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effimera

Il coraggio della disperazione

di Slavoj Žižek

Alla Grecia non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare in cambio di un piano realistico di ripresa economica, ai greci viene chiesto di soffrire affinché altri, nell’Unione Europea, possano continuare indisturbati a sognare i propri sogni

disperazione cIl filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” — un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel. Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi.

La doppia inversione a U imboccata dalla crisi greca nel luglio 2015 non può che apparire come un passo, non solo dalla tragedia alla farsa, ma, come ha notato Stathis Kouvelakis sulla rivista Jacobin, da una tragedia piena di ribaltamenti comici direttamente a un teatro dell’assurdo — c’è forse un altro modo di caratterizzare questo straordinario ribaltamento di un estremo nel suo opposto, che potrebbe abbacinare perfino il più speculativo tra i filosofi hegeliani?

Stanca dei negoziati senza fine con i dirigenti UE, in cui si susseguiva un’umiliazione dopo l’altra, Syriza ha indetto un referendum per domenica 5 luglio, chiedendo al popolo greco di sostenere o rifiutare la proposta UE di nuove misure di austerità. Sebbene lo stesso governo avesse affermato chiaramente che sosteneva il No, il risultato è stata una sorpresa: una schiacciante maggioranza di più del 61 % ha votato No al ricatto europeo. Hanno cominciato a circolare voci secondo cui il risultato — di vittoria per il governo — sarebbe stata una cattiva sorpresa per lo stesso Alexis Tsipras, che segretamente sperava che il governo perdesse, così che una sconfitta gli avrebbe permesso di salvare la faccia nell’arrendersi alle richieste UE (“rispettiamo la voce degli elettori”). Comunque sia, letteralmente il mattino dopo, Tsipras ha annunciato che la Grecia era pronta a riprendere i negoziati, e, giorni dopo, la Grecia ha accettato una proposta UE che era sostanzialmente la stessa che gli elettori avevano respinto (anche più dura in alcuni dettagli) — in breve, ha agito come se il governo avesse perso, e non vinto, al referendum. Come ha scritto Kouvelakis:

“Com’è possibile che un devastante No alle politiche di austerità del memorandum sia interpretato come un semaforo verde per un nuovo memorandum? […] il senso dell’assurdo non deriva solo da questo inaspettato ribaltamento. Risalta soprattutto il fatto che tutto ciò si svolge davanti ai nostri occhi come niente fosse accaduto, come se il referendum fosse stato qualcosa come un’allucinazione collettiva che si interrompe improvvisamente, lasciandoci liberi di continuare quello che stavamo facendo prima. Ma dato che non siamo diventati tutti dei mangiatori di loto, facciamo almeno un breve riassunto di quel che è accaduto in questi ultimi giorni. […] Fin da lunedì mattina, prima ancora che i festeggiamenti per la vittoria terminassero di spegnersi nelle piazze del paese, è cominciato il teatro dell’assurdo. […]

Il pubblico, ancora annebbiato dalla gioia di domenica, assisteva mentre i rappresentanti del 62 % di sottomettevano al 38 % all’indomani di una sonante vittoria per la democrazia e la sovranità popolare. […] Ma il referendum si è tenuto. Non è stata un’allucinazione da cui ora ciascuno è riemerso. Al contrario, l’allucinazione è il tentativo di degradarlo a un temporaneo ‘sfiatare il vapore per abbassare la tensione’, prima di riprendere la discesa verso un terzo memorandum.”

E le cose hanno continuato a procedere in questa direzione. La sera del 10 luglio il parlamento greco ha conferito ad Alexis Tsipras l’autorità di negoziare un nuovo salvataggio per 250 voti contro 32, ma 15 parlamentari della maggioranza non hanno sostenuto il piano, il che significa che ha ottenuto più sostegno dai partiti dell’opposizione che dal proprio. Giorni dopo, la segreteria politica di Syriza, dominata dalla sinistra del partito, ha stabilito che le ultime proposte UE sono “assurde” ed “eccedono i limiti di sopportazione della società greca” — estremismo di sinistra?

