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I fatti sono stupidi (Nietzsche)
Il problema della bêtise in filosofia
Giovanni Bottiroli
1. Immaginiamo un docente universitario di filosofia che all’inizio delle lezioni si rivolge agli studenti e chiede se qualcuno ha portato con sé il manuale adottato per quel corso. Gli studenti, dando prova di particolare zelo, estraggono il testo dalle loro borse: il professore legge la frase di apertura, poi commenta: “Stupidaggini” (forse si serve di un’espressione più colorita); e invita gli studenti a strappare la prima pagina di quel testo, e a gettarla via.
Probabilmente la maggior parte dei lettori ha riconosciuto la scena che ispira la mia riflessione: è tratta da un film, L’attimo fuggente (1989), di Peter Weir. Nel mio esempio, l’analogia riguarda il fatto che il docente (come il professor Keating) si trova a utilizzare un manuale non scelto da lui; la differenza riguarda il tipo di manuale, non letterario bensì filosofico. Ebbene, qual è l’affermazione che il protagonista del mio esempio considera una stupidaggine? È la tesi di un filosofo analitico, Willard Van Orman Quine, ed è stata enunciata in un saggio del 1948 pubblicato in volume nel 1953. Suona esattamente così: «Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può venir posto, in inglese, con tre sole parole: 'What is there?'»1.
2. Perché quest’affermazione è stupida? E, ammettendo che lo sia, come è possibile che continui a ricevere tante adesioni? Mi limiterò a menzionare un testo piuttosto recente: “La metafisica e l’ontologia, a ben guardare, ruotano attorno a una semplice domanda: che cosa esiste?”2.
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Per una lettura materialistica delle vicende medio-orientali
L.C.
Le conquiste di Daesh (nome arabo di quello che qui da noi viene erroneamente tradotto in Stato Islamico) in Iraq e Siria sono soltanto gli ultimi avvenimenti sfruttati dai media mainstream per riproporre la storia di una (presunta) decadenza della civiltà medio-orientali legata all'Islam.
Funzionale alla riproduzione di pseudo-analisi dal carattere marcatamente orientalistico che usano come prisma di lettura quello della religione islamica, e la sua presunta incapacità ad adattarsi alla modernità, la narrazione occidentale del Vicino e del Medio Oriente ha una storia secolare come fenomeno culturale e politico.
Essa non è una vuota astrazione, ma è la risultante della cristallizzazione dei rapporti di forza costituitosi nel tempo (già la stessa definizione di Medio Oriente presenta aspetti di parzialità linguistica, dovuti alla forza di chi ha imposto questa etichetta) e il prodotto di energie materiali ed intellettuali dell'uomo.
Come ha magistralmente illustrato Edward Said nel suo “Orientalismo”, questo sapere è diventato scienza in Occidente, e la distinzione sia epistemologica che ontologica tra l'Oriente da un lato e l'Occidente dall'altro è diventata narrazione e lettura tassonomica del sapere universalmente accettata in campo accademico ed extra-accademico.
Quanto detto finora è oggi paradigmatico nella narrazione dei fatti che ci vengono riproposti sul Medio Oriente.
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I flussi mondiali di investimenti
Un’istantanea del capitalismo contemporaneo
di Ferdinando Gueli
I dati del Rapporto annuale dell’UNCTAD sui flussi di investimenti diretti esteri ci forniscono un quadro che conferma le attuali dinamiche dei sistema capitalistico, nella sua fase di globalizzazione, che comporta anche un cambiamento degli equilibri geoeconomici e, quindi, geopolitici, con tutte le contraddizioni che ne possono emergere, ma anche un peso sempre più dominante ed incontrollato delle multinazionali. Rispetto a questi fenomeni appare velleitario e forse un po’ nostalgico il richiamo ad un multilateralismo sovranazionale che aveva svolto un ruolo sicuramente importante in una fase storica differente, oggi difficilmente ripetibile, almeno nel contesto attuale
Introduzione
Il Rapporto annuale dell’UNCTAD “World Investment Report – WIR 2015” rappresenta un’utile istantanea delle attuali dinamiche del capitale mondiale. Il Rapporto non si occupa degli investimenti di portafoglio, cioè dei movimenti finanziari di natura speculativa, ma si concentra invece sui flussi internazionali di investimenti diretti esteri (IDE), cioè sostanzialmente sull’esportazione ed importazione di capitali nei vari paesi.
Da una lettura del Rapporto emergono alcuni dati interessanti che offrono spunti di riflessione dal punto di vista dell’analisi critica delle dinamiche del capitalismo contemporaneo.
Cominciamo con il dire che il volume globale di investimenti in entrata ha subito, nel 2014, una contrazione del 16% rispetto al 2013, attestandosi a 1.230 miliardi di dollari USA. Questo conferma sostanzialmente il quadro di crisi globale che, nonostante i proclami, gli annunci e le stime artificialmente ottimistiche diffuse dalle istituzioni economiche e finanziarie dominanti, non accenna a risolversi.
