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L’anti-positivismo rivoluzionario e il ruolo del partito nel pensiero di Lenin
di Alberto Sgalla*
Positivismo, Empiriocriticismo
Il Positivismo è un indirizzo filosofico che si è sviluppato a partire dalla prima metà del sec. XIX accompagnando l’organizzazione tecnico-industriale, capitalistica, della società. Il termine, coniato da Saint-Simon, fu poi adottato da Comte per designare lo stadio scientifico del sapere umano in contrapposizione agli stadi precedenti, teologico e metafisico. La scienza era posta come unico fondamento possibile della vita degli esseri umani, garanzia infallibile del loro destino, suo compito era scoprire le “leggi” dei fenomeni. Comte riteneva razionalmente inevitabile il progresso, cioè il perfezionamento incessante che la società umana subisce nella sua storia.
La scoperta di Darwin del principio dell’evoluzione biologica comportò una diffusione del Positivismo nella seconda metà del sec. XIX, con una conclusione ottimistica della dottrina darwiniana: l’evoluzione è il fatto fondamentale della natura e della storia, è ineluttabile il progresso anche biologico dell’uomo. Spencer, il maggiore esponente del Positivismo inglese, ritenne il principio evoluzionistico valido per ogni campo della realtà, la legge universale dell’evoluzione doveva essere applicato anche alla vita sociale e alla vita psichica. Lo sviluppo graduale della società era ritenuto possibile lasciando libero gioco al conflitto tra le classi sociali e vietando ogni forma di dirigismo pubblico, ritenuto contrario al progresso. Il Positivismo inglese, individualistico-liberale, fu tipica espressione della borghesia che vedeva il progresso nel pieno dispiegamento degli appetiti speculativi e della libera concorrenza nel mercato.
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Tabula rasa, o della scuola digitale
di Il Rovescio
Pubblichiamo volentieri questo testo a proposito del «Piano Scuola 4.0», il quale prosegue le riflessioni cominciate con PNRR: Piano Nazionale di Radiazione di ogni Resistenza (umana), uscite su questo sito nell’ottobre scorso (https://ilrovescio.info/2021/10/21/pnrr-piano-nazionale-di-radiazione-di-ogni-resistenza-umana/)
Scuola: dal greco skholé, «tempo libero», dedicato allo svago della mente, e in seguito (XIII secolo) «luogo ove si attende allo studio».
Scuola quindi come ambito politico, cioè che riguarda le relazioni tra «i molti», legato all’educazione in senso letterale, che idealmente rappresenta l’occasione per i “nuovi nati” di ricevere da parte del mondo degli adulti (nella lingua giapponese il termine sensei, tradotto con quello di «maestro», significa «colui che è nato prima») cure (spazi e tempi caratterizzati dall’agio) e quel nutrimento che deriva dalla trasmissione delle conoscenze, indispensabile per l’espressione delle potenzialità autentiche di ogni individuo.
Scuola che, come tutti gli altri ambiti della realtà, è specchio delle tendenze in atto all’interno della società che la produce e in tal senso ambito di interesse generale. Interesse ancor più evidente se si considera che l’animalità della specie umana dovrebbe evidenziarsi anche nell’istinto di tutelare i nuovi venuti come prosecuzione di un sé collettivo e come aspirazione a qualcosa di meglio.
La distanza tra il significato e la concretizzazione dell’istituzione-scuola è talmente marcata e radicata da indurre a pensare che si tratti di oggetti differenti; ma la riflessione sul senso delle parole, nonostante il capitalismo si spenda sistematicamente per adeguarle alle sue esigenze, di questi tempi rappresenta un’opportunità per attingere da visioni capaci di orientare i passi (un riferimento alle origini a volte aiuta a ricordare un futuro).
In questi giorni sono state pubblicate dal ministero dell’Istruzione – che si occupa di organizzare le nuove leve rendendole idonee all’inserimento sociale – le linee guida del Piano scuola 4.0; si tratta della “risposta forte”, condivisa nel suo complesso da tutte le forze partitiche, alle criticità palesi in questo comparto (lo definiamo tale poiché siamo purtroppo abituati a considerare la realtà come un insieme di comparti stagni).
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I danni del Partito Democratico all’Italia
di Piero Bevilacqua
Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito Democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di Sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni.In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità. Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura.
Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher e Reagan negli USA. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni ’90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati. Democratici americani , socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuso più largamente nel Vecchio Continente.
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Potere della crisi e retoriche dello screditamento
Dentro e oltre la campagna elettorale
di Gaspare Nevola
1. Crisi e potere, ovvero paura e libertà
Quando la politica è avvolta nel paradigma o nella narrazione della crisi, la democrazia viene rinchiusa nel recinto della paura. In uno spazio dove non c’è posto per la libertà, ma autostrade per la fuga dalla libertà. Nulla di nuovo, beninteso. La storia politica e quella del “fatto democratico”[1] sono state costantemente attraversate da fenomeni del genere: fenomeni che non esprimono altro che dinamiche politiche e socio-culturali, logiche di potere e di contro-potere, di governo e di opposizione, di obbedienza e di disobbedienza, di conservazione o di mutamento dell’ordine costituito. In tutti questi casi, la libertà è una posta in gioco cruciale, ma alla quale, persino quando è ufficialmente ben vista, viene riservata una stanza in soffitta e non già il salotto buono di casa. Accade ancora ai nostri giorni. Anche nel mondo occidentale che si autodefinisce democratico (o liberaldemocratico) e che siamo soliti considerarlo tale, almeno convenzionalmente. Tutto ciò sta accadendo anche in queste settimane in Italia, nella campagna elettorale per il voto del 25 settembre: nel suo piccolo, un caso esemplare di una tendenza storica generale, che tuttavia ai nostri tempi va acquisendo crescente visibilità rispetto al passato, e forse anche più forza.
