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Il populismo al tempo degli algoritmi / 3
Giso Amendola e Paolo Gerbaudo
Pubblichiamo oggi con gli interventi di Giso Amendola e Paolo Gerbaudo la terza e ultima parte di uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati nel recente volume di Carlo Formenti La variante populista (già recensito su alfabeta2 da Cristina Morini), si propone di affrontare le nuove declinazioni del cosiddetto populismo.
* * * *
Macché populismo, macché comunità: nelle città oggi si muove tutta un’altra lotta di classe
Giso Amendola
1. Nella politica moderna, almeno nel suo filone maggioritario, quello nato attorno all’esperienza dello stato sovrano, rappresentanza, sovranità e popolo stanno insieme e muoiono insieme. Le regole del gioco le detta Thomas Hobbes in modo estremamente cogente e preciso: il popolo è costituito come unità politica solo attraverso la sovranità. Ricordare questo nodo indissolubile che stringe, nella modernità, popolo, sovranità e rappresentanza, può aiutare a districarci in qualche apparente paradosso che abita la nozione di populismo.
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Antropologia, progettualità neo-liberale, Soggetto
Un dialogo con Adelino Zanini
Pierluigi Marinucci – Adelino Zanini
D.: Affrontare il tema delle relazioni tra antropologia ed economia richiede una riflessione preliminare: in merito cioè a quanto questo complesso viluppo di relazioni abbia innanzitutto trovato esplicazione ”progettuale” nel campo epistemologico delle scienze umane, intese in chiave necessariamente e sufficientemente ampia da includere nel loro alveo concettuale anche la disciplina economica.
R.: Per quanto concerne lo statuto delle scienze umane, c’è un prima e un dopo Foucault (mi sia permesso di richiamare direttamente ciò che ho scritto nel mio libro dedicato al filosofo francese). Egli ci ha insegnato, infatti, come nel caso di tali scienze non vi sia “discorso” capace di restituire, attraverso un’unità architettonica formale, la totalità della propria storia. Il ricorso storico-trascendentale (l’individuazione di una fondazione originaria) e quello empirico (la ricerca del fondatore) appaiono, rispettivamente, tautologici ed estrinseci. Ciò che, ad esempio, permette di individuare un discorso come “economia politica”, non è l’unità di un oggetto, non è una struttura formale, un’architettura concettuale o una scelta filosofica fondamentale, appunto; è piuttosto l’esistenza di regole di formazione per tutti i suoi oggetti, per tutte le sue operazioni, per tutti i suoi concetti, per tutte le sue opzioni teoriche. È per questo che un’episteme non è la somma di conoscenze di un’epoca, bensì lo scarto, le distanze, le opposizioni, le differenze, le relazioni dei suoi molteplici discorsi scientifici. Essa non è una grande teoria sottostante, ma uno spazio di dispersione: non è uno stadio generale della ragione; è un complesso rapporto di spostamenti successivi.
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La voce dal padrone
La psicoanalisi ai tempi della Leopolda
di Maurizio Montanari
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
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Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario
di Elena Maria Fabrizio
Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in primis.
Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace.
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Ma gli operai votano?
di Roberto Salerno (*)
La vittoria del “NO” al referendum ha avuto una lettura prevalente: è il successo di Grillo e Salvini e segna il definitivo trionfo del populismo in Italia. Così come in Gran Bretagna il Leave e negli USA Trump hanno certificato un immaginario trionfo del populismo, agevolato dal voto operaio, in Italia una maggioranza, identificata qui come il “ceto medio impoverito” di concerto con una classe operaia incanaglita e incapace di comprendere lo spirito, precario, del tempo, avrebbe trascinato il Paese in una spirale che avrà come sbocco un governo Grillo (magari con Salvini, anche se non si capisce come). Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà il prodotto (e la responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del “secolo del lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
Subito dopo l’imprevista – più o meno – vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si è immediatamente alzata la canea diretta verso il solito tradimento della classe operaia, che avrebbe votato l'impresentabile tycoon. Se la maggior parte di queste sbavanti accuse erano – e sono – semplici tentativi di deresponsabilizzazione di quella che incredibilmente viene a volte definita “sinistra” di governo, alcune di esse hanno fatto presa anche su insospettabili e disinteressati commentatori.