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Noioso ripetere, ma...obbligatorio (data l’ignoranza imperante)
Gianfranco La Grassa
1. Ancora pochi giorni fa, un amico (nemmeno proprio un semicolto, anche se, ahimé, legge “Micromega”, il concentrato della demenza di “sinistra”) mi ha contestato il fatto d’aver sostituito la lotta tra capitale e lavoro con la geopolitica. Bontà sua, mi ha risparmiato la “lotta di classe”, la lotta tra borghesia e proletariato. Tuttavia, non c’è un gran miglioramento, anzi! La “lotta di classe”, come idea intendo dire, è partita quasi due secoli fa, ha avuto poi un rigurgito un po’ nauseante (sempre come idea) con il ’68 del secolo scorso ed infine è finita in conflitto capitale/lavoro; in Italia, direi soprattutto dopo la sconfitta della “Classe Operaia” alla Fiat nel 1980.
La lotta di classe partiva da certe analisi di Marx – compiute nel suo “laboratorio” d’epoca, l’Inghilterra – che avevano un loro realismo, non avevano comunque proprio nulla dell’utopia. A metà ‘800 era appena terminata la prima “rivoluzione industriale” (grosso modo 1760-1840). Appena appena si cominciava ad intravvedere quella che verrà denominata impresa, che significa appunto iniziativa di un dato “soggetto” (non di un individuo). In definitiva, si indica una unità organizzativa attiva nella sfera economica; ma non necessariamente nel processo produttivo in senso stretto, di trasformazione di dati materiali in prodotti per soddisfare certe esigenze, trasformazione attuata in quelle che vengono più specificamente denominate fabbriche e che sono prese in considerazione da Marx quale struttura portante della società nel suo complesso. In base all’idea che per poter sopravvivere, ogni società (non solo quella capitalistica) deve produrre, nel senso di trasformare materiali forniti dalla natura in oggetti d’uso sociale; anche come mezzi di produzione per successivi processi trasformativi.
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Per un programma ecosocialista
di Daniel Tanuro
Pubblichiamo la trascrizione (rivista e ridotta dall'autore) della relazione tenuta da Daniel Tanuro lo scorso 28 luglio al 32° campeggio internazionale anticapitalista, che ha avuto luogo in Belgio. La relazione è stata rivista anche sulla base degli interventi di quell'incontro, che hanno permesso all'autore di ritoccare e precisare il testo in alcuni punti
Di fronte all’urgenza ecologica: progetto di società, programma, strategia
In Aprile, due equipe differenti di glaciologi statunitensi specialisti dell’Antartide sono arrivati – con metodi diversi, basati sull’osservazione - alla stessa conclusione: rispetto al riscaldamento climatico globale, una porzione della calotta glaciale ha cominciato a sciogliersi e questo scioglimento è irreversibile.
Anche se gli scienziati sono riluttanti a considerare le loro proiezioni certe al 100%, sono stati comunque categorici: “il punto di non ritorno è superato" hanno dichiarato nel corso di una conferenza stampa congiunta. Secondo loro, nulla può impedire un aumento del livello degli oceani di 1,2 metri nei prossimi 3-400 anni. Stimano sia molto probabile che il fenomeno porti alla destabilizzazione accelerata della zona adiacente, ciò che potrebbe causare un aumento supplementare del livello degli oceani di più di 3 metri.
La catastrofe silenziosa è in marcia
Le conseguenze sociali dell’aumento del livello degli oceani di una tale ampiezza non possono sfuggire a nessuno. Basta ricordare che 10 milioni di egiziani vivono ad un'altitudine inferiore al metro slm - così come 15 milioni di bengalesi, una trentina di milioni di cinesi e indiani, venti milioni di vietnamiti… senza contare tutte le grandi città costruite nelle zone costiere :Londra, New York, San Francisco…
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L'insostenibile leggerezza dei tecnici
di Domenico Tambasco
Viaggio nelle lande della tecnocrazia dove previsioni e raccomandazioni scientifiche di “esperti” senza volto, declamanti la flessibilità e la “moderazione salariale”, si affiancano a panorami sociali devastati dalla crescente disoccupazione e dal crollo della produttività. Colpa della mancata realizzazione delle “riforme strutturali” o, al contrario, della loro pervicace attuazione? La coscienza della fallibilità e dell’incertezza delle soluzioni tecniche calate dall’alto potrebbe – forse – smascherare l’insostenibile leggerezza dei tecnici
“Houston abbiamo un problema”: ovvero dell’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale
Nel cuore di una torrida estate ha fatto scalpore l’ultimo rapporto periodico del Fondo Monetario Internazionale sull’Eurozona in cui, alla voce “Italia”[1], si punta il dito sull’elevato livello di disoccupazione che da tempo ha ormai superato il 12% (e che potrà essere riportato ai livelli pre-crisi solo tra vent’anni), con un 60% dei disoccupati privi di lavoro per almeno un anno ed il correlativo elevato rischio di dispersione del “capitale umano”, di incremento nella disuguaglianza dei redditi e, in definitiva, con un sensibile aumento del pericolo di cadere in nuove sacche di povertà[2]. A tale fosco quadro fa da cornice una produttività stagnante da circa quindici anni, frutto anche di un mercato del lavoro frammentato e poco flessibile, in cui i costi del lavoro incidono negativamente[3]. Sebbene in prospettiva l’intervento operato dal Jobs Act appaia idoneo ad incidere sulla storica rigidità del mercato del lavoro italiano, ancora altri passi devono essere fatti dall’Italia sulla strada della riduzione del costi del lavoro e dell’aumento della flessibilità, attraverso l’introduzione ed il potenziamento della contrattazione decentrata e l’incremento della qualità del “capitale umano” per mezzo della riforma del sistema di istruzione[4].
