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Un parricidio compiuto
recensione di Carla Maria Fabiani
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 347-354. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/617
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Roberto Finelli: Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014, pp. 404, ISBN 978-88-1641-286-6.
Il libro di Roberto Finelli, a dieci anni di distanza, completa e conclude Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri, Torino 2004), recentemente tradotto per Brill1 e finalista al Deutscher Memorial Prize 20162. I due testi non possono essere letti isolatamente, se non altro perché il secondo si configura come il naturale traguardo teorico preparato dal primo, attraverso una revisione del fallimento a cui Marx perviene – già nel 1843 con la Critica del diritto statuale hegeliano3 – nel suo tentativo di critica alla logica e alla filosofia politica hegeliana.
Nel primo testo veniva esaltata l’originalità e la superiorità teorica del Geist hegeliano di contro l’antropologia giovanil-marxiana, tutta improntata sul modulo feuerbachiano del genere umano e dell’alienazione, ovvero del rovesciamento soggetto/predicato. Un’antropologia fusionale e presupposta al concreto sviluppo storicamente determinato dei rapporti sociali fra gli uomini. Finelli al proposito parlava addirittura di «regressione antropologica» rispetto allo spirito hegeliano che – lungi dall’indicare una dimensione di trascendenza ovvero metafisica – è il risultato di un preciso processo storico culturale di mediazione fra bisogni materiali e bisogni di riconoscimento; fra produzione materiale e produzione simbolica;
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Abrogare i voucher è una questione di democrazia e civiltà
Marta Fana
Il verdetto della corte costituzionale sui referendum sociali promossi dalla Cgil ha giudicato ammissibili i quesiti riguardanti l’abrogazione dell’istituto dei voucher e l’introduzione della clausola di responsabilità negli appalti per le imprese. Ha invece bocciato il quesito sul ripristino dell’articolo 18. Tra i due quesiti ammessi, quello che ha più fatto discutere è sicuramente il primo: i voucher.
L’accanimento contro l’ipotesi di abolizione dei voucher è stato clamoroso. Tuttavia, a un profluvio di interviste a sostegno dei buoni lavoro, agli scoop sull’utilizzo da parte della Cgil, fa da contraltare un mondo del lavoro sempre più povero e precario, delegittimato della sua funzione sociale e da questo bisogna ripartire quando si discute di voucher.
Occorre andare con ordine: capire da un lato la portata, sul sistema economico e delle relazioni industriali, dell’esplosione dei voucher dopo la loro totale liberalizzazione; dall’altro va fatto un ragionamento complessivo sui voucher per rivelare l’ideologia alla base della loro strenua difesa.
Spesso infatti, oltre alle argomentazioni deboli sul piano fattuale (ne parliamo più avanti), l’esistenza dei buoni lavoro viene assunta non solo come inevitabile di fronte a un’economia che conta tre milioni di disoccupati, ma allo stesso tempo come utile a garantire la flessibilità di cui hanno bisogno le imprese per svolgere il proprio compito di creazione di valore e ricchezza.
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Obama, Neo-Con, ONG, Big Pharma
di Fulvio Grimaldi
Foglie di fico sulle vergogne
Se ne va il peggiore presidente della storia americana, il più sanguinario, il più ipocrita, il più criminale, quello che ha fatto odiare gli Usa nel mondo più di qualunque predecessore. E il “manifesto”, ossimorico quotidiano finto-“comunista” e vero-sorosiano, che ancora qualcuno legge pensandolo onesto e di sinistra, sulle cui oscenità ancora qualcuno traccia con la sua penna foglie di fico, mobilita tutti i suoi embedded e scrive epitaffi che neanche a Che Guevara o Antonio Gramsci.
Un florilegio: “La sua presidenza ha avuto come obiettivo prioritario la costruzione di una democrazia reale… punti che dovrebbero dar corpo all’eccezionalismo americano…conquiste che dovrebbero essere considerate irriversibili sul terreno dei diritti, ma anche quel terreno di relazioni internazionali con paesi che non è più possibile demonizzare e o punire, come è stato fatto prima di Obama (sic !)… Il presidente esce di scena per restare. Per essere un punto di riferimento e di leadership morale… E’ il noi che conta, non l’io, è una scossa a reagire. L’America obamiana non starà alla finestra mentre i repubblicani agitano il piccone… è un leader altro rispetto a una classe politica distante dal popolo… Oggi sembra essere l’unica ripresa di una politica in grado di costruire una prospettiva democratica…” E ci sono firme rispettabili che, pur ridotte a un umiliante lumicino redazionale dalla direzione, ancora si prestano a fornire foglie di fico a queste oscenità.