2. La campagna elettorale del 25 settembre. Cioè?
Nelle (moltissime) pagine dei mass media (vecchi e nuovi) riservate alla cronaca o al commento della campagna elettorale, abbonda l’energia dedicata (dagli attori e dagli osservatori “rappresentatori” politici e mediatici) alle alleanze elettorali, agli accordi o ai mancati accordi di un polo o dell’altro o dell’altro ancora, tutti finalizzati a trovare la chiave per vincere o per non perdere troppo o per non fare vincere troppo la controparte, dove gli interessati mirano a trovare un posto nelle liste e, più ancora, all’accaparramento personale dei collegi elettorali “blindati” o delle circoscrizioni stimate come favorevoli.
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Introduzione a Tempora multa. Il governo del tempo
di Vittorio Morfino
L. BASSO , S. BRACALETTI , M. FARNESI CAMELLONE , F. FROSINI , A. ILLUMINATI , N. MARCUCCI , V. MORFINO, L. PINZOLO , P.D. THOMAS , M. TOMBA: Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013
1. Il cerchio e la linea
Si è soliti contrapporre la concezione greca del tempo a quella cristiana attraverso le metafore del cerchio e della linea: la grecità sarebbe dominata da una concezione circolare del tempo, sia naturale che storica, laddove il tempo cristiano avrebbe un’origine, la nascita di Cristo, ed un orientamento. Quanto alla grecità, la questione a guardare da vicino è più complessa1, e tuttavia è difficile negare che il cerchio sia la metafora dominante nel concepire il cammino del tempo. Certo, nel «discorso verosimile» del Timeo platonico, è affermato il primato del tempo sul movimento, nella misura in cui il demiurgo genera ‘prima’ «il tempo [come] immagine mobile dell’eternità» e ‘poi’ il movimento circolare degli astri e pianeti, come segni del suo scorrere, come unità di misura delle differenti parti del tempo, mentre nella concezione aristotelica vi è un primato del movimento sul tempo, in quanto questo è «numero del movimento secondo il prima e il poi»: in entrambi i casi tuttavia la sfera è la figura geometrica che domina la cosmologia e il cerchio quella che traccia lo scorrere del tempo. Eterna ripetizione dell’uguale, mimesi di una perfezione che Platone situa al di là del sensibile ed Aristotele nel mondo celeste. Dominanza del ciclo come paradigma non solo del tempo cosmologico, ma anche del tempo storico: basti pensare, da una parte, alla concezione stoica dei cicli cosmici secondo cui ogni evento storico si ripeterà in modo identico un numero infinito di volte e, dall’altra, alla teoria polibiana dell’anacyclosis, che, ricalcando modelli platonici e aristotelici, pensa le forme di governo in una sequenza che ritorna su stessa.
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I tortuosi sentieri della conoscenza: orientarsi nel vasto mondo
di Pier Paolo Dal Monte
Ciò che viene definito “scienza” è sempre contaminato da fallacie sistematiche sotto forma di distorsioni, pregiudizi e conflitti di ogni genere (cognitivi, culturali, economici, sociali, ecc.) che ne inficiano sempre, in modo più o meno grave,non solo l’attendibilità delle asserzioni, ma anche, la rappresentazione collettiva del concetto stesso. Per cercare di inquadrare un po’ meglio il problema, forse, è bene procedere a ritroso ed addentrarci in un regno assai più vasto, ma anche assai più difficile da definire, che è quello che riguarda il concetto di “conoscenza”, in senso più generale, e che è costituito dalle diverse facoltà e dai variegati strumenti che permettono di apprendere, di elaborare e di ordinare i diversi fenomeni che ci circondano, e di “organizzare” ciò che dentro di noi (impressioni, immagini, pensiero astratto), senza, con questo voler addentrarci troppo in tediose dispute gnoseologiche.
Cosmo e caos
Gli esseri umani, così come tutti gli esseri “senzienti”[1], possono sopravvivere solo se riescono ad orientarsi attraverso gli innumerevoli fenomeni che si manifestano nel vasto mondo tramite i diversi strumenti cognitivi. “intrinseci” a loro disposizione.
Potremmo dire, a grandi linee, che la conoscenza è la costruzione, nella mente dell’immagine a del cosmo, delle “cose visibili e invisibili” o, in altre parole, l’introiezione del macrocosmo nel microcosmo della mente individuale o collettiva[2].
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Giocare con il fuoco in Ucraina
di John J. Mearsheimer
Questo articolo di John Mearsheimer, apparso il 17 agosto su “Foreign Affairs”, ha grande importanza, e va letto e valutato con la massima attenzione, sia per il suo contenuto, sia per il significato politico che assume. Le ragioni sono le seguenti:
1. è, probabilmente, il maggiore studioso al mondo della logica di potenza. Si è diplomato a West Point, ha fatto parte dell’Esercito e dell’Aviazione degli Stati Uniti. Ha insegnato per quarant’anni all’Università di Chicago. I suoi testi sono letture obbligatorie in tutti i corsi di International Relations almeno occidentali, e nelle Accademie militari di tutto il mondo. Non ha mai cercato o accettato impegni nell’amministrazione politica degli Stati Uniti per conservare la sua indipendenza di pensiero e la sua obiettività di studioso.