Ma lo stesso FMI (in questo caso una voce di capitalismo minimamente razionale) ha detto esattamente la stessa cosa: uno studio del FMI, pubblicato il giorno prima, mostra che la Grecia ha bisogno di un alleggerimento del debito molto maggiore di quanto i governi europei abbiano voluto prendere in considerazione finora — i paesi europei dovrebbero concedere alla Grecia una moratoria di 30 anni prima di cominciare a pagare tutti i suoi debiti europei, inclusi nuovi prestiti, e di una sostanziale estensione temporale del periodo di pagamento…

Non meraviglia che lo stesso Tsipras abbia espresso pubblicamente i suoi dubbi riguardo al piano di salvataggio: “Non crediamo nelle misure che ci sono state imposte”, ha detto in un’intervista alla TV, mettendo in chiaro che le sostiene per pura disperazione, per evitare un collasso totale economico e finanziario. Gli eurocrati usano queste confessioni con una perfidia da togliere il fiato: ora che il governo greco ha accettato le loro dure condizioni, mettono in dubbio la sincerità e la serietà del suo impegno. Come può Tsipras lottare davvero per attuare un programma in cui non crede?

 

Come può il governo greco essere realmente impegnato in un accordo che si oppone all’esito del referendum?

Comunque, prese di posizione come quella del FMI mostrano che il vero problema risiede altrove: crede davvero l’UE nel proprio piano di salvataggio? Crede davvero che le misure brutalmente imposte metteranno in moto la crescita economica e quindi permetteranno il pagamento dei debiti? O, invece, la motivazione ultima della brutale pressione estorsiva sulla Grecia non è puramente economica (dato che, in termini economici, è palesemente irrazionale), ma politico-ideologica — ovvero, come ha detto Paul Krugman sul New York Times, “la sostanziale resa non è sufficiente per la Germania, che vuole un cambiamento di regime e l’umiliazione totale — c’è una fazione importante che vuole solo buttar fuori la Grecia, e per la quale sarebbe più o meno benvenuto uno stato fallito, a far da monito per gli altri”.

Si deve sempre tener presente quale tipo di orrore Syriza rappresenti per l’establishment europeo — un conservatore polacco, membro del parlamento europeo, si è perfino appellato direttamente all’esercito greco, invocando un colpo di stato per salvare il paese.

Perché questo orrore? Ai greci viene ora chiesto di pagare un alto prezzo, ma non per una realistica prospettiva di crescita. Il prezzo che viene chiesto loro di pagare è finalizzato a continuare la fantasticheria “estendi e fingi” [extend and pretend]. Viene chiesto loro di incrementare ulteriormente la loro attuale sofferenza al fine di sostenere il sogno di qualcun altro — degli eurocrati. Gilles Deleuze disse, decadi fa: “si vous etez pris dans le reve de l’autre, vous etez foutus” (“Se siete catturati nel sogno di un altro, siete fottuti”), e questa è la situazione in cui si trova ora la Grecia. Ai greci non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare per un piano realistico di ripresa economica, viene chiesto loro di soffrire affinché altri possano continuare indisturbati a sognare il proprio sogno.

Chi ha bisogno ora di risvegliarsi non è la Grecia, ma l’Europa. Chiunque non sia perso in questo sogno sa cosa ci attende se il piano di salvataggio verrà messo in atto: altri 90 miliardi circa saranno gettati nel cestino greco, incrementando il debito greco a circa 400 miliardi di euro (e la maggior parte di quei miliardi tornerà velocemente in Europa Occidentale — il vero salvataggio è il salvataggio delle banche tedesche e francesi, non della Grecia), e ci possiamo aspettare che la stessa crisi esploda di nuovo tra un paio d’anni.

Ma è davvero fallimentare un tale risultato? A un livello immediato, se si confronta il piano con le sue conseguenze effettive, evidentemente sì. A un livello più profondo, però, non si può evitare il sospetto che il vero obiettivo non sia quello di dare una possibilità alla Grecia, ma di trasformarla in un semi-stato economicamente colonizzato, mantenuto in condizioni permanenti di povertà e dipendenza come avvertimento per gli altri. Ma a un livello ancora più profondo, troviamo di nuovo un fallimento — non della Grecia, ma dell’Europa stessa, dell’anima emancipatrice dell’eredità europea.

