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Filosofia, democrazia, Stato-nazione nei Quaderni del carcere
di Francesca Izzo (già Università L’Orientale, Napoli)
1. Teoria del moderno
I termini che compaiono nel titolo meriterebbero, anche singolarmente presi, una trattazione specifica ben più ampia di quella che è possibile in questa sede. Per delimitarne l’ambito, mi concentrerò sulla concezione della modernità elaborata da Gramsci: la sua genesi, la sua natura, le sue contraddizioni e la sua crisi. Il suo profilo emerge pienamente proprio nel nesso che tiene assieme filosofia, democrazia e Stato-nazione.
Né umanistica (la modernità sarebbe l’epoca dell’affermazione del regnum hominis, con l’inversione del rapporto Dio-mondo di contro alla trascendenza medievale) né “nichilistica” (la modernità sarebbe l’epoca della dissoluzione di ogni sostanzialità, destinata a consumare ogni fondamento stabile e ad affermare la libertà come decisione), la teoria del moderno di Gramsci si nutre, o meglio è un frutto originale, della sua rielaborazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi. E per anticipare quello che svilupperemo analiticamente nel prosieguo, per Gramsci l’epoca moderna non è “infondata”perché ha un soggetto, ma si tratta di un soggetto non umanistico: è lo Stato-nazione.
2. Filosofia della prassi (filosofia, politica, storia)
Come ampiamente mostrato dalla letteratura critica più recente, nei Quaderni Gramsci giunge, attraverso un percorso complesso e per nulla lineare, a maturare la sua interpretazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi, cioè di un’autonoma e integrale concezione della storia (una filosofia che è politica in quanto è integralmente storia) che non prende a prestito né dal materialismo filosofico né dall’idealismo elementi per “completarsi”; insomma, Gramsci rifiuta il cosiddetto “marxismo in combinazione”1. Il “ritorno a Marx” si inserisce appunto in questa ricerca di totale autonomia determinata da ragioni non astrattamente teoriche, ma altamente politiche.
A Gramsci appare sempre più evidente che la necessità della filosofia - in particolare di quella elaborata da Marx nelle Tesi su Feuerbach – discenda dal fatto che si tratta di rifondare su basi nuove la soggettività rivoluzionaria, il nuovo soggetto storico.
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Radiografia di una crisi di mezza estate
di Andrea Muratore
Dal Papeete al patatrac: Matteo Salvini e la Lega hanno scelto la rottura dell’alleanza con i Cinque Stelle. La crisi del governo Conte è scoppiata nel cuore di agosto, cogliendo in contropiede un’Italia intenta, in larga parte, a celebrare riposo e ferie. L’Osservatorio ha voluto “radiografare” la crisi, le sue cause e i potenziali sviluppi in ambito politico, economico e internazionale per fornirne una lettura a tutto campo che è risultata mancante in diversi settori dei media tradizionali. Per ragguagliare analisti e osservatori interessati sulle conseguenze a lungo termine del duello politico. Ma anche per aggiornare in maniera completa chi, tra riposo e vacanze, non ha potuto sino ad ora seguire in maniera continuativa le discussioni politiche e istituzionali.
* * * *
Il dado è tratto: Matteo Salvini e la Lega hanno deciso di ritirare il loro appoggio al Governo Conte e presentato una mozione di sfiducia al Presidente del Consiglio. Il Senato ha calendarizzato per il 20 agosto le comunicazioni a Palazzo Mada del Presidente del Consiglio, frustrando il tentativo leghista di accelerare il voto sulla mozione di sfiducia a prima di Ferragosto. Lo strappo del Carroccio dopo il voto contrastante di Lega e Movimento Cinque Stelle nelle mozioni sulla TAV ha funto da catalizzatore per una serie di reazioni in campo politico ed economico, aprendo diverse questioni di grande importanza sul futuro del Paese. La Lega invoca nuove elezioni forte della crescita di consensi certificata dal trionfo alle Europee, ma il percorso che punta al ritorno alle urne è intervallato da ostacoli: lo scioglimento delle Camere porrebbe fine alla più breve legislatura della storia repubblicana, garantirebbe un voto autunnale per la prima volta in un secolo ma, soprattutto, può essere decretato solo dal Quirinale. Che ora aspetta le mosse della macchina politico-istituzionale messasi in moto, di cui la Lega è solo una parte: per meglio orientarsi nel migliore dei modi nella ridda di dichiarazioni, ipotesi e voci che stanno interessando il dibattito politico l’Osservatorio Globalizzazione ha deciso di pubblicare questa radiografia della crisi per permettere a lettori e analisti di meglio comprenderne cause, sviluppi e conseguenze nei principali ambiti in cui essa si svilupperà.
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“La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo” di Massimo Cacciari
di Federico Diamanti*
Recensione a: Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, pp. 128, 18 euro, (scheda libro)
L’ultima pubblicazione di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, è introdotta da una brevissima pagina ‘memoriale’ in cui il filosofo racconta, con un’immagine che risalterà in tutta la sua importanza agli occhi del lettore, dove affondano le radici ‘umanistiche’ (nel senso stretto di ‘legate al periodo dell’Umanesimo) del suo pensiero. Esse – rintracciabili d’altronde in tutta la bibliografia cacciariana – sono però legate ad un anno, in particolare: il 1976. Come è noto, fu l’anno della pubblicazione del primo notevole cimento filosofico dell’autore, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein; ma quello stesso anno vide l’inizio della circolazione di uno dei più importanti e maturi volumi di Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo. Si incontravano dunque, nello stesso lasso di tempo, per una assoluta casualità di natura editoriale, due figure, due volumi e due percorsi di ricerca diversi, con differenti orientamenti e opposte esperienze alle spalle: ma la lettura di Rinascite e rivoluzioni significò qualcosa di più profondo per il filosofo. «Ed ecco che Rinascite mi spalancava di fronte una visione dell’Umanesimo come età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente alla fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma»: il volume con cui Garin supera le «colonne d’Ercole» della tradizionale concezione del Rinascimento (la definizione è di Michele Ciliberto[1]) e compie un passo ulteriore rispetto al suo dialogo con H. Baron a proposito dell’umanesimo ‘civile’ fu dunque il punto di partenza per una ‘cura’ di Cacciari nei confronti del secolo XV e dei suoi protagonisti: una cura che culmina nel saggio su cui qui si presenta una riflessione, già apparso – in forma lievemente meno estesa – come introduzione ad un fondamentale volume antologico del 2017, Umanisti italiani (a cura di R. Ebgi), che contiene un’ottima selezione di testi di epoca umanistica – tradotti e commentati – tuttora difficilmente reperibili in edizioni moderne e ben curate.
Il primo capitolo inquadra la questione della storia delle interpretazioni dell’Umanesimo. Si tratta certamente di un preliminare imprescindibile del libro, poiché è proprio a partire delle varie interpretazioni dell’Umanesimo che Cacciari ha elaborato, nel tempo, intuizioni filosofiche e criteri metodologici nella sua ricerca.