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Le dure repliche della storia
Marino Badiale, Fabrizio Tringali
Come era prevedibile aspettarsi, l'esito infausto della vicenda greca sta cambiando qualcosa, nelle riflessioni interne al variegato mondo “antisistemico”, che è costretto a confrontarsi con quelle che, in altro contesto, Bobbio chiamò “le dure repliche della storia”.
Finalmente una parte di quel mondo sta accettando una delle nostre tesi di fondo: cioè il fatto che mettere sul tavolo l'uscita dall'euro, almeno come “piano B”, è una condizione necessaria (anche se, come abbiamo ripetuto molte volte, non sufficiente) per qualsiasi programma politico di contrasto ai ceti dominanti nazionali e internazionali.
Ci sembra importante segnalare le sempre maggiori aperture che si stanno registrando in questo mondo, perché anche di qui passa la necessaria costruzione di un soggetto politico realmente antagonistico all'attuale organizzazione sociale.
Senza nessuna pretesa di esaustività, indichiamo alcune prese di posizione succedutesi dopo la sconfitta di Syriza (qualcuna l'avevamo già segnalata in post precedenti).
Riccardo Achilli prende una posizione netta a favore della nascita di “una sinistra nazionale, che mette l'uscita dall'euro al centro della sua proposta, e lo smantellamento della sovrastruttura comunitaria, che deve essere considerata un nemico, non un interlocutore.”
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Il lavoro ai tempi del capitale fittizio
di Norbert Trenkle
1
Che la produzione sociale, nella società capitalista, prenda la forma della produzione di merci, è opinione largamente condivisa. E' questo il motivo per cui Marx considera la merce come la "forma elementare" della ricchezza capitalista, e la sceglie come punto di partenza analitico per la sua critica dell'economia politica. La teoria economica non ha alcuna idea di cosa farsene di un tale approccio teorico. Essa tratta il concetto per cui le persone mediano la loro socialità attraverso la produzione e lo scambio di merci come se fosse un truismo antropologico. Non considera mai un essere umano come qualcosa di diverso da un potenziale produttore privato che fabbrica cose per poi poterle scambiare con altri produttori privati, avendo sempre ben presente in mente i propri particolari interessi. La differenza fra produzione di ricchezza nella società capitalista moderna e produzione di ricchezza nelle comunità tradizionali viene quindi considerata come una mera differenza di grado, con la puntualizzazione per cui sotto il capitalismo la divisione sociale del lavoro è di gran lunga più sviluppata, a causa dei progressi tecnologici e che le persone diventano più produttive nella misura in cui divengono più specializzate.
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Perché l’Eurogruppo sta governando l’Europa?
di Alberto Bagnai
La farraginosa complicazione del diritto europeo fa sì che ben pochi tra i comuni cittadini siano consapevoli di quali siano le modalità di governo della UE, un’organizzazione che sta diventando sempre più determinante per le nostre vite. In questo quadro oscuro, può accadere che organismi informali prendano delle decisioni per le quali non hanno alcun potere e al di fuori di ogni certezza del diritto…e nessuno se ne accorga! Sul suo blog Goofynomics, il prof. Alberto Bagnai analizza storia e origini dell’Eurogruppo, quest’organo stravagante che paradossalmente (e non per caso) ha in mano la gestione della crisi dell’euro. Una lettura indispensabile
Supponiamo che gli assessori alla finanza dei comuni di Manchester, Glasgow, Nottingham e Oxford si incontrino per caso in spiaggia a Bristol (Regno Unito). Decidono di prendere una birra insieme e durante questo incontro informale prendono un’altra, meno irrilevante, decisione: aumentare la vostra pressione fiscale. Sì, voglio dire proprio la vostra, anche se vivete a Londra, o Smarden, o Edimburgo, o dovunque nel Regno Unito …
Quali sarebbero le vostre reazioni il prossimo anno, una volta giunto il giorno felice di pagare le tasse? Suppongo che sareste contrariati. Ma, soprattutto, probabilmente vi porreste una ovvia domanda : “Chi o cosa mai al mondo ha dato a questa gente il diritto di aumentare la mia aliquota fiscale?”