Il No al referendum è stato indubbiamente un grande atto etico-politico: contro una ben coordinata propaganda nemica che ha diffuso paure e bugie, senza una chiara prospettiva di quello che sarebbe accaduto dopo, contro tutte le probabilità “realistiche”, il popolo greco ha eroicamente rifiutato la pressione brutale dell’UE. Il No greco è stato un autentico gesto di libertà e di autonomia, ma certo la grande questione è cosa accade il giorno dopo, quando dobbiamo ritornare dalla negazione estatica agli sporchi affari quotidiani — e qui un’altra unità è emersa, l’unità delle forze “pragmatiche” (Syriza e i grandi partiti di opposizione) contro la sinistra di Syriza e Alba Dorata. Ma questo implica che la lunga lotta di Syriza è stata vana e che il No al referendum è stato solo un gesto sentimentale vuoto, destinato a rendere più dura la capitolazione?

Ciò che è realmente catastrofico, della crisi greca, è che nel momento in cui la scelta si è presentata come la scelta tra la “Grexit” e la capitolazione nei confronti di Bruxelles, la battaglia era ormai persa. Entrambi i termini di questa scelta si collocano all’interno della visione eurocratica predominante (ricordiamoci che anche i più duri sostenitori tedeschi della linea anti-greca, come Wolfgang Schäuble, preferiscono la Grexit!). Il governo di Syriza non stava lottando solo per ottenere un maggiore alleggerimento del debito e una maggiore quantità di denaro fresco all’interno delle stesse sostanziali coordinate, ma per il risveglio dell’Europa dal suo sonno dogmatico.
In questo consiste l’autentica grandezza di Syriza: finché l’icona dell’agitazione popolare erano le proteste di piazza Syntagma (“Costituzione”), Syriza si è impegnata nello sforzo erculeo di attuare lo spostamento da sintagma a paradigma: nel lungo e paziente lavoro di tradurre l’energia della ribellione in misure concrete che avrebbero cambiato la vita quotidiana delle persone. Dobbiamo essere molto precisi su questo: il No del referendum greco non era un No alla “austerità” nel senso di sacrifici necessari e duro lavoro, ma un No al sogno UE di continuare semplicemente con il business as usual.

L’ex-ministro delle finanze del paese, Yanis Varoufakis, ha messo ripetutamente in chiaro questo punto: non un altro prestito, ma un traino sostanziale, necessario per dare all’economia greca una possibilità di riprendersi. Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere un aumento della trasparenza democratica dei nostri meccanismi di potere. I nostri apparati di stato democraticamente eletti sono sempre più duplicati [di fatto sostituiti] da una spessa rete di “accordi” e di organismi “esperti” non eletti che detengono il reale potere economico (e militare). Ecco il racconto da parte di Varoufakis di un momento straordinario nelle sue trattative con il negoziatore UE Jeroen Dijsselbloem:
“C’è stato un momento in cui il Presidente dell’Eurogruppo ha deciso di agire contro di noi e di fatto chiuderci fuori, e ha fatto sapere che la Grecia era essenzialmente sul punto di uscire dall’Eurozona. […] Esiste una prassi per cui i comunicati devono essere unanimi, e il Presidente non può semplicemente indire una riunione dell’Eurozona escludendo uno stato membro. E lui ha detto: ‘Oh, sono certo che posso farlo’. Quindi io ho richiesto un parere legale. Questo ha creato una certa agitazione.

Per circa 5-10 minuti la riunione si è interrotta, impiegati e funzionari parlavano l’uno con l’altro e ai loro telefoni; infine un funzionario, un esperto legale, si è rivolto a me è mi ha detto le seguenti parole: ‘Beh, l’Eurogruppo non esiste per legge, non c’è un trattato che ha istituito questo gruppo’. Quindi la situazione è quella di un gruppo inesistente che ha il più grande potere nel determinare le vite degli europei. Non deve render conto a nessuno, dato che non esiste per legge; non si tengono verbali; e [quel che viene detto] è confidenziale. Quindi mai nessun cittadino può arrivare a sapere quel che viene detto all’interno… Ci sono decisioni quasi di vita e di morte, e nessun membro deve render conto a nessuno”.