2. “Foreign Affairs” è il più importante periodico specializzato statunitense in materia di politica internazionale, e viene letto da tutta l’ufficialità politica ed economica americana ed europea. Esso non solo pubblica l’articolo di Mearsheimer, ma lo pubblica in forma gratuita, accessibile a tutti, in modo da garantirgli la massima diffusione possibile; ciò che probabilmente implica una forma di convalida ufficiosa della posizione di Mearsheimer, o quanto meno la volontà del board di “Foreign Affairs” che l’articolo di Mearsheimer – un severo monito sui rischi della guerra in Ucraina, e implicitamente un preoccupato appello per un cambio di strategia – venga letto e preso in considerazione dai policymakers americani ed europei, e dall’opinione pubblica occidentale tutta.
3. L’articolo di Mearsheimer dunque si inserisce nel tentativo di forze statunitensi, tutt’altro che trascurabili, di favorire un mutamento nella strategia americana contro la Russia; come il recente intervento di Henry Kissinger sul “Wall Street Journal”[1], o la videointervista di George Beebe, Director for Grand Strategy del Quincy Institute for Responsible Statecraft[2], ex consigliere per la sicurezza del Vicepresidente Dick Cheney.
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Un capitalismo totale?
di Sandro Moiso
Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022
Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)
Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso.
All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe rappresentato l’epoca del dominio formale del capitale in quanto il prodotto delle svariate attività produttive umane (artigianali, singole, collettive e proto-industriali, se non ancora collegate a forme di conduzione della terra comunitarie o semi-comunitarie) era destinato ormai ad alimentare principalmente lo scambio di merci in un mercato in via di mondializzazione. Merci la cui funzione era quasi esclusivamente rivolta allo scambio monetario, destinato poi a far circolare altre merci secondo lo schema riassuntivo Merce (M) – Denaro (D) – Merce (M), con una crescita continua della circolazione sia delle merci che del denaro come equivalente universale.
Nella stessa epoca, corrispondente pressapoco a quella della grande espansione coloniale europea, la borghesia però non aveva ancora il pieno dominio politico della società e dello Stato, ma era ancora costretta a sottostare ad accordi, anche questi formali, con la nobiltà e l’aristocrazia terriera di cui le monarchie, nazionali o imperiali che fossero, erano espressione ed emanazione diretta.
Soltanto le rivoluzioni borghesi, o atlantiche come alcuni ebbero a definirle, avrebbero successivamente liberato, tra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, tutta le potenzialità sociali del capitale attraverso uno sconvolgimento del modo di produzione che avrebbe preso il nome di Rivoluzione industriale.
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L’indecifrabile genealogia degli anni Settanta
di Alessandro Barile (Università “La Sapienza” di Roma)
Riflessioni a partire dal libro di Marco Morra, Fabrizio Carlino, Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano, La città del sole 2020
Anni di anniversari importanti questi. Ne ricordiamo di sfuggita alcuni, che hanno stimolato riflessioni e impegnato giornali e case editrici: la Rivoluzione russa e la nascita di Marx, di Lenin e di Engels; e poi ancora, più vicini a noi nel tempo e nello spazio, la nascita del Pci, il cinquantenario del Sessantotto, dell’Autunno caldo, i quarant’anni dal 1977 o dall’assassinio di Moro. Il Sessantotto aveva forse esaurito le parole e la carta nelle stagioni precedenti, e l’anniversario si è spento nella retorica di alcuni e nell’accanimento degli altri. Eppure, ragionare sui nostri anni Settanta sembra ancora utile, nonostante l’evidente sollievo con cui se ne parla, di qualcosa cioè di sepolto, da studiare sine ira et studio (sine ira per modo di dire). D’altronde, l’unica narrazione che resiste è quella dietrologica, che insiste a chiedersi: quale è il mistero degli “anni di piombo”? Trovando nel complotto la risposta che non riesce ad accettare nella cosa, e alimentando un mercato editoriale fondato sul retroscena. Un tentativo utile per ripensare gli anni Settanta è dato dal recente lavoro di Marco Morra e Fabrizio Carlino, due giovani ricercatori che hanno raccolto una selezione di interventi svolti ad un convegno del 2018 sui cinquant’anni dal ’68, organizzato presso l’Università di Napoli Federico II. Il libro (Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano), proprio perché espressione di più voci e sensibilità, si presta ad una lettura ragionata, sollevando una molteplicità di questioni che vanno ad incidere nel rapporto tra storia e politica, investendo la riflessione sull’ultimo grande ciclo di lotte di classe del nostro paese. Proprio questo incrocio di problemi, e di tensioni, rende difficile studiare gli anni Settanta senza implicare un inevitabile posizionamento. Il confine tra ricerca storica e valutazione politica slitta continuamente, si fa poroso, s’intrufola nei giudizi o sorprende lo storico nei suoi involontari lapsus. Dunque, una storia difficile.
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La “questione comunista” e la fase che viviamo
di Fosco Giannini
“Si abbonda nei dettagli, quando a mancare è l’essenza”. È una citazione di Luigi Pintor, che invita noi comunisti italiani a non perderci in mille fumisterie, ma andare all’essenza delle cose. E tale essenza è la seguente: il movimento comunista italiano versa, oggi, in una crisi profondissima, una crisi innanzitutto teorica, ideologica e conseguentemente sociale e politica, una crisi enorme di radicamento, di militanza, di capacità di elaborazione tattica e strategica. Tutto ciò in forte e nefasta controtendenza con lo stato delle cose del movimento comunista, antimperialista e rivoluzionario mondiale che, in questa fase, governa circa un quinto dell’intera umanità e agisce positivamente su oltre la metà della popolazione mondiale e su tanta parte degli Stati del mondo.
Una crisi, questa del movimento comunista italiano, che si manifesta nel pieno della sconfitta strategica del sistema capitalista, platealmente incapace di uscir fuori dalle gigantesche contraddizioni – sociali, economiche, politiche, culturali – da esso stesso prodotte se non attraverso l’acutizzazione dello sfruttamento operaio generale e internazionale, sulla spoliazione dei popoli e attraverso le guerre.
