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Iran: quale rivoluzione?
A un anno dalla morte di Masha Amini
di Alessandro Mantovani
Un anno è passato dalla scintilla che ha innescato la più recente e imponente ondata di manifestazioni contro il regime iraniano. L’impressionante movimento, che ha visto migliaia di proteste coinvolgenti più di 160 città, come si sa, è stato iniziato dalle donne e questo è un fatto di enorme importanza non solo per l’Iran e i paesi islamici, ma si può ben dire alla scala internazionale. Non in quanto sia il primo movimento che veda le donne protagoniste (altri ve ne sono stati), ma in quanto un movimento femminile per i propri diritti ha fatto da battistrada, da detonatore a una mobilitazione che si è estesa a più ampi strati popolari e anche proletari, dapprima in solidarietà con le donne, poi e sempre più con rivendicazioni generali che si riassumono nella richiesta della fine del regime degli ayatollah.
Decine di migliaia di persone, in maggioranza giovani (soprattutto ragazze, spesso appoggiate dai loro coetanei o familiari maschi), si sono riversate nelle piazze con gesti altamente simbolici e mai riscontrati in precedenza, bruciando lo hjiab e tagliando i capelli in pubblico.
Altro fatto di estrema rilevanza è che subito dopo le donne, a ribollire siano state le minoranze etniche, i curdi, i turchi, gli arabi, i baluci, e che ciò, forse per la prima volta, abbia creato nella società persiana (dove il nazionalismo ha sempre potuto far leva sul timore di una disgregazione dello stato per linee etniche) un afflato di solidarietà e simpatia verso tali minoranze, ossia un riconoscimento della loro situazione di oppressione. Non per nulla il movimento è esploso dapprima nel Kurdistan iraniano: Masha Amini, la giovane la cui morte tra le grinfie della “polizia morale” ha acceso la miccia della rivolta, era curda, doppiamente esclusa quindi dai diritti civili, e l’accanimento dei suoi aguzzini contro di lei non è stato certo estraneo a questa identità).
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Vita, terra e libertà per la Palestina
Alba Vastano intervista Bassam Saleh, giornalista palestinese
“Il conflitto c’è sempre stato, non solo dal 7 ottobre, tra il popolo palestinese e la potenza occupante. Una potenza sostenuta e appoggiata dall’Occidente capeggiato dagli Usa, per tenere tutta la regione del Medio Oriente in stato di instabilità e avere l’egemonia sulle risorse naturali, per la posizione geopolitica, quindi al servizio del capitalismo malvagio, ai produttori e fabbricanti di armi. Sono gli interessi dell’imperialismo americano e occidentale che perseguitano il popolo palestinese, vogliono togliere il diritto di resistere per esistere e vivere libero come tutti i popoli” ( Bassam Saleh)
A Gaza è in atto un genocidio, il massacro di un popolo in sofferenza da decine di anni, privato dei basilari diritti umani. Un popolo che per Netanyahu, primo ministro di Israele, e per i suoi seguaci non deve avere un territorio, né identità giuridica, né indipendenza, né alcuna forma autonoma di sostentamento. Nulla che gli consenta una vita dignitosa e il diritto di essere riconosciuti come popolo di uno Stato indipendente. il massacro in atto oggi con l’escalation dell’invasione a terra della Striscia di Gaza sta mietendo continuamente vittime fra i civili. I media ci presentano ogni minuto la visione di piccole vittime straziate sotto i bombardamenti.
Le piccole vittime palestinesi si sommano alle decine di giovanissime vittime israeliane causate da Hamas. ‘L’Unicef denuncia che oltre 2300 bambini sarebbero stati uccisi in due settimane di bombardamenti a Gaza. Più di 5300 sarebbero stati invece feriti’.. Adele Khodr, direttore generale Unicef per il Medio oriente e il Nord Africa denuncia“L’uccisione e la mutilazione di minori, gli attacchi su ospedali e scuole e la negazione dell’accesso umanitario costituiscono gravi violazioni dei diritti dei bambini. L’umanità deve prevalere”.
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Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria
di Fabio Vighi
Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo.
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DIARIO DELLA CRISI | Il conflitto è una potenza economica (reddito e norme giuridiche dentro la crisi)
di Gianni Giovannelli
In questa nuova puntata del Diario della Crisi, progetto lanciato congiuntamente da Effimera, Machina ed El Salto, Giovanni Giovannelli analizza, alla luce del caso italiano, le diverse configurazioni che la povertà assume nell’attuale contesto di crisi e le modalità della sua gestione da parte degli attuali governi dell’Unione Europea, con l’obiettivo di disciplinare la forza lavoro e segmentarne le traiettorie socio-economiche. In questo contesto, la questione del salario minimo assume una grande rilevanza nella misura in cui consente di opporre un criterio di uguaglianza all’enorme diversità di figure contrattuali assunte dal rapporto di lavoro, molte delle quali tenuemente regolamentate.
* * * *
Occorre sapere che il conflitto
è presente in ogni cosa
la Giustizia è Contesa
tutto nasce secondo
Contesa e Necessità
(Eraclito, Frammento 22B80 DK)
Il 25 ottobre 2023 ISTAT ha reso disponibili i dati relativi al 2022, come raccolti ed elaborati dall’Istituto. Si veda il report Le statistiche dell’ISTAT sulla povertà/Anno 2022: Ne esce un quadro complessivo che appare coerente sia con il sentiment popolare percepito da ogni osservatore non prezzolato (o pur se retribuito almeno onesto) sia con le decisioni dell’apparato governativo; un quadro che conferma il durissimo violento attacco ai lavoratori subordinati e al precariato della vecchia Europa.