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I vari aspetti della cultura politica
di Salvatore Biasco
l testo che segue è tratto da una delle relazioni tenute all’inizio del seminario “Una nuova cultura politica? La sinistra in tempi interessanti. Generazioni a confronto” che si è tenuto venerdì 16 dicembre a Roma presso la Sala di Santa Maria in Aquiro del Senato. Ringraziamo il prof. Biasco per aver accettato di partecipare e di farci pervenire l’intervento seguente
Il disarmo intellettuale
Quando un partito (o uno schieramento politico) è un “mondo” culturale percorso da elaborazione profonda e storia, la fusione e amalgamazione delle generazioni e dei ceti che in esso si riconoscono è fluida e facilitata. Per lo meno ne è condizione necessaria, visto che della frattura generazionale che si è verificata all’interno della sinistra il crollo intellettuale è certo una delle cause. Una frattura, che ha determinato una perdita in entrambe le direzioni depauperando i canali per la memoria storica, la trasmissione e l’acquisizione di problematiche, le categorie analitiche e la verifica della loro idoneità a interpretare le trasformazioni, nonché la condivisione reciproca di soggettività e di quanto domandato e offerto alla politica. Oggi è un bell’evento [il seminario del 16, NdR] di cui dobbiamo ringraziare Bottos e il gruppo che si riunisce attorno a Pandora, che hanno consentito questo confronto tra una parte più riflessiva e più militante della nuova generazione – che sente questo smarrimento e si chiede quali siano le coordinate della sinistra – e personalità che hanno vissuto altre epoche, ma che si pongono gli stessi problemi, in una ricerca convergente con le loro ansie politiche e intellettuali. Grazie
Se la sinistra “riformista” (da ora in poi “sinistra”) non ha più una decifrabile identità e cultura politica non tutto è ascrivibile a leadership più recenti (che pure hanno abbondantemente messo del proprio e reciso i legami con quel che rimaneva di vitale).
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Chi paga il conto nella bisca della finanza?
I clamorosi casi delle banche venete e di Poste Italiane
Leonardo Mazzei
Il 2017 è appena iniziato e già sono all'ordine del giorno due casi piuttosto eclatanti di "risparmio tradito". Naturalmente, il generico concetto di "risparmio tradito", oggi assai in voga, può essere forse discutibile. Nel gran calderone della finanza finiscono infatti tante diverse categorie di risparmiatori. E, a parte gli speculatori più o meno professionali, vi troviamo inevitabilmente famiglie ricche, benestanti, ma anche appartenenti ad una fascia di reddito e di ricchezza piuttosto bassa.
Il tema è dunque complesso, ma proprio per questo vale la pena di addentrarvisi. Per farlo correttamente bisogna partire dai grandi numeri. Secondo Prometeia a fine 2016 le attività finanziarie delle famiglie italiane erano risalite a 4.051 miliardi (md) di euro, ritornando quasi ai valori del 2006 (4.059 md). Questo dopo aver toccato il minimo nel 2011 con 3.469 md.
Già questo incremento di 582 md in cinque anni ci parla di molte cose. Premesso che nell'enorme cifra delle attività finanziarie, pari a circa due volte e mezzo il pil del Paese, c'è ovviamente di tutto; premesso che buona parte di questa ricchezza appartiene ad un'infima minoranza di soggetti, l'aumento di questa massa di denaro è la conseguenza diretta di tre precisi fenomeni.
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Siamo dentro la “Tempesta perfetta”…
di Giuseppe Amata
Recensione al libro La Tempesta perfetta, Odradek, Roma 2016 – Campagna Noi Restiamo
In tutti gli interventi si riscontrano interessanti analisi sui diversi aspetti della crisi nell’accertamento delle cause che l’hanno originata, pur se le diverse analisi esprimono ovviamente posizioni contraddittorie non soltanto tra esse, ma anche all’interno di ciascuna di esse. Nell’insieme però la lettura del libro è molto interessante, non solo per avere un’informazione vasta sui diversi aspetti della crisi e delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, bensì perché stimola lo sviluppo di un profondo dibattito all’interno della sinistra di classe. E infatti ho letto su Contropiano on-line diversi interventi di recensione. Con questo spirito mi accingo a svolgere le considerazioni che seguono.
Voglio, però, subito evidenziare che dalla lettura del libro si riscontra, a mio modesto avviso, per il movimento di classe la necessità di costruire una teoria economica per l’attuale fase dello sviluppo capitalistico o se si vuol dire meglio per la fase dell’imperialismo nel XXI secolo. Sia perché, in qualche intervento, le categorie economiche marxiane non sono correttamente approfondite alla luce della nostra fase storica, che è diversa da quella in cui visse Marx, sia perché alcune di esse si giudicano superate, come ad esempio la caduta tendenziale del saggio del profitto. Sia infine perché, nella contraddizione generale evidenziata da Marx per la trasformazione di una formazione sociale, contraddizione come è noto rappresentata dal contrasto tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione,
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Una grande politica della transizione aperta all’imprevisto
Chiara Giorgi intervista Étienne Balibar
Étienne Balibar interverrà al La conferenza di Roma sul comunismo, il giorno 21 gennaio (ore 16, Esc Atelier Autogestito) su «Poteri comunisti». Essendo tra i filosofi marxisti più noti e autorevoli del dibattito europeo contemporaneo relativo ai temi della cittadinanza e della democrazia, abbiamo deciso di intervistarlo al fine di anticipare alcune delle questioni più salienti che verranno affrontate durante la conferenza romana.
