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Che vita su Marx! Cronache MarXZiane n. 2
di Giorgio Gattei
Come raccontato nella Cronaca precedente, il pianeta Marx è stato individuato inizialmente per via speculativa nel 1776, poi è stato visto al telescopio nel 1868 e infine nel 1968 i marxziani sono arrivati a Bologna a prelevarmi con la loro straordinaria astronave HMS (His Marxzian’s Ship) “La Grundrisse”. Dopo di allora ho vissuto per 50 anni su quel pianeta, il cui aspetto esteriore è di essere una mezza sfera coperta da una cupola trasparente come inaspettatamente dipinto (all’alba del XVI secolo!) dal pittore fiammingo Hieronymus Bosch sulla faccia esterna del Trittico delle Delizie. E’ questa l’immagine che ho messo ad illustrazione di questa mia seconda Cronaca, ma come abbia fatto l’artista a dipingere la forma di quel pianeta prima ancora che ci si accorgesse della sua esistenza astronomica non si sa, a meno che Bosch non fosse propriamente un terrestre, bensì un marxziano già infiltrato tra noi (lascio poi alla malizia dell’osservatore decidere se nel pannello centrale del dipinto, dove è rappresentato il Giardino di quelle delizie, sia mostrata la comunanza edenica quotidiana di marxziani e marxziane di fra loro, perché su questo io non dirò niente).
Comunque, dopo l’arrivo sul pianeta Marx anch’io ho dovuto superare lo sconcerto, descritto da Ray Bradbury in Cronache marziane, che subirono i terrestri approdati nel 1999 su Marte quando, vantandosi del loro viaggio interplanetario, ricevevano dai marxiani (prima di sterminarli con una epidemia di morbillo d’importazione) la più olimpica indifferenza: «“Che cosa volete” domandò la signora Ttt. “Lei è marziana!”. L’uomo sorrise. “La parola non le è certamente familiare, dato che è una espressione in uso sulla Terra. Ma lei è la prima marziana che vediamo!”. “Marziana?” La signora Ttt inarcò le sopracciglia. “Questo pianeta si chiama Tyrr” disse lei “se proprio volete sapere il suo vero nome”. “Tyrr, Tyrr”. Il capitano Williams rise di cuore. “Che nome magnifico! Ma, mia buona donna, come mai lei parla un inglese tanto perfetto?” “Io non parlo, penso” disse la signora. “Telepatia! Buongiorno!” E sbatté loro la porta in faccia».
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Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi»
di Marco Cerotto
Quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita di Raniero Panzieri, romano di nascita e torinese di adozione, prematuramente scomparsa a soli 43 anni. È stata una figura eclettica, dal punto di vista teorico e politico: dirigente del Partito socialista, direttore di «Mondo operaio», traduttore del secondo libro del Capitale, collaborare della casa editrice Einaudi, fondatore dei «Quaderni rossi», Panzieri è stato uno dei principali intellettuali e organizzatori del movimento operaio italiano nel secondo dopoguerra. Fin dalle sue «Tesi sul controllo operaio», scritte insieme a Lucio Libertini, ha dato un contributo importante alla rilettura di Marx; analizzando l’uso capitalistico delle macchine, ha messo a critica l’ideologia oggettivistica del movimento operaio, evidenziando l’intima connessione tra scienza, tecnologia e sviluppo dei rapporti di sfruttamento. In questo articolo Marco Cerotto ricostruisce alcuni dei tratti principali della biografia politico-intellettuale di Panzieri, soffermandosi sui lasciti e sulla sua eredità. Per un approfondimento rimandiamo al suo libro Panzieri e i «Quaderni rossi», fresco di stampa nella collana Input di DeriveApprodi.
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1. La formazione politico-culturale
Raniero Panzieri, nato a Roma nel 1921, fu un militante politico del Partito socialista italiano e un raffinato intellettuale marxiano, che animerà la discussione sul controllo operaio negli anni più critici del movimento operaio inaugurando la stagione operaista italiana.
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Bordiga, il leader dimenticato
David Broder intervista Pietro Basso*
Nell’agosto scorso la casa editrice Brill ha pubblicato, nella sua collana «Historical Materialism», la prima Antologia di scritti di Amadeo Bordiga in lingua inglese: The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965). L’ha curata Pietro Basso, un marxista militante da lungo tempo, oggi redattore della rivista Il cuneo rosso. Nelle prossime settimane la sua Introduzione all’Antologia sarà pubblicata in Italia dalle Edizioni Punto Rosso.
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Bordiga è un comunista quasi sconosciuto nel mondo anglofono ma, in gran parte, lo è anche in Italia, nonostante sia stato per almeno tre anni il leader indiscusso del Partito comunista nato a Livorno il 21 gennaio 1921, esattamente un secolo fa. La storiografia del Pci lo ha addirittura tacciato di collaborazione con il fascismo, per poi condannarlo al silenzio nel secondo dopoguerra. Come mai un tale destino?
Negli anni Trenta la denigrazione di Bordiga è stata tutt’uno con la «lotta al trotskismo». La sua espulsione dal partito, nel marzo 1930, avviene per aver «sostenuto, difeso e fatte proprie le posizioni dell’opposizione trotskista». Negli anni Quaranta, in particolare dopo la fine della guerra, il gruppo dirigente del Pci era preoccupato che Bordiga riprendesse l’attività politica, conoscendo il forte ascendente che aveva esercitato sugli iscritti al partito. La rigidissima consegna fu: creare un fossato fisico, psicologico, ideologico, «morale» tra i quadri e i militanti del Pci, e Bordiga e la sua aspra critica della linea di collaborazione nazionale con i partiti borghesi e la classe capitalistica sposata dal Pci – una prospettiva che, a dispetto del nome di «via italiana al socialismo», conteneva proprio la rinuncia all’obiettivo storico del socialismo.