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Apologia della storia militante. Sergio Bologna, la rivista “Primo Maggio” e la storiografia militante
di Francesco Festa
Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia. Milano, Casa della Cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022, Presentazione di Vittorio Morfino, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 174, € 12.00
Il concetto di storia di Walter Benjamin dai tratti folgoranti, densissimi, non finiti eppur integri, è enucleato in una sua potente intuizione: lo studio della storia è l’osservazione del “futuro del passato”, un “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e non ancora onorata dalla storia, ci attende, viva più che mai, al presente.
Sergio Fontegher Bologna, l’autore di questo libro di cristallina chiarezza e di agile lettura mai a scapito della densità, a un certo punto della sua ricostruzione di un lungo percorso – apertosi con le rivolte genovesi del 30 giugno 1960 contro il congresso del MSI – si interroga sul cambio di paradigma nella ricerca storica a cavallo dei due secoli: l’oggetto della ricerca non è più la “realtà storica” e, simmetricamente, si impone un registro ermeneutico e linguistico che fa leva sull’accezione di memoria in luogo del concetto di storia: entrambi sintomi dell’impossibilità di incidere sulla realtà, cioè, sul presente quale matrice del “pensiero storico”.
Quando noi parliamo di crisi o di eclissi della storia militante – scrive Fontegher Bologna – non ci riferiamo soltanto alla fine dell’etica della partecipazione ai movimenti sociali contemporanei, né soltanto alla ‘crisi della politica’ e al progressivo ritirarsi nel privato, né alla ricerca di nuove strade diverse dalla labour history, ci riferiamo a un modo di ragionare e di discutere tra storici che esclude, cancella, il presente, nella storia militante il presente era la fonte delle domande che lo storico si pone all’inizio della ricerca. Il combinato disposto della diffusione del termine “memoria” e della concezione della storiografia come narrative come forma di creazione letteraria, portano alla cancellazione del presente come fonte del pensiero storico. (p. 142)
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MEGA 2, ovvero: il nuovo volto di Karl Marx
Luca Bistolfi intervista Roberto Fineschi
Ho sentito il dovere di occuparmi della nuova e definitiva edizione dell’opera omnia di Marx ed Engels, la mega 2, ancora in corso, per i lettori di Pangea intervistando Roberto Fineschi, uno dei suoi massimi curatori e contemporaneamente autore di diversi e vasti studi sul “nuovo Marx”, che riesce dal mastodontico lavoro (oltre duecento volumi). Cionondimeno mi sento in dovere di precisare di non essere sempre d’accordo con Fineschi e di cogliere Marx e le sue implicazioni teoriche e politiche in maniera spesso diversa, quantunque ritenga che un marxista degno di questo nome abbia l’obbligo di prestare orecchio alle posizioni benevole e oneste ma critiche verso il pensatore e rivoluzionario tedesco, al fine di non incorrere in quelle autoillusioni e in quelle superficialità, quando non falsificazioni, che ahimè troppo spesso hanno costellato la storia del marxismo
Nella chiusa alla Postfazione al bellissimo Karl Marx e la letteratura mondiale di Siegbert S. Prawer (Bordeaux 2021, già Garzanti 1978 come La biblioteca di Marx), Donatello Santarone riferisce le giuste impazienze o raccomandazioni di Immanuel Wallerstein, Franco Fortini e Friedrich Engels sintetizzabili nell’esclamazione del primo: «Leggete Karl Marx!». Erano stanchi di sentir chiacchierare sedicenti marxisti senza una pagina del Moro. Fortini (Avanti!, 7 dicembre 1947) spiega: «Ognuno legge… Marx dovunque, eccetto che in Marx». Banalità persino, ma quanto disattese!
Però col rivoluzionario di Treviri pare che la faccenda sia un po’ complicata, o almeno ciò è quanto emerge dai numerosi e densi lavori di Roberto Fineschi, uno dei più autorevoli membri del comitato internazionale per l’edizione definitiva dell’edizione, naturalmente critica, degli scritti di Marx e di Engels, la così detta mega 2.
Fineschi, già curatore di un’accuratissima versione filologica del primo libro del Capitale (due poderosi volumi, il secondo solo di varianti), ha sfornato già parecchi titoli per ripigliare il discorso ormai dai più abbandonato sul marxismo, forte della sua assidua frequentazione con i manoscritti. Ne dò parziale ma essenziale conto alla fine dell’intervento.
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Reportage dalla Cina - BRI ad alta qualità
Come funziona la "nuova piattaforma delle relazioni internazionali"
di Alessandro Bianchi
Da Pechino, Zhengzhou e Fujan (15-25 ottobre 2023)
“Per condurre una vita significativa, bisogna costruire la felicità con gli altri”. Questo proverbio cinese mi ha costantemente accompagnato nei 10 giorni in cui ho potuto assaporare in prima persona il sostrato storico, culturale e politico della Belt and Road Initiative (o nuova via della Seta), il pilastro più importante della politica internazionale della Cina contemporanea.
Davvero difficile trovare le giuste parole per spiegare la “comunità dal destino condiviso per l'umanità”, alla base del progetto di Pechino, in un paese, come il nostro, che ha smesso di concepire un futuro solidale di uguaglianza e diritti sociali per la nostra di collettività, figuriamoci in una visione globale.
Nel 2013, il neoeletto presidente cinese Xi Jinping annunciava al mondo la nascita della “One Belt One Road”, un immenso progetto infrastrutturale che avrebbe legato, come una nuova via della seta appunto, decine di paesi sulla base di un approccio di cooperazione e "win win". 10 anni dopo “i progetti sono divenuti realtà” e Xi ha decretato, in occasione del Terzo Belt and Road Forum, l'inizio di una più ambiziosa fase: la “Bri ad alta qualità”.