* * * *
La rappresentazione che Marx aveva del comunismo era di alternativa al capitalismo, il quale d’altronde ne preparava già le condizioni. Su questo si è aperta una delle grandi questioni del comunismo (centrale nel dibattito marxista novecentesco e nella storia dei paesi socialisti), quella relativa alla nozione stessa di transizione. Lei ha osservato in La filosofia di Marx che lungi dall’esserci in questi una visione evoluzionistica, la “transizione” intravista è invece «una figura politica della “non contemporaneità” del tempo storico a sé, ma che rimane iscritta nel provvisorio». Non è in questo antievoluzionismo e nel suo rinvio all’imprevisto, ad una molteplicità di processi, alla stessa rottura rivoluzionaria a risiedere uno dei punti vitali del comunismo oggi?
L’idea di comunismo ereditata da Marx ha una storia lunga, che attraversa tutta la modernità ed è legata a doppio filo con eresie religiose e rivolte sociali.
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Il triste tramonto dell’eredità del movimento operaio in Italia e la crisi della sinistra politica
di Stefano G. Azzarà
1991-2016
Conclusa la Guerra Fredda, nel 1991 si concludeva anche la parabola settantennale del PCI, giunto allo scioglimento al termine del XX congresso. Grazie all’iniziativa di alcuni esponenti storici di quel partito - Libertini, Salvato, Serri, Garavini, gli ex PdUP Magri e Castellina e diversi altri - ma soprattutto grazie al tempestivo lavoro sotterraneo del leader storico della corrente “filosovietica” Armando Cossutta, nello stesso anno nasceva però il Movimento e poi il Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Al primo nucleo dei fondatori, che nonostante la notevole diversità negli orientamenti faceva per lo più riferimento alla Casa Madre di via delle Botteghe Oscure, si sarebbe presto unita una piccola pattuglia proveniente da Democrazia Proletaria.
Non è il caso di ricostruire nei dettagli le vicende di questo partito. Ricordo però le prime riunioni semiclandestine e la concitata campagna per le elezioni regionali siciliane, dove fu per la prima volta presentato il simbolo e dove il PRC raccolse un sorprendente 6%. Ricordo inoltre come nei primi anni esso riuscisse a riscuotere il consenso di quella parte dell’elettorato ex PCI che non aveva condiviso il mutamento di nome e soprattutto la ricollocazione politica della tradizione comunista italiana, raggiungendo percentuali importanti in particolare nel Nord Italia industriale (con dati superiori al 10% in città come Milano e Torino).
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Disastro Minniti-Gentiloni in Libia
Una politica estera allo sbando
Federico Dezzani
Ma per l’Italia è preferibile un governo nel pieno dei poteri o il vuoto istituzionale? A giudicare dai primi passi in politica estera del governo Gentiloni, sembrerebbe più conveniente un esecutivo vacante: i danni inflitti al Paese sarebbero minori. Tipico è il caso della Libia, dove il “governo-fotocopia” di Matteo Renzi, indissolubilmente legato all’era di Barack Obama ed incapace di adeguarsi ai mutamenti in corso, si ostina ad appoggiare l’effimero governo d’unità nazionale di Faiez Al-Serraj, un fantoccio angloamericano che controlla a stento qualche palazzo di Tripoli. L’insediamento di Trump, isolazionista ed interessato a trovare un modus vivendi con la Russia, spianerà al generale Khalifa Haftar che, sostenuto da Mosca e dal Cairo, si candida a diventare il nuovo dominus della Libia, relegando così ai margini l’Italia.
Che tempismo, ministro Minniti!
Il 2017, come abbiamo recentemente detto, si profila come un “anno di frattura”, durante cui il vecchio ordine mondiale a guida angloamericana sarà definitivamente seppellito: ci riserviamo di trattate l’argomento in un’analisi ad hoc, ma possiamo anticipare che difficilmente l’Italia sarà un protagonista attivo del 2017.
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Come sarà la nostra società nei prossimi decenni?
di Wolfgang Streeck
La mia immagine della società futura - nella misura in cui sento di poterne fornire una - è desolante. Pensando alla società dell'Europa Occidentale e del Nord America - la regione del capitalismo avanzato - immagino la continuità di una lunga tendenza di declino sociale, il quale è già in atto da decenni: crescente disuguaglianza, stagnazione economica, aumento dell'insicurezza, frammentazione politica. Mai come prima nell'epoca moderna, "noi" abbiamo perso il controllo su dove è diretto il nostro mondo. Ringraziamo ancora la nostra fortuna di vivere sotto il comando di un'utile mano invisibile che agisce sempre al momento giusto, così come ringraziamo la nostra capacità di improvvisare, la nostra resistenza alla pressione. Tuttavia, in realtà, non sappiamo più fino a che punto tutto questo reggerà.