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Appunti critici sulla rivoluzione culturale e la dittatura del proletariato
di Bollettino Culturale
All'inizio del 1975, la cosiddetta "Campagna di studio sulla dittatura del proletariato" fu lanciata nella Cina popolare, con la pubblicazione di un dossier con estratti di opere di Marx, Engels e Lenin, oltre ai testi di Yao Wen-yuan, "La base sociale della cricca antipartito di Lin Piao", e Chang Chun-chiao,"Sull'esercizio della dittatura totale sulla borghesia".
Questa iniziativa ha avuto luogo in un momento cruciale della lotta politica all'interno della leadership del Partito Comunista, a causa del ritorno a posizioni di vertice nel Partito Comunista e nell'apparato statale, di leader che erano stati allontanati durante la rivoluzione culturale. I suoi obiettivi erano identificare le ragioni della persistenza nella formazione sociale cinese del "diritto borghese", il ruolo della lotta di classe nel corso della transizione al comunismo e i rischi di una "restaurazione capitalista" in quel periodo, nonché sostenere la validità teorica e politica dell'esercizio della dittatura del proletariato.
Questa dittatura è considerata la garanzia della transizione al comunismo e un mezzo per contenere le tendenze antisocialiste che sorgono durante questo processo. Si esercita contro la borghesia sconfitta, ma che resiste ancora al nuovo potere, e, soprattutto, contro una nuova borghesia che nasce a causa della persistenza del diritto borghese nella "società socialista", che è la sua condizione e il terreno su cui si riproduce. È così che la "limitazione del diritto borghese" diventa un obiettivo centrale della lotta di classe durante il periodo di transizione in Cina.
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L’umanità oltre la “business ontology”: reddito di base e transizione ecologica per un futuro sostenibile
di Bernardo Bertenasco
Quattro anni fa moriva Mark Fisher. Il suo Capitalist realism. Is there no alternative? è uno dei testi più forti che abbia letto per l’onestà con cui descrive i dogmi del capitalismo neoliberale post-sovietico in cui viviamo. Fisher riprende l’idea di Fukuyama, secondo il quale la caduta del muro di Berlino coincide con la fine della storia: non c’è, per ora, un’alternativa ideologica capace di contrastare quella pervasive atmosphere che si è impossessata della nostra carne e della nostra anima, fino a farci credere che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Sembra catastrofico, ma per avere nozione della perdita di controllo sulla realtà e della crisi sistemica (politica, ambientale, sociale, psicologica) in atto non dobbiamo lanciarci in possibili previsioni sul futuro, basta semplicemente rileggere la parte finale de Il secolo breve di Hobsbawm, non a caso intitolata “la frana”.
Ciononostante sappiamo che per imporre un sistema sociale, qualunque esso sia, è sufficiente presentarlo come un fatto naturale e non un valore o un’ideologia: così si è imposto il neoliberismo negli ultimi trent’anni con la sua business ontology, secondo la quale è ovvio che tutto (istruzione, sanità, spazi naturali, relazioni sociali) deve essere gestito secondo logiche aziendali.
Molto prima del covid, K-Punk (epiteto da blogger di Fisher) parlava anche della pandemia mentale, che non può essere compresa se ci ostiniamo a considerarla un fatto privato, individuale e non sociale; come tutto il resto d’altra parte.
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Abbozzo di riflessione sul PCI e sulla sua crisi
di Roberto Fineschi
Con molte riserve e ritrosie vergo queste note per il centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, non essendo io uno storico e tanto meno un esperto di questo tema specifico. Quanto segue sono riflessioni sviluppate soprattutto nella prospettiva di un conoscitore della teoria di Marx come teoria della processualità storica. Si tratta di commenti provvisori, schematici e quanto mai aperti a essere discussi. Sono riflessioni che hanno inevitabilmente sullo sfondo il presente e le sue problematiche. Il tema abbozzato è quello dello snodo degli anni settanta, la figura di Berlinguer e i cambiamenti storici allora intervenuti e probabilmente ancora irrisolti.
1. Gli anni settanta e Berlinguer come figura di un momento di svolta
Gli anni settanta sono segnati dalla strategia del “compromesso storico” che, nella mente dei suoi promotori, si reggeva su due fondamentali premesse teoriche, strategiche e di fatto:
1) la crisi del comunismo sovietico come modello di socialismo praticabile in occidente (in realtà iniziava a delinearsi l’idea della sua impraticabilità in generale): esso non funzionava in quanto autoritario (i freschi fatti cecoslovacchi del ‘68 lo avevano dimostrato) e in quanto non-europeo (impossibile realizzarlo nell’Europa occidentale con la sua complessa stratificazione sociale e le sue diffuse libertà formali);
2) il colpo di stato in Cile: una via parlamentare al socialismo non era possibile perché, anche in caso di vittoria elettorale, le forze dell’imperialismo mondiale avrebbero messo fine in forma violenta a tale esperienza.
