, stanno ora collaborando con Israele nel massacro dei palestinesi.
Molto rumore e scandalo suscitarono, vari anni fa, le dichiarazioni rilasciate in differenti occasioni dall’allora presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, in particolare quando, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University di New York nel 2007, affermò che a suo parere si dovrebbe ancora indagare sull’olocausto degli ebrei avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale. Traggo questa informazione da un articolo di Shlomo Shamir pubblicato da Haretz il 25 settembre 2007. Naturalmente, questa sua affermazione suscitò molte proteste negative tra i presenti e il presidente dell’università, Lee Bollinger, intervenne definendo il presidente un “dittatore meschino e crudele”. A quella considerazione Ahmadinejad avrebbe aggiunto, che lo Stato sionista (avrebbe sempre usato questa espressione) ha sempre utilizzato le sofferenze subite per giustificare le sofferenze inflitte ai palestinesi, chiedendosi perché questi ultimi debbono pagare il prezzo di un crimine che non hanno commesso né potevano commettere?
Mi rendo conto che si tratta di un argomento molto delicato e complesso e che certo nessuno può negare l’olocausto che, tuttavia, come sappiamo, non riguardò solo gli ebrei, ma anche altri gruppi etnici (rom, slavi etc.), invalidi, dissidenti politici, etc. D’altra parte, scorrendo anche la stampa dell’epoca, non è facile stabilire cosa intendesse dire effettivamente Mahmoud Ahmadinejad in tutte quelle occasioni in cui fu invitato a parlare in Occidente.
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La fine del mito della statualità
di comidad
In molti hanno notato che “Ferragosto in Alaska” era un titolo che si adattava più a un film con Christian De Sica e Massimo Boldi che a un evento storico. C’è inoltre un diffuso scetticismo sulla possibilità che Trump riesca a mantenere i canali di trattativa eventualmente aperti con la Russia sui dossier comuni, compresi l’Artico e il controllo nucleare. Pare che lo stesso Putin non creda alla possibilità degli USA di mantenere accordi, cioè di esprimere una continuità istituzionale. Nella conferenza stampa finale Putin ha accettato di compiacere l’ego di Trump avallando il suo mantra, secondo il quale se ci fosse stato lui alla presidenza al posto di Biden, la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Putin non è il grande statista che molti hanno vagheggiato, ma è comunque un vero professionista della politica e della diplomazia, perciò da parte sua appare strana una deroga così smaccata dal codice di comportamento istituzionale, in base al quale occorrerebbe evitare di esprimere giudizi e fare confronti sui capi di Stato degli altri paesi. Secondo il luogo comune, la politica russa sarebbe molto legata a certi formalismi giuridici, invece Putin stavolta li ha tranquillamente ignorati. Certe sbracate ce le si poteva aspettare da un lobbista e dilettante della politica come Mario Draghi, il quale nel 2021 non si limitò a elogiare il presunto europeismo di Biden, ma si lasciò andare a critiche sul suo predecessore Trump.
A fondamento dei rapporti istituzionali dovrebbe esserci la funzione, che prevale sulle persone che la esercitano di volta in volta. Questo filo di continuità nella funzione, al di là e al di sopra della caducità delle persone, sarebbe appunto lo Stato.
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Trump non riesce ancora a capire le ragioni fondamentali dell'operazione militare speciale della Russia, però ci sta provando
di Larry C. Johnson - sonar21.com
Nonostante le affermazioni dell’amministrazione Trump sul successo dell’incontro di lunedì con Zelensky e la delegazione europea dei papponi, le prospettive di un negoziato di successo per porre fine alla guerra in Ucraina sono pari a zero. Trump continua a credere erroneamente di dover semplicemente riunire Putin e Zelensky, che poi troveranno un accordo. Trump si basa sulla falsa convinzione che la guerra in Ucraina sia stata causata in parte da uno scontro personale tra Putin e Zelensky. Putin è stato molto chiaro sul fatto che incontrerà Zelensky solo una volta concordati i dettagli della resa ucraina. Trump ritiene inoltre che si tratti solo di una disputa territoriale e che lo scambio di territori sia fondamentale per raggiungere un accordo di pace. Anche in questo caso, Trump dimostra una profonda ignoranza riguardo allo status giuridico delle repubbliche di Zaporizhia e Kherson secondo la Costituzione russa. Putin non può concedere nulla di quel territorio all’Ucraina, così come Trump non può restituire l’Alaska alla Russia.