In sintesi: è lo stesso, attuale, contesto storico e internazionale a rendere oggettivamente necessaria la presenza del partito comunista in Italia, necessitato il suo ruolo politico e sociale. Sarebbe lo stesso quadro mondiale a favorire l’unificazione e il rafforzamento del movimento comunista italiano, se ciò non fosse scientemente impedito dalla presunzione e dalla cieca ostinazione alla divisione praticata dai diversi gruppi dirigenti comunisti italiani.
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Gas: i fenomeni del "Whatever it takes"
di Leonardo Mazzei
Ci scalderemo ancora con il gas nel prossimo inverno? Probabilmente sì, ma solo chi potrà permettersi di pagarlo. Sulla disponibilità del metano scriviamo “probabilmente”, piuttosto che “certamente”, perché l’incertezza è connaturata con la situazione di guerra in atto. Certezza totale, invece, riguardo ai prezzi: se non aumenteranno, di certo non caleranno.
Un disastro targato Draghi
Il “governo dei migliori” ha già da tempo apparecchiato il disastro. Anche se piuttosto complicato, sganciarsi dalla dipendenza del gas russo è sì tecnicamente possibile, ma economicamente disastroso. Siamo in campagna elettorale, e chi volesse affrontare seriamente il tema avrebbe da dire una sola cosa di buon senso: basta con le sanzioni, torniamo a normali rapporti commerciali con la Russia!
Ma ovviamente il buon senso è proibito, ed il pensiero unico anti-russo imperversa. Il prezzo lo pagherà la povera gente.
Già nella primavera scorsa era chiaro il vicolo cieco in cui il governo Draghi stava portando il Paese. Allora imperversava la caccia al fornitore, per l’immediato e per gli anni a venire. Da qui i frenetici contatti, e gli innumerevoli viaggi del governo e dell’Eni in Algeria, Azerbaigian, Egitto, Qatar, Congo, Angola, Nigeria, Mozambico: tutti paesi produttori di gas, ma solo i primi due già collegati via tubo con l’Italia. Da qui la necessità di nuovi rigassificatori.
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Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0
di Sandro Moiso
“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)
“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe pronto a “imbracciare le armi contro le autorità”. (Gerry Freda – Il Giornale, 27 luglio 2022)
“La guerra civile è già in corso”. (Gloria Feldt, femminista americana, 26 giugno 2022)
E’ il fantasma della guerra civile che oggi sembra assumere, sempre più spesso, forme concrete e tangibili nella società statunitense. Qualcuno, gravemente contagiato dal politically correct, potrebbe affermare che ad aggirarsi nell’immaginario di quella società sia ancora e soltanto il fantasma di Donald Trump, ma in realtà quel fantasma agita le coscienze e l’immaginario americano da ben più tempo.
Almeno dagli anni che precedettero e seguirono la Guerra Civile svoltasi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865. Quella guerra che costituisce infatti, al di là di ogni retorica, il fatto politico fondamentale della nazione nord-americana, ben più della Dichiarazione di Indipendenza e della successiva guerra contro la corona britannica. Un fatto politico e militare la cui valenza mitopoietica e fantasmatica per l’immaginario collettivo fu chiaramente colta già all’epoca dal fondatore della poesia americana moderna, Walt Whitman:
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Lo statuto dell’immagine digitale
di Enrico Livraghi
Una riflessione sulla differenza ontologica tra immagine analogica e immagine digitale, e le sue conseguenze
Di tutti gli equivoci appiccicati alle nuove tecnologie, i più insidiosi sono certamente quelli relativi allo statuto della cosiddetta immagine digitale. In particolare, intorno a un tema che dovrebbe ormai essere venuto a fuoco nitidamente – quello relativo alla differenza ontologica tra immagine analogica (fotografica e fotodinamica) e immagine numerico-digitale – tali equivoci appaiono paradigmatici di una difficoltà reale nell’elaborare concettualmente un simile nodo tematico.
La critica più accorta – quella che ha percepito il problema e si è posizionata davanti a una simile (invisibile) differenza ontologica – sembra inchiodata alla questione, certo importante, della cosiddetta «verità» o «sincerità» dell’oggetto visivo, che però si mostra anche l’unico terreno sul quale la stessa critica pare disposta a spingersi e a prospettare un qualche giudizio. Si tratta, come è noto, di un semplice constatare la scomparsa della traccia, o impronta sensibile, dall’immagine digitale; traccia invece da sempre conservata nell’immagine analogica grazie alla stessa struttura tecnica dell’apparecchio di ripresa (camera, otturatore, diaframma, pellicola fotosensibile eccetera). Detto di passagio, ai fini di una definizione minimamente rigorosa, ci sarebbe da chiedersi se sia ancora appropriato – al di là dell’abitudine – chiamare foto-grafia un’istantanea scattata con una macchina mediante la quale la luce emanata dal soggetto (insieme con i suoi tratti) è calcolata e immagazzinata in un file, e non più impressa, ovvero in-scritta, necessariamente e automaticamente in un supporto sensibile.
In ogni caso, quel constatare di cui sopra è ineludibile: l’oggetto concreto – ciò che è stato davanti all’obiettivo, per dirla barthesianamente – non è affatto necessario all’immagine digitale, la quale, al contrario di quella analogica, si costituisce come potenzialmente autoreferenziale.
