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L'apocalittico Martin Schulz, il Dollaro risorto e l'Euro da liquidare
di Domenico Moro
Sull’inserto domenicale del Sole24ore del 16 febbraio è apparso un articolo di Martin Schultz sull’euro e sull’Europa, tratto da un suo libro recentemente tradotto in Italia. Schultz è uno dei massimi dirigenti socialdemocratici tedeschi ed è stato presidente del gruppo al Parlamento europeo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, emanazione del Partito socialista europeo (Pse). Alle prossime elezioni europee sarà il candidato presidente della Commissione europea del Pse, al quale il Pd di Renzi ha chiesto di aderire a pieno titolo.
Secondo quanto dice Schultz nell’articolo in questione, siamo arrivati ad un bivio: o si prosegue con l’integrazione europea o si imbocca la strada della rinazionalizzazione ovvero dell’abbandono dell’Unione Europea. Schultz vede quest’ultima prospettiva come fumo negli occhi. In primo luogo, si tratterebbe di una prospettiva antistorica, in quanto “Nessuno Stato si può sottrarre alla storia mondiale”.
Per storia mondiale Schultz intende la globalizzazione ed i suoi processi. In secondo luogo, il socialdemocratico tedesco ritiene che i Paesi fuori dalla Ue e dall’euro non se la passino meglio di quelli che stanno all’interno.
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"Politiche monetarie, banche centrali e crisi dell'Euro"
Una moneta del comune per il reddito di cittadinanza in Europa
Beppe Caccia intervista Christian Marazzi
Abbiamo intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche emergenti e all'indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti dell'immigrazione proveniente dai paesi dell'Unione Europea. Ne è venuta fuori una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro dell'evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.
Anche nella comunicazione dominante, la narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle “lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per l’Europa.
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Sulle possibilità di una democrazia radicale
Note critiche ad “Agonistics” di Chantal Mouffe
di Giuseppe Montalbano
Nel suo ultimo lavoro Chantal Mouffe propone una lettura delle più pressanti questioni nella teoria politica contemporanea a partire dalla suo modello di democrazia agonistica. Dalla possibilità di un ordine cosmopolitico alle prospettive di una democratizzazione dell’Unione europea, dai limiti dei movimenti contro l’austerity degli ultimi anni fino agli orizzonti di una ‘nuova sinistra’, l’idea di agonismo è per Mouffe la chiave di volta di un ripensamento complessivo del problema democratico e di una strategia per la costruzione di un’alternativa al neoliberismo. Ma la proposta teorica di Mouffe regge davvero?
Nei saggi raccolti in Agonistics (Verso, London 2013) la studiosa belga Chantal Mouffe offre al lettore una complessiva rilettura dei principali temi della sua riflessione teorica attraverso il filtro di una sempre più profonda crisi di legittimità nelle democrazie occidentali contemporanee. Esito di un percorso intellettuale condotto a fianco del filosofo argentino Ernesto Laclau, tale proposta teorica risale già all’opera che avrebbe reso entrambi protagonisti del dibattito francese e anglosassone sulle ‘nuove sinistre’ tra gli anni ’70 e ’80, Hegemony and Socialist Strategy, vero e proprio manifesto del cosiddetto post-marxismo[1]. Il profondo ripensamento dell’idea gramsciana di egemonia[2] ha costituito la base di tutta la successiva riflessione politica di Mouffe tra gli anni ’80 e ’90, per approdare nell’ultimo decennio alla formulazione di uno schema agonistico della conflittualità politica, come modello di analisi e insieme proposta normativa di rifondazione del pluralismo liberal-democratico. Agonistics intende così affrontare le questioni ritenute più pressanti per la teoria politica: dalla critica ai progetti cosmopolitici dei teorici liberali alla crisi dell’integrazione europea, dai movimenti di protesta che hanno investito le democrazie occidentali dal 2010 fino al ripensamento del ruolo pubblico dell’arte come luogo contro-egemonico.
Egemonia e agonismo
L’idea di agonismo in Mouffe prende le mosse da un’interpretazione della nozione gramsciana di egemonia quale nucleo originario di una decostruzione filosofica dell’apparato concettuale marxista e categoria fondamentale per la ridefinizione dell’orizzonte politico delle sinistre contemporanee.