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Dalla IBM alla Gig Economy
Tutti i modi per dividere i lavoratori
di Carlo Formenti
Nei primi anni Settanta, dopo un’esperienza di lotta sindacale nella multinazionale americana di cui ero dipendente (la 3M Minnesota), mi fu offerta la possibilità di divenire funzionario dei metalmeccanici, con l’incarico di seguire i settori a prevalente composizione tecnico impiegatizia. Per un giovane (23 anni), era una incredibile opportunità, sia di fare nuove esperienze, sia di valutare il potenziale conflittuale degli strati medio alti della classe lavoratrice che, in quegli anni (sull’onda delle lotte studentesche e operaie del 68/69), sembrava in crescita. Quindi, dopo qualche esitazione dettata da scrupoli ideologici (militavo nel Gruppo Gramsci, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare duramente critiche nei confronti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio) decisi di accettare. I compagni di organizzazione condivisero la mia scelta, anche perché la proposta veniva dalla FIM di Milano che, a quei tempi, rappresentava – malgrado l’affiliazione confederale alla CISL - la punta più avanzata del movimento sindacale “ufficiale”, tanto sul piano rivendicativo (aumenti uguali per tutti) quanto sul piano organizzativo (appoggio all’organizzazione operaia di base fondata sui delegati di reparto - Quam mutatus ab illo !).
Seguirono tre anni di preziose esperienze di lotta (sia pure soggette ai limiti di uno di strato di classe restio, per mentalità e cultura, a condividere le velleità antagoniste dell’operaio comune) che mi consentirono di allungare lo sguardo verso quell’imminente futuro di ristrutturazioni tecnico-organizzative che – assieme ai processi di finanziarizzazione e delocalizzazione produttiva – avrebbero consentito al capitale di sbaragliare il nemico di classe.
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Feudalesimo 2.0, le due anime del neoliberalismo
di Niccolò Biondi
Dopo l’assalto dei sostenitori di Trump alle stanze di Capitol Hill è arrivata la censura da parte di Facebook, Google, Twitter ed altre piattaforme agli account dell’ormai ex Presidente degli Stati Uniti: un evento che segna un salto di qualità nella gestione politica dei social network e dello spazio virtuale, e che mostra apertamente una delle dinamiche profonde che stanno portando il sistema politico occidentale verso una forma di feudalesimo 2.0 in cui, a farla da padrone, sono dei colossi economici privati che non solo sono in grado di svincolarsi rispetto alla presa dei poteri pubblici nazionali, ma che – nel caso specifico dei social network – hanno il potere di regolare, controllare e gestire quello spazio virtuale che, nei fatti, ha oggi assunto le funzioni pubbliche e politiche che anticamente erano svolte dall’agorà. Sui social network, infatti, avviene oggi la gran parte del dibattito pubblico e si forma quindi l’opinione politica dei cittadini: chi ha il potere di decidere chi ha titolo legittimo a parlare, che cosa legittimamente si può affermare e il modo in cui si può farlo (quali parole sono ammesse, quali vengono censurate, et cetera) ha de facto un potere superiore a quello dei politici e delle istituzioni pubbliche, dato che i politici e le istituzioni pubbliche si trovano a dover operare in una realtà socio-culturale (dalla cui opinione diffusa dipende la propria legittimità) i cui tratti sono definiti dal dibattito che avviene sui social network e nella forma permessa dai loro proprietari.
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Il corpo al lavoro
di Dinos Giagtzoglou
Mentre è già partita la campagna militar-vaccinale più grande della storia, in cui le multinazionali farmaceutiche e gli Stati si spartiscono i relativi interessi (i giganteschi profitti, le prime; la potenza propagandistica, la retorica nazionalista e la blindatura di ogni dissenso, i secondi), ci è parso utile ripubblicare un testo di tre anni fa, scritto nel periodo delle vaccinazioni obbligatorie introdotte dal governo italiano per conto della Glaxo. Non solo, come si legge nel testo, da tempo si brevettano e si quotano in borsa farmaci non ancora sperimentati, ma oggi, per la prima volta, si autorizza la somministrazione di vaccini mRNA – basati, cioè, sulla tecnica dell’editing genetico – dopo solo tre mesi di sperimentazioni, laddove farmaci basati sulla stessa tecnica (e rivolti a un pubblico molto più limitato) non avevano ancora ricevuto un’autorizzazione, nemmeno dopo anni di test clinici. Che si tratti di una sperimentazione biotecnologica di massa è un dato di fatto (anche in senso “clinico”). Un salto in avanti di cui nessun pensiero critico può trascurare la portata.
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Il corpo al lavoro
Il progetto finale della scienza è ormai, in modo non più occulto, il dominio totale dell’oggetto sul soggetto, della “macchina” sull’uomo, del non-essere, spacciato come dover essere, sull’essere.
G. Cesarano, E. Ginosa, L’utopia capitalista, 1969
Il contenuto reale dell’alternativa in gioco è apocalisse o rivoluzione … la rivoluzione della vita contro la morte è una rivoluzione totale, una rivoluzione biologica, definitoria delle sorti della specie.
G. Cesarano, G. Collu, Apocalisse e rivoluzione, 1973
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Il socialismo per cui dobbiamo batterci, e il partito comunista che ci serve
di Fosco Giannini
I limiti teorici, organizzativi e pratici che sono alla radice della scomparsa del Pci. Quale partito comunista serve oggi?
Ponendomi l’obiettivo di star dentro uno spazio ragionevole per poter affrontare seriamente la questione postami dall’ormai prestigioso giornale “La Città Futura” (un ragionamento sul 100esimo del PCd’I e su quale partito comunista per il presente e il futuro) non posso che preannunciare un linguaggio simile alla musica jazz, spesso basata su interi periodi sincopati.