Le prospettive sono incerte. Nel linguaggio sociologico, quel che vedo è l'avanzare di una degenerazione continua della capacità del consumismo edonista, che ha svolto il ruolo delle vecchie fonti collettive di legittimità, di unificare la nostra società: sia fornendo integrazione sociale sia proteggendoci dai conflitti derivanti dall'anomia. Non riesco a vedere come nel prossimo futuro tali tendenze possano essere contenute o invertite. In quanto sono tutte in relazione con la rapida espansione dell'economia capitalista su scala globale. Vale a dire, le regole della politica democratica, così come delle altre forze che in passato si sono opposte al capitalismo, ora non possono più arrestare il veloce sviluppo di queste tendenze disgregatrici.
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Elogio del M5s
Ovvero: se non ci fosse dovremmo inventarlo
di Aldo Giannuli
La storiaccia del Parlamento di Strasburgo ha scatenato nemici vecchi e nuovi del movimento, che si sono esercitati nell’arte del dileggio.
Un buon esempio è dato dall’articolo di Ezio Mauro su Repubblica il 12 gennaio 2013:
“mancanza di sostanza, di qualità e addirittura di significato politico… Nessuna discussione, nessun dibattito, soprattutto nessuna passione: politica, storica, culturale, […] un movimento perennemente allo stato gassoso che non riesce a consolidare alcunché, perché non avendo storia e tradizione non ha nemmeno saputo costruirsi un deposito culturale di riferimento”
e via di questo passo.
Più raffinato ed intelligente –ma pur sempre ostile- il pezzo di Ferrera sul Corriere, che insiste sulla nota dell’ambiguità irrisolta del movimento fra destra e sinistra. E, sia per l’uno che per l’altro commentatore, le “scivolate” prese a Roma e Strasburgo sono il prodotto inevitabile di questo sottostante.
Personalmente non ho nascosto le mie critiche al M5s né sulla questione del gruppo a Strasburgo né sul disastro, ormai irreparabile, della giunta capitolina e neppure, tornando indietro nel tempo, ho nascosto le mie perplessità sulla scelta dell’apparentamento con l’Ukip, sulle uscite in materia di immigrazione, sulle troppe espulsioni nel primo anno di legislatura, sulla mancanza di trasparenza o di discussione nel movimento.
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Per una sociologia della bufala
Fabrizio Tonello
Se si cerca in rete alla voce “Hillary Clinton arrested” compaiono 439.000 occorrenze, per la maggior parte legate a un video dell’ottobre scorso presente su YouTube nel quale una voce molto professionale scandisce quello che si presenta come un comunicato della polizia di New York che avrebbe annunciato l’imminente fermo della candidata democratica perché coinvolta in un giro di pedofilia e tratta di esseri umani. Una rete di criminali la cui esistenza sarebbe stata rivelata dalle famose email di Hillary scambiate con i suoi collaboratori usando un indirizzo privato e non quello ufficiale assegnatole dal Dipartimento di Stato.
Naturalmente questa è solo una delle mille storie fantastiche circolate nei mesi precedenti alle elezioni dell’8 novembre, tra cui la bufala che Papa Francesco aveva dato il suo sostegno a Trump (un milione di condivisioni su Facebook) o quella che Obama voleva vietare il giuramento di fedeltà alla bandiera americana (due milioni tra commenti e condivisioni). Da questo a trarre la conclusione che i russi avevano influenzato le elezioni presidenziali americane a vantaggio di Donald Trump non c’era che un passo, allegramente varcato dai grandi media americani ed europei. Scandalo e orrore, seguiti da editoriali a valanga sulla “democrazia inghiottita dalle fake news”.
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Nella fossa dei leoni. Si può leggere Il capitale di Marx a partire dalle Tesi su Feuerbach?1
di Wolfgang Fritz Haug*
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 75-91. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/602
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Cercheremo qui di abbattere i muri che agli occhi di molti impediscono alla filosofia della prassi di introdursi nel regno del Marx più maturo. Il primo di questi muri è stato eretto tra le Tesi su Feuerbach e la critica dell’economia politica; un secondo tra il giovane Marx e il Marx maturo, con la conseguenza della nascita di una specie di dualismo marxologico; un terzo muro, infine, è stato costruito tra la società e la natura.
Se riusciremo a sospendere la quarantena nella quale gli strutturalisti hanno rinchiuso le Tesi su Feuerbach, il sarcasmo di Althusser dovrà cessare e la filosofia della prassi non sarà più «la bella conversazione notturna dei nostri leoni intellettuali da salotto»2. Non si potrà più dire allora, con il filosofo francese, che «il primato della prassi è la prima parola di ogni idealismo». E vacillerà anche l’ultima separazione, quella tra la società, o la cultura, e la natura.
Nella bocca del lupo economico: l’asse metodologico
Althusser arriva alla conclusione per cui le Tesi non possono essere utilizzate come punto di partenza della filosofia marxista. Questa, dice, «dovrà cercare il suo punto di partenza in un altro luogo, […] per poter partecipare da lontano alla trasformazione del mondo. Se si assume ciò, le Tesi su Feuerbach tornano al loro glorioso passato e finalmente si può parlare di un’altra cosa: di Per la critica dell’economia politica, dei Grundrisse, del Capitale».