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Renzismo in arrivo
1. L’economia politica del Renzismo
di Mario Pianta
Meno attenzione per Parigi e le periferie europee e più legami con la City di Londra. Il sostegno dall'alto di un blocco di interessi che va dalla rendita finanziaria e immobiliare alla Confindustria fino alle piccole imprese con l'acqua alla gola. Cosa si intravede all'orizzonte del nuovo governo
Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.
Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui sotto l’articolo di Anna Maria Merlo.
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Sceneggiature e sceneggiate
di Piotr
Tra la sceneggiatura del golpe in Ucraina e la sceneggiata di Vladimir Luxuria a Soci, assistiamo al marketing del nuovo imperialismo. Bugie, martellamenti e amnesieSceneggiatura. L'Ucraina
1. Quando nel mio post di un mese fa ho scritto che prevedevo che l'Ucraina stesse per diventare la Siria europea, la profezia era purtroppo molto facile.
Tutto si è ripetuto da copione. Mi viene in mente la barzelletta del carabiniere che va due volte a vedere Ben Hur perché pensa che possa cambiare il risultato della corsa delle bighe.
No. Il risultato è lo stesso ovunque Cia, Nato e suoi uffici specializzati in "rivoluzioni colorate", con contorno di Ong e di media e intellettuali progressisti (che sono diventati i nemici giurati di ogni ipotesi di emancipazione umana, comunque la si declini, vuoi con Marx, vuoi con Gesù o vuoi soltanto per puro amore di noi stessi, dei nostri figli e dell'Umanità e della Natura).
Il risultato è lo stesso perché il copione è esattamente lo stesso. Persino la pretesa "morte in diretta" dell'infermiera. Quando l'ho vista mi è subito venuta in mente la "morte in diretta" di Neda Soltan a Teheran. Ve la ricordate? Fece piangere indignato tutto il cortile della distopia ginocratica di sinistra, con a capo Lidia Menapace, più propriamente detta Menaguerra da quando votò a favore delle nostre missioni sub-imperiali a fianco degli Usa con motivazioni pseudo-poetico-intellettuali da presa per il culo.
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Come l’ossessione della sicurezza fa mutare la democrazia
Una cittadinanza ridotta a dati biometrici
di Giorgio Agamben
La sicurezza figura tra quelle parole «sgabuzzino» alle quali non si presta più alcuna attenzione tanto sono familiari. Eretta a priorità politica da una quarantina di anni, questa nuova denominazione del mantenimento dell’ordine cambia spesso di pretesto (la sovversione politica, il «terrorismo») ma conserva la sua mira: governare le popolazioni. Per comprendere ed eludere la ragione securitaria, bisogna coglierne l’origine e risalire al XVIII secolo…
La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza. Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia semplicemente prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma (1); al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica (2) durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica». Per quanto corretta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza contemporanei.
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Uscire dall’incubo dell’euro: le asimmetrie dell’Eurozona
di Alberto Montero Soler*
Passano i mesi, diventano anni, e la possibilità che i paesi periferici dell’Eurozona superino questa crisi attraverso un percorso diverso da una soluzione di rottura si allontana sempre di più all’orizzonte.
Contro quanti insistono nel sostenere che esistano soluzioni riformiste capaci di affrontare l’attuale situazione di deterioramento economico e sociale, la realtà si sforza di dimostrare che la fattibilità di queste proposte richiede una condizione previa ineludibile: la modificazione radicale della struttura istituzionale, delle regole di funzionamento e della linea ideologica che guida il funzionamento dell’Eurozona.
Il problema di fondo è che questo contesto risulta funzionale ed essenziale al processo di accumulazione del grande capitale europeo; ma è anche funzionale, ed è qualcosa che dobbiamo avere sempre presente, al consolidamento del ruolo egemonico della Germania in Europa, e del ruolo al quale essa aspira nel nuovo ambito geopolitico multipolare in costruzione. Per questo motivo possiamo avanzare almeno due argomenti fondamentali per rafforzare la tesi della necessità della rottura del contesto restrittivo imposto dall’euro, se si desidera aprire il ventaglio di possibilità a percorsi di uscita da questa crisi che consentano una minima possibilità di emancipazione per l’insieme dei popoli europei.
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La valutazione dell’utilità e l’utilità della valutazione
di Francesca Coin
I have planted the tree of utility,
I have planted it deep, and spread it wide.