Per ciò che riguarda l’intera storia del Pcd’I-Pci c’è innanzitutto da liberarsi da un “equivoco” che è stato ed è ancora obliquamente coltivato da alcuni dei gruppi dirigenti comunisti italiani successivi allo scioglimento del Pci: l’“equivoco” per cui la colpa dell’autodissolvimento del più grande partito comunista dell’occidente capitalistico sia stata solamente di Achille Occhetto. Credo che le avanguardie a cui posso rivolgermi attraverso “La Città Futura” sappiano già che questa “lettura” non solo è perniciosamente idealistica, ma è soprattutto brutalmente opportunista, poiché punta a deresponsabilizzare tutta la lunga fase “berlingueriana” che precede l’assassinio politico di Occhetto e a mitizzare acriticamente l’intera storia del Pci. Questo atteggiamento di rimozione è opportunista poiché tendente a ottenere il consenso (elettorale, militante) dei comunisti/e provenienti dal Pci, ed è nefasto poiché ha precluso e continua a precludere un’analisi seria della storia del movimento comunista italiano da cui possa partire un progetto di ricostruzione di un partito comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe in Italia. D’altra parte, vi saranno pure dei motivi oggettivi per i quali le formazioni comuniste italiane successive al Pci siano andate tutte incontro a sostanziali e sempre più tristi fallimenti. E la rinuncia a un’analisi senza sconti della lunga storia del dissolvimento del Pci è senz’altro uno dei motivi oggettivi del fallimento delle esperienze politiche successive a essa.
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Mi è semblato di vedele un gatto!
di Nico Maccentelli
Il balzo del gatto “rosso”
In questo periodo la Cina è balzata alla ribalta nel mondo per la sua poderosa crescita economica, con le sue svolte pianificate sia a livello interno che nei rapporti internazionali, e non ultima per la capacità di affrontare velocemente crisi d’ogni tipo, compreso quella pandemica del covid. Ovviamente il mainstream prosegue la sua demonizzazione con la stantia vulgata anticomunista, con le solite modalità di amplificare e distorcere ogni episodio repressivo, quando poi tace sui crimini in Colombia, Cile, Palestina, Ucraina, Siria, nei feudi dell’impero USA-UE-NATO. Ma in realtà si tratta di comprendere una realtà sociale e culturale nettamente diversa dalla nostra, al di là delle veline di regime. Anche nell’ambito della sinistra anticapitalista le posizioni sono variegate e spesso in polemica tra loro. Ma l’esigenza di approfondire il tema della Cina da più approcci, economico, sociale, politico e culturale è un’esigenza sempre più sentita tra i compagni: proprio oggi alle ore 15,00 è possibile assistere al forum dal titolo: La Cina nel mondo multipolare, organizzato dalla Rete dei Comunisti, su fb con interventi di spessore (1). Inoltre segnalo due contributi: l’opera di Pasquale Cicalese: Piano contro mercato (2) e per quanto riguarda la storia della Cina nel periodo della Rivoluzione Socialista (fino alla Rivoluzione Culturale inclusa), suggerisco il seminario tenuto da Roberto Sassi nel 2017 a Pisa, dal titolo: Ribellarsi è giusto! visionabile su youtube (3)
Il mio scopo in questo intervento è però quello di partire da un approccio politico, che investe la visione stessa di socialismo sulla scorta di un’esperienza in buona parte già esaurita, e che riguarda principalmente quella porzione di mondo che la vulgata borghese occidentale definisce tutt’oggi come “comunismo” e che costituiva la quasi metà del pianeta. Una porzione di mondo che comprendeva con la Cina il socialismo reale sovietico.
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La storia del Pci, fra processi di apprendimento e strategia egemonica
di Alexander Höbel
1. Una storia organica, una strategia di lunga durata
La storia del Partito comunista italiano, di cui nel gennaio 2021 si celebrerà il centenario della fondazione, è stata da sempre oggetto, oltre che di una storiografia spesso straordinaria (si pensi a Paolo Spriano ed Ernesto Ragionieri), anche di molte letture deformanti, viziate dal pregiudizio ideologico quando non dalla vera e propria incomprensione. Tale tipo di revisionismo storico applicato a una vicenda grande e complessa come quella del Pci ha conosciuto ovviamente una nuova fioritura dopo il 1989-91, trovando nuovi adepti a destra ma anche a sinistra.
La fine non esaltante del Pci, avviata dalla svolta occhettiana della Bolognina, a indotto molti a rileggere in negativo tutta quella storia, oppure a individuare questo o quel “peccato originale”, da cui sarebbe iniziata – come un processo inevitabile – la dissoluzione del partito: la “svolta di Salerno” del 1944, il “compromesso storico” ecc. La conseguenza è che la vicenda del Pci viene “fatta a pezzi”, assumendone solo alcune parti e liquidando il resto.
Non si tratta, a mio parere, di un metodo adeguato alla conoscenza storica e nemmeno al giudizio politico. Non perché, ovviamente, nell’esperienza del Pci non vi siano stati errori, debolezze, passaggi discutibili, o non si possa criticare questa o quella scelta; ma perché utilizzando tale metodo si rischia di smarrire un elemento fondamentale, che è quello della organicità dell’esperienza del comunismo italiano e di quell’italo-marxismo che ha in Gramsci e in Togliatti i suoi pilastri, ma segna di sé tutta la cultura politica e la strategia di lunga durata del Pci.