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Niente è risolto
di Jacques Camatte
Si conclude, con questo articolo, lo studio relativo al rischio di estinzione[1]
Gli uomini combattono, si uccidono, ma è la natura a soffrire di più: la sua distruzione aggrava il rischio di estinzione, che si accresce anche a causa della continua erosione della naturalità delle specie. - Jacques Camatte
Niente è stato risolto e, globalmente, oggettivamente, l’umanità vive nella déréliction [solitudine esistenziale, abbandono], per quanto riguarda i dominati, e nella fuga in avanti dei dominanti, che pensano, nei fatti, di scongiurare o manipolare la minaccia di estinzione.
Grazie all’uscita dalla natura, l’umanità pensava di poter sfuggire al rischio di estinzione, soprattutto con lo sviluppo del capitale, che avrebbe dovuto garantire la sicurezza, ma la morte di esso [2] e la persistenza del rischio sono la prova lampante che niente è stato risolto. Diversi fenomeni lo testimoniano.
Il covid-19 si manifesta periodicamente con grande virulenza, mentre altre malattie, come il vaiolo delle scimmie, sono in aumento.
La dipendenza e lo sradicamento accrescono la perdita dell’immunità naturale, di conseguenza aumenta l’assistenzialismo.
La siccità, che aumenta ogni anno in intensità e durata, è accompagnata da una serie di incendi sempre più distruttivi. Si può dire che, parallelamente, si assiste sempre più a sparatorie, come se l’incendio coinvolgesse la specie stessa.
La fame colpisce sempre più persone in tutto il mondo.
Rivolte, sommosse, in rapporto a un malcontento persistente, e persino crescente, in diversi Paesi.
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Caccia alle streghe: successo di una mitologia e “razionalità” politica
Lettura sotto l’ombrellone
di Gaspare Nevola
Caccia alle streghe. Imperniata su una mitologia. Su una mitologia che ottiene grande successo. E che possiede una sua sorprendente “razionalità” politica. Una storia paradossale ed enigmatica, su cui riflettere. Tra Progresso, Medioevo e Modernità
Prologo
«La natura aborre il vuoto, anche nella mente. Oggi il penoso vuoto della noia viene riempito e continuamente rinnovato dal cinema e dalla radio, dalla televisione e da giornali. Più fortunati di noi, oppure meno fortunati (chi sa?), i nostri antenati dipendevano, per il lenimento della noia, dagli spettacoli settimanali del loro parroco, completati di tanto in tanto dai discorsi dei cappuccini in visita o dai gesuiti di passaggio. La predicazione è un’arte, ed in questa, come in tutte le altre arti, i cattivi esecutori superano di gran lunga quelli buoni» (Aldus Huxley, 1952)
Oggi, settanta anni dopo, qualcosa di questo ritratto va certamente aggiornato. Rispetto agli anni ’50 dello scorso secolo, alcuni interpreti nuovi della partitura devono trovare posto. Così come è necessario tenere conto di altre arti del sapere e del dire che riempiono il vuoto della mente.
Negli scorsi giorni, sempre al riparo del sacro ombrellone, per distrarmi da una campagna elettorale tirata fino al grottesco da politici e giornalisti e compagnia cantando, ottimi interpreti della “teoria dei campi” ereditata da Bourdieu, ho letto-riletto un vecchio saggio dello storico inglese Hugh Trevor-Roper (1914-2003), La caccia alle streghe in Europa nel Cinquecento e nel Seicento, ripescata nella memoria e nella libreria. Ero studente quando lessi per la prima volta questo denso saggio, e ricordo che ne avevo scritto sul quaderno delle letture (chissà dove finito). Procederò con una certa libertà, inseguendo sfide interpretative del passato che si accompagnano a interrogativi sul presente. Cosa pretendere di più da una lettura sotto l’ombrellone e l’orizzonte oltre le onde?
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Ucraina: l’invasione del capitale
di Michael Roberts
La scorsa settimana, i creditori privati stranieri dell’Ucraina hanno accolto la richiesta del Paese di congelare per due anni i pagamenti di circa 20 miliardi di dollari di debito estero. Ciò consentirebbe all’Ucraina di evitare l’insolvenza sui prestiti contratti all’estero. A differenza di altre “economie emergenti” in difficoltà sul fronte del debito, sembra che gli obbligazionisti stranieri siano felici di aiutare l’Ucraina, anche se solo per due anni. La mossa farà risparmiare all’Ucraina 6 miliardi di dollari nell’arco del periodo, contribuendo a ridurre la pressione sulle riserve della banca centrale, che sono diminuite del 28% da un anno all’altro, nonostante gli ingenti aiuti esteri.
L’economia ucraina è, non a caso, in uno stato disperato. Si prevede che il PIL reale diminuirà di oltre il 30% nel 2022 e il tasso di disoccupazione è del 35% (Constantinescu et al. 2022, Blinov e Djankov 2022, Banca Nazionale Ucraina 2022). “Siamo grati per il sostegno del settore privato alla nostra proposta in tempi così terribili per il nostro Paese”, ha risposto Yuriy Butsa, viceministro delle Finanze ucraino, “Vorrei sottolineare che il sostegno che abbiamo ricevuto durante questa transazione è difficile da sottovalutare…”. Rimarremo pienamente impegnati con la comunità degli investitori anche in futuro e speriamo nel loro coinvolgimento nel finanziamento della ricostruzione del nostro Paese dopo la vittoria della guerra”, ha detto Butsa.
Qui Butsa rivela il prezzo da pagare per questa limitata generosità da parte dei creditori stranieri: l’accelerazione della richiesta delle multinazionali e dei governi stranieri di assumere il controllo delle risorse dell’Ucraina e di portarle sotto il controllo del capitale straniero senza alcuna restrizione e limitazione.