“Siamo dalla parte corretta della storia”, ha chiosato Xi nel suo discorso di inaugurazione nella Sala del Popolo il 17 ottobre a Pechino che molti funzionari del PCC ci hanno definito di “portata storica”. 8 nuovi punti programmatici che scandiranno le prossime tappe di quella che il presidente cinese ha definito la “nuova piattaforma delle relazioni internazionali”, un’iniziativa che ha già tolto dalla povertà milioni di persone nei 150 paesi aderenti.
I prossimi anni, secondo il presidente XI, devono prevedere il passaggio ad una BRI di “alta qualità”, con due direttive di riferimento: la connessione tecnologica e la cooperazione “people to people” nel rispetto delle diverse civilizzazioni dei popoli aderenti.
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Mille nomi per Lady Society
di Patrizio Paolinelli
Le immagini della società orientano il modo in cui individui e gruppi interpretano il mondo in cui vivono. Ma come orientarsi quando tali immagini si moltiplicano senza sosta? Mille nomi per Lady Society costituisce un iniziale tentativo di risposta. Allo scopo fa un primo punto della situazione, problematizza la proliferazione di immagini della società e sollecita l’apertura di nuovi spazi di comunicazione tra la sociologia e il suo oggetto di studio.
Lavoro di nominazione
Il nome è un’immagine. Società arretrata. Ecco un nome attribuito a una popolazione umana osservata dalle scienze sociali. Il nome presenta il vantaggio di “fotografare” tale popolazione colta in un determinato spazio-tempo. Tra le discipline che hanno la legittimità di coniare nomi per identificare una società la sociologia si è conquistata da tempo il posto d’onore. Ieri come oggi i sociologi analizzano le società e individuano dei tipi. Ai tipi di società impongono un nome con cui rimandano a un’immagine sintetica in modo da qualificarli e stabilire delle differenze: società agricola, società industriale; società tradizionale, società moderna; società di massa, società individualizzata e così via.
Il nome è un evento. E l’evento è il libro con cui si attribuisce un nuovo nome alla società. Il libro può avere diversi destini determinati dalle porte girevoli con cui il testo entra ed esce dai circuiti di lettori specializzati e da quelli dei lettori non specializzati. Due casi: un libro può registrare più vendite fuori che dentro la comunità scientifica e suscitare un’attenzione elevata nelle pagine culturali del mondo dell’informazione; oppure può registrare poche vendite tra il pubblico dei non addetti ai lavori, ma godere di un’alta attenzione del mondo universitario e di un’attenzione relativa del mondo dell’informazione. Si tratta di due tipi di successo che possono essere analizzati da diversi punti di vista: commerciale, culturale, politico.
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Palestina mon amour
di Giorgio Ferrari
Ogni cosa a suo tempo. Così si diceva una volta, ma poi di tempo ne è passato troppo e le cose non sono state messe a posto.
Ora s’è fatto tardi, quasi per tutto.
Passato è il tempo delle ribellioni e poco ne resta per fare fronte al peggio che avanza.
Eppure lo sapevamo, noi che gentili non fummo, ma non abbastanza da scuotere l’indifferenza del mondo per i crimini commessi contro l’umanità più indifesa.
Ci sono molti modi di uccidere.
Si può uccidere una persona con le armi, privarla di cibo e acqua, impedirle di curarsi, confinarla in una prigione a cielo aperto, espropriarla della terra su cui è nata, spingerla al suicidio, negarle lo status di essere umano.
Nessuno di questi modi è proibito a Gaza e solo alcuni lo sono per il diritto internazionale.1
Per questo, a Gaza, si muore di più che in ogni altro luogo.
In questa striscia di terra c’è tutta l’indifferenza del mondo occidentale, l’immagine nascosta della sua ingannevole predicazione universalistica.
Gaza è una bugia, il significante osceno di un linguaggio che ammicca all’esistenza di un mondo capovolto: l’apartheid ammicca ai diritti; i diritti ammiccano alle libertà; le libertà ammiccano alle privazioni che ammiccano ai bisogni, alla terra, e a tutto ciò che è vanto e gloria del mondo occidentale, ingessato com’è dentro una colossale menzogna.
Gaza è inumana e perciò sfugge a qualsiasi rappresentazione, anche la più ardita che si possa concepire.
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Hamas e la società palestinese
di Leila Seurat
Nota Introduttiva – Sebbene la realtà spesso cozzi in modo patente con i nostri desideri di comunisti e internazionalisti, non saremmo «materialisti» se nascondessimo la testa sotto la sabbia o, peggio, se scambiassimo i secondi per la prima. «Analisi concreta della situazione concreta», significa in primo luogo considerare le condizioni reali, empiricamente constatabili, in cui si svolgono i conflitti sociali, politici e geo-politici, rinunciando ad applicare formule e schemi precostituiti, buoni per tutte le stagioni. Oggi, piaccia o meno, tra i proletari di Gaza, della Cisgiordania, e persino tra gli arabi israeliani, il neo-nazionalismo di Hamas gode di un consenso vastissimo. Alle posizioni antisioniste, venate di razzismo antigiudaico1, o a quelle dell’antimperialismo a senso unico (il cosiddetto campismo), che si schierano «senza se e senza ma» con Hamas, con la resistenza palestinese e con i suoi sponsor internazionali – posizioni inaccettabili per un comunista – fa da contraltare un internazionalismo astratto che, come un disco rotto, continua inascoltato ma imperterrito a lanciare i suoi appelli alla «unità di tutti i proletari», al di là delle divisioni nazionali, etniche, religiose etc., senza avvedersi che – soprattutto nel contesto del conflitto israelo-palestinese (!) – mai come oggi si tratta di una prospettiva completamente fuori portata; così come non riesce a cogliere le precise ragioni materiali che stanno alla base di questo stato di cose, limitandosi tutt'al più a rimuginare amaramente sul fatto che i suddetti proletari, «contro i loro stessi interessi» (sic!) e contravvenendo alle aspettative dei «rivoluzionari», si farebbero stoltamente abbindolare dalle sirene ideologiche delle rispettive borghesie (Cfr., in appendice, L’intramontabile appeal del nazionalismo e le sue ragioni materiali). L'articolo riportato qui sotto, vuole essere un piccolo contributo nella direzione di una lettura non ideologizzata del conflitto in corso in Medio Oriente. [F. B.]