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DAD o non DAD? Questo (non) è il problema
di Antiper
Con l’esplosione della pandemia anche il mondo della scuola ha dovuto attrezzarsi e parte delle lezioni in presenza sono state sostituite con lezioni a distanza; questo ha fatto nascere uno scontro senza esclusione di colpi tra i sostenitori (della necessità) della didattica a distanza (DAD) – prudentemente rinominata nella seconda fase didattica digitale integrata (DDI) – e i suoi avversari (tra le cui fila troviamo il variegato mondo dei libertari-negazionisti, ma anche una certa parte della sinistra “radicale” che ha, ormai da molto tempo, smarrito la capacità di “cogliere il punto” in ogni situazione).
Come sempre, sarebbe stato utile evitare di schierarsi in modo aprioristico e anti-dialettico su fenomeni che in realtà hanno una portata molto più vasta di quanto possa apparire a prima vista così come sarebbe utile riuscire a cogliere le opportunità offerte dalla didattica digitale (anche a distanza) pur senza mettere in discussione l’importanza della didattica in presenza che se è superiore lo è soprattutto in quanto offre la possibilità di sviluppare relazioni sociali (piuttosto che per la sua presunta maggiore capacità di produrre conoscenza [1]). E in una società come quella in cui viviamo, in cui le relazioni sociali si impoveriscono giorno dopo giorno, è fondamentale valorizzare i momenti di incontro e di scambio non virtuali, specialmente in quella fase molto evolutiva che è l’adolescenza. La pandemia non è solo un grande problema di salute e di certo non è soprattutto un problema di mancati profitti delle imprese: è, innanzitutto, un problema di (ridotta) socialità delle persone. D’altra parte: siamo davvero convinti che il tipo di socializzazione offerta dalla scuola sia la socializzazione di cui i giovani hanno bisogno?
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Do you remember revolution?
di Maurizio Lazzarato
Dopo aver avviato in «scatola nera» una discussione, che crediamo continuerà, sul tema della crisi della militanza politica vogliamo tentare ora di avviarne un’altra sul tema connesso della bancarotta della progettualità rivoluzionaria. A mo’ di prologo a questa discussione proponiamo l’introduzione di Maurizio Lazzarato al suo libro Do you remember revolution?, di prossima pubblicazione per DeriveApprodi, che lo scorso anno aveva dato alle stampe del medesimo autore Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione.
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«Non possiamo negare che la società borghese ha vissuto, per la seconda volta il suo XVI secolo decimosesto, un secolo che spero suonerà a morto per lei così come il primo l'ha chiamata in vita. Il vero compito della borghesia è la costituzione di un mercato mondiale (…). Siccome il mondo è rotondo, sembra che questo compito sia stato portato a termine con la colonizzazione della California, dell'Australia e con l'inclusione della Cina e del Giappone. Ecco la questione difficile per noi: sul continente la rivoluzione è imminente e avrà sin da subito un carattere socialista. Ma non sarà essa necessariamente schiacciata in questo piccolo angolo di mondo, dato che il movimento della società borghese è, in regioni molto più vaste, ancora in ascesa?»
Karl Marx
Il libro nasce come commento a queste poche righe di una lettera di Marx a Engels, datata 8 ottobre 1858. Marx fissa il quadro della rivoluzione: il mercato mondiale. Lo spazio dove scoppierà: l’Europa. La forza soggettiva che la porta e l’incarna: la classe operaia.
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Il contesto socio-economico della nascita del PCd’I
di Domenico Moro
La nascita di una nuova organizzazione dipende non solo dalla volontà soggettiva di chi la fonda ma anche dal contesto socio-economico. Lo stesso avvenne per la nascita del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) nel gennaio di cento anni fa e per questa ragione è utile descrivere, sia pure per sommi capi, il contesto nel quale il partito fu fondato. La nascita del Pcd’I non sarebbe pienamente comprensibile al di fuori della tendenza imperialista dell’Italia, della guerra mondiale, della crisi economica e sociale successiva e del biennio rosso.
L’Italia imperialismo fragile ma aggressivo
L’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento assunse una fisionomia da Paese imperialista, in contemporanea al diffondersi dell’industria pesante e alla formazione di grandi concentrazioni di potere industriali-finanziarie. La svolta decisiva per il “decollo” dell’industria italiana avvenne tra il 1899 e il 1915, nel periodo cosiddetto giolittiano, dal nome del politico, Giovanni Giolitti, che fu egemone in quel periodo storico. Momento importante di questo periodo fu la guerra contro la Turchia (1911-1912), che, oltre a portare l’annessione come colonia della Libia, aprì le porte ad una rapida penetrazione italiana nei Balcani e persino in Asia Minore.
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La crisi politica e le trame dell’austerità
di coniarerivolta
Mentre la curva della pandemia non accenna a dare segnali di tregua e le conseguenze economiche della crisi sanitaria si fanno sempre più drammatiche – come segnalano ad esempio le ultime stime del MEF, che indicano una disoccupazione oltre il 12% nel 2021 – una imminente crisi di Governo ha catturato ormai da diversi giorni il centro del palcoscenico. Il redivivo Matteo Renzi, leader di Italia Viva, sembra davvero intenzionato a far cadere il Governo Conte Bis, lamentando una serie di gravi mancanze dell’Esecutivo nella gestione degli ultimi mesi. Renzi e la sua ciurma, infatti, ribadiscono a ogni occasione che la loro battaglia non è per una poltrona in più ma esclusivamente sui contenuti, sulle idee, sui valori!