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Il senso della fine
di Gianluca Didino
In tempi di postumano e “declino dell'Occidente”, tornare a Frank Kermode è un modo per comprendere la complessità delle narrazioni contemporanee
Sono dovuto arrivare a trentuno anni prima di leggere Frank Kermode e questo dovrebbe bastare a decretare il fallimento dell’università italiana, ma siccome per fortuna l’università è una e il mondo è molteplice, e la prima è limitata mentre il secondo non lo è, e la prima è un modello davvero astratto e parziale del secondo, per tutte queste ragioni la curiosità intellettuale mi ha portato laddove non hanno potuto i piani di studio del Ministero e le mode culturali in voga tra gli accademici: cioè a leggere Il senso della fine, il seminale lavoro di Frank Kermode pubblicato per la prima volta nel 1967 e che, come proverò a dimostrare nel corso di questo articolo, dice qualcosa di fondamentale sulle narrazioni contemporanee.
Kermode basic
Quella descritta sopra è una delle tante maniere possibili per raccontare la mia scoperta di Kermode. È una maniera narrativa: prevede un inizio (la mia ignoranza di ventenne che si attiene ai testi suggeriti nella Guida Dello Studente) e una fine (la lettura dei saggi di Kermode e la conclusione che essi siano in qualche modo importanti nella definizione della fiction contemporanea). È una versione che conferisce senso alla mia scoperta, delinea una progressione, inserisce la lettura del libro e la scrittura di questo articolo e persino voi che lo state leggendo in un orizzonte temporale dotato di significato.
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Lo spauracchio del "rossobrunismo"
di Moreno Pasquinelli
Il quotidiano LA STAMPA, tra i diversi organi di regime, è quello che picchia più duro contro il Movimento 5 Stelle — le spocchiose élite torinesi non hanno ancora digerito l'espugnazione della loro roccaforte.
Un siluro è sparato anche nell'edizione del 6 dicembre, sia cartacea che elettronica. Il titolo è roboante: "Così Grillo spinge i 5 Stelle a destra". Citando presunte gole profonde si insinua che Beppe Grillo starebbe pensando ad un governo M5S-Lega-Forza Italia (embé?). In verità tutto dipana una deduzione: Grillo avrebbe scoperto che i nuovi poveri prodotti dalla crisi votano per le destre, vedi Brexit e Trump; dunque giusto allearsi con le destre. Al netto della fuffa scandalistica, siamo alle prese con la solita litania anti-populista. Tuttavia LA STAMPA è andata giù più pesante.
Prendendo spunto dal comizio conclusivo della campagna referendaria svolto da Beppe Grillo a Torino la sera del 2 dicembre, su LA STAMPA del 4 dicembre [Beppe Grillo e la mistica della sconfitta], tal Massimiliano Panarari, snocciola erudite quanto capziose considerazioni teoriche per poi sferrare il fendente: grillismo come rossobrunismo.
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Genere e famiglia in Marx: una rassegna
di Heather Brown
Molte studiose femministe hanno avuto, nel migliore dei casi, un rapporto ambiguo con Marx e il marxismo. Una delle questioni oggetto di maggiore contesa riguarda il rapporto Marx/Engels.
Gli studi di György Lukács, Terrel Carver e altri, hanno mostrato significative differenze tra Marx ed Engels circa la dialettica, così come su molte altre problematiche (1). Basandomi su tali lavori, ho esplorato le loro differenze riguardo alle questioni di genere nonché della famiglia. Ciò è di particolare rilevanza in rapporto ai dibattiti attuali, considerato che un certo numero di studiose femministe hanno criticato Marx ed Engels per quello che considerano il determinismo economico di questi ultimi. Tuttavia, Lukács e Carver indicano proprio nel grado di determinismo economico una notevole differenza tra i due. Entrambi considerano Engels più monistico e scientista di Marx. Raya Dunayevskaya è tra le poche a separare Marx ed Engels riguardo al genere, indicando nel contempo la natura maggiormente monistica e deterministica della posizione di Engels, in contrasto con una comprensione dialetticamente più sfumata delle relazioni di genere da parte di Marx (2).
In anni recenti, vi è stata scarsa discussione intorno agli scritti di Marx su genere e famiglia, ma negli anni Settanta e Ottanta, essi erano oggetto di numerosi dibattiti. In alcuni casi, elementi della più complessiva teoria marxiana andavano a fondersi con la teoria femminista, psicoanalitica o di altra forma, nel lavoro di studiose femministe come Nancy Hartsock e Heidi Hartmann (3). Queste hanno visto la teoria di Marx come primariamente chiusa rispetto alle questioni di genere, insistendo sulla necessità di integrazioni teoriche al fine di comprendere meglio le relazioni di genere.
