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Incroci, corrispondenze, potere, tecnologia: social e censura

di Alessandro Visalli

Olivetti Programma 101 Museo scienza e tecnologia MilanoMeryle Secrest, in una biografia del 2019[1], tratteggia da consumata professionista quale è lo straordinario cespuglio di coincidenze, intrighi, interessi e casi che fermarono, tra il 1959 ed il 1963 la possibilità che il significativo vantaggio acquisito nello sviluppo dell’information technology di massa da un’innovativa e influente azienda italiana, ed il suo creativo management tecnico, producesse effetti imprevedibili e mettesse in prospettiva a rischio la stessa egemonia americana. Si tratta di una nuova biografia di Adriano Olivetti che descrive la parabola della fabbrica, dalla fondazione da parte del socialista Camillo, padre di Adriano, fino alla gestione de Benedetti, dal 1978. L’azienda cresce nel settore apparentemente marginale delle piccole macchine per ufficio e si fa strada grazie ad un mix straordinario di innovazione tecnica, sagacia imprenditoriale, cura per la qualità e il design, amore per il territorio e attenzione al fattore umano. Non è la sede di richiamare questi aspetti, per i quali rimando ai post[2] scritti sul tema.

L’azienda cresce, sotto la guida di un sognatore pratico e non esente da capacità di adattamento anche nelle relazioni politiche e internazionali. Negli anni del fascismo Adriano, che accompagnerà personalmente l’amico Turati fuori del paese, riesce infatti, pur essendo di origini ebraiche, a conservare un rapporto con il regime mentre lavora segretamente alla sua caduta. Triangolando con i servizi angloamericani dell’Oss, in particolare con una figura chiave come Angleton, con lo pseudonimo di mr Brown, si impegna negli ultimi anni della guerra a tessere una rete di contatti trasversale, tra i partiti antifascisti in Italia e all’estero, e rapporti con rami della famiglia reale, per cercare di favorire la caduta del regime.

È in questo contesto che incontra figure ambigue, a cavallo tra i diversi fronti come quel Beltrami[3] che lo accompagnerà nel suo ultimo viaggio ed avrà un ruolo di primo piano nella ristrutturazione dell’azienda dopo la sua morte.

In questo contesto Adriano Olivetti negli ultimi anni avvia il “laboratorio”, affidato a Perotto, a suo figlio Roberto ed a un geniale ingegnere-manager italocinese, Mario Tchou. Nel contesto di un mondo nel quale cresceva lo scontro tra i blocchi, Roberto, Tchou e il gruppo di ingegneri scapigliati raccolti nel “laboratorio”, con pochi mezzi e quasi di nascosto, sviluppano prima la Elea 9003, il primo computer a transistor della storia, e poi, dopo la morte di Adriano e Tchou, la P101, il primo personal computer programmabile da scrivania della storia. Inoltre, imperdonabilmente, l’Olivetti sotto la guida di Adriano acquista la principale società americana nel settore delle macchine da ufficio, la Underwood e, non contenta, punta ad aprire i mercati russo e cinese. Mentre la contrapposizione esplode Tchou fa il suo ultimo viaggio di lavoro ad Hong Kong, con l’intenzione di entrare in Cina per chiudere accordi di vendita, e Adriano lavora al mercato russo.

Adriano Olivetti muore improvvisamente, non ancora sessantenne, mentre sta andando in treno in Svizzera come prima tappa per raggiungere il quartier generale della Underwood, di cui ha perfezionato l’acquisto. Mario Tchou muore, appena un anno dopo, al ritorno da Hong Kong a causa di un incidente d’auto.

Pochi anni dopo l’Olivetti presenta la P101 in America e ottiene un enorme successo di pubblico e critica. La macchina stava in una scrivania, poco più grande di una macchina da scrivere, costava 3.000 dollari e ne furono venduti 44.000 esemplari. Mio nonno, che aveva una piccola fabbrichetta di lenti a Roma, ne aveva una sulla scrivania. La concorrenza erano le macchine del Watson Laboratory della Columbia, che costavano 7.000 dollari ed erano grandi come un armadio. Oppure il British Kenbak-1 (considerato in genere il “primo” personal computer) che arriva nel 1971 e vende solo 250 unità.

L’Apple arriva nel 1976. Il primo Pc della Ibm nel 1981, avevo venti anni e mio padre lo comprò subito.

La macchina della Olivetti aveva dei difetti (mancava lo schermo, come del resto al Kenbak-1) ma aveva un quindicennio di vantaggio, ed era un vero prodotto commerciabile.