A onor del vero, dal ponte sullo Stretto ad Autostrade, pochi sono stati gli ambiti che sono stati risparmiati da una sparata estemporanea. Ma, volendo identificare quello che sembra il tema che sta più a cuore ai nostri, la principale accusa scagliata da Renzi contro il Governo di cui fa parte riguarderebbe il mancato accesso ai fondi del cosiddetto MES sanitario.
Renzi e il MES sanitario: una bugia dalle gambe corte
Renzi ha, infatti, rispolverato il tema della necessità di ricorrere al MES per incrementare la spesa sanitaria, assumere più personale e comprare più materiale, arrivando addirittura a dichiarare che se avessimo fatto ricorso al MES sei mesi fa ad oggi avremmo più persone vaccinate.
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Incroci, corrispondenze, potere, tecnologia: social e censura
di Alessandro Visalli
Meryle Secrest, in una biografia del 2019[1], tratteggia da consumata professionista quale è lo straordinario cespuglio di coincidenze, intrighi, interessi e casi che fermarono, tra il 1959 ed il 1963 la possibilità che il significativo vantaggio acquisito nello sviluppo dell’information technology di massa da un’innovativa e influente azienda italiana, ed il suo creativo management tecnico, producesse effetti imprevedibili e mettesse in prospettiva a rischio la stessa egemonia americana. Si tratta di una nuova biografia di Adriano Olivetti che descrive la parabola della fabbrica, dalla fondazione da parte del socialista Camillo, padre di Adriano, fino alla gestione de Benedetti, dal 1978. L’azienda cresce nel settore apparentemente marginale delle piccole macchine per ufficio e si fa strada grazie ad un mix straordinario di innovazione tecnica, sagacia imprenditoriale, cura per la qualità e il design, amore per il territorio e attenzione al fattore umano. Non è la sede di richiamare questi aspetti, per i quali rimando ai post[2] scritti sul tema.
L’azienda cresce, sotto la guida di un sognatore pratico e non esente da capacità di adattamento anche nelle relazioni politiche e internazionali. Negli anni del fascismo Adriano, che accompagnerà personalmente l’amico Turati fuori del paese, riesce infatti, pur essendo di origini ebraiche, a conservare un rapporto con il regime mentre lavora segretamente alla sua caduta. Triangolando con i servizi angloamericani dell’Oss, in particolare con una figura chiave come Angleton, con lo pseudonimo di mr Brown, si impegna negli ultimi anni della guerra a tessere una rete di contatti trasversale, tra i partiti antifascisti in Italia e all’estero, e rapporti con rami della famiglia reale, per cercare di favorire la caduta del regime.
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La Cina di Marx
di Donatello Santarone
Due sterline ad articolo: tanto era il compenso che Karl Marx, «il nostro corrispondente da Londra», percepiva per i suoi densi e documentati articoli sul quotidiano statunitense «New York Daily Tribune», articoli che spaziavano dalla schiavitù in America al Risorgimento italiano, dalle guerre dell’oppio in Cina al colonialismo britannico in India, dalla servitù della gleba nella Russia zarista alla guerra di Crimea, dalle dittature borghesi di Napoleone III (1808-1873) e Lord Palmerston (1784-1865) alle crisi finanziarie e commerciali dei principali paesi europei.
La «New York Daily Tribune» fu fondata nel 1841 come giornale della componente di sinistra del partito whig americano. Nei decenni Quaranta-Cinquanta si distinse per la campagna antischiavista, e negli anni in cui vi collaborarono Marx ed Engels era l’organo del partito repubblicano statunitense. Marx dall’inizio del 1853 scriveva gli articoli direttamente in inglese e alcuni venivano talvolta pubblicati senza l’indicazione dell’autore. Ma le indicazioni contenute nei taccuini in cui Marx e sua moglie Jenny annotavano la data di stesura o di spedizione dei singoli articoli e quelle presenti nella corrispondenza di Marx ed Engels negli stessi anni consentono di individuarne, al di là di ogni dubbio, la paternità letteraria. Gli articoli di Marx, inoltre, subivano spesso più o meno pesanti interventi redazionali.
La «Tribune» è stata fondata da Horace Greeley nel 1841 come organo militante delle cause progressiste, benché con un particolare carattere americano e cristiano. […] Durante il periodo in cui egli [Marx] vi scrisse, il giornale contava più di 200.000 lettori ed era il quotidiano più diffuso nel mondo in quel periodo.
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Il punto sulle cure e sui vaccini
Francesco Servadio intervista il prof. Marco Cosentino
A quasi un anno di distanza dall’inizio della pandemia di coronavirus, non ci è dato ancora di intravvedere una via d’uscita: malati, decessi, ospedali perennemente in affanno, oltre a una crisi economica che si preannuncia catastrofica, sono gli elementi molto inquietanti che si profilano per i prossimi mesi di questo 2021, allineato perfettamente al 2020 appena conclusosi. A fare il punto sull’emergenza sanitaria, sulle terapie e sui vaccini contro il Covid-19 è il medico Marco Cosentino, dottore di ricerca in Farmacologia e Tossicologia, nonché professore ordinario di Farmacologia presso la Scuola di Medicina dell’Università dell’Insubria, dove dirige il Centro di ricerche in Farmacologia Medica. Il professor Cosentino è inoltre autore di centinaia di pubblicazioni su riviste internazionali, di libri e capitoli di libri, inerenti la fisiopatologia e la farmacoterapia di malattie del sistema nervoso e del sistema immunitario, la farmacologia clinica, la farmacogenetica e la farmacovigilanza.