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Ancora sul salario cosiddetto minimo
di Carla Filosa
La necessaria riduzione dei costi dei capitali pagata dai lavoratori
Al momento attuale non si capisce più se il progetto di legge sul “salario minimo” sia diventato merce di scambio politico, o se proseguirà effettivamente nell’originario proposito di aggiornamento del controllo statale del lavoro e del non lavoro. Per quanto emerge dalla stampa su cui apprendere le più recenti proposte del PD di marzo – a firma di Tommaso Nannicini – e dei 5S – a firma di Marco Palladino e Alessandro Zona – si punterebbe a una regolamentazione nazionale della contrattazione. Una delega ad una Commissione presso il Cnel dovrebbe poi stabilire i criteri di misurazione e certificazione della rappresentatività di sindacati e datori di lavoro, per i contratti collettivi di riferimento, separatamente per categoria. Naturalmente quando si nominano i sindacati è da intendere che questi partiti considerano solo “quelli più rappresentativi”, o confederali, cioè con esclusione di quelli minori che avrebbero stipulato “contratti pirata” con un salario minimo più basso.
Se qui non possiamo riportare tutta la storia che ha condotto alla formazione dei sindacati di minor rilievo – per questioni di spazio e di specificità tematica – possiamo però attestare l’ambiguità dei confederali nella loro istituzionalizzazione e accettazione di una pace sociale da salvaguardare, lasciando ignorata la generale iniquità predisposta per i lavoratori. Se l’obiettivo che il Pd cerca di perseguire è quello di dare valore legale ai minimi contrattuali, per cui bisogna ipotizzare più salari minimi che riguardino anche quelli che – come i rider – non hanno un rapporto subordinato, bisognerebbe che riconsiderasse anche il perché di un mercato del lavoro frantumato in uno sventagliamento di competenze diversamente remunerate, mansioni, tempi, contrattualità, false autonomie lavorative, ecc. pur di precarizzare e poter ricattare ogni settore lavorativo a favore dei capitali investiti e da investire ulteriormente, attrattivamente!
Se questo banalissimo retroscena sotto gli occhi di tutti interessasse chi ancora si autodefinisce di sinistra (partiti o sindacati, per non citare economisti, intellettuali, giornalisti che confondono salario con reddito!) si scoprirebbe la banalissima realtà già individuata da Marx due secoli fa, per cui ai capitali, prevalentemente in periodi di crisi, occorre soprattutto ridurre i costi del lavoro per riappropriarsi di profitti in deficit di accumulazione, altrimenti insufficienti a sostenere la concorrenza internazionale.
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Tutte le fake news di Marattin sul "finanziamento monetario"
di Thomas Fazi
Benvenuti alla seconda puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin” (la prima puntata la trovate qui).
Oggi prendiamo in esame l’ultima “video lezione di economia” di Marattin, in cui il consigliere economico del PD si propone di rispondere «ad una domanda che va molto di moda tra ciarlatani e finti economisti vari, cioè perché non possiamo semplicemente stampare tutta la moneta che vogliamo?».
La risposta è semplice: perché altrimenti faremmo la stessa tragica fine di tutti quei paesi i cui governi «hanno ceduto alla tentazione di stampare soldi», con il risultato che si sono ritrovati «l’inflazione al miliardo per cento» [sic] e «l’economia in rovina». Gli esempi portati da Marattin sono, ça va sans dire, i soliti noti cari agli amanti del genere “piaghe d’Egitto da iperinflazione”: la Repubblica di Weimar, lo Zimbabwe e il Venezuela. O, come si dice in gergo tecnico, lo Zimbabweimaruela.
«I tutti questi casi – dice Marattin – la molla che ha fatto scattare tutto questo è il governo che aveva bisogno di soldi e ha pensato di stamparli», facendo schizzare l’inflazione alle stelle. Marattin passa poi a spiegare il meccanismo economico, ahem, alla base di questo di questo fenomeno: «La moneta sottostà alle normali leggi di domanda e offerta di qualunque altro bene. Prendiamo i cellulari. Se il mondo fosse inondato di offerta di cellulari il prezzo di questi si ridurrebbe fino ad arrivare a zero. Per la moneta è la stessa cosa. Se chi controlla l’offerta di moneta – cioè la banca centrale – comincia a stamparne in quantità molto elevate, quindi ad aumentare l’offerta di moneta, il valore di quella moneta va rapidamente a zero».
Tutto questo spiegherebbe perché «la leggenda per cui se a un governo servono i soldi basta stamparli e tutto risolve è una leggenda che nell’ultimo secolo ha portato distruzione, danni permanenti all’economia ed è una pericolosa illusione che viene spacciata da chi non ha idea di come funzioni un sistema economico».
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L’anatra-coniglio della nazione "a sinistra"
di Diego Melegari
Nell’ancora minoritario mondo di quanti oggi tentano di intrecciare la riflessione sulla questione nazionale a politiche dalla parte delle classi popolari si assiste spesso ad un problema di focalizzazione non troppo diverso da quello segnalato dall’articolo di Matteo Masi sulla dialettica tra piano A e piano B relativamente alla questione euro [1] . Da un lato, abbiamo posizioni, come quella di Eurostop, in cui si pone correttamente il tema dell’irriformabilità dell’UE e, più recentemente, il riconoscimento del quadro nazionale come spazio di accumulo delle contraddizioni in vista della creazione di un’area euromediterranea[2], inibendosi però di definire il tipo di investimento soggettivo, “affettivo” direbbe Laclau, rispetto a questo stesso spazio. Dall’altro, ci sono posizioni come quelle espresse, ad esempio, da un recente articolo di Jacopo Custodi [3], ma anche da alcuni scimiottamenti della narrazione del primo Podemos (“patriottica” ma sostanzialmente ambigua sulla questione UE), in cui, nel comprensibile sforzo in termini emancipativi, inclusivi e aperti al conflitto, la questione della sovranità, si evita accuratamente di esprimersi sul problema dell’interesse nazionale, ovvero sullo Stato come ente giuridico distinto da altri (dunque delimitato da confini), in qualche modo indipendente dall’identificazione soggettiva con esso. “Patriottismo” diventa, allora, il contenitore per qualunque comportamento si ritenga moralmente e socialmente positivo. Un po’ come nella figura gestaltica dell’anatra-coniglio, chi vede la “patria” come orizzonte e riferimento di una politica di “sinistra” tende a non cogliere la cruda realtà degli interessi e dei rapporti di forza economici, istituzionali e geopolitici, chi pensa che anche in questi ultimi possa aprirsi un margine di contraddizione e, dunque, un suo utilizzo per una politica alternativa, magari socialista, fatica a costruire un discorso in cui sia possibile risignificare e rivendicare la propria appartenenza nazionale, il proprio “essere italiani”. Esiste, infine, chi, vedendo solo la figura nel suo complesso o soffermandosi su tratti particolari di essa, concepisce come mera illusione ottica quella di chi vi riconosce la forma dell’uno o dell’altro animale.