C’era un problema: l’Italia aveva perso la guerra e restava sotto tutela americana. Gli era proibita la ricerca militare o di possibile uso militare. L’informatica lo era. L’Ibm aveva prodotto fino ad allora i suoi computer mainfream, dagli anni della guerra di Corea, e anche prima le schede perforate, con scopi essenzialmente militari. Servivano a organizzare i bombardamenti, tenere traccia dei flussi e della logistica, guidare i missili balistici (per i nazisti, ottimi clienti dei sistemi di catalogazione della società americana, per tenere conto della presenza degli ebrei[4]). Tutta l’information technology nasce come applicazione indissolubilmente militare e civile ed è al centro degli sforzi per conservare ed accrescere il vantaggio strategico con l’avversario sovietico.

Tuttavia, sapendo che il settore delle macchine da ufficio meccaniche sarebbe terminato Adriano impegnò l’azienda in questo settore, sperando che i suoi consolidati contatti con gli ambienti angloamericani (i suoi contatti di guerra erano saliti nel frattempo ai vertici dell’amministrazione spionistica e militare Usa) potesse lasciargli spazio. Sperava di avere spazio in quanto l’azienda operava nel settore delle piccole macchine per ufficio e produttività personale.

Sarà un errore di valutazione tragico. Mentre si restringevano gli spazi di dialogo, gli Usa guardarono con preoccupazione crescente alla forza delle sinistre socialiste e comuniste (con le quali la famiglia socialista, se pur non marxista, degli Olivetti aveva rapporti strettissimi e pluridecennali), e mentre era in corso una feroce lotta per la supremazia tecnologica, i servizi vennero a sapere che la società trattava con le potenze comuniste per vendere le proprie tecnologie.

Nel 1975 il senatore Church, che presiedeva una commissione di inchiesta sulle pratiche della Cia, mostrò una pistola a pressione con la quale si potevano iniettare a distanza dei microdardi con una tossina in grado di simulare un infarto mortale. La Cia ne faceva uso per le sue operazioni mirate. La Secrest, che è uno scrittore americano e specializzato in biografie, ipotizza quindi che possa essere stata impiegata per fermare l’imprenditore piemontese.

Di fatto l’Olivetti non sfruttò il suo vantaggio e perse l’iniziativa. Alla morte di Adriano (e di Tchou) iniziò una crisi di liquidità provocata da una congiuntura sfavorevole e resa acuta dalla restrizione improvvisa del credito bancario, e la politica democristiana impose il “salvataggio” orchestrato da Cuccia. Fu organizzato un “gruppo di intervento” (con in primo piano la Fiat di Valletta, ovvero l’esatto opposto della filosofia imprenditoriale degli Olivetti) che in pochi anni smantellò tutto. Ovviamente a partire dalla divisione elettronica.

Non doveva ripetersi che una società italiana si permettesse di sfidare i colossi americani in una tecnologia di punta. Questa era, alla fine, anche l’opinione di De Benedetti quando ne prese il controllo e cercò di rimetterla nel settore, ma ormai troppo tardi.

Perché è utile ricordare queste vecchie storie? Per collocare nella corretta dimensione la traiettoria dello sviluppo tecnologico nella sua frontiera avanzata. Prima lo sviluppo di sempre più potenti sistemi di calcolo fornì un vantaggio competitivo ai grandi utenti (a partire dall’esercito) ed al sistema delle grandi imprese multinazionali, ampliando il divario e consentendo ulteriori incrementi di scala del capitale monopolistico, poi si estese capillarmente nel sistema produttivo, conducendo con sé di necessità una via via crescente uniformazione di linguaggi, pratiche organizzative, meccaniche sociali di relazione. Quindi entrò nella vita quotidiana dello strato borghese e piccolo borghese della società, colonizzandole l’immaginario. Con la nascita della telefonia mobile e la rivoluzione dei cosiddetti “smartphone” (dal 1993, ma poi accelerò dal 2007 con l’I-Phone) si estese progressivamente a tutti i livelli di reddito. A quel punto, sulla base di un’infrastruttura diffusa di sistemi informatici e reti, è emerso, sotto la costante protezione e sostegno del committente militare, il sistema di comunicazione capillare ed invasivo nel quale viviamo.

Tutto questo resta rigorosamente in mano, da sempre, di pochissime grandi aziende multinazionali, ed è in grado di esercitare la più ferrea forma di monopolio (o monopolio/monopsonio), se pure con qualche staffetta. Intel (il primo microprocessore, 1971), Xerox (linguaggio di programmazione), Apple, Microsoft (1975), Commodore (1984), Ibm, ed intanto Arpanet (dal 1973) e Internet, circa un ventennio dopo. Arrivano quindi i motori di ricerca, Netscape e poi Google (1998), i portali di commercio (Amazon nasce nel 1994), ed infine i social (Facebook, 2004; Twitter, 2007). Con il crescere della potenza di immagazzinamento e di trasmissione aumenta costantemente l’accentramento, il cloud computing, e il software as service, con l’immane possibilità di gestire big data. Sono solo le evoluzioni più recenti, ben altro sta arrivando.