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Professore, la terza ondata pare ormai inevitabile. Tuttavia il mainstream si sofferma quasi esclusivamente sul vaccino, non ancora disponibile per tutti, anziché sulle cure. Cosa sta succedendo?
“Si evidenzia senza ombra di dubbio un problema di natura organizzativa e strategica. Ad un anno ormai quasi compiuto dalla manifestazione della vicenda, le strutture e attività, nonché il modus operandi del sistema sanitario proseguono, tuttavia, come se l’emergenza fosse appena stata dichiarata.
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Cento anni fa nasceva a Livorno il partito rivoluzionario della classe operaia italiana
di Eros Barone
Dedicato ad Antonio Montessoro 1
1. Una crisi postbellica oscillante tra rivoluzione e reazione
L’Italia venne a trovarsi, negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, in una posizione intermedia tra la relativa stabilità delle potenze vincitrici (Francia e Gran Bretagna) e la totale disgregazione degli imperi centrali. In effetti, la guerra aveva impoverito i popoli e ridotto la loro capacità di acquisto, il che si constatava in Italia anche meglio che altrove. La scena politica italiana vide pertanto un lungo succedersi di agitazioni sociali, che assunsero a volte un carattere prerivoluzionario. Le basi stesse dello Stato liberale furono colpite da un processo di erosione, che compromise la legittimità della vecchia classe dirigente sottoposta, da un lato, alla spinta rivoluzionaria delle masse proletarie radicalizzate e, dall’altro, alla mobilitazione nazionalista dei ceti medi e degli ex-combattenti. Di fronte all’esplodere del conflitto sociale sull’intero territorio nazionale (il numero degli scioperi nel 1919 fu superiore del 112% rispetto a quello del 1914, ma quello degli scioperanti risultò addirittura cresciuto del 500%), il padronato non riuscì a costruire una linea di resistenza e preferì cedere sul piano delle rivendicazioni salariali al fine di evitare una radicalizzazione politica dello scontro. La spina dorsale di questo possente movimento di massa era costituita dai settori della classe operaia maggiormente coinvolti nella ristrutturazione bellica: i metallurgici e i tessili. In questi settori, dove più radicate erano le avanguardie storiche del movimento sindacale, ma dove, nel contempo, maggiore era stata l’immissione di forza-lavoro nuova, proveniente dalle campagne, si compiva quel processo di unificazione della classe operaia che imprimeva il suo sigillo alla fase ascendente del ciclo.
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Brigate Rosse, la parte dannata della storia
di Geraldina Colotti
Durante il secolo scorso, l’Italia non ha avuto soltanto il più grande Partito comunista d’Europa e il più grande sindacato d’Europa, ma, per quasi un ventennio, anche l’estrema sinistra più forte d’Europa. Un fermento esploso con il ’68, ma incubato nell’insofferenza crescente verso la linea dell’accomodamento nel recinto delle compatibilità “democratiche” portata avanti dal Pci.
Un processo che, per strappi e rotture, ha prodotto una critica a 360° della società borghese, presente nei diversi tentativi politici di costruire un’alternativa alla linea del “compromesso storico” e dell’“eurocomunismo”: la “stagione dei gruppi extraparlamentari”, un tentativo di costruzione di un partito di massa (Lotta Continua), e anche la formazione di un’opposizione armata.
Quello della nascita e dello sviluppo di una lotta armata durata quasi vent’anni, è un “rompicapo” che non si spiega attingendo meccanicamente ai “classici” del marxismo, ma neanche abbandonandosi all’interpretazione dietrologica di chi, facendo spallucce alla storia, cerca in questo modo di evitare l’analisi materialistica di quell’insorgenza, e quella della sconfitta di tutte le ipotesi scese in campo nel grande Novecento.
Occorre invece guardare in faccia la realtà delle cose: quando i comunisti non hanno più alcuna capacità di incidere nella realtà del paese, quando concetti che un tempo univano, oggi appaiono motivi surreali di divisioni interne, quando persino la proposta di un riformismo conseguente è scomparsa dall’orizzonte politico concreto, non è possibile “cavarsela” con le teorie dei tradimenti dei capi, o con quelle delle dietrologie e dei complotti.
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MMT: il mito della riserva federale
di Leo Essen
I
Gli Stati Uniti d’America, dice Stephanie Kelton (Il Mito del Deficit), sono ricchi di risorse reali – tecnologie avanzate, forza-lavoro istruita, macchinari, suoli fertili e un’abbondanza di risorse naturali. Abbiamo la benedizione di avere tutto ciò che conta in quantità sufficienti - dice. Possiamo costruire un’economia che offra a tutti la possibilità di vivere una vita degna, non dobbiamo fare altro che orientare il bilancio pubblico in funzione delle risorse reali.
Senza soldi queste risorse rimangono inutilizzate – ferme. Senza una domanda sufficiente i lavoratori rimangono disoccupati e i macchinari si arrugginiscono nei capannoni e i laureati vanno a fare gli spazzini. Poiché solo lo Stato può immettere moneta in circolazione, tocca allo Stato fare la prima mossa.
Ma quanti soldi può far girare lo Stato? C’è forse un limite, o può operare incondizionatamente?
Un limite c’è, dice Stephanie Kelton, e si chiama inflazione. Come si insegna agli studenti del primo anno di economia, dice, l’eccesso di spesa pubblica si manifesta come inflazione. Un deficit è la prova di una spesa eccessiva solamente se innesca spinte inflazionistiche.