J. Bentham
Il contesto di questa riflessione è il passaggio dalla democrazia liberale di stampo welfarista-keynesiano, basata su un modo di produzione fordista, alla governance neoliberale, forma di governo post-democratica contraddistinta, sul piano produttivo, dalla produzione postfordista e dal libero mercato. Il concetto di merito funge da spartiacque tra le due epoche presentandosi quale dispositivo di allocazione delle risorse su base selettiva, in contrapposizione ai “finanziamenti a pioggia” che caratterizzavano l’epoca fordista. Utilizzato dapprima nel lavoro industriale, e poi esteso alla sfera pubblica, il concetto di merito si presenta come dispositivo di inquadramento alternativo alla contrattazione nazionale (1) che consente di ripensare il salario sulla base di criteri definiti di tipo premiale, che nella sostanza trasferivano sul lavoro parte della crisi di accumulazione dell’epoca fordista. Era stato Ohno nelle fabbriche toyotiste ad affiancare al controllo disciplinare, tecnico e meccanico, contraddistinto dalla catena di montaggio, quella che chiamava “auto-attivazione”: (2) nel sistema Toyota solo un terzo della busta paga era assicurato mensilmente secondo un contratto. Il resto dipendeva dalla produttività, dai tassi di assenteismo e dalla “lealtà” dei lavoratori agli interessi e agli obiettivi aziendali.
Il salario, in altre parole, era legato strettamente alla performance, alla quantità di lavoro erogata dal singolo operaio e dalla sua unità produttiva.
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La trappola del capitale umano
Benedetto Vecchi
Pensiero critico. Il neoliberismo non è solo una teoria economica in crisi ma anche un progetto politico che vuol ridisegnare la società e cambiare «l’anima» di uomini e donne. Un’intervista con Christian Laval, in Italia per presentare il volume «La nuova ragione del mondo» scritto insieme a Pierre Dardot
Come un’araba fenice, il neoliberismo rinasce sempre dalla sue ceneri.. Non c’è nessun compiacimento nel segnalare la sua «resistenza» rispetto le crisi che ha conosciuto. Anzi, la crisi è il contesto in cui mostra capacità di «innovazione». È da queste premesse che il libro La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi) di Pierre Dardot e Christian Laval prende le mosse. L’analisi dei due studiosi france è circoscritta alle realtà capitalistiche europea e statunitense, rinviando in un secondo tempo l’analisi dei paesi emergenti — Cina, India, Brasile, Sudafrica -. Questo non significa che il saggio — al quale è stato dedicato il numero dell’inserto settimanale «Alias» del 30 Novembre 2013 — non aiuti a delineare una critica rigorosa a un regime di accumulazione capitalistica che ha una vocazione «globale». Quello di Dardot e Laval non è infatti una analisi del neoliberismo come modello economico, bensì come progetto di società che ha come condizione preliminare la «formazione» di un «uomo nuovo», l’individuo proprietario.
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Arriva il Job Act. Che fare?
di Gianni Giovannelli
In questi giorni è in atto la terza ristrutturazione di governo, sotto l’occhio vigile e complice di Napolitano, per trovare la quadra a una situazione politica che non sembra avere soluzioni, se non quella di ricorrere a: “un uomo solo al comando”: prima Berlusconi, oggi, dopo il fallimento dei “tecnici”, Renzi. Nel frattempo, nel più assordante dei silenzi, si ridefiniscono i piani di politica economica e si preparano i materiali per l’ennesima precarizzazione del lavoro.
* * * * *
E’ ben chiaro a tutti che la mera critica, pur doverosa e necessaria, non è sufficiente. Intendiamoci. E’ ben vero che oggi, nel precariato come negli agglomerati di lavoro almeno formalmente stabile, prevalgono la paura, l’insicurezza, la preoccupazione legata ad un futuro percepito come incerto; ma è altrettanto vero che accanto alla paura fanno capolino, quasi ovunque e sempre più evidenti, i desideri, le speranze, le attese di una reale nuova emancipazione.
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Le illusioni di Maastricht e l’Europa reale
Luigi Pandolfi
Sono passati ormai più di vent’anni da quel 7 febbraio del 1992, quando i paesi pionieri della Comunità europea firmavano il trattato istitutivo della nuova Europa. Nel frattempo sono cambiate tante cose, a cominciare dalla percezione del processo di integrazione. Si può dire che un ciclo si è ormai irrimediabilmente chiuso?