Ma c’è una buona notizia: nonostante Trump ignori le ragioni per cui la Russia ha avviato l’Operazione Militare Speciale (SMO) nel febbraio 2022, è sincero nel voler ristabilire il dialogo e le normali relazioni diplomatiche con la Russia… almeno questo è ciò che credono i russi. Durante il mandato di Biden, le comunicazioni con la Russia si sono interrotte nel gennaio 2022. Ora hanno qualcuno con cui parlare… in realtà diverse persone, tra cui Trump, Rubio, Ratcliffe e Witkoff.
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Trump piega Zelensky e Ue: l'agenda Alaska tiene
di Piccole Note
L’incontro tra Trump e Zelensky e quello successivo nel quale al presidente ucraino si sono uniti i leader europei, che si sono precipitati a Washington per evitare che il presidente ucraino cedesse alle richieste dell’ospite e per far vedere che contano ancora qualcosa (in realtà, di per sé contano nulla) è andato bene, nel senso che segna un punto di partenza per un accordo tra Russia e Ucraina.
Lo dice l’imbarazzo successivo degli ospiti della Casa Bianca, lo dicono i media mainstream che a stento trattengono la rabbia per l’ingerenza indebita dell’inquilino della Casa Bianca, determinato a rompere un gioco sanguinario che dura da oltre tre anni e che ha garantito un lucro crescente a tanti.
Su quanto accaduto a Washington l’analisi più convincente arriva da Strana. Secondo il media ucraino, in Alaska Trump e Putin avevano raggiunto degli accordi di massima su tre punti. Anzitutto che fosse abbandonata l’idea del cessate il fuoco come avvio necessitato dei negoziati per negoziare, invece, subito un’intesa globale e duratura. Inoltre, che Kiev ricevesse garanzie di sicurezza e che i russi mantengano il controllo su parte del territorio ucraino.
Quando Trump aveva riferito agli europei e a Zelensky l’esito dell’incontro con Putin, continua Strana, la loro reazione “sui primi due punti è stata nettamente negativa. Mentre sul terzo […] hanno proposto di stanziare truppe europee in Ucraina, cosa che Mosca aveva già respinto come del tutto inaccettabile”.
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Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua
di Diego Giachetti
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
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Gli gnomi bellicosi
di Gianandrea Gaiani
La stragrande maggioranza delle nazioni europee, stati membri di UE e NATO, in prima fila nell’esortare il continente al riarmo per essere pronti a combattere i russi che entro pochi anni di certo invaderanno l’Europa (fino a Lisbona come diceva qualche illustre opinionista italiano), non dispongono di forze da combattimento numericamente credibili e non sarebbero in grado, in caso di guerra aperta, neppure di presidiare i propri confini, figuriamoci di difenderli.
Basta prendere le dichiarazioni roboanti dei diversi premier, ministri e in qualche caso di capi di stato maggiore o alti ufficiali (soprattutto in Nord Europa) e confrontarli con i dispositivi militari che queste nazioni “bellicose” sono in grado di mettere in campo oggi, cioè tre anni mezzo dopo l’inizio della guerra in Ucraina che, a dire di molti, vede i soldati di Kiev combattere anche per noi.
In molti casi, la consistenza degli strumenti militari di diverse nazioni europee si rivela un bluff, ancor più clamoroso se lo si affianca alla veemenza con cui esaltano il rischio di guerra con la Russia e la necessità di un massiccio riarmo, sollecitando e pressando politicamente le grandi nazioni europee che dispongono di forze armate quanto meno credibili nei numeri e nelle capacità.
Avvertenze
I dati citati in questo articolo provengono dal Military Balance 2025 dell’International Institute fior Strategic Studies. Nelle valutazioni non è stato tenuto conto delle riserve mobilitabili nei diversi paesi in caso di guerra.
Non si tratta di una dimenticanza ma della considerazione che i tempi di mobilitazione, addestramento e inserimento in prima linea dei riservisti richiedono nella miglior delle ipotesi molte settimane.
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Russia-Usa, uno storico bilaterale
di Gianmarco Pisa
È presto per dire cosa porteranno i prossimi sviluppi; ma vi è ragione di considerare questo vertice storico, sullo sfondo del “cambio di paradigma” internazionale che l’ascesa del Sud globale sta portando con sé.