La risposta è: nulla. Sono abbastanza sicuro che non c’è niente nella Costituzione inglese (o francese, o tedesca) che garantisce a una riunione informale di politici locali il diritto di aumentare le tasse a livello nazionale, o anche a livello locale. Una decisione del genere, se fosse applicata da una qualche autorità, provocherebbe subito una rivolta.
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Scenario d'estate
Il moloch neoliberista globalizzato alle corde (ma da solo sul ring)
di Quarantotto
1. L'approccio analitico, che ci fa affrontare un tema alla volta, pur cercando di evidenziarne le connessioni generali e specifiche, può essere talvolta fuorviante.
Proviamo allora a cogliere fenomenologicamente, per flash(es) essenziali lo scenario.
Questo approccio ci consente di meglio cogliere sia la tendenza "unificante" sia il livello di bis-linguaggio che domina l'informazione nel "blocco occidentale" (se pure questa definizione ha ancora un senso) e, soprattutto, in modo sempre più tragicomico, in Italia.
2. La prima cosa che risalta, sul piano globale, è che, da un lato, tutti si agitano sulla crisi dei BRICS, le vecchie locomotive post crisi sub-prime, che avrebbero tenuto a galla il mondo con la loro crescita e con l'afflusso di capitali (ora, al 50% già rifluiti verso un dollaro sempre più forte); ma, dall'altro, non si rinuncia a discutere della (altrettanto tragicomica) pantomima del rialzo dei tassi da parte della Fed.
Sul primo punto: è abbastanza evidente, ormai, dopo 7 anni di mancata uscita dell'eurozona dalla recessione e dalla stagnazione, per manifesta "austerità credibile", cioè "espansiva" (dei debiti pubblici), che non è il mondo emergente, i BRICS, caratterizzati dall'essere esportatori (inter alios) di materie prime e di manufatti da fabbriche "delocalizzate", a tirare giù l'€uropa. E' vero piuttosto il contrario.
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Lo hanno detto gli economisti!
di Graziano Graziani
È un peccato che del post pubblicato sul suo blog da Stefano Feltri giovedì 13 agosto non sia rimasta traccia della versione originale, pubblicata il giorno prima. Il breve articolo in cui il vice direttore del Fatto Quotidiano prendeva posizione contro le facoltà umanistiche, tacciate di scarsa utilità e di spreco di risorse pubbliche, è stato successivamente corretto – cosa evidenziata da lui stesso in calce all’attuale versione – poiché riportava degli errori. E visto che il commento aveva suscitato un dibattito piuttosto vivace – tanto che l’autore ha sentito poi l’esigenza di tornare sull’argomento il giorno dopo – sembrava giusto correggerlo. E fin qui nulla di male: la rete consente di aggiornare le versioni dei propri scritti e se ci si avvale di questa facoltà onestamente (cioè segnalandolo) non c’è alcun problema.
Tuttavia la versione originale, forse perché scritta di getto, magari prestandoci poca attenzione perché destinata al pubblico disattento della settimana di Ferragosto, aveva qualcosa di illuminante per quanto riguarda le scorciatoie mentali con cui trattiamo certi temi. Il pensiero di Stefano Feltri lo si può desumere direttamente dai suoi articoli, ma per completezza ne faccio una sintesi (estrema): un laureato in ingegneria ha più possibilità di trovare lavoro di un laureato in lettere, a cinque anni dalla laurea guadagna di più e può permettersi più servizi. E fin qui l’acqua calda. La conclusione, poi, è la seguente: perché la collettività dovrebbe accollarsi i costi di facoltà che producono disoccupati? Lo studio delle lettere, ad esempio, è poco funzionale alla produzione di posti di lavoro: che lo finanziamo a fare?
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Il mal cinese si chiama capitalismo
di Domenico Moro
La crisi borsistica della Cina e dei cosiddetti emergenti sta destando grande preoccupazione in Europa e negli Usa. Non si tratta di una crisi puramente finanziaria. Dietro il crollo delle borse c’è il calo maggiore in sei anni e mezzo dell’indice della produzione manifatturiera, il crollo dell’export del -7,3% nei primi sette mesi del 2015 rispetto all’anno scorso, e il drastico rallentamento della crescita del Pil della Cina, ormai la seconda economia del mondo di cui negli ultimi anni è stata la vera locomotiva.
Insomma, quella che si profila non è soltanto una possibile crisi della Cina, del Brasile e degli altri emergenti. Si sta profilando un rallentamento, se non una crisi, della globalizzazione e il rischio che si verifichi un secondo e più devastante secondo tempo della crisi iniziata nel 2007-2008, con lo scoppio della bolla dei mutui, che ebbe come epicentro gli Usa. Gli effetti della crisi dei mutui si estesero a tutto il centro più sviluppato dell’economia mondiale, oltre agli Usa, all’Europa occidentale e al Giappone. A distanza di otto anni non si è ancora verificata alcuna completa “recovery” in questa parte dell’economia mondiale. Nonostante i reiterati Quantitative easing, cioè l’immissione di massicce dosi di liquidità da parte delle banche centrali, nei casi migliori il tasso di crescita del Pil è ancora al di sotto di quello potenziale, e nei casi peggiori (in Italia e nella maggior parte dell’area euro) la crescita è nulla e il Pil reale rimane ancora al di sotto del livello del 2007.