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Cosa è accaduto realmente il 7 ottobre?
di Robert Inlakesh e Sharmine Narwani
Ci è stata segnalata, e la riprendiamo, questa prima, dettagliata inchiesta sull’attacco palestinese del 7 ottobre scorso, fondata in larga parte sulla documentazione del quotidiano israeliano Haaretz e su dichiarazioni di donne israeliane fatte prigioniere. Non siamo in grado di avere una nostra ricostruzione di prima mano, e siamo ben coscienti che una guerra è una guerra con tutte le sue atrocità, e questa di sicuro, da più di 75 anni, è una guerra, di oppressione coloniale e di sterminio da un lato, di liberazione nazionale dall’altro; ma questa ricostruzione, con le molteplici smentite della narrazione di stato israeliana e occidentale che contiene, fa capire – a chi vuol capire – a cosa sia servita la catena di false notizie diffuse in tutto il mondo dai mass media asserviti: a legittimare lo spaventoso eccidio in corso da giorni a Gaza. Sulla più infame di queste false notizie (i 40 bambini “decapitati”) abbiamo pubblicato negli scorsi giorni dei materiali. (Red.)
- http://sicobas.org/2023/10/17/contributo-i-bambini-decapitati-da-hamas-un-caso-di-oscena-disinformazione-di-guerra/
- http://sicobas.org/2023/10/17/contributo-con-la-storia-dei-bambini-decapitati-ha-avvelenato-i-pozzi-di-mezzo-mondo-ora-la-giornalista- cnn-chiede-scusa/
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Stanno emergendo prove che più della metà degli israeliani uccisi erano combattenti; che le forze israeliane sono state responsabili della morte di alcuni dei loro stessi civili; e che Tel Aviv ha diffuso false storie sulle “atrocità di Hamas” per giustificare il suo devastante attacco aereo contro i civili palestinesi a Gaza.
Due settimane dopo l’assalto di Hamas contro Israele il 7 ottobre, un quadro più chiaro di ciò che è accaduto, chi è morto e chi ha ucciso, sta ora cominciando a emergere.
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Due popoli due stati? Si, due stati d’animo
di Michele Castaldo e Alessio Galluppi
Ed ecco che di fronte alla carneficina che sta operando lo Stato di Israele a Gaza, pro doma sua e per conto di tutto l’Occidente, proprio dai potentati di questo, in primis gli Usa, si tira fuori dal cilindro la vecchia proposta di due popoli due Stati, ventilata sempre ma realizzata mai. Inutile dire che dietro tale cosiddetta proposta si è sempre nascosta l’ipocrisia tutta occidentale tendente a mascherare le ragioni vere della nascita dello Stato di Israele. Perché se così non fosse stato in 75 anni si sarebbe trovato il modo di dare una parvenza statuale ai palestinesi piuttosto che rinchiuderli in una prigione a cielo aperto ricattandoli e reprimendoli continuamente per tenerli sotto controllo.
Su quello che sarà il “dopo” si vedrà, intanto si sta procedendo a un vero e proprio genocidio del popolo palestinese e la distruzione di gran parte delle abitazioni in terra di Gaza. Contemporaneamente si procede nella colonizzazione della Cisgiordania espellendo i palestinesi. Dunque si sta procedendo in modo da fare terra bruciata di uomini e cose tali da determinare un vero e proprio stato, si, ma uno stato d’animo dei sopravvissuti. Insomma siamo di fronte al tentativo di una soluzione finale di una aspirazione di un popolo ma senza affermarlo, o per meglio ancora dire, in nome della distruzione di Hamas. Questi sono i fatti sui quali si tenta di costruire poi una propaganda tanto falsa quanto infame. Pertanto non basterebbe nessun tipo di propaganda alternativa per smontare quello che è a tutti chiaro, anche perché gli uomini si schierano in base a quello che per necessità sono spinti a credere.
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L’enigma del "miracolo" cinese e la necessità di ridefinire il concetto di socialismo
di Carlo Formenti
1. L’intuizione di Arrighi.
Nel secondo volume di Guerra e rivoluzione (1) intitolato “Elogio dei socialismi imperfetti”, mi occupo ampiamente del caso Cina (Cap. I) e delle rivoluzioni bolivariane in America Latina (Cap. III). Qui torno esclusivamente sulla questione cinese, perché un'analisi comparativa con altre esperienze, passate e attuali, richiederebbe molto più spazio. Dal titolo appena citato è evidente quale sia il mio giudizio nei confronti delle esperienze trattate in quelle pagine: contrariamente alla maggioranza degli intellettuali marxisti occidentali, per tacere degli autori genericamente “di sinistra”, i quali blaterano di capitalismo di stato o, nella migliore delle ipotesi, di tentativi più o meno riusciti di emancipazione dal dominio neocoloniale, ritengo che si tratti di rivoluzioni antimperialiste che hanno imboccato la strada della transizione al socialismo.