Non c’è dubbio che il vertice di ferragosto tra i due presidenti, quello russo, Vladimir Putin, e quello statunitense, Donald Trump, passerà alla storia, ma forse non per le ragioni che diversi analisti e opinionisti hanno segnalato in recenti, articolati e interessanti, commenti. Per farsene un’idea, al di là delle forme del cerimoniale e del protocollo, pur interessanti (il piccolo applauso di Trump all’arrivo di Putin allo scalo, gli onori militari, il clima positivo dell’incontro, il passaggio del presidente russo sull’auto presidenziale statunitense, il primo intervento in conferenza stampa affidato all’ospite, Putin, anziché, come generalmente usa, al padrone di casa, Trump), è la sostanza di quanto detto in conferenza stampa a segnare carattere e misura degli sviluppi portati dal vertice. Con una premessa, a tal proposito: il carattere e la misura degli sviluppi delineano un quadro generale dei temi su cui si è registrato un consenso bilaterale di massima, un clima generale di ripresa delle relazioni bilaterali tra le due maggiori potenze nucleari del pianeta, non certo una piattaforma definita, dal momento che dettagli, circa i singoli temi e le singole questioni affrontate nell’incontro a due, non sono stati forniti.
Il vertice è iniziato, com’è noto, alle 11,30 ora di Anchorage (21,30 in Italia) il 15 agosto, ed è durato quasi tre ore nel formato a porte chiuse cosiddetto “tre e tre”: per la parte russa, il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere presidenziale Yuri Ushakov (oltre al presidente Putin); per la parte statunitense, Steven Witkoff e il Segretario di Stato Marco Rubio (oltre al presidente Trump).
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La mossa finale di Trump sull’Ucraina. Il ritiro americano sarà mascherato da pace
di Thomas Fazi
L’esito più probabile sarà un temporaneo disgelo nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia, sebbene la più ampia lotta geopolitica continuerà. E i veri perdenti saranno l’Ucraina e l’Europa. Gli ucraini continueranno a morire in una guerra che non possono vincere, mentre gli europei continueranno a pagarne il conto. Alla fine, anche loro saranno costretti ad accettare un accordo alle condizioni russe, ma solo dopo ulteriori sofferenze. Anche in quel caso, l’Europa rimarrà intrappolata in una relazione ostile e militarizzata con la Russia, con il potenziale per un rinnovato conflitto in qualsiasi momento. Nella migliore delle ipotesi, il vertice in Alaska e le sue conseguenze segnalano un temporaneo allentamento del confronto in corso tra l’Occidente e l’emergente ordine multipolare. Nella peggiore, garantiranno che Europa e Ucraina continueranno a pagare il prezzo di una guerra che gli Stati Uniti hanno già scelto di lasciarsi alle spalle.
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Sebbene l’incontro di questa settimana alla Casa Bianca tra Donald Trump, Volodymyr Zelensky e un gruppo di leader europei non abbia prodotto risultati tangibili, ha comunque segnato un passo importante verso la pace in Ucraina. Per la prima volta, il leader ucraino e i suoi omologhi in Europa hanno concordato di discutere della guerra sulla base della realtà sul campo, piuttosto che su illusioni. Fino a pochi mesi fa, l’adesione di Kiev alla NATO era considerata non negoziabile dalla diplomazia europea e dalla NATO stessa. Ora, non solo questa prospettiva sembra essere stata definitivamente accantonata, ma per la prima volta la discussione si è spostata dall'”integrità territoriale” dell’Ucraina a potenziali “concessioni territoriali”.
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Bolivia, il padre della patria uccide sua figlia
Evo Morales, fattosi caudillo, fa vincere la destra
di Fulvio Grimaldi
Nell’articolo per l’Antidiplomatico “Una Latinoamerica a fisarmonica”, passando rapidamente in rassegna il subcontinente tra resistenze e arretramenti, ho provato a spiegare la tragica involuzione di uno dei protagonisti del riscatto latinoamericano, la Bolivia di Evo Morales. L’esito, in questi giorni, del primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari decreta la fine di una delle esperienze più riuscite e trainanti per il resto della regione e del Sud Globale. Di questo pesantissimo arretramento di una nazione che si era proclamata binazionale, aveva assicurato l’alfabetizzazione, il ricupero delle risorse predate, l’istruzione, l’equità sociale, è complicato specificare le varie responsabilità. Resta quella più in vista, e ahinoi innegabile, dell’indio cocalero Evo Morales.
Lo incontrai, venuto in Bolivia per raccontare la vittoriosa “Guerra del agua”, con cui una battaglia di popolo sottrasse l’elemento ai monopolisti USA di Bechtel, alla vigilia del suo primo trionfo elettorale- Un risultato favorito dal nuovo vento che la rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez aveva fatto spirare per l’America Latina e che avrebbe rafforzato o favorito l’avvento di leadership progressiste come quelle dei Kirchner in Argentina, di Rafael Correa in Ecuador, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Lopez Obrador in Messico.