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Oligarchie transnazionali e collaborazionismo delle sinistre
di Il Pedante
Falce e cartello, matrimonio imperfetto
Si è già visto su questo blog come le politiche reclamate dai grandi detentori di capitali a detrimento della restante umanità spesso coincidano stranamente con quelle auspicate da coloro che dovrebbero esserne i nemici più consapevoli e attrezzati: cioè le sinistre "vere", quelle che si identificano nell'impostazione originaria e più che mai attuale della lotta tra chi lavora e chi specula.
Ripassiamone qualche esempio:
le tasse patrimoniali (ne abbiamo parlato qui) invocate insieme dalle sinistre tsipro-rifondarole e dagli strozzini del FMI;
il reddito di cittadinanza e altre forme di elemosina o trickle-down (v. qui), che mettono d'accordo non solo i miliardari à la Grillo, gli zerbini finanziari à la Renzi a botte di 80 denari e, nell'ultima versione pervenuta, gli affamatori della BCE con l'helicopter money, ma anche i Vendola, i Ferrero e tutta la sinistra compagnia di chi baratterebbe il lavoro per una briciola di capitale;
l'apertura senza limiti all'immigrazione, poco importa se da stipare nei lager o negli agrumeti a 3 euro l'ora, cavallo di battaglia dei pauperisti di sinistra e, insieme, del re degli speculatori George Soros che investe milioni per promuovere lo sversamento del Terzo Mondo in Europa e USA;
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Risposta alla risposta del Prof. Umberto Galimberti
Marco Riformetti
Umberto Galimberti ha risposto, dalle pagine della Repubblica delle Donne, ad una domanda sul suo appoggio all'appello per il sì al referendum costituzionale. In appendice, ci sono la domanda e la risposta di Galimberti. Il "botta e risposta" precede l'esito referendario che ha sancito la sconfitta del sì ma l'argomentazione di Galimberti merita di essere segnalata per la sua inconsistenza
Professor Galimberti,
la ringrazio per aver risposto alla mia piccola “provocazione” 1 . Mi dispiace tuttavia dover ammettere che le sue parole hanno suscitato in me una certa delusione. Le sue argomentazioni mi sembrano infatti un semplice riassunto della retorica renzista che tante volte abbiamo ascoltato nei salotti televisivi in questi mesi di interminabile campagna elettorale.
Mi pare che il primo difetto di tali argomentazioni consista nel fatto di dare per scontate cose che scontate non sono affatto. Sebbene le sue siano solo verità per Umberto Galimberti, il modo in cui le pone le fa apparire come verità per tutti. Ad un certo punto parla addirittura di fatti che, come si pensa generalmente, dovrebbero essere incontestabili. Ma lei sa meglio di me che fatti e valori sono sempre strettamente correlati e dunque ciò che a lei appare come un fatto positivo (l’approvazione da parte di questo Governo di una serie di misure) a molti italiani può apparire, e in effetti appare, come un fatto negativo. Ed è lecito supporre che ciò possa dipendere dalla differente prospettiva che c’è tra la friggitrice di un McDonald’s e lo scranno baronale.
Comincerei con il dire che è stato proprio il fatto che Renzi abbia caricato sul referendum il peso del proprio destino politico a far venir voglia a molti di cogliere l’ottima occasione per rimandarlo a Rignano sull’Arno.
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L’ultima speranza dell’élite italiana è andata (e con lui l’euro)
di Federico Dezzani
Dopo la netta ed inequivocabile sconfitta referendaria, un 60-40 reso ancora più doloroso dall’affluenza record, Matteo Renzi ha annunciato l’intenzione di dimettersi. Molti commentari ragionano sulle cause circostanziali del voto referendario: la disfatta del premier era in realtà una “necessità storica” e si inquadra nel più ampio disfacimento della Seconda Repubblica che ha traghettato l’Italia nella moneta unica. La relativa calma con cui è stata accolta la vittoria del “no” ed il boom di Piazza Affari del 6 dicembre indicano che lo scenario di un governo che termini la legislatura, scongiurando così le elezioni anticipate, è sempre più concreto: i problemi che erano sul tavolo il 3 dicembre, sono però ancora lì. Il momento della verità si avvicina.
L’epilogo di Renzi era scontato. Quello dell’euro, pure.
Antipatico; saccente; arrogante; spocchioso; vacuo. Le ragioni della sconfitta di Renzi devono essere cercate nel suo carattere? Troppo legato alla sua cerchia di amicizie toscane; troppo intimo delle banche, dei salotti buoni, della Confindustria. È la gestione elitaria dell’esecutivo, la causa della disfatta di Renzi? Troppo distante dalla realtà del Paese; troppo legato alla favola “dell’Italia che riparte”; troppo ossessionato dai “segni più” all’economia.