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Mario Tronti, “Il popolo perduto”
di Alessandro Visalli
Libro del 2019 di Mario Tronti, che certo non ha bisogno di alcuna presentazione. Uscito poco prima delle elezioni europee il testo, che ha la forma di una intervista, muove da una domanda decisiva: “quali sono le cause che hanno portato la sinistra in tutte le sue articolazioni partitiche, da quelle cosiddette moderate a quelle cosiddette radicali, al suo attuale punto di crisi, fino a perdere il suo popolo e quindi a perdere identità, riconoscibilità e forza”? Da intellettuale della vecchia scuola l’autore parte dalla situazione internazionale, vi iscrive quella dell’Italia e poi scende sul terreno del Partito, delle agende, delle scelte. C’è una dimensione propagandistica, di servizio al suo Partito, nel testo, e c’è una dimensione diagnostica, meno contingente. Entrambe sono interessanti, la prima per ascoltare quel che nel ceto politico e sociale nel quale l’autore si è abituato a vivere è considerato un buon argomento, determinante e decisivo. La seconda per confrontarsi con una più ampia visione del mondo di un grande intellettuale della sinistra, storico ed inaggirabile.
Capiterà di essere più facilmente in accordo con la seconda dimensione, francamente la prima è sorprendente, persino a questo livello allignano imbarazzanti miraggi, nella cui vaporosa sostanza, tuttavia si intravede chiaramente il profilo del solito, metallico, desiderio di potenza europeo-occidentale.
Tutto il discorso del nostro muove da una densa rete di concetti, che proveremo a scoprire un poco alla volta, e dal presupposto, dichiarato in apertura che tutto promana dal movimento (anzi, con vezzo gramsciano dalla ‘guerra di movimento’) nel mondo ‘grande e terribile’. Distinguendo tra ciò che trasforma (che si oppone al dominante mondo di vita), ciò che innova e ciò che conserva, dal movimento del mondo viene l’innovazione. E viene quindi, Tronti ne è certo al punto da non spendere una nota, una battuta, il macro-spostamento dell’asse globale dall’Atlantico al Pacifico. Viene, in altre parole, il “ritorno” alla centralità asiatica[1].
Ma la tentazione di leggere tutto secondo una interna coerenza, e di scivolare nella filosofia della storia è profondamente incardinata nell’ex marxista che quindi si dice “proprio convinto” di una “regolarità di movimento” della storia umana che si nutre di nuovo e ritorno del passato (riecheggiando le sue nuove letture del pensiero “grande conservatore”, Nietszche in particolare).
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L'ecomarxismo di James O'Connor*
di Riccardo Bellofiore
Quasi 30 anni fa usciva sulla benemerita (e ormai quasi introvabile) 'rivista internazionale di dibattito teorico' MARX 101 questo testo, adesso recuperato dall'autore (profetico nell'assenza di trionfalismo "sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura ") che gentilmente ci permette di ripubblicarlo
L'ultimo libro di James O'Connor (L'ecomarxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989, trad. dall'inglese di Giovanna Ricoveri, pp. 56, Lit. 10.000), autore largamente e tempestivamente tradotto in italiano, ha certamente almeno un merito: quello di proporre, controcorrente, una "conciliazione" tra marxismo e ambientalismo, due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedono invece fieramente contrapposti.
L'obiettivo del saggio è, mi pare, conseguentemente duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la "parzialità" della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai "verdi", O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale.
La tesi centrale è, molto in breve, che l'ecologismo (ma anche i "nuovi movimenti sociali", e perciò anche il femminismo) puntano l'attenzione su questioni che sono qualcosa di più, e non di meno, della lotta di classe.
Il tentativo di O'Connor si svolge in quattro mosse.
La prima mossa è costituita da un ritorno alle rigorose definizioni di base del Capitale , che tengono esplicitamente conto delle "condizioni di produzione" tanto "esterne" (natura in senso stretto) quanto "personali" (la forza-lavoro come elemento materiale e naturale essa stessa).
La seconda mossa consiste in una traduzione della teoria della crisi economica del marxismo - si tratta qui in particolare della crisi da realizzo - in una teoria della crisi ecologica: la distruzione della natura dà luogo ad un aumento dei costi di riproduzione delle condizioni di produzione, quindi ad un uso improduttivo del capitale, che è costretto ad utilizzare una parte crescente del plusvalore per sanare le ferite che esso stesso procura all'ambiente invece di farne capitale addizionale.
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Il Plan Condor vola anche in Sicilia
di Antonio Mazzeo
A differenza delle persone in cerca di un rifugio o un lavoro, la pista insanguinata del terrore valica da sempre con estrema facilità le frontiere. Una preziosa inchiesta di Antonio Mazzeo, pubblicata su Le Siciliane, ricostruisce il percorso che ha portato in Sicilia un ex tenente colonnello della dittatura argentina, responsabile del “personale” di custodia di uno dei centri di detenzione clandestini più orrendi di quel tempo. Un inferno dove il privilegio di stuprare prigioniere inermi veniva giocato a carte, quello in cui, tra gli altri, fu fatta scomparire Marie Anne Erize, ex modella poi diventata militante montonera nelle villas miserias della capitale argentina. Una storia sordida e feroce, che intreccia impunità e tortura, logge massoniche e servizi segreti, paramilitari, mafia e neofascisti, corruzione e disprezzo della dignità delle persone e delle istituzioni che dovrebbero tutelare il corso della giustizia. Fino a un villino con vista sulle Eolie in cui ammirare splendidi tramonti ricordando gli orrori del Plan Condor, l’internazionale dei regimi criminali latino-americani diretta da Washington, che ha pianificato il genocidio di un’intera generazione che non si poteva piegare senza sterminarla.
* * * *
Le sue colpe? Essere intelligente, sensibile, politicizzata, bellissima e credere in un mondo migliore nel posto e nel momento sbagliato. Marie Anne Erize aveva 24 anni in quel maledetto 1976 segnato dal sanguinoso golpe fascista in Argentina che aveva insediato ai vertici del paese la Junta del generale Jorge Rafael Videla ed un manipolo di militari con tanto di tessera della loggia massonica P2 del venerabile Licio Gelli. Adolescente aveva intrapreso con successo a Buenos Aires la professione di modella. Poi si era iscritta alla facoltà di antropologia e come tante sue coetanee di allora, chitarra in spalla, aveva percorso l’Europa in autostop e conosciuto e frequentato artisti, intellettuali, musicisti. Marie Anne fece pure un tour negli USA in compagnia del grande chitarrista andaluso Paco de Lucia. Come per tanti coetanei fu determinante il lungo viaggio in Sudamerica e l’impatto con le contraddizioni e le ingiustizie sociali ed economiche del Brasile e dei paesi andini.
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La destra radicale noglobal. Antimondialismo e capitalismo
di Matteo Luca Andriola
Pronunciare oggi la parola antiglobalizzazione, ai più fa venire in mente la sinistra radicale e l’area della contestazione nata alla fine degli anni Novanta nota come “movimento noglobal”: area multivariegata, composta da associazioni e gruppi che contestano il processo della globalizzazione neoliberista, fonte di inaccettabili iniquità tra Nord e Sud del mondo e all’interno delle singole società nazionali, in lotta contro lo strapote re delle multinazionali e le politiche liberoscambiste seguite dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dalla Wto (World Trade Organization). È giusto però porsi una domanda: vista l’egemonia della sinistra su tale movimento di protesta transnazionale, per la forte presenza di soggetti neomarxisti, ecologisti e vicini all’antagonismo, il fenomeno di questa contestazione si limita alla sinistra? No.