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Contro il pop
intervista a Paolo Mossetti
Dalla religione del lavoro alla Londra post-Brexit, dall'anarchismo individualista alla prospettiva di un'Europa “mediterranea”: una conversazione con Federico Campagna, filosofo, attivista e autore di L'ultima notte
Il sottotitolo è già una mappa: Anti-Lavoro, Ateismo, Avventura. E il movimento, al contrario dei soliti pamphlet pieni di denuncia, numeri e indignazione, è tutto in ascesa: si racconta ciò che ci tiene incatenati, il trionfo di una nuova religione – quella del Lavoro – e poi si naviga attraverso una miriade di rotte per uscirne. Non sarà un viaggio facile. E saranno proprio le convinzioni di noi gente di sinistra che verranno messe in crisi.
Ispirato da una serie di articoli pubblicati tra il 2008 e il 2013 sul blog che lui stesso ha contribuito a fondare, L’ultima notte del filosofo e attivista Federico Campagna è tra i casi editoriali più interessanti del panorama saggistico attuale. Pubblicato tre anni fa dalla londinese Zero Books dopo che la bozza – caso più unico che raro – era stata consegnata direttamente in inglese dal suo autore, tradotto in italiano da Postmedia (Milano), il libro ha riscosso il plauso di intellettuali affermati come Simon Critchley, Mark Fisher, Franco Berardi o Saul Newman. Secondo quest’ultimo, “Campagna ha scritto niente di meno che un nuovo L’Unico e la sua proprietà, aggiornato per la nostra contemporaneità neoliberale – un’epoca in cui in teoria l’ego individuale regna libero e supremo ma dove, in realtà, l’individuo è soffocato dall’estasi celestiale della fede e della rinuncia a sé”.
Federico Campagna lo incontro a Londra, nella casa dove ha vissuto negli ultimi otto anni, a New Cross, un quartiere operaio a sud del Tamigi ora invaso da studenti alla moda.
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La Cina, il capitalismo di Stato e la crisi del Washington Consensus
Daniela Palma
Chi avrebbe mai scommesso sulla capacità di tenuta delle ricette “neoliberiste” propugnate dal Washington Consensus a quasi dieci anni dall’inizio della crisi economica più grave dopo quella del ’29, che tiene ancora nella morsa gran parte delle economie occidentali? Non molti, pensiamo, ma sta di fatto che la crisi è tuttora trattata come un accidente della storia e che se siamo ancora lontani dalla piena occupazione è perché – si dice – il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro da anni intrapreso non è del tutto sufficiente a consentire un adeguato libero gioco delle forze del mercato. E, stando sempre a questa narrazione, con l’emersione dei paesi di nuova industrializzazione e la pressione concorrenziale esercitata dai loro molto più bassi livelli salariali, sarebbero necessari interventi di liberalizzazione persino più incisivi. Ma questa narrazione è destinata ad essere messa sempre più in discussione quanto più si estenderà e si consoliderà lo spazio occupato dai nuovi protagonisti dello sviluppo mondiale lungo percorsi che con il Washington Consensus hanno molto poco a che fare, come già ampiamente dimostra la straordinaria ascesa economica e politica conseguita dalla Cina. Ed è questo uno tra i più preziosi contributi che ci offre Diego Angelo Bertozzi con la recente pubblicazione di Cina, da“sabbia informe” a potenza globale [Imprimatur editore, 2016, 346 pp], un lavoro di profondo scavo nella travagliata vicenda di un paese che, dismessa agli inizi del ‘900 la veste feudale del “Celeste impero”, deve trovare il giusto slancio verso l’uscita dal sottosviluppo, dovendo contrastare le molte tendenze disgregatrici interne su cui, all’avvio di questo processo, fanno leva le potenze coloniali dell’occidente.
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Perché è nata la rivista "Materialismo Storico" e in che misura se ne poteva fare a meno guadagnando anche tempo
di Stefano G. Azzarà
Nell'epoca della frantumazione e della dispersione del nostro patrimonio politico e culturale, la moltiplicazione delle voci in campo non è ricchezza ma sintomo della debolezza e della confusione oggettivamente esistenti. Oltretutto, questa frantumazione è favorita dalla rivoluzione tecnologica digitale, che estendendo al livello di massa la possibilità di diventare piccoli produttori indipendenti di contenuti intellettuali, sollecita inevitabilmente atteggiamenti e derive anarchicheggianti.
Più che aggiungere sigle a sigle, riviste a riviste, insomma, bisognerebbe unire ciò che è stato diviso, sulla base di pochi punti minimi che definiscono una piattaforma di resistenza.