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I corpi e il network
di Franco Romanò
Partendo dall'analisi di un libro scritto da un gruppo americano, il Critical Art Ensemble, si esplorano le relazioni fra realtà virtuale e vita materiale
Premessa
Leggendo gli interventi delle femministe neo materialiste sulla necessità di mettere in crisi il concetto e l’idea di anthropos, allargando alla zoe il campo di riferimento, mi sono ricordato di un dibattito sorto durante gli anni ’90 dopo la pubblicazione da parte del gruppo americano Critical Art Ensemble, di un pamphlet edito in Italia da Castelvecchi (Sabotaggio elettronico) che parlava della rete informatica come di un Corpo senza Organi asettico e pulito, in grado di spostarsi ovunque, isomorfo e imprendibile; quintessenza, dunque, di una spiritualità assoluta, cui diedero anche il suggestivo appellativo/ossimoro di bunker nomadico. L’espressione usata dal gruppo nordamericano non ha nulla a che vedere con l’uso che della medesima espressione fanno Deleuze e Guattari, sebbene l’accenno che viene fatto nel pamphlet all’opera di Artaud faccia pensare che ne fossero a conoscenza.
Del Critical Art Ensemble mi ero occupato anni fa con un testo rimasto inedito dopo varie vicissitudini e che qui propongo per la prima volta, con pochissime modifiche o ulteriori specificazioni su alcuni esempi che mi sembravano datati. Lo propongo nella rubrica Dopo il Diluvio poiché, pur essendo legato alle problematiche trattate su questo stesso numero nelle altre rubriche, gli esempi prevalenti e il punto di vista che ho scelto per la mia riflessione critica, riguardano la letteratura e le arti.
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Legge elettorale, proviamo a fare chiarezza
di Leonardo Mazzei
Molti ci chiedono cosa accadrà adesso con la legge elettorale. Sul tema la confusione è pari soltanto alla chiacchiera in politichese che gli ruota attorno. Conviene perciò provare a fare chiarezza, anche al fine di sostenere l'unica linea efficace contro l'attuale tentativo di surplace delle èlite: andare subito alle elezioni.
Prima di spostarsi sul "tecnico" è necessaria una breve premessa per afferrare bene la portata della questione. Dietro ad ogni legge elettorale c'è una precisa visione della democrazia, potremmo dire un diverso tasso di democrazia, generalmente in stretta relazione con i rapporti di forza nella società.
Venendo all'attualità, non abbiamo mai avuto dubbi che nel disegno autoritario di Renzi l'Italicum fosse in un certo senso ancora più importante della stessa modifica della Costituzione. Con quella legge si cambiava infatti la costituzione materiale a tutto vantaggio delle oligarchie dominanti, nonché (ma questo è fin troppo ovvio) a favore del ristretto gruppo di potere renziano.
Con la straordinaria vittoria del NO - di cui noi non abbiamo mai dubitato - i nodi stanno venendo al pettine. Così come la morte della Prima Repubblica fu decretata dal referendum del 18 aprile 1993 che spianò la strada al sistema maggioritario, la fine della Seconda è ben rappresentata dalla sonora sconfitta del blocco dominante di domenica scorsa.
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Mentre l’Italia è alla deriva in Germania si pensa alla deglobalizzazione
nique la police
In Germania iniziano a veicolare analisi circa la prossima fine del loro modello di esportazione che ha vinto la globalizzazione. In Italia invece si continua a parlare delle dichiarazioni del politico di turno e di soluzioni autoreferenziali
Nello stesso periodo in cui le immagini del Barnum Italia scorrono vivacemente, in Germania si comincia a pensare a quella che viene chiamata deglobalizzazione.
Ma prima qualche fermo immagine su, appunto, il Barnum Italia: dopo il 4 dicembre nessuna delle fazioni in campo ha una soluzione per cambiare il paese. Il blocco che ha appoggiato il clan renziano al referendum -un qualcosa cementato dai media generalisti che è composto dal sindacato come da confindustria, le grandi coop, l’asfittica finanza tricolore e ciò che resta delle banche- è disorientato dal caos attuale proprio perchè rappresenta degli interessi concreti non delle opinioni in libertà. Quando poi il blocco protagonista del No, i giovani sotto i 30 anni, all’indomani del voto viene semplicemente ignorato nei commenti da tutti gli attori in campo, il segnale è chiaro. Questa non è crisi della rappresentanza politica, o una mutazione dei soggetti del politico, è l’apogeo dell’autoreferenzialità dei cartelli elettorali.
Del resto, la cosidetta politica istituzionale, è pura, per quanto sgangherata lotta per il potere. Ed è un potere sempre meno efficace, viste le mutazioni della società. Per questo tutti i cartelli elettorali in campo, al netto delle lotte interne, convergono verso una soluzione: cercare di azzeccare la combinazione di legge elettorale che ottimizzi, al meglio, il potere disponibile.
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La VI Tesi tra Gramsci e Althusser
di Vittorio Morfino
1. La VI tesi di Marx
Le Tesi su Feuerbach sono un testo con uno statuto assai particolare all’interno della tradizione marxista. Scritte da Marx a Bruxelles nella primavera del ’45 probabilmente per fare il punto sul proprio percorso filosofico, sono state pubblicate per la prima volta da Engels in appendice al Ludwig Feuerbach nel 1888 con una serie di modifiche che avevano lo scopo di facilitarne la lettura e la comprensione e nella versione originaria da Riazanov nel 1925-1926 nel I volume del Marx Engels Archiv. Queste tesi hanno avuto grande peso nella storia del marxismo, nella misura in cui, nella loro sinteticità, sembrano essere il gesto teorico inaugurale di una nuova teoria. Il compito che ci porremo all’interno di questo saggio sarà quello di tracciare un tratto di questa storia limitatamente all’interpretazione della VI tesi, mettendola in tensione tra la lettura di Gramsci e quella di Althusser.
Ma prendiamo in primo luogo in considerazione la VI tesi nella sua materialità linguistica e nella rete di relazioni che stabilisce con le altre tesi. Essa recita:
Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als “Gattung”, als innere, stumme, die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden (Marx 1958: 6).
Nel pubblicare questa tesi Engels ritenne necessario proporre alcune modifiche, che non ne modificano il senso.
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Il groviglio elettorale: perché voteremo con il nuovo Consultellum
di Aldo Giannuli
Come si va ormai dicendo da tutti (modestamente: lo avevamo detto dal primo momento), per votare occorrerà attendere la decisione della Consulta che, per ora, ha fissato l’udienza al 24 gennaio. Si badi: l’udienza, non la sentenza che potrebbe tardare di un po’ di giorni (ma non tantissimi), dopo, però, occorrerà attendere la pubblicazione delle motivazioni e, grosso modo, si tratterà di un mesetto. Ripeto, quindi, che la cosa più probabile è che si vada a votare fra aprile e Giugno, ma con la possibilità di slittare a settembre. Partiamo, quindi, da cosa farà la Corte Costituzionale.
Prima soluzione: dire che l’Italicum è perfettamente costituzionale, lasciarlo come è e passare la patata bollente al Parlamento. Sarebbe un divertentissimo scherzo da prete, perché costringerebbe le forze politiche ad inventarsi qualcosa per scansare un sistema che farebbe vincere i 5 stelle, però non mi pare probabile che accada ed invece è assai più eventuale che intervenga modificando la legge in modo da renderla costituzionalmente “digeribile”. E qui occorre fare una precisazione, dato che anche in tv si sente dire “Ma la Corte Costituzionale può produrre una nuova legge elettorale?”. Non può: deve farlo.
Per il principio della continuità delle istituzioni, la legge elettorale è parte integrante del dispositivo di attuazione del Parlamento, per cui la legge elettorale deve essere sempre operativa ed immediatamente applicabile (Corte Cost. 29/1987).
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Sperimentare il comune
La democrazia e l'offensiva dell'oligarchia neoliberista
Pierre Dardot, Christian Laval
Pubblichiamo un estratto dal nuovo saggio di Dardot e Laval, «Guerra alla democrazia, L’offensiva dell’oligarchia neoliberista», in uscita in questi giorni per DeriveApprodi
Fa buio. Nel secolo ancora non è mezzanotte, ma quello da poco nato sembra cominciare sotto cattivi auspici: il nazionalismo esacerbato, la xenofobia rivendicata con orgoglio, il fondamentalismo religioso che dichiara guerra, i cui volti più inquietanti assumono la forma di un desiderio di morte, fenomeni che ricordano gli orrori del secolo trascorso nei loro risvolti più tragici.
Nelle diverse varianti del neofascismo contemporaneo, si fanno giorno strane alleanze nelle quali la pressione capitalistica più sfrenata e più criminale si mischia a forme di irredentismo identitario tra le più variegate. La globalizzazione del neoliberismo, lungi dal partorire un mondo pacificato nel commercio, come pretendeva l’irenico Vangelo dei suoi predicatori, è il terreno fertile di uno scontro sanguinoso tra identità, che fa sembrare il fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del mercato come due versioni complementari della reazione postmoderna.
Ritorno alle origini, ripiegamento sulla comunità di appartenenza, sottomissione assoluta alla trascendenza: la grande regressione che abbiamo davanti è portatrice di nuovi disastri, c’è da starne certi. La paralisi del pensiero di fronte alle forme più mortifere di questa regressione è tale da farci sembrare un’impresa titanica quella di aprire nuovi possibili, come affascinati dallo spettacolo del peggio. Ma non c’è altra scelta. Anzitutto, occorre guardare con lucidità la condizione alla quale siamo ridotti.
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Note sul Brasile. Dove va il PT? Dove vanno le lotte?
di Toni Negri
Viaggiando per lavoro in Brasile ed incontrando alcuni politici ed intellettuali brasiliani, ho posto loro degli interrogativi e ho avuto risposte diverse e talora contraddittorie attorno alla crisi costituzionale in corso ed alla sconfitta del PT (a livello parlamentare e, da ultimo, nelle elezioni amministrative). Dalle risposte a quelle questioni vorrei trarre qualche provvisoria conclusione. I miei interlocutori erano gente di sinistra, di una sinistra brasiliana oggi assai frammentata.
Prima domanda: perché le lotte modello Occupy del 2013-14 sono state represse dal governo PT al punto di rovesciarne il segno e di permettere su di esse la presa egemonica della destra? La risposta che ho avuto da esponenti del PT è stata univoca e terribilmente deludente. Da tutti – questo è un punto davvero grave, da tutti senza un minimo dubbio, senza resipiscenza alcuna (anche se spesso con l’imbarazzo del bugiardo) – ho avuto una sola risposta: questi movimenti minacciavano fin dal loro inizio la tenuta della nostra governance. Vi risparmio ulteriori battute, come quando taluno ha sostenuto che le lotte del 2013 fossero ispirate dalla CIA e questo non solo in Brasile ma anche – nel medesimo ciclo – a Istanbul o a Il Cairo…
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Il populismo al tempo degli algoritmi / 2
Il diciassette che viene
Franco Berardi Bifo
Il crollo interminabile
Molti segnali di aggravamento della crisi sociale e di stagnazione irreversibile dell’economia sembrano annunciarlo: il diciassette che viene coinciderà probabilmente con una precipitazione globale. Il ceto finanzista globale ha reagito ai segnali rincarando la dose: l’aggressione golpista contro i governi latino-americani colpevoli di aver resistito al diktat finanziario, l’imposizione violenta del Jobs-act in Francia, la ferrea applicazione del Fiscal compact che ha già strangolato la società greca e sta finendo di strangolare l’Italia, la Spagna e la Francia. Ma il cavallo non beve, la ripresa cento volte annunciata non viene, e un’ondata anti-globalista, anti-europea, implicitamente quando non esplicitamente razzista, è ormai maggioritaria nel mondo bianco: America Europa e Russia unite nella guerra.
In assenza di una soggettività progettuale capace di ricomporre i processi sociali secondo un modello diverso da quello che si sta decomponendo, il crollo del capitalismo può essere interminabile e infinitamente distruttivo. Questa soggettività, che nel ventesimo secolo si riconobbe nel movimento operaio, oggi appare disgregata fino al punto che non riusciamo a intravedere possibili linee di ricomposizione.
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Marx, moneta e capitale
Paolo Davoli e Letizia Rustichelli intervistano Lapo Berti
Questa mattina Effimera ripropone la lettura di una intervista davvero interessante all’economista Lapo Berti, che ha fatto parte del collettivo redazionale della rivista Primo Maggio e dell’area del postoperaismo italiano, realizzata da Paolo Davoli e Letizia Rustichelli. Ringraziamo il collettivo di ricerca indipendente Obsolete Capitalism, di cui i due autori dell’intervista fanno parte, nonché Obsolete Free Press e Rizosfera Edizioni per la possibilità di ripubblicare il testo (che potete scaricare in pdf qui:Marx_moneta_e_capitale-_intervista_con_Lapo Berti). Diamo con ciò avvio a una collaborazione con OC allo scopo di favorire fruttuosi scambi di materiali e la loro diffusione.
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L’intervista con Lapo Berti che qui presentiamo è parte del volume collettivo «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski» pubblicato per Obsolete Capitalism Free Press lo scorso luglio 2016. La ricerca sulla moneta ha accomunato, certo in modo diverso, gli autori rizosferici francesi degli anni ‘60 e ‘70. Lo strumento «moneta» è stato da loro considerato come il dispositivo centrale utilizzato dalle economie di mercato del capitalismo avanzato per avviare à grande vitesse quella profonda trasformazione del regime produttivo fordista in una nuova forma di produzione altamente tecnologizzata, nonché dislocata, finanziarizzata e internazionalizzata. Non solo la Rizosfera francese ha saputo cogliere chiaramente questo cambio di paradigma economico nello stesso momento in cui si stava compiendo, ma è anche riuscita ad effettuare analisi efficaci e originali dello strumento «moneta» fin dal suo apparire nelle terre anatoliche dell’VIII secolo a.c. e nelle città greche del VII e VI secolo a.c.. La moneta, per i filosofi rizosferici, è dunque il dispositivo «accelerazionista» per eccellenza della politica di «dominio rapido» instaurato dalle nuove economie di mercato mondializzate e finanziarizzate.
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Andando incontro alla tempesta, senza mappe e bussole, litigando, in un vascello di cui non abbiamo il timone
di Pierluigi Fagan
1. Tra coloro che si trovano nella poco invidiabile condizione espressa nel titolo, c’è un gruppo di persone che nella loro vita hanno desiderato, sognato, immaginato un modo di stare al mondo in cui all’interno dei gruppi umani, grandi e piccoli, la differenza umana non si ordinasse attraverso una gerarchia fissa, il dominio sistematico di alcuni umani su altri. Questo sentimento sociale che chiamiamo sentimento d’uguaglianza, ha preso varie forme nella storia: piccole comunità religiose, produttive, militari, politiche, guidate dal principio d’uguaglianza. Nella grandi comunità, è stato molto più difficile trovare la forma che tende all’uguaglianza del potere sociale tra individui e la sua ricerca, ha preso per lo più la forma della rivolta a qualche odiosa condizione di sudditanza. Molte di queste rivolte sono poi state soffocate o normalizzate. In qualche raro caso, sono arrivate a conseguire il potere generale della comunità ma purtroppo, hanno poi subito una trasformazione che le ha portate a replicare, magari cambiando i segni della rappresentazione sociale sul solo piano formale, il potere dei pochi su i molti.
Questo sentimento di uguaglianza è non solo esteso a tutto il tempo umano ma anche a tutto il suo spazio, lo si può dire con cautela su i precisi confini della sua consistenza, forse, un universale. Probabilmente, si basa su un dispositivo di logica individuale naturale.
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Rottamare Maastricht
di Militant
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Rottamare Maastricht, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma
Da qualche anno Derive Approdi sta rispondendo ad un’esigenza culturale e politica di confronto d’alto profilo sulla natura della crisi del capitalismo e sulle possibili vie d’uscita. Invece di sposare una posizione, ne mette sostanzialmente due a confronto: da una parte il filone foucaultiano-biopolitico dell’analisi del/sul potere liberale dei nostri giorni; dall’altra l’analisi marxista della crisi, le sue origini, le sue conseguenze economiche e politiche. Le due impostazioni sembrano trovare un terreno di confronto comune sull’Unione europea. E’ inevitabile che sia così: la Ue è la concretizzazione politica, economica ma anche culturale e “valoriale” che il capitalismo liberista assume nell’Europa oggi. Parlare di potere e di crisi non può che condurre ad una riflessione sulla costruzione europeista. E’ in questa direzione interpretativa che va inserita la pubblicazione di questo Rottamare Maastricht, un libro breve (186 pagine), composto di più saggi, che si offre come strumento per la comprensione delle storture dell’Unione europea intesa come progetto politico-economico fallato dalle sue fondamenta. L’obiettivo è dato sin dal titolo: rottamare i trattati europei, a cominciare da quello più cogente/coercitivo: Maastricht. Sul come, si aprono le interpretazioni più diverse, e i saggi proposti non arrivano (forse giustamente) a sintesi. Non è però questo che si chiede ad uno strumento di comprensione del presente. La soluzione non potrà che arrivare da un processo collettivo che imporrà una sintesi politica autorevole alle diverse interpretazioni dell’Unione europea. Dal nostro punto di vista, questa non potrà che passare dalla rottura qualsiasi essa sia della Ue, ma sul tema c’è ancora fermento a sinistra.
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A proposito di femminismo
Risposta ad Antiper
Coordinamenta Femminista e Lesbica
Il vostro articolo del 25 novembre scorso è pieno di citazioni e grandi affreschi.
Forse, se una critica si può fare, si potrebbe notare che, pretendendo di mettere tanta diversa carne al fuoco, l’articolo finisce per bruciare tutto e lasciare ben poco da mettere sotto i denti.
La critica rivolta al nostro gruppo femminista “coordinamenta femminista e lesbica” sembra un buon esempio di questi errori “di cottura”. La critica che ci rivolgete è di poco conto, ma la scelta di esercitarla in un paragrafo in cui si prende di mira (a ragione!) il femminismo della differenza finisce per farle assumere ben altra rilevanza.
Perché fare il nome di un gruppo politico femminista che si oppone, da ben prima di voi, al pensiero innatista che accomuna ormai il femminismo di regime e molte femministe compagne? Perché utilizzare la coordinamenta come esempio di cattiva declinazione del femminismo (addirittura come esempio di articolazione prettamente formale della lotta) quando siamo uno dei pochi collettivi di compagne (l’unico romano) che ha preso pubblicamente parola contro la giornata del 26, opponendosi con forza a questa meschina manovra che sta minando da dentro le fondamenta del femminismo rivoluzionario per consegnarlo, attraverso la sua riduzione a lotte categoriali perfettamente compatibili con il capitalismo, nelle mani, non della borghesia tout court, ma della borghesia neoliberista?
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La nozione di popolo in Marx, tra proletariato e nazione
Isabelle Garo
La questione europea ha rilanciato i dibattiti, in seno alla sinistra radicale, sull’internazionalismo. Si è progressivamente affermata la necessità di ripensare a un internazionalismo concreto, il quale rifiuti l’alternativa disastrosa tra il nazionalismo razzista dell’estrema destra e l’internazionalismo del capitale incarnato dall’Unione europea, rinunciando altresì alle semplificazioni di un internazionalismo astratto.
Quest’ultimo postula, proprio in ragione dell’internazionalizzazione del capitale, che sarebbero state risolte le questioni strategiche dell’articolazione degli spazi – locali, nazionali e internazionali – nella definizione di un progetto di rottura anticapitalista, e dell’appartenenza nazionale del proletariato. È a quest’ultimo problema, in particolare, che tenta di rispondere Isabelle Garo nel testo seguente, discutendo il concetto di popolo in Marx e le sue prese di posizione riguardo ai movimenti di liberazione nazionale.
* * * *
La questione del popolo in Marx è complessa, a dispetto delle tesi troppo nette che spesso gli vengono attribuite in proposito. A una prima lettura, in effetti, si è portati a pensare che Marx costruisca la categoria politica di proletariato proprio in contrapposizione a quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante, la quale, inoltre, occulterebbe i conflitti di classe.
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Lotteremo da una generazione all’altra*
di Sandro Moiso
David Gilbert, AMORE E LOTTA. Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia, MIMESIS 2016, pp. 400, € 26,00
Ho appena finito di leggere il libro di Gilbert e un brivido di commozione e, forse, di rabbia mi percorre tutto dalla nuca al resto del corpo. E’, senza ombra di dubbio, una delle testimonianze più sincere e commoventi che sia mai uscita dalla penna di un rivoluzionario. Rivoluzionario inteso nel senso più ampio del termine e, per giunta, condannato alla detenzione ben oltre la fine dei suoi giorni.
Condannato a settantacinque anni di reclusione il 6 ottobre 1983, quando aveva 39 anni, David dovrebbe infatti finire di scontare la sua pena nel 2058, all’età di 115 anni. Basterebbe questa sola considerazione a dimostrare quanto folle, oltre che iniquo, sia un sistema giudiziario, quello statunitense, che si vorrebbe equo e moderno. Ma che nei fatti non lo è e che si dimostra ancora una volta crudele (ai limiti del sadismo oppure addirittura superando gli stessi), classista, razzista e inumano oltre ogni dire.
Condanna arrivata a seguito di una rapina finita male, molto, con alcuni militanti, una guardia giurata e due agenti di polizia uccisi, messa in atto dal BLA (Black Liberation Army) il 20 ottobre 1981 e di un processo che definire “farsa” sarebbe ancora troppo poco. Fatti che costituiscono la trama degli ultimi, terribili otto capitoli delle memorie dell’autore e che hanno segnato in maniera drammatica la sua vita e le sue scelte, non solo politiche.
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