Marco Fraquelli, autore del volume A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più no-global della Sinistra (Rubbettino, 2005) sottolinea – pur essendo egli stesso di sinistra e discepolo del politologo Giorgio Galli – che i movimenti noglobal, nati a Seattle nel 1999 e protagonisti di importanti battaglie storiche, come la nascita nel 2001 del Social Forum di Porto Alegre in contrapposizione al World Economic Forum di Davos, e la contestazione del G8 di Genova, tendono “a contestare la globalizzazione convinti comunque che si tratti di un fenomeno che, attraverso opportuni correttivi, possa virare verso orizzonti positivi”, “che possa esistere insomma una globalizzazione ‘dal volto umano’, che sia possibile in altri termini, definire e imporre una nuova governance (e questo spiega per esempio le istanze per l’applicazione della Tobin Tax, per la cancellazione del debito contratto dai Paesi poveri, ecc.)” (1): ciò mostra che questi movimenti accettano le implicazioni della globalizzazione, rifiutando solamente il lato economico (“la Sinistra ha come obiettivo la mondializzazione senza il mercato” scrive Jean-François Revel), essendo figli dell’universalismo.
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La vera emergenza e l’agenda d’autunno
di Giacomo Marchetti
Il prodotto interno lordo italiano nel secondo trimestre di quest’anno è risultato “stazionario” secondo i dati Istat.
L’istituto afferma che l’attuale fase sia di “sostanziale stagnazione”, perché per il quinto trimestre consecutivo la variazione congiunturale si attesta intorno allo zero.
L’Italia è ferma, l’Eurozona pure, a cominciare dalla Germania.
L’indice con cui viene registrata l’espansione produttiva Pmi, elaborato da Ihs Markit, – sopra i cinquanta – o la sua contrazione – sotto i cinquanta – è molto chiaro: 43,2 Germania, Italia 48,4, Spagna 48,2, Francia 49,7.
E il cuore della crisi è tutto tedesco. Ieri mattina i dati sulla produzione industriale del mese di giugno erano previsti a -0.5, ma il dato reale è andato ancora peggio: -1,5%. Su base annuale la perdita sale così al -5.2%. Un disastro.
Rosie Colthorpe di Oxford Economics scrive: “il continuo ribasso evidenziato dai recenti report sull’Eurozona toglie ogni speranza di una ripresa nella seconda metà dell’anno”.
Più chiaro di così…
Il centro gravitazionale delle “nostre” decisioni politiche a Bruxelles non ha aiutano né aiuterà, la situazione, soprattutto in vista del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria che dovrà essere varato entro la fine di quest’anno per il 2020. Il contesto è noto: siamo “commissariati” dall’Unione, con un gruppo di Paesi – con a capo l’Olanda e la Germania – pronti ad “impallinarci”, visto la mal-ingoiata “manovra correttiva”, perché Bruxelles avrebbe dimostrato troppa benevolenza nei nostri confronti; e gli equilibri politici continentali in un cui il governo grigio-verde non incide minimamente, se non in negativo.
La prossima “finanziaria” sarà una nuova bomba ad orologeria per le classi subalterne.
Qualora fosse necessario ricorrere all’esercizio provvisorio dal primo gennaio dell’anno prossimo – e gli attuali chiari di luna governativi sembrerebbero farlo presagire – scatterebbe automatico l’aumento dell’IVA e accise per 23,1 miliardi, pari all’1,2% del PIL.
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L'ecologia politica sta nelle lotte della riproduzione sociale
Intervista a Emanuele Leonardi
Pubblichiamo questa interessante intervista ad Emanuele Leonardi, ricercatore all'università di Coimbra, a cura dei collettivi di Ecologia Politica nata nel contesto del Festival Alta Felicità in Val Susa
Le lotte della sfera della riproduzione per una nuova ecologia politica.
L'ultimo anno politico in Italia è stato pieno di imprevisti e improvvisazioni. Non solo l'inversione a destra del polo di potere tra i due partiti di governo, ma anche nuovi problemi come quello del cambiamento climatico si sono imposti sul panorama mediatico e quindi aggiunti negli spot elettorali di vari partiti. Questo è stato l'anno delle grandi piazze che abbiamo attraversato: un Marzo in cui abbiamo incontrato tanti giovani e giovanissimi durante le manifestazioni di Non Una di Meno, Fridays for Future e nella Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili. É stato anche l'anno in cui il popolo No Tav della Val Susa ha saputo dimostrare ancora una volta di essere determinato a proseguire l'opposizione alla costruzione del Tav Torino-Lione: una degna risposta agli annunci di Conte, Salvini e del Partito Democratico. Questa situazione ha permesso una nuova fibrillazione nel dibattito politico interno ai movimenti sociali che oggi guardano con maggior interesse a studi che provengono da quell'arcipelago di pensiero che è l'Ecologia Politica.
Questo nuovo filone di ricerca parte dall'idea che “il rapporto tra la società e la natura non sia immediato e che il dato ambientale da solo non dica molto: trova una ricchezza di significato invece se messo in relazione alle modalità attraverso le quali le comunità umane e non umane si organizzano per garantire la propria riproduzione attraverso un modo di produzione. Il filtro tra quello che le società danno e ricevono dalla natura è legato al modo di produzione e agli usi e costumi delle società”, riprendendo le parole di Emanuele Leonardi dal suo intervento durante l'incontro “Ecologia è Politica”, tenutosi al festival Alta Felicità in Val Susa.
Durante quei giorni in Valle Leonardi ci ha rilasciato un'intervista per approfondire alcuni temi toccati durante il dibattito.
* * * *
1. Cosa intendiamo con lotte della sfera della riproduzione? Perché queste ultime sono sempre più centrali all'interno del contesto politico contemporaneo?
Credo che si debba partire da una distinzione analitica che forse ci aiuta a capire i termini del problema legato alle lotte nella sfera della riproduzione.
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L’interpassività e il regno animale dello spirito
di Salvatore Bravo
Salvatore bravo legge Slavoj Žižek. Di fronte allo scollamento tra "Reale" e "realtà" occorre un pensiero che divenga esodo dal pensiero unico. All’interpassività che rafforza la gettatezza nel mondo bisogna agire nel silenzio del pensiero che diviene esodo dal pensiero unico e moltiplicatore delle resistenze
L’interazione passiva
La prassi[1] in Aristotele è l’interazione sociale in cui il soggetto, gradualmente, vive l’esperienza della verità nella comunità, parte imprescindibile di sé. Essa si coniuga con il deliberare, con la saggezza:[2] prassi e phrònesis sono vita activa, poiché il fine di entrambe è comunitario oltre che individuale. La buona prassi, come il giusto deliberare, sono inscindibili dal vivere comunitario. La vita attiva è l’interazione tra saggezza e prassi. Il mezzo con cui – per riprodurre se stesso – l’attuale modo di produzione inibisce la prassi ed il giusto deliberare è l’interpassività. I soggetti sono in perenne attività, ma quest’ultima, in realtà, spinge verso la ripetizione di gesti automatici, la religione del vitello d’oro resta velata, occulta nei gesti meccanici la riflessione consapevole delle conseguenze dei propri atti, ogni accadimento è un evento che “sic ed simpliciter” avviene. Tutto accade, e nel contempo il modo di produzione, riproduce se stesso, il vitello d’oro, la merce ed il plusvalore attraverso i fedeli sudditi, sempre agiti, perennemente situati, i quali si percepiscono come “razza padrona”, ma in realtà sono interni ad un paradigma che impedisce il discernimento. L’essere è solo “esse=capi”, è attività del depredare; l’ontologia del saccheggio è l’unico paradigma del capitalismo assoluto. Gli enti che non sono ghermibili sono tagliati dall’orizzonte esperienziale: ogni ente non catalogabile come potenziale mezzo per il plusvalore è escluso, espulso dalla rappresentazione, la quale si autorappresenta solo ciò che è calcolabile. Non vi è spazio nell’osservazione che per l’ente da arpionare per eventuale investimento. L’homo oeconomicus non ha immaginazione empatica, pertanto il suo mondo è solo un borsino immobiliare. L’azione di conquista e consumo è l’unica attività che eternamente ritorna su se stessa per riprodursi infinitamente.