Per tre lustri la Bolivia percorse la via dell’emancipazione, della sovranità, dell’antimperialismo internazionalista, anche se, nella seconda decade del secolo, il vigore e la determinazione del passo s’erano andati affievolendo, frenati da divergenze interne alle organizzazioni sociali e da un crescente peso della burocrazia.
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A Washington “l’Europa” esce di scena, ma non vuole ammetterlo
di Dante Barontini
Arretrare facendo finta di avanzare. La più antica delle tecniche retoriche straborda da tutte le dichiarazioni dei “guerrafondai con la carne degli altri”, dopo una serie di schiaffi presi davanti alle telecamere e dietro le quinte.
Il maxi-vertice di Washington – da una parte Trump e gli Usa, dall’altra Zelenskij per l’Ucraina e ben sette nanerottoli per “l’Europa” – si è svolto in più atti. Alcuni importanti, altri decisamente di contorno.
Il vertice vero è stato quello con il solo Zelenskij, accolto con una mappa della situazione sul terreno a oggi, bene in vista a ricordare che di lì si parte, se si vuol discutere di pace. E non per “fare un favore a Putin”, ma perché nessuno sano di mente può ancora credere che si possa tornare alla mappa del 2013 – come da tre anni e mezzo ripetono la junta ucraina e i “partner europei” – senza scatenare una guerra nucleare.
Il secondo punto fermo, prima ancora di cominciare, è stato che l’Ucraina non entrerà nella Nato. E quindi che di schierare truppe e missili occidentali da quelle parti non se ne parla neanche.
Il terzo ostacolo è stato eliminato prima ancora di essere nominato: nessun “cessate il fuoco” è indispensabile (era la prima delle proposte avanzate dagli europei e da Kiev), secondo Trump, perché “ho fermato fin qui sei guerre senza alcun cessate il fuoco prima”.
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Il genocidio di Gaza non è brandito solo dalla destra israeliana
di Piccole Note
“Per ogni vittima del 7 ottobre, 50 palestinesi dovevano morire. Non importa se si trattava di bambini. Non per vendetta, ma per lanciare un messaggio alle generazioni future: non c’è niente che potete fare. Hanno bisogno di una Nakba di tanto in tanto, per sentirne il prezzo” della ribellione. Così il generale Aharon Haliva, che il 7 ottobre guidava l’intelligence militare e si è dimesso dopo quel disastro, in un’intervista a un media israeliano.
“È proprio Haliva – commenta Gideon Levy su Haaretz – che è in un certo senso un eroe del centro-sinistra, a delineare il ritratto di un generale genocida. Si dissocia da Bezalel Smotrich, deride Itamar Ben-Gvir e attacca Netanyahu senza riserve, da generale illuminato e progressista qual è. Ma pensa e parla esattamente come loro”.
“In definitiva, sono tutti sostenitori del genocidio. La differenza sta solo tra chi lo ammette e chi lo nega. Nel campo degli illuminati dediti all’auto-adulazione a cui appartiene, Haliva si è rivelato uno dei pochi ad ammettere: abbiamo bisogno di un genocidio ogni pochi anni; assassinare il popolo palestinese è legittimo, persino essenziale”.
“È così che parla un generale ‘moderato’ dell’IDF. Non è come altri [graduati] estremisti” che in questi anni sono balzati agli onori della cronaca per gli orrori disseminati a Gaza.
Haliva, infatti, è “un bravo ragazzo di Haifa e del quartiere residenziale di Tzahala a Tel Aviv”.
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Anchorage, la nuova Yalta?
di Gerardo Lisco
Messaggio chiarissimo di Trump all’UE, ai volenterosi e a Zelensky: “Non vi mettete di traverso per impedire il processo avviato”. Più chiaro di così non poteva essere. Se questa dichiarazione l’avesse fatta Putin avrebbe sortito effetti diversi. Scorrendo le notizie e i commenti prendo atto che siamo in presenza di pura e semplice propaganda: i media nazionali hanno avuto l’ordine di far passare l’idea che l’incontro è stato un fallimento. Far passare quest’idea serve alle oligarchie, alle tecnocrazie e ai governi che sono ancora in gioco, solo così si capisce la dichiarazione congiunta dei capi di governo riportata sul sito web dell’Unione Europea, che ha come unico scopo quello di negare l’evidenza dei fatti. È fin troppo chiaro che una fase è terminata e che il nuovo corso, pur essendo ancora in embrione, non vuole essere abortito. L’Unione Europea dopo aver perso, non una ma ben due occasioni storiche, adesso rincorre l’emergenza, cercando di bloccare il processo avviato ad Anchorage da Trump e Putin. Lo fa attraverso opinionisti e giornalisti che definiscono i due dittatori, autocrati, psicopatici e altro ancora. Leggendo queste definizioni mi vengono in mente personaggi che hanno fatto la Storia, oggi celebrati, che molto probabilmente, ai loro tempi sono stati appellati più o meno allo stesso modo. Ne cito alcuni: Cesare, Ottaviano Augusto, Costantino, Federico II di Svevia, Federico II di Prussia, Elisabetta I Tudor, Isabella di Castiglia, Napoleone Bonaparte, l’elenco è lungo.