Attenendomi alla sola Cina, questo giudizio si fonda su una serie di dati di fatto di cui mi limito a elencare qui di seguito i più significativi: anche dopo le riforme degli anni Settanta, i settori strategici dell’economia (sia in campo industriale che in campo finanziario) sono rimasti sotto il controllo politico dello stato/partito; l’agricoltura è stata (parzialmente) liberalizzata ma non privatizzata; gli investimenti stranieri vengono utilizzati per accelerare lo sviluppo tecnologico e scientifico oltre che economico, senza permettere che influiscano sugli equilibri generali del sistema; gli investimenti diretti all’estero sono finalizzati a favorire lo sviluppo dei Paesi beneficiari e non a sottoporli al ricatto dell’economia del debito (una logica opposta a quella degli investimenti occidentali); i tentativi della borghesia nazionale di trasformare il proprio potere economico in potere politico vengono stroncati; lo straordinario successo economico, che in una prima fase ha imposto pesanti sacrifici alle classi lavoratrici, è stato successivamente utilizzato per riscattare centinaia di milioni di cittadini dalla povertà assoluta, elevare i salari operai e i redditi contadini, migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse e spostare progressivamente il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni; infine questo rapido e tumultuoso processo di trasformazione socioeconomica non si è accompagnato – come auspicato dalle élite occidentali – a una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico, ma ha mantenuto la barra del timone verso l’obiettivo di realizzare nuove forme di democrazia popolare (2).
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Gaza. Social media e censura
di Redazione - Alan Macleod
Il coro dei governi, soprattutto occidentali, rappresentato dai suoi organi di informazione mostrano all’opinione pubblica un mondo che non rispecchia la realtà. La stessa opinione pubblica, ormai, non è più disponibile a sorbirsi le menzogne del mainstream. La guerra a Gaza, la ferocia criminale di Israele sta producendo un’ondata mondiale di solidarietà per la Palestina e la sua lotta di liberazione. La criminalizzazione della Resistenza palestinese non serve.
Allo stesso tempo come ha sottolineato il portale CovertAction, “le proteste in tutto il mondo in solidarietà con la Palestina stanno costruendo un movimento di sostegno alla resistenza e alla causa palestinese, mostrando ai leader che persone dagli Stati Uniti al Regno Unito, allo Yemen e alla Giordania e oltre, stanno dalla parte del popolo palestinese nella sua lotta contro gli israeliani sostenuti dagli Stati Uniti. Queste proteste stanno cambiando la forma della copertura mediatica e influenzando l'opinione popolare e il dibattito sulla questione.”
Proprio per questa ragione “le società di social media come Twitter e Meta hanno tentato di censurare i contenuti filopalestinesi. Un video che elenca gli ospedali bombardati da Israele è stato rimosso da Instagram dopo aver ottenuto 12 milioni di visualizzazioni. L'account Twitter di Palestine Action US non è stato più seguibile per molti giorni. Ma le informazioni continuano a diffondersi rapidamente, mantenendo vivo il movimento di solidarietà.”
La censura senza vergogna è servita.
Le guerre non si sono mai fatte solo con le armi tradizionali, ci sono anche quelle mediatiche.
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Venti giorni di tempesta
di Enrico Tomaselli
Una analisi politica e militare dell’operazione al-Aqsa Flood, condotta dalla resistenza palestinese, che non solo rimette al centro la Palestina, ma ricolloca il baricentro dello scontro globale in atto, riportandolo in Medio Oriente – regione fondamentale non solo per il petrolio, ma per la sua collocazione geopolitica e la sua storia. È qui, allo snodo del continente euroasiatico e del Mediterraneo, dove si incrociano culture (e interessi) diversi, che si gioca il nuovo match.
* * * *
Credevamo – a ragione – che il conflitto ucraino rappresentasse un punto di svolta importante, forse decisivo, nel processo di trasformazione geopolitica globale, che sta transitando il mondo verso un’era multipolare. Ne avevamo colto sia, appunto, il fatto che segnasse un giro di boa, sia come fungesse allo stesso tempo da acceleratore del processo che portava alla luce. Una accelerazione riscontrabile – ad esempio – negli avvenimenti che hanno attraversato l’Africa sub-sahariana, o nella crescente saldatura tra i grandi nemici dell’impero americano, Russia Cina Iran e Corea del Nord – che invece il disegno strategico di Washington voleva dividere e colpire separatamente.
Ma quanto accaduto il 7 ottobre ha segnato una scossa ancora più forte, più profonda. E che l’attacco sferrato dalle Brigate al-Qassam contro l’occupante israeliano sia un momento importante dello scontro in atto, è testimoniato proprio dalla portata delle reazioni. L’Ucraina, già data comunque per sconfitta, è stata prontamente relegata nel dimenticatoio, gli Stati Uniti si sono immediatamente mobilitati – con una poderosa dimostrazione di potenza – nel sostenere in prima persona l’alleato strategico nel Medio Oriente, e in occidente è scattata ancor più forte e stringente che mai la negazione-repressione del dissenso. La posta in gioco è alta.
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Note a margine del World Congress for Climate Justice
di Massimo De Angelis
Non ho alcuna pretesa qui di commentare o analizzare i quattro giorni del World Congress for Climate Justice che si è tenuto a Milano dal 12 al 15 Ottobre scorso. Come potrei? Vi sono potuto andare solo per un paio di giornate, e in queste ho solo potuto assistere a una selezione ristretta di interventi. E non ero delegato di nessuna organizzazione, rappresentavo solo me stesso, e il mio inesauribile bisogno di navigare dentro le turbolenze del presente alla ricerca di punti di rottura, luci di speranza, ventate di aria fresca che rompano con la claustrofobica presenza di un cambiamento oggi socialmente inimmaginabile, eppure urgentemente necessario. Un arcipelago internazionale di giovani attivisti ambientali, e non solo, dentro la cornice dei cortili della mia vecchia università che non vedevo da anni, mi sembrava un’ottima occasione per pacificare il mio bisogno, e soddisfare la curiosità di sapere come sia percepito il momento attuale da parte dei movimenti, e quali le sfide, decisamente politiche, entro un orizzonte di giustizia climatica. Me ne ritorno a casa con un sentimento ambiguo, moderatamente positivo.