Suona familiare? Sì, a chiunque conosca come funziona oggi il potere cinese, da quando Deng Xiaoping ha messo in atto un sistema duale unico: l’apparato dello Stato e il sistema legale sono duplicati [di fatto sostituiti] da istituzioni del Partito che sono letteralmente illegali — ovvero, come ha detto sinteticamente He Weifang, un professore di legge di Pechino: “Come organizzazione, il Partito si trova all’esterno e sopra la legge. Dovrebbe avere un’identità legale, in altre parole: una personalità giuridica che sia possibile citare in giudizio, ma non è nemmeno registrato come organizzazione. Il Partito esiste completamente al di fuori del sistema legale” (Richard McGregor, “The Party”, London: Allen Lane 2010, p. 22). È come se, nelle parole di McGregor, la violenza fondatrice dello Stato rimanga presente, incarnata in un’organizzazione che ha uno status legale non definito:

“Sembrerebbe difficile nascondere un’organizzazione così grande come il Partito Comunista Cinese, ma questo coltiva con gran cura il suo ruolo dietro le quinte. Il personale di controllo dei dipartimenti del grande partito e i media mantengono volutamente un basso profilo pubblico. I comitati del partito (noti come ‘piccoli gruppi guida’) che indirizzano e dettano le politiche ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di eseguirle, lavorano non visti, dietro le quinte. Nei media controllati dallo Stato si fa raramente riferimento alla composizione di tutti questi comitati e in molti casi perfino alla loro esistenza, men che meno alla discussione su come arrivano alle decisioni”.

Non ci si meraviglia che a Varoufakis sia capitata la stessa cosa che a quel dissidente cinese, il quale, qualche anno fa, portò in tribunale il Partito Comunista Cinese, accusandolo di essere colpevole del massacro di Tienanmen. Dopo qualche mese, egli ottenne una risposta dal ministero della giustizia: non potevano dar corso al procedimento della sua accusa dato che non esiste alcuna organizzazione denominata “Partito Comunista Cinese” ufficialmente registrata in Cina.

Ed è cruciale notare come come la facciata di questa non-trasparenza del potere sia quella di un falso umanitarismo: dopo la sconfitta greca arriva, evidentemente, il tempo delle preoccupazioni umanitarie. Jean-Claude Juncker ha immediatamente affermato in un’intervista che era molto felice dell’accordo di salvataggio perché avrebbe immediatamente alleviato la sofferenza del popolo greco, che gli stava molto a cuore. Scenario classico: dopo il giro di vite, la preoccupazione umanitaria e l’aiuto…fino a posporre i pagamenti del debito.

Cosa si dovrebbe fare in una situazione così disperata? Si deve in particolare resistere alla tentazione di una Grexit come grande gesto eroico, di rifiuto di ulteriori umiliazioni e di uscita — verso dove? Verso quale nuovo ordine positivo staremmo entrando? L’opzione Grexit appare come il “reale-impossibile”, ovvero come qualcosa che porterebbe a un’immediata disintegrazione sociale. Krugman scrive: “Tsipras evidentemente si è fatto convincere, tempo fa, che un’uscita dall’euro fosse completamente impossibile. Sembra che Syriza non avesse nemmeno fatto una pianificazione di contingenza per una valuta parallela (spero di scoprire che non è vero). Questo l’ha messa in una posizione negoziale senza speranza”.

Il punto sollevato da Krugman è che la Grexit è anche un “impossibile-reale”, che può avvenire con conseguenze impredicibili e che, proprio per questo, può essere rischiata. “Tutte queste ‘teste sagge’ che dicono che la Grexit è impossibile, che porterebbe a un’implosione completa, non sanno di che parlano. Quando dico questo, non intendo dire che abbiano necessariamente torto — io credo che ce l’abbiano, ma chiunque abbia delle certezze su questo inganna se stesso. Quello che invece voglio dire è che nessuno ha alcuna esperienza di ciò che stiamo considerando”.

Mentre in linea di principio questo è vero, ci sono tuttavia troppe indicazioni che un’uscita improvvisa della Grecia oggi porterebbe a una totale catastrofe economica e sociale. Gli strateghi economici di Syriza sono consapevoli che un tale gesto provocherebbe un’immediata ulteriore caduta dello standard di vita di un ulteriore 30 % (almeno), portando la miseria a un nuovo insopportabile livello, con il rischio di rivolta popolare e perfino di dittatura militare.

 

La prospettiva di tali atti eroici è quindi una tentazione a cui resistere.

Ci sono poi dei richiami affinché Syriza ritorni alle sue proprie radici: Syriza non dovrebbe diventare solo un altro partito parlamentare al governo, il vero cambiamento può solo venire dalla base, dal popolo stesso, dalla sua auto-organizzazione, non dagli apparati dello Stato…un altro caso di atteggiamento vuoto, dato che elude il problema cruciale di come gestire la pressione internazionale a proposito del debito, ovvero, più in generale, di come esercitare il potere e guidare uno Stato. L’auto-organizzazione di base non può rimpiazzare lo Stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato dello Stato per farlo funzionare diversamente.