Con l’interpassività si ha l’impressione di agire, di modificare il mondo, ma in realtà si conferma il sistema capitale. Il vitello d’oro, dopo il superamento della convertibilità delle monete in oro, si è liquefatto, ha perso con la forma ogni limite, è ovunque, pervade e feconda ogni spazio e tempo con le sue leggi inevitabili e fatali. Dietro l’attività conclamata vi è la passività, l’alienazione (Entfremdung), cifra vivente della religione del vitello d’oro e della mortificazione:
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Italia: come rovinare un paese in trent’anni
di Servaas Storm*
Parlare di “sorti del paese” senza saperne la storia economica – anche quella più recente – rasenta il tentativo di dare lezioni di vita a quindici anni. Buone intenzioni tante, esperienza zero.
Questa ricostruzione impietosa dellla storia economica italiana degli ultimi 30 anni può aiutare a mettere a fuoco molti problemi che gli “europeisti-senza-se-e-senza-ma” semplicemente ignorano (più sono esperti e più sono bugiardi, diciamo) e che i “populisti nazionalisti” riducono a questioncelle risolvibili con ricette da imbecilli.
Naturalmente non è una ricostruzione “neutra”. L’autore, Servaas Storm, è un economista olandese che si occupa di temi a cavallo tra macroeconomia, tecnologie, distribuzione del reddito, finanza.
L’articolo è stato commissionato e pubblicato alcuni mesi fa dall’Institute for New Economic Thinking, che di certo non può essere considerato un think tank di “sinistra”, visto che ha fra i fondatori il tristemente noto speculatore George Soros. Molte considerazioni critiche sarebbero possibili dal nostro punto di vista. La principale, che merge solare dai grafici ma Servaas sembra non vedere, è che il calo dei salari e di altri fattori è comune a tutte le economie europee prese a paragone. In Italia è più accentuato, certamente, ma all’interno di una curva discendente collettiva. L’austerità, insomma, è una malattia mortale per tutta l’Unione Europea e soprattutto per i lavoratori di tutto il continente.
Ma i numeri, quando sono messi in fila, mostrano una via. E quelli dell’economia italiana, nell’arco dell’ultimo trentennio, descrivono il cammino verso il precipizio per esplicita decisione politica sovranazionale, nel quadro di una serie di trattati europei che spingono per diseguaglianze crescenti e niente affatto casuali.
Buona lettura.
* Traduzione per Voci dall’Estero di Gilberto Trombetta
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La terza recessione italiana in 10 anni
La crisi italiana causata dall’austerità è un campanello d’allarme per l’Eurozona
Mentre la Brexit e Trump guadagnavano gli onori della cronaca, l’economia italiana è scivolata in una recessione tecnica (un’altra).
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La crisi di governo e i bisogni degli italiani: mancano 100 miliardi di euro l’anno
di Davide Gionco
Mentre l’Italia, ovvero molti milioni di italiani (non un concetto generico, ma persone, con le loro famiglie, il loro lavoro) continua ad essere immersa nei suoi gravi problemi sociali ed economici, ecco che ci ritroviamo in una crisi di governo, da cui francamente si fa fatica a vedere degli sbocchi positivi, che possano garantire una situazione “meno peggiore” di quella precedente.
Naturalmente è già partito il teatrino di tv e giornali sulle possibili nuove elezioni o sulle possibilità che venga formata una diversa maggioranza politica in Parlamento.
I vari partiti non perdono occasione di dire di non avere timore di presentarsi alle elezioni, proponendosi agli elettori come alternativa seria all’attuale ex maggioranza politica.
Per favore, scendiamo dalla giostra della “politichetta”!
Non stiamo giocando il campionato di calcio, dove l’importante è che la nostra squadra vinca la partita, per poter poi sventolare la nostra bandiera.
L’Italia continua ad avere milioni di persone in povertà assoluta ed altri milioni di persone a rischio di cadere in povertà.
L’Italia continua ad avere milioni di disoccupati e molti milioni di persone che tirano a campare, con lavoretti part-time, con datori di lavoro che li sfruttano, con l’Agenzia delle Entrate sempre pronta a tartassare le nostre piccole e medie imprese portandole senza remore al fallimento, con le poche aziende che sono riuscite a sopravvivere puntando sulle esportazioni e che ora devono fare i conti con le guerre dei dazi ed il calo di domanda dei vicini paesi europei, causato dalle politiche europee di austerità. Una tassazione da record mondiale, unita a servizi pubblici sempre più scadenti e inaccessibili.
I servizi pubblici vanno verso lo scatafascio: la sanità ridotta ai minimi termini dai continui tagli, al punto che mancano medici ed infermieri per curarci, per la manutenzione degli edifici pubblici ridotta al punto che molti edifici sono inagibili, per investimenti nelle infrastrutture (non solo nei trasporti, ma anche nelle telecomunicazioni, nella formazione professionale, nella ricerca, nell’energia…).
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Lo Yuan cinese ha rotto la soglia del rapporto 7:1 rispetto al dollaro
E’ iniziata la guerra monetaria globale
di Jack Rasmus
Proponiamo di seguito, tradotta in italiano, l‘ultima nota di Jack Rasmus sull’allargamento e l’intensificazione dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina. Questo scontro e’ ora divenuto anche monetario: l’altro ieri (6 ago.) Trump si è appellato al FMI perché sanzioni e metta in riga la Cina.
Economista indipendente legato all’area Chomsky, (ma indipendente), Rasmus e’ tra quanti avevano previsto che difficilmente ci sarebbe stato un vero accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina, perché la questione della tecnologia informatica di avanguardia è troppo cruciale per entrambi i contendenti per consentire loro di mettersi agevolmente d’accordo. E ora rivendica naturalmente di avere visto giusto, e prova ad ipotizzare i prossimi passaggi, quasi obbligati, di questa contesa sul piano economico.