Ho chiaro questo problema da diversi anni. Nel momento in cui mi sono posto l'obiettivo di dare nuovamente un punto di riferimento agli studiosi di orientamento marxista e storico-materialista, che si trovano oggi assai isolati nel lavoro accademico, la prima cosa che ho cercato di fare è stata perciò quella di partire dall'esistente, ovvero dalla realtà. E provare in primo luogo a rilanciare ciò che già c'era. Una rivista, in particolare, del cui comitato redazionale facevo parte e che da tempo languiva in una crisi editoriale e politico-culturale che era, a sua volta, specchio di una difficoltà più complessiva.
Proposi pertanto alla redazione e alla proprietà della rivista un progetto di ricostruzione, che passava anche per la fondazione di un Centro studi internazionale e per una serie di iniziative parallele.
Era il 2010, quando ancora esistevano possibilità migliori di quelle odierne. Quella mia proposta incontrò tuttavia le resistenze ottuse dei soggetti interpellati, del tutto indisponibili a perdere il controllo che esercitavano sulla testata (la quale, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto cessare di essere una mera rivista di partito o di battaglia politica per diventare - unica possibilità di salvarla - una rivista scientifica riconosciuta come tale).
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I cento nomi
di Luca Fantuzzi
In questi giorni si è sollevato un polverone mediatico sui debitori di Montepaschi. Tutti i giornali, di destra centro e sinistra, addirittura l'ABI di Patuelli (cioè del Vice Presidente dell'epoca Mussari), per non parlare di deputati e senatori alla ricerca di una commissione di inchiesta, hanno richiesto a gran voce che fossero resi noti i cento principali morosi della banca.
Normalmente, quando c'è questa consonanza di amorosi sensi fra giornalisti (compreso il Financial Times), banchieri e politici, la cosa un po' puzza. Nel caso di specie, poi, il giochino è addirittura banale. Dire che Montepaschi è sommerso dagli NPL (cioè dai non performing loans, crediti in sofferenza o incagliati) perché gli affidati non hanno restituito quanto ricevuto non solo è tautologico, o al massimo banale (ove sottintendesse che il frazionamento del rischio di controparte riduce il rischio medesimo), ma ha oggettivamente una funzione di intorbidamento dei termini reali della crisi finanziaria, sistemica, che attanaglia il nostro Paese.
Da un lato vi sono i banchieri, che tentano di ridurre tutto il problema del sistema bancario italiano a qualche cattivo pagatore che - magari continuando a girare in Ferrari, signora mia! - ha messo in difficoltà alcuni Istituti, e is dimenticano totalmente dei loro Comitati crediti, degli uffici di audit, del ruolo che dovrebbe svolgere Banca d'Italia.
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Contro l’alternanza scuola-lavoro
di Piero Bevilacqua
Che cosa sta accadendo nella scuola italiana? Nel quasi totale silenzio-assenso dell’intellettualità nazionale e della grande stampa - salvo qualche eccezione, ma non certo critica, come quella del Sole 24 ore, e di qualche entusiasta apologeta - i nostri istituti superiori vengono progressivamente spinti a trasformarsi in scuole per l’avviamento al lavoro. L’applicazione della cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, prevista nelle sue linee generali dal decreto legislativo del 15 aprile 2005, sta trovando, con la legge sulla Buona scuola del defunto governo Renzi, esiti sempre più chiari. Intanto quest’ultima stabilisce l’obbligo di dedicare ben 400 ore ad attività lavorative nel corso del triennio delle scuole professionali e tecniche, e 200 nel triennio dei licei. Ore che verranno sottratte allo studio per fare esperienze pratiche all’interno di fabbriche, imprese agricole, musei, ospedali, archivi, ecc.
L’integrazione delle strutture formative nella sfera delle imprese appare ben chiara dall’art. 41: «A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 è istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro». La scuola italiana diventa un ambito che marcia sempre più in stretta cooperazione con il mondo della produzione, dei servizi e del commercio.
Il silenzio su questo processo di gravissima subordinazione dei processi formativi alle esigenze di breve periodo delle imprese, dipendente da una abborracciata lettura delle tendenze del capitalismo contemporaneo, si può anche comprendere. Da noi è universale la leggenda secondo cui la scuola italiana ”è lontana dalla società” “ i nostri ragazzi escono da scuola senza nessuna esperienza della realtà”, ecc.
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Althusser e la storia
Dalla teoria strutturale dell’intero sociale alla politica della congiuntura aleatoria e ritorno
André Tosel
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 161-184. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/608
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Il futuro di Althusser dura a lungo
Non è per spirito di provocazione che modifichiamo il titolo della celebre autobiografia che Louis Althusser ha redatto dopo l' uccisione della moglie nel 1980 e dopo il suo ingresso nella notte dei morti viventi. L'epoca della crisi di egemonia del capitalismo mondializzato ha risvegliato lo spettro di Marx, come già il suo amico Jacques Derrida aveva avuto il coraggio di fare in quegli anni (1993). Per il suo percorso tormentato, per la sua attitudine a porre questioni divenute cruciali dopo la sconfitta della rivoluzione comunista, il pensiero di Althusser pretende ancora di fornire armi intellettuali in grado di sfidare i nostri tempi. Questo pensiero non si limita a tornare ma entra in una nuova orbita. In verità, tale orbita è una svolta che si realizza sotto il segno di un doppio lutto delle forme d'esperienza assunte dai movimenti antisistema: innanzitutto il lutto del movimento operaio, l'unico che in tutte le sue varianti, social-democratiche o comuniste, abbia avuto un'esistenza durevole nella modernità; e, legato a questo, il lutto del movimento anticolonialista e anti-imperialista che a sua volta nel comunismo aveva trovato sostegno.