Sul piano storico il documento siglato a Maastricht costituiva un atto di grande valore simbolico, se non altro perché veniva adottato dopo la caduta del Muro di Berlino, l’evento politico più dirompente dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Oltre il dato formale, esso celebrava la vittoria del capitalismo e del libero mercato sul socialismo dirigista del vecchio blocco sovietico.
C’era enfasi nelle sue parti iniziali. La nuova Europa avrebbe dovuto assicurare “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità”, “alti livelli di occupazione e di protezione sociale”, “il miglioramento del tenore e della qualità della vita” delle persone, un “elevato grado di convergenza dei risultati economici”, perfino la “solidarietà tra gli stati membri”.
Di questi macro-obiettivi non se ne è realizzato nessuno.
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Più Europa? No, grazie!
Quale sinistra per quale Europa
Spartaco A. Puttini
La crisi ha mostrato il vero volto del processo d’integrazione europeo. A dispetto di tanta pubblicità, oggi la Ue non gode di grande reputazione presso i popoli europei. Quando si parla di Europa occorre evitare i facili equivoci. L’Unione europea non è infatti l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona è, a sua volta, una parte della Ue. Ciononostante nel linguaggio corrente i termini sono interscambiabili.
Il processo di integrazione europeo si è ammantato di nobili ideali e anche di qualche utopia, rincorrendo il sogno federale degli Stati Uniti d’Europa ma realizzando l’incubo sovranazionale della Ue, cioè dell’Europa degli Stati Uniti.
Europa degli Stati Uniti sia nel senso che ad integrarsi sono stati i paesi di quella parte d’Europa soggetta all’egemonia Usa (significativo che l’allargamento dell’Ue ad est avvenga parallelamente all’espansione ad est della Nato), sia nel senso che la costruzione dell’unione avviene sotto la tutela americana, all’insegna dell’accettazione piena della reazione neoliberista già in voga nel mondo anglosassone e, in definitiva, come ulteriore tappa del processo di mondializzazione1.
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Gianluca Solla, Memoria dei senzanome
di Eleonora de Conciliis
Gianluca Solla
Memoria dei senzanome.
Breve storia dell’infimo e dell’infame
Ombre corte, Verona 2013,pp. 172
euro 16,00 ISBN 9788897522577
Aprendo con una splendida analisi della fotografia di uno straccivendolo scattata da Atget agli inizi del Novecento, e utilizzando il metodo benjaminiano del montaggio – montaggio di istantanee, di affondi teorici e critici, di paesaggi urbani e spirituali – Gianluca Solla costruisce un testo di filosofia politica, ma anche, e soprattutto, un percorso di filosofia morale che ha come oggetto gli scarti umani dell’economia capitalistica: coloro che, in una triste specularità mimetica, vivono dei rifiuti di questa economia (cfr. pp. 11-16), ma anche i vinti, gli abietti, i rivoltosi che sono apparsi per un istante sulla scena della “storia dei vincitori” (Benjamin) per poi ripiombare nell’anonimo inferno della loro quotidiana umiliazione, e ai quali nessuna visione dialettico-progressiva degli eventi sembra in grado di rendere giustizia, o almeno donare l’onore del ricordo.
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La lezione di Augusto Graziani
Emiliano Brancaccio
In ricordo del grande economista recentemente scomparso, per molti anni collaboratore di «Critica marxista». Ci ha insegnato che la lotta di classe c’è, persino quando non se ne ha coscienza. E che la disoccupazione non si combatte con la deregolamentazione del lavoro. Lo sguardo preoccupato sull’euro, a partire dalla sua introduzione
Augusto Graziani è morto il 5 gennaio scorso, a Napoli, pochi mesi dopo le celebrazioni per i suoi ottant’anni. Scompare così il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante. Nato a Napoli nel 1933, esponente di punta delle scuole italiane di pensiero economico critico, già senatore e accademico dei Lincei, nell’arco di quasi mezzo secolo di pubblicazioni Graziani si è cimentato con successo nella infaticabile opera di tessitura di una sottile trama logica, in grado di tenere coerentemente assieme ricerca teorica pura, didattica e divulgazione1. Per questa sua missione gramsciana, riuscita a pochi altri e oggi considerata impossibile dalla stragrande maggioranza degli economisti, Graziani ha saputo farsi apprezzare non solo da studenti e colleghi ma anche da un più ampio pubblico di estimatori, tra cui i lettori dei suoi editoriali pubblicati sul manifesto, sul Corriere della sera e su varie altre testate nazionali2.