Il bilancio dello Stato non funziona come il bilancio di una famiglia. Esso è solo uno strumento per regolare la quantità di moneta in circolazione. E la prova che questo bilancio è stato gestito male è la disoccupazione.
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Quando a dichiarare lo stato di emergenza sono i giganti del web
di Carlo Formenti
Nel primo decennio del Duemila mi ero concentrato sull’analisi dell’impatto della rivoluzione digitale su economia, politica e cultura, pubblicando, nell’ordine, Incantati dalla Rete (Cortina, 2000), in cui analizzavo il retroterra culturale (un mix di ideologie libertarie e New Age) dei manager della Net Economy; Mercanti di futuro (Einaudi 2002), dedicato al ruolo delle nuove tecnologie nel processo di finanziarizzazione dell’economia globale; Cybersoviet (Cortina 2008), una critica delle profezie sulle magnifiche sorti e progressive della democrazia di Rete, e Felici e sfruttati (Egea 2011) in cui indagavo i dispositivi di integrazione di consumatori, lavoratori autonomi e classi “creative” nel processo di valorizzazione delle Internet Company. Questa quadrilogia può essere descritta, in sintesi, come un’opera di decostruzione delle illusioni che le sinistre postmoderne hanno a lungo coltivato - e tuttora coltivano (ma io stesso le avevo in parte condivise fino alla fine dei Novanta) – sulla presunta capacità delle nuove tecnologie di agire da fattore di democratizzazione dei sistemi produttivi e sociali.
Negli ultimi dieci anni mi sono occupato solo saltuariamente, e mai in modo sistematico, di questi argomenti , preferendo dedicare la mia attenzione alle forme inedite che la lotta di classe veniva assumendo con l’aggravarsi della crisi sistemica e alle strategie messe in campo dalle élite dominanti per conservare la propria egemonia.
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Suggestioni pansalutistiche
di Francesco Maimone
Tra negazione della costituzione e sue interpretazioni patafisiche. Cattivi presagi. Pubblichiamo questo importante post di Francesco Maimone, prima parte di un approfondimento che appare importante e necessario in questo peculiare momento storico
“… se gli uomini dei Paesi occidentali non vogliono trovarsi un giorno in una di quelle mostruose società descritte nei romanzi avveniristici, … società d’insetti specializzati, gerarchizzati e indifferenti, bisogna che procedano ad un vasto rinnovamento della loro concezione e della loro pratica della democrazia”
[L. BASSO, citando P. Mendès France]
1. L’“emergenza” Covid-19 ha innescato la prevedibile propaganda pro vaccini più di quanto non sia avvenuto per l’adozione del “Decreto Lorenzin” (D.L. 7 giugno 2017 n. 73, convertito in L. 31 luglio 2017, n. 119). E poiché ci è stato detto che “Lascienza non è democratica” (qui, p.6), gli espertologi di turno si stanno cimentando nel perfezionamento della loro comunicazione da consegnare di volta in volta alla grancassa mediatica, esternando vieppiù con precisione anche i metodi che secondo loro andrebbero utilizzati contro i riottosi “negazionisti no-vax” che osassero soltanto pensare di rifiutare l’iniezione. A tale riguardo, taluno ha voluto farci sapere, con piglio arcigno e senza pregiudizi, che “… Quelli che lavorano contro i vaccini, quelli dovranno essere zittiti, non bisognerà nemmeno dargli il diritto di parola, da nessuna parte…davvero questa volta non scherziamo più”; qualcun altro, in stile altrettanto pacato e liberale, ha invece affermato: “… Io penso che lo Stato prima o poi dovrà prendere per il collo alcune persone per farle vaccinare”.
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Pci: le lezioni di una storia
di Adriana Bernardeschi e Ascanio Bernardeschi
L’abbandono dei principi fondativi del partito di Gramsci è alla radice della fine del Pci. Come superare l’attuale frammentazione dei comunisti e rilanciare il loro protagonismo nella società italiana
Come premessa a questo contributo in occasione del centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, c’è un aneddoto personale che ci fa piacere condividere e che ci pare sia significativo per comprendere, pur nella complessità di quell’esperienza e nelle sue contraddizioni, la sua grandezza. Durante l’ultimo congresso, quello di scioglimento del partito, nostra madre/nonna, in un momento di attesa durante lo svolgimento dei lavori e delle votazioni nella sezione locale della nostra piccola città, in piedi, irrequieta, l’aria tetra e mesta, disse queste parole: “Stiamo facendo la veglia al morto”.
Non dimenticheremo mai quell’immagine e quelle parole, ricche di significato nella loro tragica semplicità. Perché quella semplice frase restituisce la misura di cosa abbia rappresentato quel partito per la generazione dei partigiani, di chi spendendo la propria gioventù per sconfiggere il fascismo, con indicibili sacrifici, ha considerato l’attività politica per la liberazione dell’uomo, per il comunismo, come qualcosa di inscindibile dal proprio scopo di vita.
Quel partito per loro era una famiglia. I compagni e le compagne di partito un’umanità di cui fidarsi per lo scopo – e il tipo di morale che guidava la loro vita – che li accomunava. Era la possibilità di agire concretamente dal basso in vista di un orizzonte altissimo, di un mondo nuovo da costruire per gli uomini e le donne di domani. Era in definitiva il senso del proprio operare. La militanza politica in quel partito e le speranze che questa alimentava erano per gli uomini e le donne di quella generazione di comunisti assolutamente sovrapposti al senso stesso della propria esistenza.
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