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La logica circolare
di Sandro Vero
«[...] l'imperfezione dell'infinito dipende dal suo carattere incompiuto.L'infinito è ciò fuori del quale resta sempre qualcosa; in altri termini, è ciò che non è intero, che non ha compimento. L'infito è dunque per sua essenza privazione». (Andrea Sani)
1. L'infinito buono e l'infinito cattivo.
E' opinione diffusa che la Grecia classica aborrisse l'infinito, e ciò nonostante si trattasse di un tema molto presente nel suo pensiero. Secondo tale opinione lo aborriva fondamentalmente perché l'infinito appariva ai greci come imperfetto, squilibrato, portatore di caos. L'ápeiron, in realtà, non significa solo "infinito" ma anche "illimitato" o "indefinito", manifestandosi già in questo la grande estensione di senso che si genera intorno a quel concetto. Il riferimento, sia pure privativo, al limite è illuminante: la struttura etimologica non lascia scampo, la a- privativa ("non") segnalando la mancanza del carattere che più di ogni altro garantiva, nella cultura ellenica, la perfezione e l'armonia, vale a dire il limite, espresso nel péros (appunto: "limite").
Ciò che era in gioco sembrava, a conti fatti, la forma, di cui poteva essere dotata solo un'entità finita, cioè limitata, di contro a una qualsivoglia manifestazione di un concetto, quale quello di infinito, che per ciò stesso non poteva aspirare alla perfezione. Che per i Greci era sempre perfezione formale.
Quello che sembra certo è che una concezione negativa dell'infinito, apertamente avversa ad esso, fu quella dei pitagorici - dal cui pensiero germogliarono i paradossi zenoniani - sostenitori del fatto che:
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Il potere e la guerra
di Lanfranco Binni
La nomina di una corrispondente di guerra di provata fede atlantica alla presidenza della Rai e il diktat emerito del «presidente ombra» Napolitano ad accelerare la concentrazione dei poteri nell’esecutivo hanno forse qualche relazione con la nuova fase della guerra nell’area siriano-irachena e in Libia? In Siria, la campagna terroristica-mediatica dell’Isis ha svolto efficacemente il suo ruolo di provocazione e disgregazione, preparando il terreno a un intervento degli Stati Uniti e della Nato, ed è tempo di raccogliere i frutti della semina. Resta da risolvere la questione dell’indipendentismo kurdo, ma a questo ci pensa la Turchia: la no-fly zone nel nord della Siria, stabilita di fatto dalla Turchia e dagli Stati Uniti senza perdere tempo con mediazioni Onu, dal 24 luglio serve a bombardare gli avamposti kurdi, in prima linea contro l’Isis, e a sviluppare l’attacco alle posizioni dell’esercito governativo siriano. Sul piano della diplomazia, l’abile proposta iraniano-siriana (6 agosto) di una soluzione politica del conflitto (cessate il fuoco e nuovo governo di unità nazionale in Siria), non dovrà essere raccolta, provenendo dal vero obiettivo della strategia statunitense e israeliana nell’intera area: l’Iran, fortemente impegnato sul campo nella lotta ai terroristi dell’Isis.
La dittatura militare in Egitto e la preparazione di un intervento diretto della Nato in Libia, usando la testa di ponte del governo filoccidentale di Tobruk, completano il quadro.
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La BCE e il tradimento della regola di Bagehot
di Mario Seccareccia
Si è sollevato un gran dibattito mediatico intorno alla crisi greca, ma il ruolo della Banca Centrale Europea (BCE) è stato piuttosto sminuito. La BCE è stata spesso presentata come una distante istituzione al di sopra di ogni sospetto, il cui obiettivo principale è semplicemente quello di stabilizzare il sistema monetario e finanziario dell’eurozona, ed è stata infatti celebrata come la più “indipendente” tra le banche centrali. Tuttavia, sarebbe più corretto dire che la BCE è una banca centrale sovranazionale che si pone come autorità tecnocratica suprema che si presume agisca nel pubblico interesse senza, ci dicono, favorire alcun governo o gruppo di governi nazionali. La BCE dirige ex cathedra l’intera costellazione di banche centrali nazionali dell’eurozona all’interno di uno specifico framework politico, dove queste sono soltanto sue controllate nell’ambito del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC). Le banche centrali nazionali sono quindi “indipendenti” dai loro governi nazionali ma, allo stesso tempo, completamente dipendenti da un’autorità tecnocratica superiore e presumibilmente “neutrale” e “basata sulle regole”, la BCE, che dovrebbe attuare politiche con il fine di raggiungere gli obiettivi del suo mandato originario e, cioè, raggiungere la stabilità dei prezzi e il massimo livello di benessere all’interno dell’intera zona euro, senza pregiudizi o parzialità.