All’interno della comunità scientifica Graziani si è distinto per l’originalità e la vastità delle sue ricerche, dagli studi dei primi anni ’60 dedicati ai problemi del Mezzogiorno e del relativo sviluppo dualistico italiano, alle interpretazioni definite “conflittualiste” della crisi e della ristrutturazione degli anni ’60 e ’70, fino ai più recenti contributi degli anni ’80 e ’90 volti alla costruzione di uno schema di “teoria monetaria della produzione”.3 Il terreno della ricerca non è tuttavia l’unico sul quale Graziani si è cimentato. A esso si affianca quello, non meno congeniale, della didattica.
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Perché la gente non si ribella?
di Marino Badiale
Se “gente” suona troppo populista alle vostre orecchie, potete tirare in ballo il popolo, le masse, il proletariato, la classe operaia, i ceti subalterni, come meglio vi piace. Comunque sia, il problema è chiaro, ed è fondamentale. Dopo tante analisi sociopoliticoeconomiche, possiamo dire di aver capito, almeno in linea general, cosa “lorsignori” stanno facendo, e perché. Ma la possibilità di una politica di contrasto ai ceti dominanti è appesa a questa domanda: perché la gente non si ribella?
Non ho risposte, lo dico subito. Mi sembra però di poter argomentare che alcune delle risposte che più comunemente vengono ripetute sono poco convincenti. Proverò allora a spiegare questo punto, nella convinzione che togliere di mezzo le spiegazioni deboli o incomplete possa aiutare ad elaborare spiegazioni migliori.
Risposta n.1: “La gente sta bene, o meglio, non sta ancora abbastanza male”. Il sottinteso di questa risposta è che l'ora della rivolta scocca quando si sta davvero male, quando arriva la fame. Ma questa idea è sbagliata. Se fosse corretta, il lager hitleriano e il gulag staliniano sarebbero stati un ribollire di rivolte, e sappiamo che non è andata così
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L'Europa ipocrita e l'Euro-sclerosi
di Pier Giorgio Ardeni
Il concetto di euro-sclerosi fu coniato negli anni 80 per indicare un mercato del lavoro sclerotico. Oggi le arterie della vecchia europa sono di nuovo intasate. E la più grave crisi da ottanta anni a questa parte non ha ancora trovato una chiave di lettura
Forse in pochi ricordano un termine venuto di moda in certi circoli negli anni '80 – Euro-sclerosi – per indicare un mercato del lavoro "sclerotico", come fossero le arterie otturate della vecchia Europa, a fronte di un'economia comunque in crescita che non lasciava fluire i lavoratori dentro e fuori, a differenza di quello americano a quel tempo più "dinamico". Ne parlarono Olivier Blanchard e Larry Summers, allora "giovani economisti" promettenti, in un famoso articolo del 1986 sull'isteresi della disoccupazione europea (agli economisti è sempre piaciuto rifarsi ai fisici e prenderne a prestito i termini con ben altro significato). L'Euro-sclerosi come sinonimo di alta disoccupazione e bassa mobilità. Non che gli Stati Uniti stessero poi così meglio, a quel tempo, e con il senno di poi lo si può ben dire, visto che il productivity slowdown cominciato alla fine degli anni '70 faceva ancora sentire i suoi strascichi. E, anche lì, giù a dare la colpa al mercato del lavoro. Gli anni sono passati, e di acqua sotto i ponti ne è passata al punto di allagare, esondare, ritirarsi in siccità e cambiare il mondo.
Oggi siamo nel mondo del post, il postmoderno, il post-capitalismo, il post-comunismo (ce lo siamo già dimenticati).
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Combattere la crisi: la proposta di ATTAC?
di Ernesto Screpanti
È in libreria per le Edizioni Alegre un’opera collettanea dal titolo ambizioso: “Come si esce dalla crisi”. Senza punto interrogativo. Dunque vuole essere una risposta alla domanda che tutti ci poniamo: Come si esce dalla crisi? Però, forse turbati dall’eccesso di ambizione, gli autori ridimensionano subito le aspettative nel sottotitolo: “Per una nuova finanza pubblica e sociale”. In realtà né il titolo né il sottotitolo sono del tutto veritieri: Il primo promette troppo il secondo troppo poco.