Da una parte, mi sembra di aver percepito una consapevolezza abbastanza diffusa che lega la questione della giustizia climatica a quella del superamento del capitalismo, cioè che la lega a una questione di classe. La tesi dell’articolazione tra la giustizia climatica e la tematica di classe è stata proposta da Imperatore e Leonardi in un libro recente (Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi, L’era della giustizia climatica, Orthotes 2023), e a me sembra essere una tesi importante dalla quale partire. Un’articolazione che evidenzia l’emergere di una duplice consapevolezza dentro i movimenti, la consapevolezza critica di un tutto da cambiare — il capitalismo come modo egemonico della cooperazione sociale — e quello di un punto di vista di una parte che si muove, di un soggetto trasformatore e rivoluzionario che cerca di ricomporsi.
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Quel linguaggio “messianico” che rivela la crisi
di Dante Barontini
Chi parla male, pensa male perché sta male. In tempi di guerra questo diventa particolarmente evidente, è sempre andata così. Ma in questa – tra Gaza e Kiev – sta emergendo qualcosa di più grave.
La mostrificazione e disumanizzazione del nemico è quasi fisiologica, in qualsiasi guerra. Bisogna motivare i propri combattenti, convincerli a morire per una “causa giusta”, stringere la popolazione intorno allo sforzo bellico e ai “sacrifici” che ne derivano come qualità della vita, perdita del benessere, ecc.
Niente di nuovo…
Ma in qualsiasi guerra – ha provato a ricordare Massimo Cacciari, e non solo lui – ci deve essere una recta intentio, ossia un obiettivo politico razionale e raggiungibile (fondato su interessi particolari, ci mancherebbe…) che dovrebbe inaugurare un nuovo periodo di assenza di guerra (la ‘pace perpetua’ è una speranza nobile, ma tale resta).
Il che significa che il nemico sarà di nuovo accettato come interlocutore, in altre condizioni “a noi” più favorevoli. Non che “cesserà di esistere”.
E’ la visione interpretata al meglio, sul piano della teoria militare, da von Clausewitz – “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” – che è poi la chiave del “realismo politico”. Inutile insomma porsi obiettivi “ipergalattici” o metafisici, perché sicuramente non saranno mai raggiunti.
Eppure, se guardiamo alle “strategie comunicative” delle cancellerie occidentali – a partire da Israele – e del sistema dei media che ne dipende (la “stampa libera” è una foglia di fico; sono ben poche, e non primarie, le testate che possono fregiarsi a ragione di questa definizione), vediamo che predomina la retorica ultra-ideologica o addirittura religiosa.
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L’interno della rivoluzione. Mario Tronti e la «rivoluzione politica paolina»
di Michele Garau
È piuttosto complesso definire il rapporto che lega, perlomeno dagli anni Novanta, la riflessione di Mario Tronti all’interpretazione di San Paolo. Michele Garau, in questo articolo di alcuni anni fa, affronta un tale compito con un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Pubblichiamo qui la prima parte del testo.
* * * *
I. Il Paolo di Mario Tronti e la teologia politica
Definire il rapporto che lega la riflessione di Mario Tronti, dagli anni Novanta a oggi, all’interpretazione di San Paolo, risulta piuttosto complesso. Per rispondere a tale compito occorre infatti un impegno preliminare nell’indagine su una costellazione di categorie che possiede per l’autore straordinaria importanza: quella che annoda il terreno politico, specialmente rivoluzionario, alla dimensione della trascendenza e a quella della profezia. Il pensiero di Tronti addiviene infatti a temi religiosi e spirituali attraverso la constatazione di una crisi catastrofica della politica e dell’emergenza antropologica che la accompagna. Con un sempre più marcato accento tragico nella scrittura e nello stile di pensiero, il padre dell’operaismo italiano incontra l’ambito religioso come «spirito disordinante», come slancio che va dall’interiorità dell’individuo allo spazio sociale aprendo una prospettiva di «ulteriorità» rispetto allo stato delle cose mondane. Il cristianesimo appare dunque come espressione di «differenza umana», come modello storico alternativo, custode di un’idea di uomo radicalmente dissimile e nemica rispetto a quella del capitalismo[1].
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L’escalation non può essere fermata, la Casa Bianca è in allarme: il rischio di un conflitto è sempre più reale
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
La necessità della guerra sta facendosi strada nella coscienza del mondo arabo e islamico
Giovedi scorso, dalle pagine del New York Times Tom Friedman ha lanciato il suo terribile avvertimento:
“Credo che, se ora Israele entrerà [unilateralmente] con la forza a Gaza per distruggere Hamas, commetterà un grave errore che sarà devastante per gli interessi israeliani e americani”.
“Potrebbe innescare una conflagrazione globale e far detonare l’intera struttura di alleanze filo-americane costruita dagli Stati Uniti… Sto parlando del trattato di pace di Camp David, degli accordi di pace di Oslo, degli accordi di Abraham e della possibile normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Tutto potrebbe andare in fumo.
“Purtroppo, ha detto l’alto funzionario statunitense, i leader militari israeliani sono, in realtà, ancora più guerrafondai dell’attuale primo ministro. Sono rossi di rabbia e determinati a sferrare ad Hamas un colpo che tutte le nazioni confinanti non dimenticheranno mai”.
Friedman sta parlando, ovviamente, del sistema di alleanze americano imperniato sull’idea dell’invincibilità della potenza militare di Israele – il paradigma della “piccola NATO” che dovrebbe fungere da substrato essenziale per la diffusione in Asia occidentale dell’Ordine delle Regole dettato dall’America.
È analogo al substrato dell’alleanza NATO, la cui pretesa “invincibilità” ha sostenuto gli interessi statunitensi in Europa (almeno fino alla guerra in Ucraina).