La sua analisi appare lucida. La traiettoria di fondo non è quella dell’accordo, ma quella dello scontro – quali che siano gli svolgimenti immediati. Ma quello che a noi interessa molto sul piano politico-sociale è la sua previsione – realistica – su chi pagherà il prezzo più alto di questo scontro: Europa e paesi “emergenti”. Dietro l’agitazione compulsiva di un Salvini per sembrare uno che si occupa delle necessità del “popolo”, e dietro la decisione, condivisa da tutto il quadro politico, di apprestare nuovi strumenti repressivi addirittura più pesanti di quelli della legislazione fascista, c’è la percezione, se non la convinzione, che stia effettivamente per arrivare lo sconquasso che Rasmus prevede, e che ci si debba preparare a neutralizzarne le conseguenze, potenzialmente esplosive.
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Durante questo fine settimana, lo yuan cinese è uscito dalla sua traiettoria e ha oltrepassato il rapporto 7 a 1 con il dollaro. Nello stesso tempo, la Cina ha annunciato che non avrebbe acquistato più prodotti agricoli statunitensi. La strategia commerciale statunitense Trump-Neocons è così appena implosa. Come previsto da chi scrive, la soglia è stata ora superata, e si è passati da una guerra commerciale tariffaria a una guerra economica più ampia tra gli Stati Uniti e la Cina, nella quale vengono ora implementate altre tattiche e misure.
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Qualcuno era 5 Stelle… Fermare Salvini, dimenticare Di Maio... Panoramica su quello che è e che è stato
di Fulvio Grimaldi
Qualcuno era 5 Stelle perché erano per l’ambiente. Qualcuno era 5 Stelle perché erano onesti in un mondo di ladri. Qualcuno era 5 Stelle perchè tutti gli altri mentivano. Perché sul territorio a lottare c’erano rimasti solo loro. Perché Grillo era matto come un cavallo e saggio come un oracolo greco. Perché Di Battista assomigliava al Che Guevara in forma e contenuto. Perché tutti coloro con i quali aveva sperato, o addirittura combattuto, erano tornati a casa o si erano fatti lacchè dei signori. Perchè gli argomenti di Di Maio, Taverna, Bonafede, Di Battista, radevano al suolo quelli di Repubblica. Qualcuno era 5 Stelle perché ci avrebbero fatto uscire dalla caserma e strappato di dosso la divisa Nato. Perché avrebbero tagliato gli artigli agli avvoltoi che ci avevano rinchiuso nella gabbia UE e strozzato con l’euro. Qualcuno era 5 Stelle perché a sinistra non c’erano che detriti spiaggiati, al centro una bolla di nulla e a destra tutti gli altri.
Qualcuno era 5 Stelle perché, scavando una via di fuga dalla discarica, aveva visto qualcosa di integro e di pulito da farci la casa per i suoi figli.
Decreto Sicurezza Bis, contro la tratta o contro l’Italia?
A scanso di equivoci, mettiamo subito in chiaro una cosa: a me il decreto Sicurezza Bis va benissimo per quanto riguarda, con rispetto e a dispetto del guru sul Colle, ogni singolo provvedimento punitivo nei confronti di coloro, al soldo e nell’interesse dei dominanti che rubano all’Africa la sua gente per farne schiavi loro e mine vaganti tra noi. Ne avessi avuto modo, siccome l’Africa e altri Sud li conosco e chi da secoli li depreda pure, avrei previsto lo ius soli per tutti i partecipi della tratta, dopo averli collocati e naturalizzati nel deserto del Sahara: chi sradica, chi spedisce, chi riceve su appuntamento ciarlando di “salvataggio” e chi accoglie e ci fa la grana..
Ma è un altro il punto del decreto di colui che, a scapito di ogni tentativo di imitazione, sta a Mussolini come la sua pancia sta a quella del Duce.
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Carlo Formenti, “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!”
di Alessandro Visalli
Premessa
Il libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” è stato pubblicato in questo 2019 e segue altri due notevoli libri dell’autore, tutti pubblicati a tre anni di distanza, “Utopie letali. Il capitalismo senza democrazia”, del 2013, e “La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo”, del 2016 (che abbiamo letto qui). I tre testi individuano, insieme alle esplorazioni precedenti[1], molto attente alle evoluzioni della sfera pubblica e delle tecnologie che vi impattano, una vasta ricostruzione, ancora in corso sulle trasformazioni del socialismo in questo avvio di millennio.
Se il socialismo novecentesco è davvero morto le sinistre attuali ne sono il becchino che cerca di guadagnarci ancora qualcosa. Ma se è morto occorre andare verso ciò che nasce, ciò che ‘deve’ nascere: ancora viva il socialismo!
Il libro cercherà di sviluppare questo difficilissimo programma concentrandosi, per così dire, sulla ‘transizione’. Ovvero, per dir meglio, sulle condizioni nella quali può essere avviata una ‘transizione alla transizione’.
Per compiere questa paradossale operazione occorre, secondo Formenti, come prima cosa capire in che modo le sinistre sono diventate il becchino del socialismo morto, lasciandolo marcire. Per farlo ripercorre le tesi (dodici) dei due precedenti libri.
Come seconda cosa, necessaria per assumere il dovere di far nascere il nuovo, c’è bisogno di rapportarsi al ‘momento populista’ in modo creativo, aggregando un “blocco sociale” con quel che c’è, intorno a rivendicazioni anche diverse, purché incompatibili con il sistema capitalistico nell’attuale forma neoliberale. L’idea è di partire da un’ampia alleanza di soggetti sociali capace di riforme radicali che abbiano almeno la potenzialità di evolvere in senso socialista, rafforzando le forze che possono incarnarlo. Una simile strategia, nella prima fase prevedibile, dovrà quindi assumere carattere nazional-popolare e neo-giocobino con l’obiettivo primario di ricostruire almeno le precondizioni (del socialismo) di reale partecipazione al processo decisionale e di redistribuzione del reddito.
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Marx e la teoria neo-hobbesiana dell’organizzazione dell’impresa capitalistica
di Marco Beccari e Domenico Laise
Marx e gli autori neo-hobbesiani concordano sulla necessità di una “autorità” nella fabbrica capitalistica, ma dissentono sulle finalità ad essa attribuite. L’articolo trae spunto dal seminario “L’organizzazione del lavoro nella fabbrica capitalistica” tenuto da Domenico Laise per l’Università Popolare A. Gramsci nell’anno accademico 2018-2019 [1]
In un precedente articolo abbiamo sostenuto che Marx è l'unico economista che spiega la natura autocratica dell'impresa capitalistica, vale a dire è l'unico autore che spiega, con rigore scientifico, l’esistenza della "dittatura del capitalista" all'interno dei cancelli fabbrica, nella quale il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia [2].
L'autocrazia esiste, per Marx, perché è la condizione necessaria per l'esistenza del plusvalore (pluslavoro capitalistico) e, quindi, del profitto. Se non ci fosse l'autocrazia, cioè se i lavoratori potessero formulare la strategia e avessero il controllo strategico e operativo del processo produttivo, allora potrebbero decidere di erogare una quantità di lavoro pari alla quantità di lavoro necessaria, contenuta nei mezzi di sussistenza. In tal caso non sarebbero garantite le condizioni per l’esistenza del plusvalore e per la riproduzione della classe dei capitalisti, che vive sul lavoro dei salariati. La divisione della società in classi conflittuali è, in ultima analisi, la condizione necessaria per l'esistenza dell'autocrazia capitalistica.