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È l’Europa, bellezza!
di Paolo Pini e Alessandro Somma [1]
Il Trattato di Lisbona del 2007, nella parte in cui elenca i fondamenti dell’Unione europea, menziona una formula carica di ambiguità: economia sociale di mercato. Molti ritengono che sia un richiamo al capitalismo dal volto umano, quindi a un ordine economico incompatibile con lo sconcertante epilogo della crisi del debito greco. Non è così: quella formula ha una lunga storia, tutta tedesca e tutta in linea con quanto avviene ad Atene.
Come si sa, il nazismo esattamente come il fascismo affossarono la democrazia ma non anche il capitalismo: la prima venne anzi sacrificata sull’altare del secondo, fatto che alla conclusione del secondo conflitto mondiale era considerato pacifico dai più. Tanto che nello scontro sulla costituzione economica della rinata democrazia tedesca era nettamente prevalente l’opzione per la democrazia economica: la situazione in cui lo Stato disciplina il mercato per renderlo un luogo nel quale le persone possono emanciparsi, se del caso contro il principio di concorrenza.
Gli oppositori della democrazia economica, detti ordoliberali, ritenevano invece che un mercato retto dalla concorrenza consentisse la migliore distribuzione della ricchezza, e che a queste condizioni l’inclusione sociale coincidesse con l’inclusione nel mercato.
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Un casino immenso
di Valerio Mattioli e Raffaele Alberto Ventura
Questo pezzo è uscito sul numero di agosto di Linus. Ringraziamo gli autori e la testata
Alla fine era nell’aria: al di fuori dei canali che una volta avremmo detto tradizionali, e a fianco delle testate che per decenni sono servite come riferimento per il “dibattito politico-culturale” – qualunque significato decidiate di dare alla famigerata formula – si è sviluppata negli ultimi anni una… come vogliamo chiamarla? New wave dell’opinionismo da terza pagina? Giovane scena intellettual-letteraria? Nuova generazione del giornalismo più o meno critico, più o meno militante?
Se non sapete di cosa stiamo parlando fidatevi di noi, che a parlare di robe simili rischiamo un conflitto d’interessi grande così poiché a questo mondo in qualche modo partecipiamo (seppur ai livelli più infimi). Diciamo allora che negli ultimi cinque, dieci anni è venuta a comporsi una costellazione di testate e firme che, se non ha interamente monopolizzato il dibattito di cui sopra, quantomeno ne sta fornendo una versione laterale e col passare del tempo forse persino influente.
L’armamentario è quello di sempre: editoriali di commento, saggi critici, approfondimenti di varia natura, articoli alle volte brillanti alle volte meno, “pezzi definitivi” e via di questo passo.
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Costanzo Preve e il medio-marxismo (1914-1956)
Enrico Galavotti
Quei due periodi di storia che Costanzo Preve, nella sua Storia critica del marxismo (ed. La Città del Sole, Napoli 2007), chiama "medio-marxismo" (1914-56) e "tardo-marxismo" (1956-91), per lui non hanno "alcun rapporto con la teoria originale di Marx", per cui il discorso, col marxismo classico, è praticamente già chiuso. Preve rifiuta persino la rivoluzione d'Ottobre, e pensa di poterlo fare a buon diritto, visto ch'essa è fallita.
In sostanza l'ultimo Preve riteneva d'essere l'unico interprete adeguato di Marx, l'unico a non averlo né frainteso né censurato né strumentalizzato. D'altra parte lui stesso se ne vantava: "la mia riesposizione critica è talmente diversa e talmente 'dirompente' in rapporto a tutte le principali correnti del marxismo... da apparire non tanto 'folle' quanto strana ed eccentrica" (pp. 166-7).
Tuttavia, a fronte dei 150 anni di storia del marxismo, un minimo di umiltà o di circospezione sarebbe quanto meno desiderabile. Il fatto che il cosiddetto "socialismo scientifico" sia andato incontro a cocenti sconfitte storiche, non ci autorizza a sottovalutare le capacità intellettuali di chi ci ha preceduto o a valorizzare soltanto le idee che più somigliano alle nostre.