Ciononostante, non basta dire che Syriza ha lottato eroicamente, mettendo alla prova il possibile — la lotta continua, è appena cominciata. Invece di indugiare sulle “contraddizioni” della politica di Syriza (dopo il trionfante No, si accetta proprio il programma respinto dal popolo), e di restare intrappolati nelle mutue recriminazioni su chi è il colpevole (è stata la maggioranza di Syriza a commettere un opportunistico “tradimento”, o è stata la sinistra irresponsabile nel preferire la Grexit), ci si dovrebbe invece concentrare su ciò che il nemico sta facendo: le “contraddizioni” di Syriza sono un’immagine speculare delle “contraddizioni” dell’establishment UE, che stanno gradualmente sgretolando le fondamenta stesse dell’Europa unita.

Con l’aspetto delle “contraddizioni” di Syriza, l’establishment UE si sta meramente vedendo restituire il proprio stesso messaggio nella sua vera forma. E questo è ciò che Syriza dovrebbe fare ora. Con spietato pragmatismo e freddo calcolo, dovrebbe sfruttare ogni minima crepa nell’armatura dell’avversario. Dovrebbe usare tutti coloro che resistono alla politica UE predominante, dai conservatori britannici all’Ukip nel Regno Unito. Dovrebbe flirtare senza vergogna con la Russia e con la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia come base militare nel Mediterraneo, solo per provocare la strizza [scare the shit out] degli strateghi NATO. Per parafrasare Dostoevskij, ora che Dio-UE ha fallito, ogni cosa è permessa.

Quando sentiamo i lamenti a proposito del fatto che l’amministrazione UE ignora brutalmente la grave condizione del popolo greco nella sua ossessione di umiliare e soggiogare i greci, che nemmeno i paesi sud-europei come l’Italia e la Spagna hanno mostrato alcuna solidarietà con la Grecia, la nostra reazione dovrebbe essere la seguente: qual è la sorpresa in tutto ciò? Cosa si aspettavano, i critici? L’amministrazione UE sta semplicemente facendo ciò che ha sempre fatto. E c’è poi riprovazione per il fatto che la Grecia cerchi l’aiuto di Russia e Cina — come se non fosse la stessa Europa a spingere la Grecia in quella direzione con la sua pressione umiliante.

C’è poi chi sostiene che fenomeni come Syriza dimostrano come la tradizionale dicotomia destra/sinistra sia superata. Syriza in Grecia è considerata estrema sinistra e Marine le Pen in Francia estrema destra, ma questi due partiti hanno effettivamente molto in comune: entrambi lottano per la sovranità, contro le multinazionali. È perciò del tutto logico che nella stessa Grecia, Syriza si trovi un coalizione con un piccolo partito di destra pro-sovranità. Il 22 aprile 2015, François Hollande ha detto in TV che Marine le Pen oggi ricorda George Marchais (un leader comunista francese) negli anni ’70 — la stessa patriottica difesa della gente comune francese sfruttata dal capitale internazionale — non c’è meraviglia che Marine le Pen sostenga Syriza… una bizzarra posizione, questa, che non dice molto più del vecchio adagio liberale che anche il fascismo è un tipo di socialismo. Nel momento in cui prendiamo in considerazione l’argomento dei lavoratori migranti, questo parallelo va completamente in frantumi.

Il problema vero è molto più fondamentale. La storia ricorrente della sinistra contemporanea è quella di un leader di partito eletto con entusiasmo universale e con la promessa di un “mondo nuovo” (Mandela, Lula) — poi, però, presto o tardi, di solito dopo un paio d’anni, tutti inciampano sul dilemma cruciale: osar interferire con il meccanismo capitalista, oppure “giocarsela” secondo le regole [play the game]? Se si va a disturbare il meccanismo, si ottiene una pronta “punizione” sotto forma di perturbazioni del mercato, caos economico, eccetera.