In questo articolo non voglio fare una semplice recensione. Piuttosto proverò a sviluppare una riflessione su alcune problematiche sollevate dal libro e dare qualche suggerimento. E comincerò con l’enucleare le proposte di riforma, rielaborandole nella veste di un programma politico. Non credo di andare lontano dalla realtà se dico che questo libro presenta una bozza di programma di un’area di movimento che gravita intorno ad ATTAC. Tuttavia non sarebbe corretto considerarlo come il programma di ATTAC, non solo perché quest’associazione non è un partito politico, ma anche perché solo alcuni degli autori del libro vi appartengono. Ciononostante, perpetrando una sineddoche che mi sembra più chiarificante che deformante, mi riferirò alla bozza di programma come se fosse ispirata alla visione politica dei compagni attacchini.
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Capitalismo predatore
Il paradosso del calabrone
Bruno Amoroso, Nico Perrone
Nella sua seconda lezione di Roskilde, in Danimarca, Federico Caffè ricordava agli studenti che quando si parla dell’economia italiana è necessario fare riferimento al calabrone, un particolare animale che secondo le leggi della dinamica non potrebbe volare, ma che nei fatti continua a volare. E di questo paradosso Caffè fornì alcune indicazioni centrate sull’attenzione eccessiva data, a suo avviso, agli aspetti congiunturali utilizzati come strumento di «allarmismo economico», con fini economici e politici manipolatori, mettendo così in ombra aspetti strutturali come la distribuzione dei redditi, le politiche industriali, energetiche, dell’edilizia popolare, del problema giovanile, dell’evasione fiscale, dell’agricoltura e dell’occupazione. Una manipolazione alla quale, osservava stizzito, si sono piegati anche i sindacati e le forze politiche progressiste che di questi aspetti dovrebbero essere i maggiori custodi.
In un recente articolo dal titolo Qual è il problema dell’Italia?, l’economista statunitense Paul Krugman rivela di essere al lavoro a un progetto di ricerca che lo appassiona da tempo e che riguarda l’interrogativo su cosa sta succedendo in Italia. Un interrogativo da sciogliere, a suo avviso, perché il confronto che viene spesso fatto con la situazione di Spagna e Grecia all’interno dell’eurozona non è affatto convincente.
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Fast and Furious
L’ultimo atto della politica istituzionale italiana andato in scena in questi giorni ha offerto al grande pubblico uno spettacolo da cinema hollywoodiano, c’è chi l’ha chiamato Italian jobs , chi Gangs of Pd mentre assisteva ad una guerra per bande fatta esclusivamente per il potere nel più cieco disinteresse verso un paese stracotto e sfinito. Nel nostro piccolo ne proponiamo un terzo: Fast and furious.
Fin dall’infanzia ci è stato insegnato che ci sono due categorie dalle quali non possiamo prescindere: lo spazio ed il tempo.
La prima è facilmente archiviabile, con tutte le banalizzazioni del caso, nella fortezza Europa che se al suo esterno si presenta così (a lato) al suo interno si traduce nella famigerata Troika che non è organismo esclusivo riservato ai soli greci! Osservare il proliferare di colori nazionali (verde, bianco, rosso) che maculano immancabilmente simboli e cartelloni elettorali è chiaro sintomo dell’inconsapevole finzione alla quale partecipiamo. Apparteniamo a un’altra scala e sarebbe ora di cominciare a ricordarlo senza troppe nostalgie o rigurgiti nazionalisti.
Il tempo, al contrario, è ciò che ci interessa maggiormente e che sarebbe bene analizzare perché tirato in ballo da più parti e forse, perché protagonista principale di questa fase.
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Riflessioni sul voto svizzero
I limiti di una lettura razzista e l’esigenza di una riposta internazionale di classe
Collettivo Scintilla
Torniamo nuovamente sul voto svizzero dello scorso 9 febbraio e lo facciamo con il contributo a firma dei compagni e delle compagne del Collettivo Scintilla (Ticino). Un contributo interessante perché evidenzia, a nostro avviso, come il caso svizzero sia meglio comprensibile se guardato da un punto di vista più ampio (e di classe), capace di tenere dentro la discussione la complessità dei rapporti tra la Confederazione svizzera e l’Unione Europea. A loro vanno i nostri ringraziamenti per il contributo; buona lettura!