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Più domande che risposte dagli incontri alla Casa Bianca
di Gianandrea Gaiani
Tante chiacchiere (molte in libertà), grandi proclami ma poco pragmatismo e soprattutto pochi sviluppi concreti sembrano essere emersi dagli incontri di Washington tra i leader europei, Volodymyr Zelensky e Donald Trump.
Nei colloqui il presidente USA non ha lesinato elogi ai suoi interlocutori, da Zelensky a Rutte, von der Leyen, Starmer, Macron, Meloni, Merz e al presidente finlandese Stubb, ma se le parole spese sono state pure troppe, di contenuti se ne sono visti e sentiti davvero pochi.
Trump ha detto che ama gli ucraini (ma anche i russi) ed è stato molto ospitale con tutti i leader intervenuti, ha fatto persino un siparietto comico con Zelensky che per la prima volta è stato visto con addosso una giacca ma, per capire se si sono fatti passi avanti bisogna porsi domande molto concrete. E soprattutto cercare (a fatica) eventuali risposte.
In realtà una serie di incontri faccia a faccia con alcune sessioni di gruppo in cui a quanto pare Trump ha spiegato almeno due concetti chiave messi a punto in Alaska con Vladimir Putin, due passaggi fondamentali per arrivare alla pace ma che il leader ucraino e quelli europei si sono mostrati riluttanti ad accettare.
Nessuna tregua
Il primo è l’accettazione delle condizioni poste da Putin e sottoscritte da Trump che non ci sarà nessuna tregua o cessate il fuoco su cui imbastire lunghe trattative di pace mentre le truppe ucraine si riorganizzano dopo due anni di sconfitte consecutive.
Dopo gli accordi di Minsk per la pace in Donbass (“portati avanti per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di armarsi” come ammisero nel 2022 l’ex cancelliere Angela Merkel e l’ex presidente francese Francois Hollande), i russi non si fidano più degli europei e vogliono un accordo di pace che chiuda il conflitto “rimuovendone le cause profonde”.
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Oltre la Ue? Bonificare il dibattito
di Matteo Bortolon
“Dobbiamo avere una prospettiva europea perché da soli non andiamo da nessuna parte”. “Non si può tornare indietro ai vecchi Stati-nazione”. Tali argomenti – o meglio slogan – hanno insopportabilmente infarcito il dibattito, trovando il pigro consenso dei più stanchi luoghi comuni semicolti.
La questione, legata al dibattito sulla Ue e sull’euro, è diventata uno slogan da mulinare sulla testa degli avversari più che un assunto da valutare razionalmente e criticamente.
Oggi si può forse ragionare più serenamente, dato che nessun partito che abbia un minimo di potere nemmeno ventila la possibilità di scrollarsi di dosso il carrozzone eurounitario di fronte a cui ogni declinazione possibile di establishment (progressisti, liberali, conservatori, identitari…) si è genuflesso come di fronte ad un idolo. Anzi: si può provare a ragionare tout court, dato che la polemica e l’astio hanno tolto il terreno per una riflessione meditata, che pur sarebbe necessaria in una fase di riassestamento degli equilibri geopolitici; situazione opportuna per eventuale ridefinizione della politica estera del paese, purché si abbia qualche idea.
Se non li convinci spaventali
Il punto di partenza non può che consistere nella modestia dell’argomento per cui “l’Italia è troppo piccola per fare da sola”; si tratta semplicemente di una pedata nei denti contro chiunque mettesse in questione l’aderenza dell’Italia alla Ue.
Naturalmente vi erano argomenti diversi pro-Ue. Una linea di argomentazioni “alte” era piuttosto elitista: l’integrazione europea sarebbe il vertice di un processo secolare di crescente avvicinamento dei popoli europei, un destino storico volto alla fratellanza e basato su una base di cultura condivisa. Argomentazione da progressismo colto e professorale, poco adatto alle orecchie di ceti in sofferenza sociale che piuttosto che l’europeismo ideale tastano con mano l’austerità reale.
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