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Istantanee per le anime afflitte e per quelle esaltate
di Il Rovescio
Pubblichiamo anche qui l’editoriale del numero 14 (Luglio 2022) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. Il titolo è nostro
1. Excusatio non petita. È passato un anno dall’ultimo numero della rivista. E che anno. Neanche il tempo di analizzare come l’Emergenza Covid-19 stesse affondando i propri artigli nelle relazioni sociali, nei sentimenti e nei corpi, che ci troviamo ai bordi della Terza Guerra mondiale. Mentre la spirale si fa sempre più veloce nei moti e sempre più imprevedibile negli effetti, non possiamo certo far rientrare – per forza e per pigrizia – l’inedito del presente storico dentro il già-visto. Il ritardo con cui usciamo è dovuto senz’altro a una serie di cause oggettive: il sequestro poliziesco-giudiziaro di materiali preparatòri e di articoli già pronti, gli impedimenti dovuti alle varie misure repressive, gli sforzi per mantenere comunque una presenza nelle strade. Ma le ragioni sono anche e soprattutto soggettive. L’assenza negli ultimi quattro anni di una riunione redazionale – nel senso umano e non tecnologico del termine: stare nello stesso luogo e discutere ad agio e a lungo – ha avuto un effetto sullo slancio, sulla qualità e sulla puntualità delle nostre riflessioni teoriche. Siamo di fronte a un passaggio epocale che non può essere affrontato da cervelli isolati che assemblano i rispettivi contributi. Soprattutto se non si vogliono evitare le domande scomode e difficili. Soprattutto se dalle risposte si fanno discendere i necessari orientamenti etico-pratici.
Ecco spiegati la composizione e i limiti del numero che avete tra le mani. Nonché la maggiore aperiodicità che la rivista avrà in futuro.
2. «Origine è la meta». Queste parole di Karl Kraus, che ritroviamo anche nelle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, vanno oggi applicate letteralmente alle dinamiche statali. Nelle Emergenze, il dominio ricapitola la violenza della propria origine storica, che la quotidianità capitalistica e la finzione democratica riescono in buona parte, almeno alle nostre latitudini, a nascondere.
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COVID. I vaccinati si ammalano più degli altri: cosa cambia con la “scoperta” dell’ISS
di Mariano Bizzarri
Variante Omicron 5, reiterazione dei vaccini, efficacia di quelli a mRna, eventi avversi: gli ultimi studi sul Covid stanno smontando molte tesi ideologiche
È quantomeno curioso che nessuno in Italia – né enti istituzionali, né l’Accademia e tantomeno i politici – avvertano l’esigenza di promuovere un momento di riflessione pubblica su quanto è successo in Italia con la comparsa del Covid dai primi del 2020 in poi.
Eppure, tanti sono gli interrogativi sospesi – da come è iniziata l’epidemia alla tempestività e appropriatezza delle misure predisposte – e che oggi tornano ad incombere a fronte dell’incertezza delle prospettive che si profilano al nostro orizzonte. Ci sarà una recrudescenza della pandemia? Quali vaccini dovremo utilizzare? Non dovremmo sviluppare una strategia diversificata? È pronto il nostro sistema sanitario a farvi fronte?
Non sono questioni di scarsa irrilevanza ed è scandaloso che l’informazione debba limitarsi a riportare le esternazioni – spesso strampalate, quando non addirittura ispirate ad una visione catastrofista priva di qualunque fondamento – di un manipolo di esperti, invero conosciuti ormai più per le loro intemerate televisive che per le ricerche che realmente conducono in laboratorio o nei reparti.
Proviamo noi a formulare – quantomeno – le domande fondamentali.
Punto primo: è cambiato non solo il profilo epidemiologico ma anche il quadro clinico, dato che l’attore prevalente è ormai Omicron, parente alla lontana del Sars-CoV-2 che– con le sue varianti principali Alpha e Delta – ha alimentato i primi due anni di epidemia. Omicron – a prescindere dall’efficacia dei vaccini – ha considerevolmente ridotto l’impatto sul sistema sanitario perché, anche se più contagioso, si accompagna ad un ridotto tasso di occupazione dei reparti di medicina e di terapia intensiva.
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La società automatica secondo Bernard Stiegler: lo stato della mutazione
di Igor Pelgreffi
Il nostro corpo sta mutando, anche qui, ora, mentre scriviamo o leggiamo, per effetto degli automatismi, per esempio del nostro essere ora esposti a uno schermo, o all’esserlo stati così a lungo negli ultimi mesi, o anni… Che sia una sorta di mutazione antropologica – legata al digitale, ai processi generali di automatizzazione della società e ai dispositivi connessi a tali processi – dal sapore neo-pasoliniano? Forse. Vero è che anche Stiegler, come Pasolini, fa una critica alla società dei consumi dove, però, il consumo è oggi digitale, reticolato, quindi meno evidente, ma non per questo immateriale: il punto fermo è che il consumo algoritmico investe la psiche umana, dunque i corpi. I quali, appunto, si consumano in rete. Non si tratta più di un soggetto che consuma un oggetto (la merce). E non si tratta neppure di un soggetto egli stesso merce di consumo. Nella società automatica, quel che si attua è il processo definitivo e storico di auto-consumazione dei corpi, processo che paradossalmente, in definitiva, consuma la materia vivente su cui esso si sostiene.
Sarà allora la psicosomaticità diffusa, di cui ampiamente argomenta Stiegler, quella zona intermediale, cioè di inter-mediazione tra i differenti livelli del problema, la leva teorica maggiore in una riflessione sul pharmakon. Perché, indubbiamente, quel che occorre oggi è una nuova, inedita, forma di mediazione, che possa configurarsi, almeno, come rimedio minimo. Questo significa però anche che, per Stiegler, l’innesco possibile di una critica alla società automatica non potrà che transitare dal piano psico-corporeo, unica sede in cui possa aver luogo la triangolazione tra a) il tema ecologico e il “problema della natura”, b) il tema dell’automatizzazione post-industriale e c) il tema antropologico.