Nella prima fase di questo potente sviluppo è parso che l’insieme di società concentrate nella “silicon valley”[5] fossero mosse da uno spirito libertario, anti-gerarchico, comunitario ed universalista ad un tempo, progressista e modernista. Si parlava di comunità hacker, di open-source, di lavoro “cognitivo” e di superamento dello sfruttamento.

Ad un ventennio di distanza troviamo che la freccia è caduta dove era stata mirata: un pugno di società potentissime, strettamente connesse con l’alta finanza che le ha prodotte e coltivate (ogni società del gruppo ha in comune di aver avuto per decenni credito illimitato a disposizione per travolgere ogni concorrente possibile, in patria e soprattutto all’estero), controllano il mondo. Almeno tutta quella parte del mondo nella quale vengono fatte operare[6].

Arrivano ormai, operando anche qui su commissione politica, a silenziare senza alcuna mediazione e senza dover dare conto anche il presidente degli Stati Uniti pro tempore. Ma, più diffusamente e ordinariamente, ormai anche milioni di persone possono essere staccate da quella enorme ed indispensabile infrastruttura di comunicazione che li fa esistere socialmente. Questa è la forma di dipendenza che è stata coltivata, al fine di sfruttarla commercialmente e politicamente. Questo il potere che ne deriva.

L’ostracismo che ha colpito la figura (che non approvo in alcun modo, sia chiaro) del presidente americano e molti dei suoi supporter è caduto come una mannaia senza preavviso. Sono stati sospesi tutti gli account social, le app utilizzate in alternativa a questi sono state espulse dagli “store” (anche essi monopoli) e anche dai Cloud (dal principale, quello di Amazon, e da tutti gli altri), le pagine non sono più indicizzate da Google, addirittura gli hanno chiuso le carte di credito. Insomma, le aziende della rivoluzione informatica e della rete si sono comportate come un sol uomo. Condividendo la medesima cultura e rispondendo al medesimo grumo di interessi.

Si tratta di qualcosa di impressionante, per ottenere la quale si poteva ben fare qualche lontana forzatura nei turbolenti anni sessanta.

Considero Trump e la destra americana (come quella europea) un nemico politico. Giudico l’atteggiamento complottista, in tutte le sue forme (no vax, no covid, no 5G, Q anon) una grave regressione e una forma reattiva di distorsione e deviazione di energie che dovrebbero essere impiegate diversamente. Non la considero in alcun modo e forma un’espressione antisistemica, ma, al contrario, una forma di narcotizzazione particolarmente subdola.

Tuttavia la vicenda emersa alla piena luce non riguarda affatto un politico ripugnante, e tutto sommato (anche se qui la cosa si fa davvero delicata) neppure solo i suoi milioni di supporter: riguarda tutti noi. Perché mostra come i monopoli tecnologici che decenni di attenta pressione imperialista statunitense ha creato rispondono esattamente al suo scopo: controllare automaticamente qualunque processo sociale, senza bisogno di espliciti ed imbarazzanti ordini politici. E farlo da pochissime stanze evidentemente ben coordinate. E mostra, per usare le parole di Andrea Zhok[7], che “come ora stiamo serenamente ammettendo, dopo averlo negato o nascosto per anni, questi monopolisti non sono affatto 'neutrali uomini d'affari' (ne fossero mai esistiti), ma soggetti politicamente attivi”. Inoltre fa vedere che sono pochissimi, concentrati, omogenei.

C’è da dare ragione alle teorie del complotto.

Peccato che non sia affatto un ‘complotto’, ma semplicemente un ‘progetto’. Contemporaneamente pianificato e organizzato nell’arco di decenni ed emerso adattivamente dalla struttura degli interessi e dalla dinamica delle forze che operano in quella che Samir Amin chiamava “la triade”[8]. Il controllo del mondo passa per il monopolio della forza, certo, per la disponibilità dei mezzi di pagamento, ovviamente, ma anche e sempre più per il controllo dell’informazione, per la possibilità di scegliere cosa esiste, cosa non deve esistere. Per il potere, immane, di scegliere il vero.