Sono ormai maturi i tempi a che l'opera teorica cardine di Louis Althusser possa uscire da quel silenzio totale che l'ha tenuta rinchiusa nel corso degli anni ‘80-90 e possa essere interrogata per contribuire ad aprire una nuova prospettiva, fornendo così gli elementi indispensabili per quella critica dei tempi che ogni pensiero dell'emancipazione esige.
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Reificazione ed Antagonismo
L'operaismo, la Teoria critica e le aporie del «marxismo autonomo»
di Frédéric Monferrand e Vincent Chanson
L'operaismo e la Teoria critica francofortese non rappresentano soltanto due dei tentativi più stimolanti di rilancio del progetto marxiano della «critica dell'economia politica» negli anni 1960, ma costituiscono anche le due fonti d'ispirazione principali del «marxismo autonomo». Tuttavia, le divergenze così come i punti di incontro di queste due tradizioni raramente vengono studiate di per sé. Per Vincent Chanson e Frédéric Monferrand, un simile studio va svolto dal punto di vista di una teoria del capitalismo. Da Adorno a Panzieri e da Pollock a Tronti, in effetti si delinea una stessa diagnosi sul divenire-totalitario del capitale. Ma la questione di sapere quali pratiche opporre ad un tale processo, disegna un'alternativa in seno a questa costellazione: laddove in Negri e nei teorici post-operaisti, la sussunzione del sociale sotto il capitale produce di per sé una soggettività antagonista («l'operaio sociale» o «la moltitudine»). per Krahl, al contrario, implica un'accresciuta frammentazione della forza lavoro. E per Chanson e Monferrand, il riconoscimento di tale frammentazione costituisce la condizione di ogni ricomposizione politica del proletariato.
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Ci proponiamo qui, in quest'articolo, di instaurare un dialogo fra l'operaismo e la Teoria critica della Scuola di Francoforte, due tradizioni che hanno giocato un ruolo di primo piano nello sviluppo delle sinistre extraparlamentari tedesche ed italiane degli anni 1960, e che si sono sforzate di riattivare il senso ed il contesto del concetto di «critica» secondo il quale Marx pensava il suo rapporto con l'economia politica [*1].
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Dal sommerso ai robot
Lo stato di salute del lavoro e le sfide che ci aspettano
di Francesco Seghezzi
Nelle ultime settimane il dibattito politico sul lavoro è stato calamitato dal tema dei voucher, al punto che, immaginando uno straniero che legge per la prima volta le notizie del nostro Paese, potrebbe facilmente pensare che la maggioranza della popolazione italiana venga oggi retribuita mediante buoni lavoro.
Ma, volendo provare a tracciare alcune delle tematiche che il mondo del lavoro dovrà affrontare nel 2017, la prima affermazione da fare è che quello dei voucher è un piccolo problema, piccolissimo, come ci ha ricordato qualche giorno fa la prima nota congiunta sui dati del lavoro prodotta da Istat, Inps, Ministero del lavoro e Inail: i voucher corrispondono allo 0,23% del costo del lavoro complessivo italiano.
Questo non significa che non vi siano casi di abuso e non vi siano settori che colpevolmente utilizzano questo strumento per ridurre il costo del lavoro e le tutele dei lavoratori, ma di certo non siamo di fronte al problema principale del problematicissimo mercato del lavoro italiano.
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L'uomo nuovo
Marco Cedolin
Quando intorno alla metà del secolo scorso l'elite mondialista che di fatto gestisce le sorti del pianeta e dei suoi abitanti iniziò a strutturare le basi per la costruzione di un nuovo ordine mondiale (o comunque lo si voglia chiamare di una nuova società che potesse risultare funzionale ai propri interessi) comprese immediatamente come la globalizzazione fosse la strada migliore da percorrere per ottenere il risultato voluto. Le basi di un progetto di questo genere erano già state poste negli anni 30, quando il Council on Foreign Relations americano concepì strutture come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario internazionale che nacquero ufficialmente a Bretton Woods nel luglio 1944 ed ebbero senza dubbio modo di affinarsi quando a partire dal mese di maggio 1954 iniziarono le riunioni del gruppo Bilderberg, deputato a fare sintesi e delineare le strategie.......
Nello stesso periodo, ad ottobre del 1947 a Ginevra vide la luce il GATT (General Agreement on Tarifs and Trade) composto inizialmente da 18 paesi fra i quali l'Italia (che entrò a farne parte nel 1949) e destinato a comprenderne 37, che si proponeva l'obiettivo di eliminare tutto ciò che potesse in qualche misura ostacolare il commercio internazionale.