Il 29 novembre 2009, gli elettori svizzeri accettavano l’iniziativa popolare : “Contro la costruzione di minareti”. Questa iniziativa, destinata ad avere ampio risalto nelle testate giornalistiche di tutta Europa, iscriveva nella Costituzione Federale l’esplicito divieto di edificazione delle caratteristiche “torri” dalle quali i muezzin sono soliti chiamare alla preghiera i fedeli mussulmani. All’epoca della votazione esistevano in Svizzera, ed esistono tuttora d’altronde, quattro moschee provviste di minareto, nessuna delle quali eseguiva appelli pubblici alla preghiera.
L’iniziativa venne approvata contro ogni previsione. Portata avanti dalla sola Unione Democratica di Centro (UDC) [1] contro il parere di tutte le altre formazioni politiche e autorità istituzionali, fu salutata dalla destra xenofoba autoctona e straniera come il trionfo della volontà popolare e della democrazia (semi)diretta: Il popolo, di nuovo sovrano, rispondeva alla “minaccia” dell’”islamizzazione” e dell’inforestieramento, utilizzando lo strumento del voto per imporre il proprio volere ad un esecutivo giudicato troppo tollerante e passivo.
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Rossobruni maior e rossobruni minor
Perché, perché sì e perché no
di Piero Pagliani
1. Per capire che cos’è il cosiddetto “rossobrunismo” attuale occorre innanzitutto mettere a fuoco l’approdo ideologico e politico della sinistra storica in Occidente.
Questo approdo è stato sintetizzato dall’economista statunitense Michael Hudson in una semplice domanda che si trova ad un punto di snodo del suo libro “Super Imperialism -The Origin and Fundamentals of U.S. World Dominance”. La domanda è così formulata: «Quale altro compito hanno oggi i partiti di sinistra se non quello di tradire i propri patti costitutivi?».
E’ una domanda molto pertinente.
Diverse volte ho dovuto sottolineato un fatto che spesso sfugge: i partiti storici della sinistra europea hanno assunto, a volte in modo quasi estatico come in Italia, un’ideologia politico-economica che nata negli anni Cinquanta a Chicago fu per la prima volta sperimentata in corpore vili in Cile su richiesta del dittatore Pinochet e sotto la protezione delle sue armi fasciste. Si tratta del neoliberismo-monetarismo.
Basta questo dato di fatto storico per comprendere che siamo di fronte a una potente forma di commistione tra destra e sinistra che possiamo battezzare “rossobrunismo maior”.
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Disoccupazione tecnologica e negazione della domanda nel mondo dell'"Intelligenza Artificiale"
Le nuove frontiere supply side della politica italiana
di Quarantotto
Della presunta spinta "hi-tech" verso la disoccupazione ne avevamo già parlato nel finale di questo post.
Questa versione ci viene ora riproposta in maggior dettaglio dallo stesso commentatore.
Le sue argomentazioni possono, grosso modo, così riassumersi:
1- l'innovazione tecnologica è così veloce e tumultuosa da mettere in pericolo ormai il 47% dei posti lavoro;
2- ciò si era già verificato alla fine dell'800, ma allora era risultato più agevole la sostituzione dell'occupazione perduta con nuovi "mestieri", aspetto che, in questo frangente non sarebbe riproponibile;
3- le "nuove tecnologie" incidono specialmente su certi settori dei servizi, acuendo le distanze tra i "più esperti" e i "colletti bianchi, i più esposti all'ascesa della intelligenza artificiale" (robot e Internet diffuso);
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Cripto-moneta del comune e "acciarpature monetarie"
di Sebastiano Isaia
L’esistenza del denaro presuppone la reificazione del contesto sociale (1).
Dove c’è la moneta, insiste sempre e necessariamente un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento.