Come scrive Carlo Formenti in un suo post:

“L’atto di forza di re Zuckerberg e degli altri monarchi della Rete è un atto politico, perché questi monarchi privati, che apparentemente non rispondono a nessun’altra regola di quelle che loro stessi si danno, sono tutti, guarda caso, americani. Il loro potere è cresciuto all’ombra del potere imperiale statunitense, che ne ha accompagnato la crescita con gli enormi investimenti pubblici che ne hanno reso possibili i successi, tutelandone i diritti di proprietà, proteggendoli contro i tentativi degli altri Stati di imporre limiti in materia di privacy e fisco alla loro libera attività, ecc. La convergenza di interessi fra potere politico dello Stato americano e potere delle Internet Company è sempre stata fortissima, perché il primo ha sempre considerato il secondo come un’arma strategica per mantenere il suo vantaggio competitivo nei confronti degli altri Stati capitalisti. E, guarda caso, quando si è trattato di passare informazioni sensibili sulla concorrenza internazionale (ma anche sugli stessi cittadini americani dopo l’11 settembre) alle varie agenzie dello Stato Usa, i cyber monarchi si sono dimostrati assai meno reticenti di quando le richieste arrivavano dall’altra sponda dell’Atlantico”.[9]

Ecco la questione politica.

Ci sono due dimensioni da affrontare simultaneamente: l’apparente[10] supremazia delle forme di regolazione privata (iperconcentrata e totalmente irresponsabile[11]) su quella pubblica (condotta, ovvero, secondo leggi note e in arene politiche visibili[12]); l’effettivo ruolo di braccio operativo del dominio americano sul mondo di queste tecnostrutture[13].


Note
[1] - Meryle Secret, “Il caso Olivetti”, Rizzoli 2020.
[2] - Più volte sono tornato su questa enigmatica figura, si veda Vittorio Ochetto, “Adriano Olivetti”, 27 febbraio 1960. Adriano Olivetti”, ma anche leggendo alcuni suoi testi, come “Dovete conoscere i fini del vostro lavoro, del 1946, e “Dalla fabbrica alla comunità”, del 1953.
[3] - Un ex capitano di sommergibili, poi divenuto agente dell’Ovra, quindi dell’Oss, ultimo a salutare Adriano, e poi uomo di fiducia della cordata di Cuccia, e manager di punta con la missione di impedire con ogni mezzo che l’Olivetti sfidi la supremazia tecnologica Usa.
[4] - Ne dà conto il libro della Secrest, come dei finanziamenti copiosi del Pentagono alla ditta per scopi militari più diversi (cfr. p.132).
[5] - Per qualche cenno sulle relazioni della Silicon Valley con il committente pubblico, in particolare militare, americano si veda Mariana Mazzucato, “Lo stato innovatore”, Laterza, 2014.
[6] - E’ noto che i social non possono essere raggiunti in paesi come l’Iran, che sono schermati e filtrati in Cina e Russia e via dicendo.
[7] - Cfr “La fabbrica dei complottisti”, 13 gennaio 2021.
[8] - Ovvero l’insieme dei capitalismi americano, europeo e giapponese (con le propaggini del caso), nel quale ovviamente il primo svolge funzione egemonica (e se non possibile di dominio).
[9] - Carlo Formenti, “Quando a dichiarare lo stato di emergenza sono i giganti del web”, 14 gennaio 2021.
[10] - In realtà sul piano di principio non sussiste alcuna supremazia e non potrebbe esistere, le norme di legge che, nei diversi paesi, regolamentano l’espressione del falso, la diffamazione, il procurato allarme, l’apologia di reato, l’incitazione alla violenza e via dicendo, sono effettive e operative. Sia che questi atti siano prodotti a mezzo stampa o a mezzo di trasmissione via social di contenuti o altro. Tuttavia la responsabilità delle piattaforme è schermata da specifici atti regolatori americani, che, in modo non dissimile in fondo da come fa per i soldati che compiono reati, anche di sangue, all’estero nel corso di “missioni di pace”, protegge i suoi strumenti di influenza.
[11] - Che, quindi, può operare censura preventiva su atti non ancora effettuati senza alcun mandato di un qualsivoglia magistrato, incurante delle conseguenze in termini, ad esempio, di conflittualità sociale.
[12] - Per fare un esempio, in “Missione: social media responsabili”, Juan Carlos De Martin, lamenta che “ogni mese le piattaforme bloccano, escludono, cancellano, rendono poco visibili milioni di utenti, pagine, gruppi, ecc., ma nessuno - a parte loro - ha un quadro completo di queste iniziative: chi è stato bloccato o oscurato? Per quali motivi? Per quanto tempo? Con quali effetti? Più in generale, quali sono di preciso le loro regole di moderazione? Non si sa”.
[13] - Argomento che milita verso l’obbligo di detenere i dati su territorio nazionale (o europeo), di sottoporli senza alcuna limitazione alla relativa regolamentazione, di renderli noti, trasparenti, opponibili, e negabili, da parte del cittadino, di impedire servizi transnazionali se non necessari, distruggere i monopoli, gestire le piattaforme e le basi dati separatamente (in modo da impedire i fenomeni evidenziati in “The social dilemma”) e via dicendo.

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