Poiché la fabbrica capitalistica, e in senso lato l’impresa capitalistica, è finalizzata al profitto e, quindi, all’estrazione coatta di plusvalore, essa implica necessariamente la coercizione del lavoratore al pluslavoro. Il lavoratore di conseguenza non è mai libero delle proprie azioni, ma è costretto ad accettare e eseguire gli ordini del capitalista, rivolti, in definitiva, alla produzione del plusvalore. Nella fabbrica, come sostiene Engels, “il legislatore assoluto è il fabbricante. Egli emana i regolamenti di fabbrica a suo beneplacito” [3].
Si potrebbe pensare che, se riferite alla fabbrica moderna, le tesi di Marx ed Engels siano obsolete. Si potrebbe, ad esempio, sostenere che oggi alla Toyota esista la "democrazia industriale”, poiché l'operaio è coinvolto in processi decisionali cruciali. Ad esempio, l’operaio è libero di arrestare la catena di montaggio quando lo ritiene opportuno. Ma non è così. L'operaio non è libero di scegliere il suo comportamento. Si tratta, in realtà di una falsa e fittizia libertà. Egli, infatti, può bloccare la catena di montaggio solo quando i pezzi prodotti risultano difettosi.
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Giorni che rischiarano decenni II
I "sovranisti" della NATO e della UE
di Norberto Natali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo [Qui la parte I]
Dalla sua crisi generale, dunque, scaturisce anche la contraddizione del potere borghese con la sua sovrastruttura mediatica e le illusioni circa la “neutralità” e la “libertà” di quest’ultima.
Tanto che -intrecciandosi questa crisi con la ossessiva mercificazione di tutta la società e della vita di ciascuno- si generano fenomeni che sarebbero apparsi fantascientifici solo qualche tempo fa.
Per esempio gli “influencer”: persone senza meriti o competenze, le quali -in modo che a me pare eticamente discutibile- sfruttano perfino i propri bambini allo scopo di far vendere delle merci ricavandoci un lauto guadagno personale. Basterebbe solo questo per dire che la questione della propaganda, dell’informazione o del “controllo” dell’orientamento pubblico è entrata in una fase storicamente nuova e sarà meglio approfondire questo tema in altra sede.
Tuttavia, è necessario insistere sulla coscienza -che tutte e tutti dobbiamo cercare di acquisire- della “forza di gravità” mediatica (se così si può dire) che preme su ciascuno per condizionarne scelte ed idee. Così come, camminando su un pendio, ci sembra frutto di una nostra libera e spontanea volontà la tendenza ad andare in discesa, mentre invece questa è provocata da molti chili di aria (i fisici mi perdoneranno) che premono sulla nostra testa, allo stesso modo le nostre posizioni politiche (o di altro genere) e le questioni cui diamo la priorità, ci sembrano espressione di nostri liberi e spontanei orientamenti, fondati su criteri oggettivi, mentre invece non è così. C’è tutto un apparato, generato dalla potenza dell’imperialismo, che “lavora” per condizionarci.
Mi limito ad un solo esempio di due settimane fa. Per ben tre giorni, tutta l’informazione ha dato ampio ed eclatante rilievo alla notizia che una dozzina di dipendenti dell’ospedale di Molfetta usciva dal lavoro durante l’orario di servizio: uno di loro andava a comprare il pesce fresco e lo conservava nel frigorifero del proprio reparto. Un fatto grave, da condannare senza se e senza ma. Peccato che tale scandalo abbia contribuito a oscurare al massimo un’altra vicenda emersa in quei giorni, una storia da romanzo dell’orrore che supera perfino certi racconti che ci propinano sullo “stalinismo” o sulla Corea del Nord.
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Gramsci e i gruppi subalterni
di Lelio Laporta
Nel Quaderno 251 (1934) Gramsci propone alcuni criteri di metodo con cui procedere nell’analisi della storia delle classi subalterne caratterizzata dal formarsi dei gruppi subalterni, dalla loro iniziale difficoltà a liberarsi dalla tutela di altri gruppi preesistenti, dallo sforzo di imporre delle svolte in senso progressivo alle politiche dei gruppi dominanti, dalla creazione di formazioni specifiche dei gruppi subalterni al fine di costruire una posizione autonoma rispetto a quella precedentemente, seppure in parte, condivisa dagli stessi gruppi subalterni con altri gruppi. Quindi, va storicamente analizzata ed individuata, continua Gramsci, la linea di sviluppo storico nel corso della quale si sia manifestato lo spirito di scissione, cioè
«il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica» (Q3, 49, 333), ossia il processo necessario allo sviluppo delle «forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti», dotate di «autonomia integrale» e unificate in uno Stato (Q25, 5, 2288)2.
Spetta allo storico il compito di rintracciare anche la minima iniziativa autonoma dei gruppi subalterni per ricomporre il quadro generale di una storia degli stessi gruppi subalterni;
da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere (Q25, 2, 2284).
Labriola e fra Dolcino
L’applicazione della premessa metodologica che Gramsci indica nel Q25 è individuabile nei corsi universitari che Antonio Labriola tenne, tra il 1896-97 e il 1899-1900, su Fra Dolcino3. Negli appunti preparatori dei corsi Labriola, infatti, procede a partire dalla fissazione di necessari punti di riferimento storici senza i quali non sarebbe comprensibile la vicenda di Fra Dolcino:
Il punto capitale è la formazione dei comuni, ossia la loro autonomia, e poi l’inizio delle libertà civiliossia la preformazione della borghesia e la liberazione della campagna dalla servitù personale dalla gleba e dal fitto perpetuo; l’assimilazione giuridica della terra al libero contrattante e quindi il fitto a tempo (di cui la mezzadria non è che una sottospecie), il predominio della città su la campagna, e l’impossibilità che si formasse un ceto di contadini piccoli proprietarii. Questo fatto primordiale ha deciso di tutta la sorte ulteriore della fisionomia sociale dell’Italia dove una classe di contadini (Germania, Norvegia) non c’è mai stata e viceversa non c’è stata che in modo minimo quella lotta che ha dato luogo alla guerra dei contadini4.
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La lotta di classe dall’alto e dal basso
Liberalismo, populismo e fascistizzazione
di Eros Barone
Non dimenticarlo mai: ora non è il momento adatto per vincere, ma per combattere le sconfitte.
Bertold Brecht
1. Il mondo va a destra: perché?
È in atto uno spostamento a destra che ha dimensioni mondiali. A partire da diversi paesi dell’America Latina, dove in precedenza governava la sinistra riformista e sono ora subentrati governi di destra, il cui esemplare più importante e più famoso è quello del Brasile di Jair Bolsonaro, apologeta del nefasto regime militare e della sua sanguinosa repressione, passando attraverso la rielezione di Modi in India, di Netanyahu in Israele e di Erdoğan in Turchia, per giungere all’Australia, dove è stato riconfermato il governo conservatore, e all’Unione Europea, dove le scorse elezioni hanno segnato un deciso spostamento a destra, tornano a soffiare i venti procellosi che hanno portato all’ascesa di Trump negli Stati Uniti e ora a quella di Johnson nel Regno Unito.