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Tra antirazzismo di maniera e razzismo di fatto
di Michele Castaldo
Massimo Giannini, il precoce giornalista partito giovanissimo da Repubblica e approdato a dirigere La Stampa del padrone per eccellenza, la famiglia Agnelli, in un accorato editoriale rivolge un appello a tutti i partiti ad andare al funerale, svoltisi sabato 6 agosto, del povero Alika ucciso dal bianco italiano Ferlazzo, un dissociato. Epperò la cosa suona un poco sospetta per una ragione molto semplice, perché il Giannini paragona l’uccisione del povero Alika di fine luglio 2022 a Civitanova Marche a quella di G. Floid negli Usa il 25 maggio del 2020 ad opera di un poliziotto bianco che premette per alcuni minuti il ginocchio sul collo soffocandolo nonostante che gli urlasse che non riusciva a respirare.
L’uso strumentale che ne voleva fare Massimo Giannini e tutta la stampa democratica italiana giunge piuttosto sospetta. C’è un allarme che va spiegato.
I giornali e tutti i mezzi di informazione sanno perfettamente che gli immigrati di colore vengono trattati peggio delle bestie nei lavori più umili nel nostro paese. Nei confronti delle persone di colore viene fatta un’unica distinzione che riguarda i fuoriclasse dello sport e dello spettacolo, strumenti di arricchimento di holding finanziarie e personaggi collegati a società che sfruttano la fame circense del popolo per scaricare le proprie frustrazioni.
Giochiamo allora a carte scoperte: ma a chi si vorrebbe dar da bere la frottola che gli immigrati arrivano come disperati sulle nostre coste e verrebbero salvati dalla buona volontà di volontari capitati per caso in mezzo al mare? Va bene la propaganda, ma c’è un limite a tutto.
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Chi salvò il liberalismo da se stesso
Una lettura di Ordoliberalismo di Adelino Zanini
di Lauso Zagato
Ordoliberalismo ed economia sociale di mercato sono concetti politici ed economici che tendono a essere sovrapposti, oppure relegati a una fase specifica del Novecento. In realtà, come ci spiega Adelino Zanini nel suo Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973) (Il Mulino, 2022), si tratta di sviluppi teorici e pratici distinti che arrivano fino alla crisi degli anni Settanta e continuano a essere importanti per comprendere e dunque poter analizzare criticamente – anche ponendo nella giusta luce taluni passaggi politico/giuridici rilevanti – quel processo di costruzione europea, avviluppato oggi in una crisi profonda. In questa attenta e approfondita lettura del volume, Lauso Zagato ci consente di analizzare genealogia e attualità di questi concetti, prima di Foucault e oltre Foucault.
* * * *
La nuova avventura scientifica di Adelino Zanini, cui l’Autore lavorava da tempo, pone prima facie problemi di non facile soluzione al lettore, quand’anche di formazione operaista, che non risulti sufficientemente qualificato sotto il profilo disciplinare di riferimento (la teoria economica). Forse, cresciuto nel solco dell’incontro/scontro con Keynes, egli avrà ignorato l’esistenza di un neoliberismo diverso da quello classico; ciò, almeno, fino al drammatico impatto con l’anarco-liberismo americano trionfante degli ultimi decenni. Esempio tra i tanti, chi scrive è tra costoro, e confessa di aver letto la parola ordoliberalismo per la prima volta in relazione alla formazione teorica (seconda formazione, provenendo l’interessata dalla ex Germania dell’Est e quindi essendosi inizialmente formata nel delirio del diamat) della allora cancelliera Merkel. Il riferimento costituiva una apparente giustificazione della riluttanza di costei nell’assumersi i compiti «interventisti» in materia economica che la crisi del 2008 richiedeva alla Ue e in primis al suo Stato-guida.
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La guerra sporca che si combatte intorno a Zaporizhzhia
di Giorgio Ferrari
Notizie sempre più allarmanti giungono in questi giorni dalla centrale nucleare ukraina di Zaporizhzhia dove, secondo fonti ukraine (le uniche prese in considerazione), i russi starebbero letteralmente minando le attrezzature della centrale.
Non c’è dubbio che la sorte degli impianti nucleari ukraini, data la guerra in corso, è cosa che desta serie preoccupazioni nell’opinione pubblica mondiale, ma soprattutto europea che certamente non può dimenticare i giorni terribili vissuti nel 1986 quando la nube di Chernobil investì buona parte dell’Europa centro orientale, ma anche della Bielorussia e del territorio russo confinante.
Perciò, quando i russi all’inizio della guerra occuparono militarmente il sito di Chernobil (febbraio 2022) l’incubo di quella catastrofe si ripropose in tutta la sua gravità, con l’aggravante che ai primi di marzo paracadutisti russi circondarono la centrale nucleare di Zaporizhzhia, che annovera sei reattori nucleari ed è la più grande concentrazione nucleare di tutta l’Europa.
Perché compiere una mossa così azzardata, sapendo che avrebbe oltremodo alimentato le critiche all’operato della Russia già condannata unanimemente per aver invaso uno stato sovrano?
La ridda di ipotesi che fin dall’inizio furono sviluppate dai mezzi di informazione europei convergeva, con qualche sfumatura, nell’attribuire ai russi l’intenzione di minacciare l’intera Europa attraverso una forma di deterrenza terroristica avente per oggetto la distruzione o il danneggiamento di siti nucleari. A nessuno venne in mente di prendere in considerazione l’ipotesi che l’occupazione di Chernobil e Zaporizhzhia avesse uno scopo non distruttivo, ma protettivo, forse per la consumata abitudine, tutta occidentale, di considerare i russi gente spietata e senza scrupoli.