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Il tracollo dell’imperialismo italiano
Michele G. Basso
I contaballe governativi possono raccontare che l’Italia non farà la fine della Grecia perché è ancora un grande paese manifatturiero, ma la Confindustria li smentisce. “L’Italia scende all’ottavo posto nel manifatturiero, scavalcata dal Brasile. Perse in 12 anni 120.000 fabbriche” (il Sole- 24 ore) . “In sei anni quindi l’Italia è passata dal quinto all’ottavo posto”. (1) Infatti era superata solo da Usa, Cina, Giappone e Germania. la perdita in termini relativi era prevedibile da chiunque, visto lo sviluppo di paesi giganteschi come Brasile e India; ma si è aggiunta quella in termini assoluti, con un crollo della produzione. Anche in altri settori, come finanza e agricoltura, dove l’Italia non aveva posizioni di vertice, la crisi si è fatta sentire, e persino nel campo del turismo, dove l’enorme patrimonio artistico e storico è trascurato e in pericolo, come a Pompei, o insidiato dalla speculazione edilizia grazie anche all’incuria criminale dei governi. Quanto al caos dei trasporti odierno in Italia (non solo negli aeroporti, ma anche nei treni dei pendolari e in quel fenomeno inaudito che è la Salerno – Reggio Calabria) si tratta di un sintomo assai chiaro della decadenza dell’imperialismo italiano. Non sono fenomeni nuovi, imprevedibili, e scritti che ormai hanno quasi un secolo ne spiegano le cause. Sentiamo Lenin:
“L’imperialismo puro, senza il fondamento del capitalismo, non è mai esistito, non esiste in nessun luogo e non potrà mai esistere.” “Se Marx diceva della manifattura che essa è la sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo. Se ne demolite la cima, apparirà il vecchio capitalismo.””…il caos dei trasporti… esiste anche negli altri paesi, persino nei paesi vincitori. Orbene, che cosa vuol dire il caos dei trasporti nel sistema imperialistico? Il ritorno alle forme più primitive della produzione mercantile.” (2)
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Groviglio perfetto?
di Leonardo Mazzei
Quattro scenari per il dopo voto sulle (contro)riforme costituzionali di settembre: 3 sono (quale più, quale meno) sfavorevoli a Renzi, il quarto potrebbe essergli fatale
Renzi ostenta sicurezza. Glielo impongono tanto le regole della comunicazione politica, quanto l’innato bullismo. Ma questa volta la situazione appare davvero complicata. Il segretario del Pd ha voluto troppo, per i suoi interessi di potere come per le sue spicciole esigenze di propaganda. La risultante è che adesso i nemici sono davvero tanti, e potrebbero coalizzarsi.
Il decisivo passaggio che si approssima all’orizzonte è ovviamente quello delle (contro)riforme costituzionali. Originariamente il voto del Senato era previsto per luglio, poi ladebacle elettorale di maggio ha imposto lo slittamento a settembre, alla ripresa dell’attività parlamentare dopo la pausa estiva.
Il momento della verità è dunque assai vicino. La notizia di venerdì è che la minoranza del Pd ha annunciato che i senatori a favore del Senato elettivo – e dunque contrari al progetto renziano – avrebbero raggiunto quota 170, ben al di là della soglia di maggioranza di 160. Tra questi gli appartenenti al gruppo Pd sarebbero 28. Un bel campanello dall’allarme. Rilanciato con grande evidenza da la Repubblica, che ha dedicato alla questione le prime quattro pagine dell’edizione di ieri.
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Il leone del capitalismo diventa ministro della pianificazione
di Beneath Surface
Mi ha sempre fatto sorridere l’idea che il riconosciuto araldo del capitalismo, Leon Walras , venisse innalzato agli onori degli altari della teoria delle economie pianificate tipiche degli stati collettivisti, come l’Unione Sovietica e i suoi ex satelliti. Come è possibile? Eppure è così.
Forse qualche lettore smaliziato lo avrà notato, leggendo il funzionamento del sistema di equazioni del EEG. Per tutti gli altri ricordiamo che, se fosse possibile risolvere i problemi di calcolo del sistema walrasiano, allora sarebbe, in via teorica, possibile programmare a priori tutte le scelte di produzione e scambio, sicuri che ciò determinerebbe la massima utilità di ogni operatore, concetto che, almeno economicamente parlando, è analogo a quello di bene collettivo cui ogni Stato Etico di tipo hegeliano che si rispetti (ironico, NdA) dovrebbe tendere.
I primi che spinsero in tal direzione il pensiero del povero Walras furono Enrico Barone, Oskar Lange e Maurice Dobb, che si scontrarono fin da subito con il rifiuto dei liberali F.von Hayek e L.von Mises che ciò fosse possibile. Il problema era che nè Marx nè Engels pur riconoscendo, al pari di Schumpeter , la necessità di una economia pianificata, si erano occupati di descriverne il funzionamento.
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Lavoro gratuito e «volontario»
Verso una forma legalizzata di schiavitù
Militant
Con l’improvvisa e disastrosa alluvione di Firenze della scorsa settimana è salita nuovamente agli onori delle cronache una di quelle proposte che dovrebbe far accapponare la pelle, provocando un moto generalizzato di rifiuto: quella di mettere a lavorare gratis – apparentemente come «volontari» – i cosiddetti «profughi» (o, usando una sineddoche, gli «immigrati»). Fautori della proposta – che tra l’altro si è concretizzata nei giorni successivi – sono stati questa volta il governatore della Toscana Enrico Rossi e il sindaco di Firenze Dario Nardella, un renziano di ferro. I due, subito dopo l’alluvione, hanno esaminato varie ipotesi, tra le quali c’era «anche la possibilità di utilizzare i profughi ospitati in Toscana per i primi interventi di pulizia e ripristino, utilizzando anche la convenzione attivata con Inail per l’assicurazione per lavori di pubblica utilità» (leggi). Poche ore dopo, Nardella ha dichiarato che «i profughi ospiti della Regione Toscana, e in particolare quelli che sono a Firenze e nei comuni limitrofi, da domani potranno essere di supporto alla Protezione Civile di Firenze […] e saranno utilizzati in particolare per il ripristino del verde pubblico» (leggi).