Un membro del gabinetto israeliano ha dichiarato al corrispondente israeliano anziano per la difesa, Ben Caspit, che Israele non può permettere che la sua deterrenza di lunga data venga ora messa in dubbio:
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Sul risveglio del “mostruoso”
di Francesco Prandel
È mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento?
Herbert Marcuse
Nei circuiti elettrici come nell’atmosfera, la polarizzazione dovuta all’accumularsi di cariche di segno opposto ingenera tensioni. Nella misura in cui si avvicinano a una certa soglia, queste tensioni preludono a scariche elettriche violente e incontrollabili.
Negli ultimi tre anni il servizio offerto dalla maggior parte dei media ha subito un mutamento che non è passato inosservato. A partire da 2020 la polarizzazione dell’informazione – una sua caratteristica certamente tipica, che presenta oscillazioni storiche – è cresciuta in maniera vistosa. Parallelamente, e in modo altrettanto evidente, si sono polarizzate le vedute dei vertici istituzionali, della classe dirigente, dell’uomo della strada. Indipendentemente da come la pensano, presumo che in molti abbiano avvertito gli sbalzi di tensione che ne sono conseguiti. Chi con la pandemia, chi con la guerra in Ucraina, chi con quello che sta accadendo in Medio Oriente, in tanti hanno osservato la crescente tendenza dell’informazione generalista ad amplificare certe campane e a silenziarne altre. Così, nel mentre un pezzo di società – di cui fa parte quella che conta – si arrocca su una posizione, l’altro si barrica dietro alla posizione antipodale.
Si potrebbe obiettare che non c’è niente di nuovo sotto il sole, che l’informazione è sempre stata più o meno tendenziosa, che le spaccature sociali sono una costante storica. È vero.
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Ecologia marxiana, Oriente e Occidente: Joseph Needham e una visione non eurocentrica delle origini della civiltà ecologica cinese
di John Bellamy Foster
Si pensa spesso che il materialismo ecologico, di cui il marxismo ecologico rappresenta la versione più sviluppata, trovi le sue origini esclusivamente nel pensiero occidentale. Ma se così fosse, come spiegheremmo il fatto che il marxismo ecologico sia stato accolto tanto prontamente (o forse, più prontamente) in Oriente quanto in Occidente, scavalcando le barriere culturali, storiche e linguistiche per sfociare infine nell’attuale concetto di civiltà ecologica in Cina? La risposta è data dal fatto che, riguardo al materialismo dialettico e all’ecologia critica, esiste un rapporto dialettico tra Oriente e Occidente molto più complesso di quanto si creda, rapporto che affonda le sue radici nei millenni.
Le concezioni materialista e dialettica della natura e della storia non nascono con Karl Marx. Le origini di un “naturalismo organicista” e dell’“umanismo scientifico”, secondo il grande scienziato e sinologo inglese marxista Joseph Needham, autore di Scienza e civiltà in Cina, possono essere fatte risalire al periodo che va dal sesto al terzo secolo a.C., sia in Grecia, a cominciare dai pre-Socratici e sino ai filosofi ellenistici, sia nell’antica Cina, con l’emergere dei filosofi taoisti e confuciani durante il periodo delle guerre fra stati sotto la dinastia Zhou[1]. Come ha mostrato Samir Amin nel suo Eurocentrismo, la «filosofia della natura [in opposizione alla metafisica] è per essenza materialista» e ha costituito una «svolta cruciale nei modi di produzione tributari, sia in Oriente che in Occidente, a partire dal quinto secolo a.C.»[2].
In Within the Four Seas: The Dialogue of East and West del 1969, Needham rilevava la massima rapidità con cui il “materialismo dialettico” venne adottato in Cina durante la Rivoluzione Cinese e come, in Occidente, questo fatto sia apparso come un grande mistero.
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L’intelligenza artefatta
di Leonardo Noschese
Nella storia umana, l’innovazione tecnologica è una costante. Dalle punte di selce alle sonde spaziali, l’umanità ha sempre realizzato strumenti e macchine (dal greco antico μαχανά: mechanè). Spesso, con conseguenze più ampie di quelle previste. La stampa è nata per abbassare i costi dei documenti scritti, ma è divenuta soprattutto uno straordinario propulsore culturale. L’utilizzo dell’energia elettrica ha consentito l’illuminazione notturna, ma ha portato anche a nuove possibilità di socializzazione. Molte tecnologie hanno avuto effetto non solo sulla prosperità di chi le ha adottate, ma anche sul suo modo di comunicare, di pensare e di agire.
Pertanto, ora che ci troviamo di fronte a quell’innovazione dirompente che comunemente viene chiamata Intelligenza Artificiale, attorno alla quale sono nati tanti entusiasmi quante paure, è utile interrogarsi su cosa effettivamente essa sia e su cosa possa rappresentare per l’umano. Perché forse, nel dibattito attuale e spesso polarizzato, ci sono aspetti che non stiamo guardando.
Definizione
L’IA viene spesso descritta come un sistema in grado di assolvere funzioni riconosciute come umane, quali il compiere azioni complesse, il ragionare o l’interagire linguisticamente. A questa definizione si associano i moderni Chatterbot, quali Bard o ChatGPT, ma è proprio tale paragone a rivelare quanto essa sia fuorviante.
Il primo Chatterbot mai realizzato, ELIZA, risale al 1966 e venne descritto dal suo creatore J. Weizenbaum come l’imitazione parodistica di un terapeuta. Traendo spunto dall’approccio psicoterapico di Carl Rogers, ELIZA venne programmata per rispondere alle domande riformulando le stesse frasi dell’utente (“Oggi mi sento giù di morale.” – “Raccontami. Perché ti senti giù di morale?”).