L’eroismo di Syriza è stato che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo ulteriore nell’andare a perturbare il fluido corso del Capitale. La lezione della crisi greca è che il Capitale, sebbene si tratti in ultima analisi di una finzione simbolica, è il nostro Reale. Ciò vale a dire che le proteste e le rivolte di oggi sono sostenute dalla combinazione e sovrapposizione di diversi livelli, e questa combinazione rende conto della loro forza: lottano per la (“normale”, parlamentare) democrazia contro regimi autoritari; contro il razzismo e il sessismo, specialmente l’odio diretto contro migranti e rifugiati; per il welfare state contro il neoliberismo; contro la corruzione in politica e nell’economia (aziende che inquinano l’ambiente, eccetera); per le nuove forme di democrazia che oltrepassano i rituali multipartitici (partecipazione, eccetera); e, infine, mettono in questione il sistema capitalista globale in quanto tale, e provano a mantenere viva l’idea di una società non-capitalista. Due trappole devono qui essere evitate: sia il falso radicalismo (“quel che realmente conta è l’abolizione del capitalismo liberal-parlamentare, tutte le altre lotte sono secondarie”), sia il falso gradualismo (“ora lottiamo contro la dittatura militare e per la semplice democrazia, mettete da parte i vostri ideali socialisti, quelli verranno dopo — forse….”).

Quando ci dobbiamo occupare di una lotta specifica, la questione chiave è: il nostro impegno o disimpegno in essa come andrà a influenzare le altre lotte? La regola generale è che, quando una rivolta inizia contro un regime semi-democratico oppressivo, come è stato per il Medio Oriente nel 2011, è facile mobilitare grandi folle con slogan generici che non si possono caratterizzare altrimenti che come accattivanti per la folla [crowd pleasers] — per la democrazia, contro la corruzione, eccetera. Ma poi gradualmente ci si avvicina a scelte difficili: quando la nostra rivolta ha successo nel suo obiettivo diretto, arriviamo a realizzare che ciò che realmente ci opprimeva (la mancanza di libertà, le umiliazioni, la corruzione sociale, la mancanza di una prospettiva di vita decente) prende un nuovo aspetto. In Egitto, i protagonisti delle proteste sono riusciti a liberarsi dall’oppressivo regime di Mubarak, ma la corruzione è rimasta, e la prospettiva di una vita decente si è allontanata anche di più.

Dopo il rovesciamento di un regime autoritario, possono svanire le ultime vestigia della protezione patriarcale per i poveri, e la nuova libertà ottenuta viene de facto ridotta alla libertà di scegliersi ciascuno la propria forma di miseria: la maggioranza non solo rimane in povertà, ma — oltre il danno la beffa — si sente rispondere che, dato che ora sono liberi, sono responsabili della propria povertà. In tale situazione, dobbiamo ammettere che c’era fin dall’inizio un problema nell’obiettivo della lotta, che questo obiettivo non era abbastanza specifico — vale a dire che la democrazia politica standard può anche servire proprio come forma di non-libertà: la libertà politica può facilmente fornire la struttura legale per la schiavitù economica, con i non-privilegiati che “liberamente” vendono se stessi come schiavi. In breve, dobbiamo ammettere che ciò che inizialmente abbiamo considerato come un fallimento nella completa realizzazione di un nobile principio è in realtà un fallimento intrinseco al principio stesso — imparare questo passaggio dalla distorsione di una nozione, la sua realizzazione incompleta, alla distorsione immanente a detta nozione è il grandepasso della pedagogia politica.

 

L’ideologia dominante mobilita il suo intero arsenale per impedirci di arrivare a questa radicale conclusione.

Cominciano col dirci che la libertà democratica porta con sé la propria responsabilità, che si ottiene a un prezzo, che non siamo ancora maturi se ci aspettiamo troppo dalla democrazia. In questo modo, scaricano su di noi la colpa del nostro fallimento: in una società libera, così ci viene detto, tutti siamo capitalisti che investono sulle proprie vite, che decidono di metter più risorse nell’istruzione piuttosto che nel divertimento se vogliamo aver successo, eccetera.

A un livello politico più diretto, la politica estera USA ha elaborato una strategia dettagliata su come esercitare il controllo dei danni nel re-incanalare una sollevazione popolare all’interno di accettabili vincoli parlamentari-capitalisti — come fu fatto con successo in Sud Africa dopo la caduta del regime dell’apartheid, nelle Filippine dopo la caduta di Marcos, in Indonesia dopo la caduta di Suharto, eccetera. Nella precisa congiuntura attuale, una politica radicale di emancipazione si trova di fronte alla sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria” — in breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe.

Il coraggio della disperazione è a questo punto cruciale.

La versione originale dell’articolo è qui.
Traduzione di Francesco Uboldi

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