Nei giorni successivi, mentre alcuni immigrati si offrivano volontari per aiutare nel ripristino della normalità a Firenze, Rossi in un’intervista si spingeva oltre:
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Le ragioni del Grexit
di Costas Lapavitsas
La prospettiva del default greco e dell’uscita dall’Unione Economica e Monetaria (UEM) è sorta per la prima volta durante la crisi della zona euro nel 2010. Dal punto di vista della teoria monetaria, il problema della Grecia è semplice: un’economia debole con rilevanti problemi istituzionali si è unita ad una unione monetaria strutturalmente carente. Questa è la classica trappola di una economia debole che adotta una valuta forte – e intrinsecamente problematica. Ci sono solo due vie d’uscita: o la UEM dovrà essere completamente ricostruita, o la Grecia dovrà considerarsi inadempiente sul proprio debito ed uscire.
La causa principale del malfunzionamento della UEM è la politica della Germania di mantenere bassi i salari nominali, cosa che le ha dato un grande vantaggio competitivo e le ha permesso di diventare un creditore importante in Europa. Adottando un approccio neo-mercantilista, la Germania ha costretto la sua economia interna ad una persistente debolezza della domanda, cercando allo stesso tempo di arricchirsi commerciando con l’estero. I comuni tedeschi, soprattutto i salariati, hanno fatto le spese di una politica che avvantaggia i grandi esportatori e le banche.
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Politiche di coalizione nella crisi europea
Toni Negri e Sandro Mezzadra
Costruire potere nella crisi: così abbiamo intitolato il seminario di Euronomade che si terrà a Roma dal 10 al 13 settembre. È del resto questo il problema di fondo attorno a cui abbiamo cercato di lavorare negli ultimi due anni. A fronte della violenza della crisi, dell’attacco portato alle condizioni di vita e lavoro in particolare nei Paesi mediterranei dell’Europa, abbiamo continuato a domandarci come sia possibile passare dalla resistenza alla effettiva costruzione di alternative. Il potere che ci interessa costruire è alimentato dalla dinamica e dal ritmo delle lotte sociali, ma deve fissarsi al tempo stesso in una stabile configurazione istituzionale. Come molti e molte abbiamo l’impressione che oggi si pongano questioni che in qualche modo stanno al di qua (o al di là) della grande divisione tra “riforme e rivoluzione” che si impose all’interno del movimento operaio europeo nel primo Novecento, nel solco del dibattito sul “revisionismo”. L’esaurimento del riformismo storico, socialdemocratico, è sotto gli occhi di tutti. Ma dobbiamo avere l’onestà di riconoscere che anche le ipotesi rivoluzionarie che abbiamo conosciuto appaiono svuotate di efficacia politica, ridotte a roboante retorica consolatoria o a farsesca messa in scena di un’insurrezione a venire. Alle spalle di questa duplice crisi c’è una trasformazione radicale del modo di produzione capitalistico e della composizione del lavoro, che da qualche decennio abbiamo contribuito ad analizzare senza essere ancora riusciti a forgiare gli strumenti politici necessari per rendere efficace, nelle condizioni nuove della lotta di classe, il nostro persistente desiderio comunista.
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Guerra senza limiti
Enzo Pennetta intervista il gen. Fabio Mini
Generale di Corpo d’Armata, capo di Stato Mggiore della NATO, capo del Comando Interforze delle Operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo. Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari, su CS parla delle crisi attuali ma non solo. E dice cose molto importanti
Gen. Mini, nel suo libro “La guerra spiegata a…” afferma che non esistono guerre limitate, o meglio che una potenza che si impegna in una guerra limitata ne prepara in realtà una totale. Nell’attuale situazione di conflittualità diffusa, che sembra seguire una specie di linea di faglia che va dall’Ucraina allo Yemen passando per Siria e Irak, dobbiamo quindi aspettarci lo scoppio di un conflitto totale?
R1. La categoria delle guerre limitate, trattata dallo stesso Clausewitz, intendeva comprendere i conflitti dagli scopi limitati e quindi dalla limitazione degli strumenti e delle risorse da impiegare. Doveva essere il minimo per conseguire con la guerra degli scopi politici. E la guerra era una prosecuzione della politica. Erano comunque evidenti i rischi che il conflitto potesse degenerare ed ampliarsi sia in relazione alle reazioni dell’avversario sia in relazione agli appetiti bellici, che vengono sempre mangiando. Con un’accorta gestione delle alleanze e delle neutralità, un conflitto poteva essere limitato nella parte operativa e comunque avere un significato politico più ampio. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti.
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