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C’era una volta la FIAT di Bocchigliero
Dagli operai idraulico-forestali ai tirocinanti
di Eugenio Donnici
"Era na vota e mo' chest'è 'a realtà” - cantano i 99 Poss - per sottolineare che il tempo andato non torna più, non sarà più come prima, il tempo non può essere fermato e gli avvenimenti si succedono con un ritmo che ricorda il pulsare della vita. Ciò che resta nelle nostre menti e nei nostri corpi sono gli odori che si associano alle emozioni, le espressioni visive di teste parlanti, la dimensione onirica di soggetti che si muovono e interagiscono in un determinato spazio fisico, le tracce mnestiche della memoria semantica e ovviamente i segni e i simboli del linguaggio scritto.
Ed è proprio su questo sentiero che mi appresto a indagare ciò che è accaduto, il divenire dei contrasti dialettici in un determinato contesto
La dimensione diacronica del racconto, della narrazione, mette in evidenza che una serie di relazioni e interazioni reciproche non esistono più. Esse sono state trasformate, hanno subito una modifica, una variazione che ha imposto un cambiamento nella gerarchia dei valori sui quali si fonda la base riproduttiva di una determinata comunità.
Qualcosa del genere è accaduto in un piccolo Comune della Sila, ma il suo raggio d’azione ha riguardato l’intera Calabria ed è collegato a variabili esogene così come alle caratteristiche peculiari di quest’area regionale.
A cavallo tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel piccolo Comune dell’Altopiano silano, le cose non potevano andare diversamente: si seguiva il flusso delle lotte e delle rivendicazioni del movimento operaio, il quale era riuscito a spostare l’ago della bilancia a favore dei lavoratori.
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Dodici anni di distruzione economica per convincere la BCE a fare la Banca Centrale
di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)
Nonostante l'abbassamento del nostro rating da parte di Moody's, un debito che sale ed una campagna elettorale dagli esiti incerti, lo spread scende. A favorirne la discesa, sarebbe la BCE, lo dimostrano i numeri degli ultimi due mesi
Diciamolo chiaramente, per ben dodici lunghissimi anni, la paura per i tanto paventanti mantra dello “spread” e dei “mercati”, ci ha accompagnato a pranzo e cena, fino a non farci dormire nella notte.
Non passava giorno, senza che i vari e “così detti” economisti di regime di casa nostra – rappresentati in prima linea da Marattin, Brunetta ed il banchiere fiorentino Bini-Smaghi con moglie a seguito (l’economista Veronica De Romanis) – ci ricordassero attraverso i loro social o nelle loro ospitate televisive quotidiane, quanto il destino del nostro debito pubblico, fosse in mano ai mercati finanziari.
I più fervidi credenti, ha sentire tale e ripetuta predica, nelle loro preghiere serali, sono arrivati addirittura ad affiancare a Nostro Signore il “Dio dei mercati”. Sì, avete capito bene, oggi, quando parliamo con qualcuno, in particolare con chi opera nel mondo finanziario, si ha la netta percezione che molti, ancora considerino i mercati alla stregua di una divinità degna delle opere di Omero.
Il “mercato” sopra tutto e tutti e che nessuno più comandare e distruggere, insomma la paura assoluta da infondere nel genere umano e da sbandierare ogniqualvolta sia necessario per l’élite imporre qualcosa al popolo ignaro.
Dire, oggi ancora una volta: “Noi ve lo avevamo detto, che i mercati non contano niente di fronte alla potenza di fuoco di una banca centrale….!!!” – non serve a niente e fa apparire “Megas” e tutti gli studiosi della Modern Monetary Theory, antipatici e perfino narcisisti. Vi assicuro che non è così!
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Scienza e dibattito sui virus
Non abbiamo titoli per entrare nei dibattiti scientifici. Tuttavia, normalmente dotati di buon senso, interessati alla ricerca della corretta informazione, stanchi di esaltazioni e demonizzazioni, crediamo giusto evidenziare le voci che si levano dal mondo scientifico nell’intento di andare alla radice di un problema: la definizione di virus in questo caso – una cosa non da poco, visto quanto accaduto negli ultimi due anni, ma tranquillamente potremmo dire negli ultimi decenni.
La scienza, come la storia, devono almeno ogni tanto avere il coraggio di mettere in discussione le proprie verità date per scontate, rivedendo se del caso le opinioni correnti: la scienza, quella vera, è sempre progredita così facendo. Il dibattito, a questo scopo, è essenziale. Drammaticamente pericoloso accusare di revisionismo quelli che la pensano diversamente: rivedere le opinioni correnti non può e non deve essere considerata una colpa. Altrimenti il principio della libertà di pensiero si dissolve.
Una delle opinione date per scontate è appunto che i virus siano entità indipendenti, dotate di proprie caratteristiche specifiche. Essi sono concepiti, dagli scienziati che hanno maggiore audience 1, come dei potenziali aggressori del corpo umano, come tali da combattere come può esserlo un nemico che invade uno Stato sovrano.
Una visione bellicista della medicina che è alla base anche delle strategie vaccinali di questi anni: tant’è che alla fine in Italia la loro messa in opera è stata affidata ad un alto ufficiale delle Forze Armate!
Ci sembra giusto dare quindi ampio spazio ad un punto di vista diverso: che ha il pregio tuttavia di non mettere solo in discussione la vulgata corrente, ma di suggerire una sperimentazione scientifica indipendente che la possa verificare, secondo l’impostazione galileiana (di cui troppo spesso la scienza si dimentica), coerente anche con i criteri a suo tempo enunciati da Robert Koch (anch’essi forse troppo spesso accantonati).
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