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Sulla narrazione dei limiti: dalla realtà ai suoi modelli
di Filippo Scafi
L’ultimo decennio di Hollywood non è stato dei migliori. Scandali di varia natura, scelte ponderate economicamente ma forse non artisticamente, tentativi sempre più forzati di accattivarsi il pubblico – soprattutto dopo il disastro del periodo Covid – hanno portato l’industry a un momento di crisi culminato con lo sciopero di attori e sceneggiatori nella calda estate di quest’anno a Los Angeles, e che continua ancora oggi. Nelle parole di Scorsese, rilasciate a Zach Baron per GQ a settembre, i film ad alto budget e le produzioni in franchising hanno portato Hollywood sull’orlo del precipizio in cui si trova ora (cfr. Zach, 2023). Il 19 ottobre è uscito il suo ultimo film, Killers of the Flower Moon; a partire dall’omonimo libro di David Grann del 2017, Scorsese ripercorre una delle tante pagine oscure dei giovani Stati Uniti d’America degli anni Venti, relativa all’uccisione degli indiani Osage, “proprietari” (o abitatori) di terre ricche di petrolio in Oklahoma. Sono anche gli inizi dell’FBI, e di un personaggio centrale alla storia, sotterranea e non, degli USA come J. Edgar Hoover – nel 2011 interpretato da DiCaprio nel film biografico diretto da Clint Eastwood.
Un altro aspetto dell’autorialità
Scorsese, forse come Eastwood, è uno di quei registi che può permettersi di tornare indietro a rimestare nel passato, soprattutto perché ha contribuito a suo modo a costruirlo. Spesso, una tale tentazione è espressa attraverso l’idea di testamento artistico, o come nostalgia di gioventù, come può valere per C’era una volta a Hollywood di Tarantino, o Licorice Pizza di Anderson. Hollywood, che ha sempre assunto l’aura di luogo terreno in cui il Cinema è possibile come espressione artistica, assiste in questi anni a un lavoro sottile ma meticoloso di auto-analisi.
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Qualche amara riflessione sul conflitto in Medio Oriente: gli interessi degli attori coinvolti e dei popoli
di Paolo Arigotti
Quella di oggi sarà una sorta di riflessione a 360 gradi sul conflitto in corso in Medio Oriente e sulle sue possibili ripercussioni, tentando di dimostrare come, a nostro avviso, alcuni dei potenziali sviluppi potrebbero dipendente più da interessi politici, strategici e/o economici, che da altre questioni, come le preoccupazioni, pure da più parti espresse, per la sorte dei civili.
Naturalmente non c’è nessuna pretesa di esaustività: quello che ci proponiamo è di fornire alcuni spunti, con l’invito ad approfondire le varie questioni tramite le risorse che l’editoria e il web mettono a disposizione.
Partiamo con una descrizione degli asset di alcuni attori coinvolti, più o meno direttamente, nella regione e nella conflittualità in corso.
La Repubblica Popolare Cinese vanta molti interessi economici e strategici in Medio Oriente, una regione che rappresenta una sorta passaggio obbligato per la Nuova via della seta, quella dalla quale l’Italia ha deciso di ritirarsi; ricordiamo che nei giorni scorsi a Pechino - padrone di casa Xi Jinping, ospite d’onore Vladimir Putin – si è tenuta la terza edizione del Belt and Road Forum for International Cooperation, con la partecipazione di dirigenti aziendali e studiosi provenienti da tutto il mondo[1].
È proprio in funzione di questi interessi che si può inquadrare la mediazione di Pechino tra Iran e Arabia Saudita, che non solo ha consentito ai due paesi di riallacciare le relazioni diplomatiche, ma ha aperto loro le porte per l’ingresso nei BRICS (dal prossimo primo gennaio). Come di tutta evidenza, lo scopo della dirigenza cinese non era tanto quella di dirimere un contrasto che divideva da anni le due massima potenze regionali dell’area, quanto eliminare un ostacolo che si frapponeva coi suoi interessi commerciali (e gli ingenti investimenti) e più in generale con la sua strategia geopolitica ed economica, regalando al Dragone un indubbio prestigio per il successo diplomatico.
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Israele, Gaza e la guerra economica mondiale
di Emiliano Brancaccio
Commentando l’estensione dei fronti di guerra in Medio Oriente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato: «Il mondo è cambiato in peggio, non a causa di un virus ma per sciagurati comportamenti umani». Vero, eppure non basta. Il problema, aggiungiamo noi, è capire quali grandi meccanismi stiano inducendo i comportamenti umani a inaugurare un nuovo tempo sciagurato, di ferro e di fuoco.
Per svelare un tale arcano, non si può dire che i commentatori mainstream stiano aiutando. Più che occuparsi di comprensione dei fatti, i “geopolitici” di grido paiono affaccendati in una discutibile opera di persuasione, che consiste nel suscitare emozioni e riflessioni solo a partire da un punto del tempo scelto arbitrariamente. Essi ci esortano a inorridirci e a prender posizione, per esempio, solo a partire dalle violenze di Hamas del 7 ottobre 2023, mentre suggeriscono di spegnere sensi e cervelli sulla trasformazione israeliana di Gaza in un carcere a cielo aperto, o su altri crimini e misfatti compiuti dai vari attori in gioco e anteriori a quella data. Inoltre, come se non bastasse l’arbitrio del taglio temporale, ci propongono di esaminare i conflitti militari come fossero mera conseguenza di tensioni religiose, etniche, civili, ideali. Quasi mai come l’esito violento di dispute economiche.
Guerra a Gaza, mettere al centro gli interessi economici
Diciamo le cose come stanno. Se lo scopo è capire la dura realtà che ci circonda, il contributo di questi analisti non serve a nulla.
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