Alla ricerca, in precario equilibrio tra il chimerico e il comico, di «una moneta del comune come possibile embrione della costruzione di un circuito finanziario alternativo, che sfugga al controllo e alle imposizioni delle oligarchie finanziarie», il comunardo Andrea Fumagalli fa una serie di scoperte davvero sorprendenti. Egli scopre ad esempio che «la moneta è un’invenzione umana [che] non cresce sugli alberi», che essa «ci dimostra che l’essere umano è un animale sociale» (2). Non ditemi che queste cose le aveva già scoperte non pochi secoli fa un antico filosofo greco perché non ci credo! Lasciamo cadere ogni invidia, e seguiamo con fiducia Fumagalli lungo la via che mena al Comun(e)ismo. «Comun(e) che?». Insomma, abbiate fede!
Vediamo dunque con animo aperto alla speranza le altre perle nel sacco del nostro amico: «La moneta è relazione sociale [e qui mi tolgo il cappello in segno di approvazione]. Una relazione sociale che oggi non è paritaria, ma che potrebbe diventarlo [qui invece inizio a nicchiare]. La moneta è la dimostrazione dell’esistenza di una comunità, perché la moneta è frutto di un rapporto di fiducia». Prescindendo da ogni altra considerazione critica volta a mettere in discussione il quadro abbastanza confuso appena visto, mi chiedo: una relazione sociale «paritaria» non presuppone la scomparsa della moneta? Vediamo come risponde il Nostro: «La moneta è, soprattutto, potere. Potere di decisione, potere di arbitrio. E oggi è potere capitalistico. Per questo la moneta non è un bene comune». Se ho bene inteso, oggi la moneta «è potere capitalistico», mentre domani essa potrebbe esprimere un ben diverso potere, e precisamente quello comunardo.
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Necessario un progetto sovranazionale per rompere l'Europa dei mercati
N.Fragiacomo intervista Franco Russo
Franco Russo, classe 1945, vanta una lunga e coerente militanza a sinistra: iscrittosi nel 1961 alla FGCI - da cui venne espulso sei anni dopo per aver promosso il Centro antimperialista Che Guevara - ha preso parte al movimento del ’68 romano; cofondatore di Democrazia Proletaria (del cui gruppo parlamentare è stato presidente) e tra gli animatori della sinistra rosso-verde, ha poi aderito a Rifondazione Comunista, ricoprendo dal 2006 al 2008 la carica di deputato. E’ stato anche attivo nel Social Forum europeo da ‘Firenze 2002’. Nel 2012, assieme a Giorgio Cremaschi e ad altri, ha dato vita a Ross@.
Non è il classico politico che parla di tutto senza approfondire nulla: Russo conosce come pochi – non solo a sinistra – la complessa materia dei trattati e del diritto europeo. La sua posizione è chiara: il 14 dicembre, all’assemblea di Ross@, ha letto una relazione intitolata “Rompere l’Unione Europea” – unica via, sostiene, “per battere centrosinistra e centrodestra, al governo insieme in Italia, che portano avanti le politiche antipopolari dell’austerità. L’altro nostro nemico è il populismo.”
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Marx a Casa Pound?
Scritto da Diego Fusaro
Diego Fusaro risponde alle dure critiche a lui rivolte da Contropiano e Antiper per la partecipazione, poi ritirata, al convegno di CasaPound su Marx[n.d.r.]
Sul “Corriere della Sera” di sabato (15 febbraio, p. 29) ho spiegato che l’aver accettato da parte mia l’invito di “Casa Pound” a discutere a Roma il 21 febbraio del pensiero di Marx ha suscitato un moto d’indignazione in alcuni ambienti antifascisti. Purtroppo, le mie intenzioni di filosofo sono state fraintese in senso politico e sono stato addirittura tacciato di avere simpatie fasciste e quindi, in quanto “nemico del popolo”, condannato all’ostracismo. Ho perfino ricevuto insulti e minacce contro la mia persona e la mia incolumità. Rimbomba una caccia alle streghe di marca staliniana che pensavo fosse stata superata da un pezzo. La buona fede mi faceva sperare in un dialogo serio e pacifico, tra posizioni diverse ma animate dalla volontà di confrontarsi. Questo era lo spirito con cui avevo aderito all’iniziativa. Ma evidentemente non è la situazione opportuna per dialogare con chi la pensa diversamente. Speravo e spero sempre nel dialogo, perché rifiutarsi di dialogare significa perdere in partenza: le idee si sconfiggono con le idee.
Non sono mai stato fascista, né mai lo sarò. Socrate mi ha, però, insegnato a dialogare con tutti.
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