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Geopolitica, Ordine Mondiale e Globalizzazione
di Federico Pieraccini
Comprendere gli obiettivi e le logiche che accompagnano l’espansione di nazioni o imperi è sempre di fondamentale importanza per poter trarre conclusioni importanti per il futuro
Nei seguenti quattro capitoli intendo gettare le basi per una facile comprensione, molto approfondita, dei meccanismi che muovono le grandi potenze. Per riuscirvi occorre analizzare le teorie geopolitiche che concorrono, da più di un secolo, a modellare le relazioni tra Washington e le altre potenze mondiali. In secondo luogo è importante verificare come i principali oppositori geopolitici di Washington (Cina, Russia e Iran) si stiano organizzando da anni per porre un argine all’azione distruttiva di Washington. Infine, è importante osservare il cambiamento epocale nella dottrina di politica estera americana negli ultimi vent’anni e soprattutto come la nuova amministrazione Trump intenda cambiare corso e definire nuovamente priorità e obiettivi.
Il primo capitolo si concentrerà quindi sull'ordine internazionale, la globalizzazione, le teorie geopolitiche, la loro traduzione in concetti moderni e come sia mutata la nozione con cui si esercita il controllo su una nazione straniera.
Prima di affrontare le teorie geopolitiche che regolano l’ordine internazionale, è importante capire gli effetti della globalizzazione e il mutamento dell’ordine internazionale, conseguenze dirette di una Strategia antica degli Stati Uniti che mira a controllare ogni aspetto del pianeta con mezzi economici, politici, culturali e militari.
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Marc Bloch oltre la nouvelle histoire
Prospettive teoriche da riscoprire*
Adriana Garroni
Con questo articolo si ripercorrere una tappa fondamentale della storia della storiografia moderna: la reazione contro il positivismo del tardo XIX sec. fino all’elaborazione di nuovi metodi e nuovi oggetti della ricerca storica novecentesca. Si propone un’analisi del dibattito storiografico francese novecentesco, dalla storia totale di Marc Bloch e Lucien Febvre alle riflessioni di Le Goff e altri storici sulla antropologia storica e sulla, tanto celebrata quanto criticata, dilatazione dell’ambito della ricerca storica. Si sostiene la necessità di riscoprire quegli strumenti intellettuali di analisi e di sintesi, ravvisabili certamente nell’opera di Bloch, coi quali elaborare non solo nuove sintesi della conoscenza storica, ma anche una interpretazione complessiva delle nostre società, che è condizione necessaria per il loro miglioramento.
Gli ultimi decenni del XIX sec. furono caratterizzati da una vera e propria “rivolta contro il positivismo”;1 come ha scritto lo studioso italiano Angelo D’Orsi, dall’«avvento di una nuova epistéme, ossia l’insieme delle concezioni e dei modi di considerare e organizzare i processi della conoscenza»,2 ponendo così le basi per il salto qualitativo della storiografia novecentesca.
La nuova storia si proponeva di accogliere i migliori risultati della storiografia positivista e le innovazioni metodologiche e interpretative apportate dalle altre scienze sociali. Influenzati dal marxismo, gli storici statunitensi furono i primi a parlare di new history3 e a dare nuova enfasi ai fattori socio-economici nella spiegazione storica. Cominciarono a occuparsi di intellectual history e respinsero le divisioni disciplinari per concentrarsi sui legami che le diverse attività umane intrattengono con la storia delle società. E così, nel corso del Novecento si affermò in Europa e negli Stati Uniti l’attenzione verso la storia della cultura in senso generale, delle idee e delle abitudini mentali degli uomini in una data epoca e in un dato ambiente. Si trattò di una trasformazione complessiva della scienza storica, dei suoi oggetti e del suo metodo, che avrà esiti diversi nei diversi ambienti intellettuali. A questo proposito D'Orsi ha osservato che:
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Difesa della lezione frontale (o, per chi preferisce, «Lezione frontale 2.0»)
di Daniele Lo Vetere
La «Lezione Frontale»
Tre aneddoti.
a) Una volta mi è capitato di intercettare casualmente la conversazione di due studenti intorno a due loro insegnanti. Entrambi i colleghi facevano, come si poteva facilmente inferire, una “lezione frontale”. Eppure la loro reputazione presso i due ragazzi era ben diversa: «Ah, quando parla X, capisco la filosofia; invece Y fa una... Lezione Frontale» (smorfia incerta tra noia e senso di sufficienza).
b) Capita (o capitava, qualche decennio fa) di sentire frasi come queste: «la Lezione Frontale è mera trasmissività e ripetizione del sapere!», «la Lezione Frontale veicola il sapere in forme autoritarie!», «esistono alternative alla Lezione Frontale!» (quest'ultima con esiti irresistibilmente comici, perché, nel caso in cui il contesto sia un'aula in cui ci si specializzi per fare gli insegnanti o ci si aggiorni, viene quasi sempre pronunciata nel corso di una... Lezione Frontale).
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
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Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto