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Lezioni ucraine – 2
di Enrico Tomaselli
Ad oltre un anno e mezzo dall’inizio dell’Operazione Speciale Militare, una panoramica a volo d’uccello sul conflitto consente se non di fare un bilancio, certamente di metterne in luce taluni aspetti significativi. Come spesso capita, il senso di determinati avvenimenti, pur del tutto noti, si coglie infatti solo a distanza. Il tentativo, quindi, è di abbozzare delle lezioni che si possono trarre dalla guerra in corso, esaminandone l’excursus dapprima dal punto di vista ucraino, poi da quello russo. In questa seconda parte si esaminerà la guerra dalla prospettiva russa.
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In questa seconda parte delle Lezioni Ucraine [1], si proverà ad analizzare i cambiamenti strategici e tattici intervenuti nel conflitto, da parte russa, a partire dall’avvio della OSM sino ad ora. La prima, e più interessante osservazione da fare è che il punto di vista russo, in questa guerra – e proprio a partire dalla scelta di definirla inizialmente come una Operazione Speciale – è mutato considerevolmente; forse non sempre tempestivamente, ma certo con grande flessibilità. Del resto, basta osservare il quadro generale internazionale, e più specificatamente quello del conflitto nei suoi aspetti bellici sul campo, per comprendere con grande evidenza come la Federazione Russa abbia gestito le mutevoli dinamiche della guerra molto meglio di quanto non abbia fatto la NATO; e ciò nonostante a Washington questo conflitto lo si è preparato da quasi vent’anni.
Come già detto precedentemente, si vuole qui analizzare la condotta strategica e tattica delle forze avverse, senza entrare più del necessario nelle motivazioni politiche che le hanno determinate. Ma, indiscutibilmente, tutta la prima fase della OSM è stata eminentemente politica.
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L’ipocrisia delle grandi potenze nel discorso all’ONU di Vucic
di Chiara Nalli
“I principi non si applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, allora non sono più principi”.
Il primo estratto del discorso del presidente serbo Vucic davanti all'Assemblea generale dell'ONU è apparso sulla stampa serba intorno alle 17.00 di giovedì 21 settembre. Il principale quotidiano del Paese ha titolato “Dov'era il diritto internazionale quando avete attaccato la Serbia?”. E se il resoconto dei giornali nazionali è stato capace di suscitare un immediato entusiasmo, l’intero discorso, disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=PXt1bBtHxVI - in inglese - può essere considerato, a pieno titolo, un intervento di portata storica. Tanto che la frase citata nel titolo è stata interrotta dagli applausi della sala.
In un consesso dominato dalle tematiche legate alla guerra in Ucraina, sgranellate dalla stampa con la consueta superficialità, il presidente serbo è intervenuto riportando al centro la vicenda del proprio Paese, sotto una duplice prospettiva: ricordando, da un lato, come le attuali situazioni di conflitto (con particolare riguardo all’Ucraina) siano in massima parte la conseguenza della violazione del diritto internazionale da parte delle grandi potenze, nell’ambito di un processo di espansione strategica avviato proprio con l’attacco NATO alla Serbia; dall’altro - denunciando l’attuale stato delle relazioni con il Kosovo, in cui le stesse superpotenze - USA e UE - coinvolte come meditatori, applicano sistematicamente “doppi standard” - capaci di portare alla cronicizzazione - o peggio l’inasprimento - del conflitto.
Vucic ha scelto di parlare del proprio Paese, con la consapevolezza della dimensione universale, profondamente politica e attuale, insita nella sua storia e nella sua posizione strategica:
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Il Nietzsche metafisico di Heidegger
di Gianni Vattimo*
Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, ed. orig. 1961, trad. dal tedesco di Franco Volpi.
Nei corsi universitari degli anni ‘36-40 e negli altri testi (degli stessi anni) che sono raccolti nel volume su Nietzsche Heidegger legge il pensiero di Nietzsche in maniera del tutto originale rispetto alle interpretazioni che ne erano state date nei decenni precedenti, e che, sebbene avessero colto in generale il significato globale e radicale della critica nietzscheana, non aveva mai preso così intensamente sul serio la “pretesa” del filosofo di rappresentare una svolta epocale nella storia dello spirito europeo. Espressioni come quella che fa da titolo a un capitolo di Ecce homo, “Perché io sono un destino”, il più delle volte erano arse da mettere sul conto dell’incipiente pazzia di Nietzsche. Heidegger le prende invece sul serio, a modo suo; e proprio per questo la sua lettura di Nietzsche innova profondamente rispetto a quelle precedenti, anche quando abbiano la densità speculativa dello studio di Jaspers (uscito nel 1936) o di quello di Alfred Baeumler (forse troppo ingiustamente messo da parte, oggi, come nazista, uscito nel 1931). Il punto è che Nietzsche era stato generalmente inteso, prima di Heidegger, come un critico della Zivilisation o, secondo l’espressione di Dilthey, come un Lebensphilosoph — che non significa anzitutto un “filosofo vitali, ma un pensatore “esistenziale”, che non crede più alla filosofia come metafisica, come teoria generale dell’essere, ma che la esercita come una riflessione personale, spesso di carattere saggistico, secondo un modello che risale a Montaigne o anche al pensiero della tarda antichità.
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L’economia di guerra oggi
di Andrea Vento – Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
L’inizio dell’Operazione militare russa in Ucraina il 24 febbraio dello scorso anno, grave escalation del conflitto iniziato nel 2014, ha inevitabilmente innescato un’ampia gamma di effetti principalmente riconducibili a tre distinte sfere, seppur tra loro interconnesse e interdipendenti. Gli analisti hanno, infatti, registrato significativi mutamenti:
1. nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche,
2. nella dinamica dell’economia mondiale oltre che nella sua struttura produttiva
3. nel ciclo economico e nei bilanci statali in primis dei Paesi coinvolti direttamente nel conflitto, e, seppur in misura minore, anche nei cosiddetti cobelligeranti e, perfino in quelli, maggioritari per numero, che hanno mantenuto una posizione neutralista.
La frattura geopolitica e geoeconomica
Nel contesto delle relazioni geopolitiche si è determinata una profonda frattura interna all’Europa delimitata dai confini occidentali di Russia e Bielorussia provocata non tanto dalla votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo 2022 di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvata da 141 Paesi su 193, quanto dall’introduzione delle misure restrittive promosse dagli Stati Uniti ai danni di Mosca e adottate da parte di 37 Paesi (pari a solo il 19% del totale) appartenenti al cosiddetto Occidente globale, vale a dire i Paesi Nato e i loro più fidati “alleati” nei vari scacchieri regionali (carta 1).
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Saint-Simon, precursore di Keynes
di Leo Essen
Andate a rileggere «Moneta e crisi» di Sergio Bologna, prendete questo testo del 1974 – dice Negri nel 78 – e ci troverete tutto ciò che è Autonomia Operaia.
Cosa fa Bologna in questo testo? Inizia la decostruzione – sacrosanta – della differenza tra capitale industriale e capitale finanziario.
In Lotte di classe in Francia, Marx definisce l’aristocrazia finanziaria come la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese, e, dunque, gli attribuisce tutte le caratteristiche del Lumpen (arretratezza, parassitismo, furto, infamia, eccetera).
In questo giudizio storico, dice Bologna, si trova tutto il Manchesterismo di Marx. Si trova quella partizione tra lavoro produttivo (industriali e proletari) e lavoro improduttivo e parassitario (finanza e sottoproletariato – e attaché di Stato).
Nel 50 Marx dice che l’aristocrazia finanziaria non esprime il momento core del capitale, ma solo un aspetto, per così dire, accessorio. Eppure, dice Bologna, nel 56 il punto di vista cambia e la banca diventa il punto di partenza per l’analisi dell’intera borghesia. Cos’è successo?
È successo che in Francia Emile e Isaac Péreire fondano il Crédit Mobilier e lanciano il socialismo bonapartista. Marx intuisce di trovarsi di fronte a un mutamento nei meccanismi di estrazione di plusvalore.
Bonaparte, dice Bologna, non poteva più contare su un controllo diretto dalla forza lavoro di fabbrica. Una classe operaia che aveva fatto il 48, dice, non si lasciava più sfruttare oltre certi limiti, pagare sotto certi limiti.
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Il rompicapo della ricomposizione dentro le rivolte della banlieue
Intervista ad Atanasio Bugliari Goggia
Frutto di una lunga ricerca sul campo, Atanasio Bugliari Goggia ha scritto, per i tipi di Ombrecorte, due importanti volumi sulle lotte e le organizzazioni politiche di banlieue. Dopo le rivolte di giugno è stato intervistato da diverse riviste e siti italiani, tuttavia abbiamo sentito ugualmente la necessità di interrogarlo per approfondire alcuni temi che ci sono sembrati trascurati e che invece riteniamo di primaria importanza: dal rapporto tra la composizione di classe delle rivolte e le organizzazioni politiche al problema della ricomposizione tra pezzi di proletariato metropolitano, separati da una linea del colore che alimenta le più feroci forme di razzismo. Nessuno possiede ed è in grado di praticare le soluzioni ai problemi discussi nell’intervista, tuttavia il nostro ospite ci offre un’importante indicazione: solo la forza delle lotte riesce a rendere appetibile la pratica della ricomposizione e a spezzare la linea del colore. Al contrario tutte le altre forme liberali di antirazzismo non fanno che confermare, anche se con un segno diverso, quella separazione che rappresenta il nostro principale problema politico. Con questa intervista inauguriamo, insieme alla sezione «vortex», un piccolo dossier sulla Francia in vista del dibattito con Louisa Yousfi, Houria Bouteldja e lo stesso Atanasio Bugliari Goggia, che si terrà a Bologna il 22 Settembre all’interno del «Festival Kritik 00» organizzato da Punto Input, Machina e DeriveApprodi.
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In altre interviste hai offerto una spiegazione delle rivolte inserendole nel quadro di crisi economica e sociale che ormai attanaglia da diversi lustri tutta l’Europa. È possibile individuare altri elementi che ci aiutino a comprendere il fenomeno? Ad esempio il tema dell’integrazione mi sembra un aspetto centrale, soprattutto in un paese come la Francia dove, tra le altre cose, esiste il diritto di suolo. Cosa ne pensi?
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Lezioni ucraine – 1
di Enrico Tomaselli
A oltre un anno e mezzo dall’inizio dell’Operazione Speciale Militare, una panoramica a volo d’uccello sul conflitto consente se non di fare un bilancio, certamente di metterne in luce taluni aspetti significativi. Come spesso capita, il senso di determinati avvenimenti, pur del tutto noti, si coglie infatti solo a distanza. Il tentativo, quindi, è di abbozzare delle lezioni che si possono trarre dalla guerra in corso, esaminandone l’excursus dapprima dal punto di vista ucraino, poi da quello russo. In questa prima parte si esaminerà pertanto dalla prospettiva di Kiev.
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Le lezioni che la guerra ucraina sta fornendo sono svariate, ed alcune anche molto interessanti. Il fatto che il conflitto si collochi in un passaggio cruciale della Storia, anzi che ne sia un importante fattore di accelerazione, rischia naturalmente di offuscarle, di renderle meno evidenti. Anche solo da un punto di vista strettamente militare, però, ci sarebbe molto da imparare – e per quanto è possibile vedere/sapere, dall’altra parte dell’Atlantico non sembra che stiano imparando molto. Eppure, nessuno più del Pentagono avrebbe interesse a trarre insegnamenti da questo conflitto.
In ogni caso, un tentativo di analisi merita di essere fatto, se non altro come contributo ad una possibile (ed auspicabile) riflessione generale sul tema.
Fermo restando che non c’è ovviamente paragone possibile, in termini di potenza strategica, tra Russia ed Ucraina, è però indubitabile che il 24 febbraio 2022 quello che si apre è sostanzialmente un conflitto simmetrico: le forze in campo sono complessivamente equiparabili, quanto meno nel senso che le varie disparità che le caratterizzano sono in qualche modo compensative.
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Monolite Barbie. Giudicare i film dai loro paratesti
di Antonio Casto
1. Introduzione: «L’hai visto? Dicono che…»
Vorrei dimostrare che già da alcuni anni è possibile spesso giudicare un film senza averlo visto, affidandosi tranquillamente ai suoi trailer, alla frequenza con cui spunta tra le sponsorizzazioni televisive o web, alla quantità di meme e mashup che lo riguardano che si riversano nei social, alla portata ed estensione del suo merchandising, alla diffusione nelle liste di «film dell’anno», alla proliferazione di tweet e articoli che ne parlano, alla visibilità che gli viene assegnata in critiche e recensioni, soprattutto all’intensità dei “l’hai visto?”, dei “che ne pensi?”, dei “devo ancora vederlo”, dei “dicono che” o “pare che” dei conoscenti: tutti segnali inequivocabili che il film (o se è per questo qualsiasi altro oggetto o fatto) è momentaneamente à la page, che «si porta», che è felicemente riuscito a trasformarsi in carrozzone virale su cui sarà obbligatorio arrampicarsi tutti come scalmanati per dire ognuno la propria, dal critico squisito alla casalinga di Voghera, prima che sia troppo tardi e il veicolo scompaia (per sempre) all’orizzonte (nel migliore dei casi entro qualche settimana).
Tutti questi elementi “intorno” al film non sono quasi mai fenomeni accessori e ausiliari, che emergono dal valore stesso dell’opera e si consolidano gradualmente nel tempo, ma piuttosto segnali appariscenti del fatto che la produzione ha efficacemente investito sul marketing più che sul prodotto. E perciò stesso abbiamo il diritto, mi sembra, di dare più valore ai contenuti del primo che a quelli del secondo.
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È l’imperialismo umanitario che ha creato l’incubo libico
di Chris Hedges* – Scheerpost
“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” ironizzò Hillary Clinton quando Muammar Gheddafi, dopo sette mesi di bombardamenti degli Stati Uniti e della NATO, fu rovesciato nel 2011 e ucciso da una folla che lo sodomizzava con una baionetta. Ma Gheddafi non sarebbe stato l’unico a morire. La Libia, un tempo il paese più prospero e uno dei più stabili dell’Africa, un paese con assistenza sanitaria e istruzione gratuite, il diritto per tutti i cittadini a una casa, elettricità, acqua e benzina sovvenzionate, insieme al tasso di mortalità infantile più basso e alla alta aspettativa di vita nel continente, insieme a uno dei più alti tassi di alfabetizzazione, si è rapidamente frammentata in fazioni in guerra. Attualmente ci sono due regimi rivali in lotta per il controllo della Libia, insieme a una serie di milizie canaglia.
Il caos che seguì l’intervento occidentale vide le armi degli arsenali del paese inondare il mercato nero, molte delle quali sequestrate da gruppi come lo Stato Islamico. La società civile cessò di funzionare. I giornalisti ripresero immagini di migranti provenienti dalla Nigeria, dal Senegal e dall'Eritrea picchiati e venduti come schiavi per lavorare nei campi o nei cantieri edili. Le infrastrutture della Libia, comprese le reti elettriche, le falde acquifere, i giacimenti petroliferi e le dighe, caddero in rovina. E quando ci sono piogge torrenziali come Storm Daniel – la crisi climatica è un altro regalo all’Africa da parte del mondo industrializzato – che ha travolto due dighe decrepite, muri d’acqua alti 20 piedi si sono precipitati giù per inondare il porto di Derna e Bengasi, provocando fino a 20.000 morti secondo Abdulmenam Al-Gaiti, sindaco di Derna e circa 10.000 dispersi.
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Una storia del conflitto politico
di Joseph Confavreux
Riceviamo e pubblichiamo volentieri la traduzione, a cura di Salvatore Palidda, di un recente articolo di Joseph Confavreux. Si tratta della recensione di «Une histoire du conflit politique», di Julia Cagé e Thomas Piketty, un libro ritenuto da più parti importante perché sfida la politologia con un approccio multidisciplinare assai poco praticato
Nelle librerie venerdì 8 settembre, Une histoire du conflit politique (Le Seuil), a cura di Julia Cagé e Thomas Piketty, è già ai vertici delle vendite di “saggistica”. Perché questa zona arida di geografia elettorale incontra un tale successo, anche se le sue conclusioni sono raramente controintuitive e la parte esigente del mondo della ricerca ne giudica molti degli elementi sintetizzati come già noti? La risposta è dovuta solo in parte alla notorietà dei suoi autori e ai meccanismi ben rodati di una promozione che riserva al gruppo Le Monde e a Radio France il diritto di rompere l’embargo prima della pubblicazione a cui sono chiamati a resistere altri giornalisti. Il successo di pubblico e mediatico del libro è dovuto soprattutto al fatto che sono pochi i ricercatori che sperano niente meno che trovare soluzioni concrete alle disfunzioni della democrazia francese, all’impasse della vita politica del paese e alle disuguaglianze che ne minano i contorni. Il lavoro estende spesso alcune analisi e proposte già sviluppate in Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2018) e Il prezzo della democrazia di Julia Cagé (Baldini & Castoldi, 2020).
Ancora meno numerosi sono i ricercatori che sviluppano database tanto voluminosi quanto nuovi per supportare le loro dimostrazioni – pur disponendo delle risorse finanziarie e umane. Il lavoro di Cagé e Piketty, con il sito eccezionale per accessibilità ed esaustività ad esso allegato (unehistoireduconflitpolitique.fr), costituisce infatti uno strumento che talvolta va oltre quelli della statistica pubblica.
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Un'analisi della situazione attuale dello scontro armato tra NATO e Russia
di Sergey Slessarenko*
L’operazione militare russa in Ucraina dura ormai da più di 500 giorni; la maggior parte dei conflitti moderni che attraversano quel limite si protraggono. Dopo il 26 aprile 2022, quando presso la base aeronautica di Ramstein in Germania si è svolto il primo incontro dei rappresentanti di 40 paesi occidentali sulla questione delle forniture di armi all’Ucraina, questo conflitto si è trasformato in uno scontro armato tra Russia e Occidente. Di conseguenza, uno scontro così lungo si sta trasformando in una corsa di complessi militare-industriali e le sue prospettive possono già essere valutate.
Nel marzo di quest’anno, Michael McCaul, presidente della commissione per gli affari esteri della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, ha affermato che dei quattro pacchetti di aiuti stanziati per l’Ucraina per 113 miliardi di dollari, circa il 60% è andato al complesso militare e militare-industriale degli Stati Uniti per modernizzare le scorte di armi e attrezzature militari. Sembrerebbe che dopo tali iniezioni la produzione del complesso militare-industriale avrebbe dovuto crescere come lievito, ma ciò non sta accadendo.
600 milioni di dollari sono andati direttamente alla Direzione delle Capacità di Produzione della Difesa del Pentagono. Di tale importo, 45,5 milioni di dollari sono andati ad Arconic per espandere la produzione di alluminio di alta qualità. Il fatto è che la Russia controlla oltre il 75% del mercato mondiale dell’alluminio di alta qualità, necessario per la produzione di aerei a reazione e varie attrezzature militari. Ora l’accesso degli Stati Uniti all’alluminio russo è limitato.
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L’Ucraina è in ginocchio e l’Europa alla canna del gas
Giorgio Monestarolo intervista il gen. Fabio Mini
La guerra in Ucraina continua senza che se ne veda la fine. Ma dal febbraio 2022, data di inizio di questa ultima cruenta fase, molto è cambiato, nei luoghi delle operazioni belliche e nello scenario internazionale. Ci sono, al riguardo, analisi critiche anche dall’interno delle forze armate impiegate nei combattimenti. In particolare negli Stati Uniti, ma non solo. Tra le altre spicca, in Italia, quella di Fabio Mini, generale di corpo d’armata a riposo, già capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, comandante delle operazioni di pace a guida Nato in Kosovo, nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force). Mini interviene nel dibattito pubblico da vent’anni (è del 2003 il suo primo libro, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale, pubblicato da Einaudi) e collabora con varie testate, tra cui Limes, la Repubblica e il Fatto Quotidiano. Da ultimo ha pubblicato, per Paper First, Europa in guerra. Sulla situazione dell’Ucraina lo ha intervistato, per Volere la Luna, Giorgio Monestarolo.
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A un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto in Ucraina, la guerra sembra essere contenuta a mezzi convenzionali. Secondo molti osservatori, significa che la “deterrenza” sta funzionando, cioè il timore di un conflitto nucleare sta effettivamente mantenendo la guerra entro una cornice gestibile. Nel suo libro, L’Europa in guerra, Lei ritiene invece che la deterrenza non funzioni e che il rischio di una escalation nucleare sia reale.
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Il ponte dell’estrattivismo
di Antudo
Berlusconi non ha fatto in tempo, non è riuscito a veder posare neppure la prima pietra. Eppure, a dirla con franchezza, se quell’onore – si fa per dire – a qualcuno sarebbe dovuto toccare, è solo per l'ennesima prova di giustizia persecutoria che quel qualcuno non potrà mai più esser lui, il primo tenore tra i cantori delle Grandi Opere per un Grande Paese. In una delle frequenti visite profetiche a Messina, nel lontano 2009, tra l’inaugurazione di un plastico e l’altro, l’Unto del Signore si spinse a dire: “Abbiamo mantenuto l’impegno preso con i siciliani, con i calabresi, con tutto il Sud. Il ponte sullo Stretto da oggi è legge e domani sarà realtà”. È davvero una sorte ria quella che vuole il cavallo di battaglia del cavaliere per antonomasia sia finito oggi nelle mani di una triviale controfigura del tutto incapace di far ridere. Certo, prova a spararle grosse anche lui, quel guitto di quart’ordine: il “ponte degli italiani” sarà “la più grande operazione anti-mafia”. Niente da fare. Dall’ex giovane padano non fuoriesce che una parodia patetica della vecchia inarrivabile canaglia di Arcore che, a suo modo, l’ossessione della gioventù ha cercato di coltivarla fino alla fine dei suoi giorni e che di mafia e antimafia sapeva, lui sì, vita, morte e soprattutto miracoli. In questo articolo, il movimento Antudo sottolinea il carattere estrattivista della grande truffa che Matteo Salvini oggi riprova a cavalcare, armato però solo della consueta rozza propaganda e della bieca retorica che serve a coprire la macchina del bluff di sempre con una dozzina di miliardi.
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L’estrattivismo è una forma di accumulazione del capitale finanziario attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. […]
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Gomblotto: come le fantasie di complotto alimentano il regime
di Luca Busca
Excusatio non petita, accusatio manifesta
Chiedo venia per l’uso, peraltro occasionale, della prima persona singolare. In un articolo giornalistico questo espediente finisce per svilire la presunta oggettività che l’esposizione di una notizia dovrebbe restituire. Scrivere in prima persona colloca immediatamente l’opera nel mondo immaginario della fantasia o in quello reale dell’espressione di un opinione. Il secondo caso si avvicina molto alla narrazione che segue, racconto che tecnicamente sarebbe stato difficile realizzare in modo impersonale. In secondo luogo, in considerazione della lunghezza quello che segue assomiglia più a un piccolo saggio che a un articolo.
Ciò premesso, questo lavoro costituisce l’epilogo di due articoli da me scritti per Sinistrainrete (divide-et-impera-il-grande-complotto e una-dissidenza-dissennata-dissipa-il-dissenso) in cui esprimevo una forte incredulità in merito a come una larga fetta del dissenso, creato dalla scellerata gestione della pandemia prima e della guerra poi, si perdesse dietro “complottismi” palesemente inesistenti, screditando e indebolendo la diffusione della ribellione. Mi risultava del tutto incomprensibile come si potesse ancora negli anni ’20 del terzo millennio negare l’esistenza di una questione ambientale o, in altri casi, escluderne l’origine antropica per poi imputarla alle scie chimiche chiaramente generate dall’uomo, cadendo nella trappola della reductio ad unum dei cambiamenti climatici. Non ero in grado di decifrare la permanenza del complotto giudaico massonico e del potere occulto del “Deep State” nell’area critica nei confronti del pensiero unico neoliberista. Né come potesse sopravvivere quest’aura destrorsa, conservatrice, tradizionalista e fortemente cattolica in un movimento che si definiva “anticapitalista”.
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Crisi e teoria critica. Qualche modesto appunto
di Alessandro Visalli
Abbiamo assolutamente bisogno di una nuova teoria critica, che non dimentichi le lezioni dei nuclei più alti della storia delle lotte per l’emancipazione (e per quanto mi riguarda di quelle della vasta e multiforme tradizione marxista, ma si potrebbe aggiungere altro come la lezione della psicoanalisi e le teorie del potere e del conflitto, le migliori riflessioni sulla liberazione, le esperienze anticoloniali, e via dicendo), ma che sia anche all’altezza delle sfide presenti (in primo luogo all’altezza della sfida della rottura di queste tradizioni e del fallimento dei tentativi di ‘mobilitazione liberale’[1]).
Ne abbiamo bisogno perché il mondo è in un agghiacciante labirinto e nessuno riesce a capire in che modo uscirne. Dalla fucina della storia è giunto al presente un groviglio inestricabile di problemi rinviati nel continuo equilibrio dinamico di un sistema sociale che non ha mai cessato di trasformarsi, in modo via via accelerato dalla rottura dell’Antico Regime, ma in realtà sin dall’allargamento commerciale del XV secolo. Nel continuo turbinio della lotta per l’affermazione di gruppi sempre diversi, e dello sviluppo materiale e tecnologico che ha tenuto in tensione costante le élite nazionali e i vari outsider, più o meno locali. Facendo un notevole salto temporale si può dire che, guardandolo con senno di poi, avevamo avuto un trentennio di “quasi calma” nell’immediato dopoguerra. Il compromesso sociale, scaturito dal ricordo delle mobilitazioni operaie e sociali del secolo precedente, e dai milioni di morti ed immani distruzioni delle due guerre, è però alfine crollato sotto la spinta di un mondo che cambiava troppo velocemente. Ancora non abbiamo compreso bene perché.
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Il Digital services act. Addio articolo 21 della Costituzione?
di Carlo Magnani
Il 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.
Tanto i lavori preparatori di adozione che l’entrata in vigore sono stati accompagnati da una enfasi – la solita, quando si tratta di prodotti confezionati dalla Unione europea – che non ha lesinato toni entusiastici ed euforici. Finalmente nuove regole e nuovi diritti sul web, maggiore tutela per gli utenti per ciò che attiene la protezione da contenuti illegali (terrorismo, pornografia, truffe online, vendita prodotti pericolosi), dall’incitamento all’odio (ovviamente, immancabile), ma anche da contenuti non illegali ma qualificati come dannosi (la disinformazione).
Il metodo prescelto per attuare tali regole – che rimandano comunque alle legislazioni nazionali per ciò che va considerato illegale, cioè penalmente o amministrativamente rilevante – è quello della co-regolamentazione. Quindi, non una vigilanza esterna da parte di soggetti istituzionali terzi, ma il coinvolgimento diretto delle piattaforme attraverso procedure concertate con organismi tecnici dipendenti direttamente dalla Commissione europea.
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C’era una volta un chatbot
di Andrea Daniele Signorelli
Tra i tanti ruoli che ChatGPT ha rapidamente iniziato ad assumere nelle vite dei milioni di utenti che lo utilizzano su base quasi quotidiana, ce n’è uno probabilmente inatteso. Per molti, il sistema di OpenAI con cui è possibile conversare su ogni argomento, e spesso in maniera convincente, è diventato un amico, un confidente. Addirittura uno psicologo. Una modalità non prevista (almeno esplicitamente) da OpenAI, ma scelta da un numero non trascurabile di utenti, che si relazionano a ChatGPT come se davvero fosse un analista. Per impedire un utilizzo giudicato (per ragioni che vedremo meglio più avanti) improprio e pericoloso, OpenAI impedisce al suo sistema di intelligenza artificiale generativa di offrire aiuto psicologico, che infatti di fronte a richieste di questo tipo si limita a fornire materiale utile da consultare. Ciò però non ha fermato gli “utenti-pazienti” che, su Reddit, si scambiano trucchi e tecniche per sbloccare ChatGPT affinché fornisca loro consigli psicologici.
Joseph Weizenbaum e il suo chatbot ELIZA
Un risvolto che potrebbe sorprendere molti. Uno dei pochi che sicuramente non si sarebbe sorpreso e che avrebbe avuto moltissimo da dire sull’argomento è Joseph Weizenbaum, scienziato informatico e docente al MIT di Boston, scomparso nel 2008. Colui che già parecchi decenni prima della sua morte aveva preconizzato – o meglio, affrontato e approfondito in prima persona – molti degli aspetti che portano le persone a relazionarsi in maniera intima con le macchine e le cause di questo comportamento.
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Un focus sulla guerra
Paolo Arigotti intervista Elena Basile
Elena Basile, diplomatico di carriera dal 1985, ha ricoperto diversi incarichi presso le ambasciate di Madagascar, Canada, Ungheria, Portogallo. Dal 2013 al 2017 è stata ambasciatrice d’Italia a Stoccolma, per poi assumere lo stesso incarico presso la sede diplomatica di Bruxelles. Attualmente lavora come analista di politica internazionale ed ha avviato una collaborazione come free lance per Il Fatto quotidiano. Fra i suoi libri ricordiamo: Donne nient’altro che donne (1995), Una vita altrove (2014), Miraggi (2018), pubblicato anche in lingua francese, In famiglia (2022) e Un insolito trio (2023), che sarà presentato il prossimo lunedì 18 settembre (ore 17,30), al chiostro del Teatro Piccolo di Milano, alla presenza di Moni Ovadia il quale converserà con l’autrice sui temi del libro.
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Ambasciatrice Basile, grazie per averci concesso questa intervista. La prima domanda si riallaccia inevitabilmente all’attualità: a che punto è la guerra in Ucraina, pure alla luce del sostanziale fallimento della controffensiva di Kiev?
Non credo, malgrado lo stallo delle operazioni militari, che sia facile pervenire a un cessate il fuoco e a un armistizio.
E’ vero che gli americani portano già a casa un importante bottino di guerra (Profitti energetici e del complesso militare industriale, separazione dell’Europa dalla Russia, vassallaggio dell’UE e fine dei sogni di autonomia strategica e difesa europea), è vero che la ‘war fatigue’ potrebbe pesare sulla campagna presidenziale di Biden già minacciata dalla salute mentale dello stesso il cui stato è ormai di dominio pubblico, ma non si investono 101 miliardi in una guerra per portare a casa un armistizio che lascia Kiev in condizioni peggiori di quanto era all’inizio del conflitto.
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Un appello all’azione: Lezioni dall’Ucraina per le forze armate del futuro
di Katie Crombe & John A. Nagl
Traduciamo questo recentissimo articolo di due studiosi dell’U.S. Army War College, apparso nel numero di autunno del trimestrale dell’istituzione accademica dell’Esercito statunitense, “Parameters”.
Un anno fa, nell’autunno del 2022, lo United States Army Training and Doctrine Command ha incaricato un piccolo gruppo di studiosi di seguire il conflitto russo-ucraino, dividendosi le principali aree di studio. Gli articoli specifici ad esse dedicati usciranno in futuro.
Questo che presentiamo è un articolo che riassume ed evidenzia i più rilevanti risultati di quegli studi. È difficile sottovalutarne l’importanza, perché in estrema sintesi, gli studi raccomandano un’urgente e radicale riforma strutturale dell’Esercito degli Stati Uniti, comprensiva di un passaggio da una forza esclusivamente volontaria – come sono oggi tutte le forze armate NATO – al ritorno un reclutamento fondato sulla leva obbligatoria parziale.
Quest’ultima raccomandazione consegue alla valutazione dell’elevatissimo livello di perdite che subirebbero le forze NATO in un conflitto analogo a quello in corso in Ucraina, che il capitolo a ciò dedicato prevede in 3.600 perdite al giorno, ossia più di 100.000 perdite al mese.
Nella IIGM, le FFAA statunitensi subirono un totale di 405,399 morti, di cui 291,557 in battaglia, e 670,846 feriti, v. https://dcas.dmdc.osd.mil/dcas/app/summaryData/casualties/principalWars
Buona lettura. Roberto Buffagni
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Per una sanità pubblica e universale
di Chiara Giorgi
Agli ultimi posti Ocse per finanziamenti, il nostro modello di welfare socio-sanitario va rifondato sul benessere delle persone, in termini di salute, di assistenza, di istruzione, di previdenza. Al seminario del Laboratorio su salute e sanità si è iniziato a tracciare un quadro d’azione per rispondere a questa esigenza
La sanità pubblica italiana attraversa tempi molto difficili: è in corso un’accelerazione di quei processi che da tempo stanno minando alcuni principi costitutivi del nostro Servizio sanitario nazionale (SSN), mettendone a repentaglio attività e tenuta. È bene ricordare che quest’ultimo, nato dai conflitti degli anni Sessanta e Settanta, ha segnato il momento di maggiore qualificazione democratica del welfare italiano ed è stato improntato da universalità di copertura, equità di accesso e uguaglianza di trattamento, globalità dell’intervento sanitario, uniformità territoriale, controllabilità e partecipazione democratica, finanziato tramite la fiscalità generale progressiva. I cambiamenti subentrati a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso in Italia e nel contesto internazionale, con la riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale, hanno segnato una inversione di rotta, le cui conseguenze più gravi sono state portate alla luce dalla pandemia da Covid-19. Quest’ultima ha reso infatti evidenti le inadeguatezze delle condizioni precedenti: i limiti che si sono mostrati nel servizio sanitario pubblico a fronte dell’impatto dell’emergenza sono derivati soprattutto dal suo depotenziamento, dallo spazio lasciato alla sanità privata, dall’indebolimento della medicina territoriale, che aveva informato la fisionomia originaria del SSN.
La pandemia sembrava aver riportato al centro dell’attenzione pubblica il diritto alla salute, fisica e psichica, individuale e collettiva. In questa chiave essa poteva essere l’occasione per tornare a potenziare l’assetto sanitario nazionale sotto più profili, compreso quello essenziale delle attività di prevenzione e delle cure primarie.
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Il distruttore di mondi: Oppenheimer secondo Nolan
di Roberto Paura
L’uomo, lo scienziato, l’intellettuale, il pacifista che rese possibile la guerra atomica in un biopic
Proviamo a fare un esperimento mentale, di quelli che gli storici chiamano “storia controfattuale” e gli appassionati di fantascienza “ucronia”. Immaginiamo che la scoperta della fissione nucleare, avvenuta nel 1938 in Germania, non si fosse verificata alla vigilia della Seconda guerra mondiale ma, poniamo, dieci anni prima. Siamo stati abituati a immaginare un mondo in cui Hitler ottiene l’atomica prima degli americani, come quello tratteggiato in L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick (1962) e nella serie televisiva che ne è stata tratta, perché era l’incubo che ossessionava gli uomini di Los Alamos e che anche dopo Hiroshima e Nagasaki li convinse ad aver agito bene: se non lo avessero fatto, se Albert Einstein e Leo Szilard non si fossero impegnati a convincere il presidente Roosevelt a investire nella fabbricazione della bomba, vivremmo – si diceva – in un mondo dominato dal nazismo. Eppure, per quanto a lungo si sia favoleggiato di possibili sabotaggi da parte degli scienziati atomici tedeschi del programma nazista per la bomba atomica, la verità più prosaica era che persino Werner Heisenberg, che ne guidò gli sforzi, si convinse che difficilmente una reazione a catena potesse sostenere altro che un reattore per la produzione di energia, come mostrano anche le registrazioni dei dialoghi dei fisici tedeschi prigionieri a Farm Hall dopo la caduta del Terzo Reich, che mostrano l’incredulità alla notizia dei bombardamenti atomici americani. No, i nazisti non stavano costruendo una bomba e l’idea fu liquidata da Hitler e dal suo ministro degli armamenti Albert Speer come una fantasia da scienziati pazzi.
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György Lukàcs: Storia e coscienza di classe ha 100 anni. Ma non li dimostra
di Laura Pennacchi
Laura Pennacchi, sullo sfondo di un suo viaggio memorabile a Budapest a fine anni ‘60 per conoscere Lukàcs, ci mostra la perdurante attualità di Storia e coscienza di classe, a 100 anni dalla pubblicazione, restituendoci la figura di un grande maestro e intellettuale. Da tenere a mente ancora oggi: la dimensione spirituale del potere; il ruolo della conoscenza e della soggettività; la progressiva reificazione del sociale e del naturale nel capitalismo, favorita dal convincimento della calcolabilità di tutto, dal dominio dell’economico e dall’alienazione degli individui da sé
Sono passati cent’anni dalla pubblicazione, nel 1923, di Storia e coscienza di classe di György Lukàcs e a me sembrano un nulla, così come mi sembra un nulla il tempo trascorso da quando scopersi, alla fine degli anni ’60, quella che si era rivelata una delle più controverse, ma anche più influenti, opere del marxismo del Novecento. La sua straordinarietà derivava dal fatto che in quel testo il giovane Lukàcs aveva condensato elementi della comune riflessione con Rosa Luxenburg – la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo – in una teoria della storia e della società come totalità costruita attorno alla generalizzazione della “forma merce” (dalla cui concettualizzazione rimase influenzato anche l’Heidegger di “Essere e tempo”) e ai processi di “feticizzazione”, “reificazione”, “alienazione” che ne erano scaturiti, dando un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali e facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura. L’enigma della merce sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone viene reificata, riceve cioè il carattere della cosalità e quindi “un‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Dall’ambito produttivo la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione”.
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Il disadattamento delle élite occidentali
Intervista a Roberto Iannuzzi
Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri. Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017. Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati [Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni].
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1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?
Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan.
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In terra ostile: il destino della modernità occidentale e i suoi critici
di Carlo Magnani
Il pubblico de “La fionda” è costituito per lo più da persone che – come lo scrivente – “vengono” da sinistra, si sono cioè formate sui testi e sui temi classici della sinistra novecentesca, votandone i partiti storici o le frattaglie derivanti da scissioni e rifondazioni varie. Tutte queste persone sono però altamente insoddisfatte della sinistra, in tutte le sue varianti, nella sua configurazione attuale: europeismo a prescindere, oblio dei diritti sociali e precarizzazione del lavoro, atlantismo “senza se e senza ma”, sono alcuni dei punti di forte critica verso la narrazione progressista. Questo pubblico può risultare, al massimo dell’eresia, ben propenso verso il “momento populista”, vedendo nell’attenzione a temi socialmente sentiti da larghe masse della popolazione collocate fuori dalla fatidica “Ztl” una opportunità per ri-creare finalmente una “vera” sinistra. Questa breve premessa solo per illustrare che il compito che mi sono dato – segnalare ai lettori de “La fionda” il libro di Boni Castellane “In terra ostile” – è una impresa ardua, che va però compiuta. Come sostenere di fronte a tale comunità la bontà di una riflessione che si colloca del tutto al di fuori dei margini del perimetro della sinistra, anzi, che sta proprio dalla parte opposta?
Boni Castellane è un nome di fantasia, impiegato da un opinionista che scrive sul quotidiano “LaVerità”: il successo della rubrica ha dato l’abbrivio per una iniziativa editoriale sfociata nella pubblicazione del libretto titolato appunto “In terra ostile”. A sentire l’anonimo Autore, molto attivo su X (ex Twitter), le vendite hanno ad oggi raggiunto, dopo una seconda edizione, quota 15.000, che non solo per la saggistica ma anche per la narrativa costituisce per il mercato nazionale una quota quasi eccezionale: nessun giornale o media ne ha chiaramente parlato.
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Le difficoltà della Germania e quelle dell’Ue
di Vincenzo Comito
Districarsi nella crisi tedesca non è facile. Al centro va messa la questione dell’auto, industria strettamente legata alla componentistica italiana. Di sicuro la crisi è europea, riguarda la guerra in Ucraina, ma anche l’incapacità dimostrata finora dall’Europa di capire quale strada intraprendere, stretta tra Cina e Usa
Negli ultimi mesi i giornali si sono dedicati con particolare attenzione agli sviluppi economici recenti del paese teutonico. Forse i titoli più significativi in proposito sono quelli di un numero recente dell’Economist: “L’economia tedesca usava ispirare invidia, presto ispirerà solo preoccupazione” o di quello pubblicato da Die Zeit, “Il Made in Germany è finito”.
Ieri ed oggi
A partire grosso modo dal l’inizio del nuovo secolo e fino quasi alla fine della seconda decade dello stesso la crescita del Pil tedesco è stata superiore a quella di tutti gli altri grandi paesi europei.
Come sottolineato da più parti, il successo del modello economico del paese si basava su almeno quattro ingredienti. Intanto sulla leadership tecnologica nell’industria, in particolare in alcuni suoi settori, i veicoli, la chimica, la meccanica tra gli altri; poi sulla competitività di costo dei suoi prodotti, risultato dovuto, tra l’altro, da una parte al fatto che al momento del varo dell’euro il cambio con il marco fu fissato ad un livello molto favorevole alla Germania, dall’altra alla larga disponibilità di fonti di energia russa a buon mercato; ancora, tale successo era dovuto alla stabilità geopolitica e al costante sviluppo dell’economia mondiale guidato dall’Asia e in particolare alla crescita del commercio internazionale; infine, alla forte coesione sociale e politica interna.
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