Quando avviene, su scala globale, uno spostamento così massiccio e così generalizzato, sorge spontanea la domanda: perché? Del tutto fuorviante è la risposta fornita a questo proposito dagli analisti liberali borghesi, intenti meccanicamente e schematicamente a classificare le forze sociali e politiche in base ai seguenti dilemmi: contro la UE o a favore della UE, contro l’immigrazione o a favore dell’immigrazione. Questo approccio, che isola singole contraddizioni da un contesto più ampio, scambia la sostanza con la superficie, la realtà con l’apparenza, il generale con il particolare. L’analisi marxista, che tende invece a ricongiungere la superficie alla sostanza, l’apparenza alla realtà e il particolare al generale, indica con chiarezza che quelle contraddizioni sono altrettante conseguenze della crisi economica che attanaglia l’economia mondiale dal 2008. Il ciclo declinante del saggio di profitto e il ciclo ascendente della reazione, il ciclo della concentrazione monopolistica del capitale e il ciclo della proletarizzazione della piccola borghesia trovano così una corrispondenza perfetta, confermando la tesi dei sostenitori della “stagnazione secolare” e ridicolizzando quei sicofanti della borghesia imperialista che, ipnotizzati dall’andamento a ‘yo-yo’ dell’economia mondiale, esultano quando tale andamento sembra impennarsi verso l’alto e cadono nello sconforto quando il rocchetto della valorizzazione discende sempre più in basso. Né il quadro viene modificato dalla discesa degli indici della disoccupazione, poiché, anche sorvolando sulla composizione in gran parte precaria degli occupati, il confronto tra periodi differenti, essendo la percentuale degli occupati diminuita, conferma un tasso di disoccupazione ben più alto di quello che registrano le statistiche ufficiali.
Lo spostamento a destra è dunque, a livello delle sovrastrutture e, in particolare, a livello delle sovrastrutture politico-istituzionali, la risultante del quadro di crisi e disoccupazione, che caratterizza attualmente la “struttura del mondo”.
2. La situazione politica europea
In sostanza è accaduto che, in una situazione ove i partiti liberali borghesi negano l’esistenza della crisi e la sinistra più o meno ‘radicale’ è incapace di formulare un programma alternativo, l’iniziativa è passata alla destra e al suo programma anti-immigrazione. La crescita della destra a livello mondiale si può quindi ascrivere alla combinazione tra il realismo con cui essa ha riconosciuto l’esistenza della crisi e della disoccupazione, e l’uso demagogico e divisivo che ne ha fatto attribuendone la responsabilità non alle classi dominanti che detengono le chiavi del sistema socio-economico interno e internazionale, ma agli immigrati e ai loro paesi di provenienza.
Stando ai risultati delle elezioni europee (e tenendo, peraltro, conto dei limiti derivanti da un’analisi, per così dire, sintomatologica, dipendente perciò dal carattere fluido, volatile ed emotivo che è proprio della pratica elettorale, di stampo essenzialmente mediatico, che caratterizza le attuali ‘post-democrazie’), il voto risulta essersi polarizzato tra le forze europeiste, che hanno manifestato una complessiva tenuta, e le forze populiste che hanno registrato notevoli successi in alcuni paesi (segnatamente, in Italia, in Francia e in Ungheria). Il fronte europeista, dal canto suo, si è diversificato in senso nettamente reazionario, isolando i socialdemocratici e aggregandosi attorno ai Verdi e ai liberali, che oggi rappresentano la prima linea del fronte cosmopolita e antinazionalista.
Secca e inappellabile è stata, poi, la sconfitta del Partito della Sinistra europea (una vera catastrofe storico-morale) che, perdendo numerosi seggi, vede ulteriormente ridursi la sua presenza già residuale a favore dei liberali e dei Verdi, senza riuscire nemmeno ad avvantaggiarsi della flessione dei socialdemocratici. Calano quindi la Linke tedesca, France Insoumise di Mélenchon e Unidos Podemos di Iglesias. Ma calano marcatamente anche quei partiti comunisti, come il KSCM nella Repubblica Ceca e il PCP nel Portogallo, che appoggiano i rispettivi governi socialdemocratici: aspetto, questo, che dimostra in modo inequivocabile come il sostegno ai governi di centrosinistra venga pagato a caro prezzo dai comunisti.
Il calo dei socialdemocratici è in parte compensato dai Verdi che, riemergendo dalle nebbie in cui vengono relegati quando non servono alla borghesia come arma di distrazione di massa e avvalendosi del pompaggio mediatico teso a presentare come nuovo un movimento piuttosto stagionato (i Verdi esistono perlomeno da quarant’anni), hanno ottenuto, grazie anche al sostegno di un blocco economico-finanziario di stampo eco-capitalistico, un vasto consenso tra le nuove generazioni.
Infine, va rilevato l’aumento dell’affluenza al voto, elemento, questo, che dimostra l’incidenza esercitata anche a livello elettorale dalla mobilitazione reazionaria delle masse, che è in corso su scala europea.
3. La situazione politica italiana
Il voto italiano è stato, ancor più che negli altri paesi europei, un plebiscito a favore della destra più reazionaria: dal 1945, quando ebbe fine la seconda guerra mondiale, uno spostamento a destra così marcato non si era mai avuto nel nostro paese.
È stato detto giustamente che l’ascesa della Lega non ha eguali in Europa sia per la sua progressione straordinaria (dal 17% al 34% in un anno di governo), sia per la sua estensione su scala nazionale, sia per il suo radicamento nell’Italia profonda della provincia, delle cittadine, dei piccoli paesi, delle campagne. In questo senso, una volta prosciugata Forza Italia, ‘partito-azienda’ decotto come il suo fondatore, assorbito buona parte del voto in uscita dal M5S e quasi tutto il bacino elettorale delle formazioni fasciste di Casa Pound e di Forza Nuova, eccezion fatta per quello di Fratelli d’Italia, che è peraltro complementare al bacino della Lega, quest’ultima è oggi per davvero, dal punto di vista elettorale e sul piano dell’immagine, “il partito della nazione”.
Ciò nondimeno, che la Lega sia nella realtà concreta, in primo luogo, uno strumento al servizio della superpotenza imperialista USA e, in secondo luogo, un satellite dell’imperialismo russo è un dato la cui evidenza è altrettanto palmare. In effetti, Trump e Putin, mentre confliggono in diverse aree del mondo, hanno un obiettivo comune: indebolire e disgregare l’Unione Europea imperialista. E in funzione di questo obiettivo sostengono e finanziano i partiti sciovinisti, populisti e di estrema destra che, alimentando l’odio fra i popoli e tagliando l’erba sotto i piedi ai tradizionali partiti socialdemocratici e liberali, contribuiscono ad inceppare il progetto di integrazione economica e politica europea diretto dall’imperialismo franco-tedesco, ma insidiato dal tarlo roditore della legge dello sviluppo ineguale.
Sul piano nazionale, la vicenda del Metropol, ponendo in luce i rapporti fra gruppi monopolisti, come l’ENI, e la Lega, ha confermato che oggi quest’ultima è assurta a partito-guida della grande borghesia sul terreno delle politiche neoliberiste e repressive. Pertanto, la Lega ha, sì, la sua base di massa nei piccoli e medi imprenditori del nord, in settori del ceto medio e anche in strati arretrati e disorientati del proletariato; ma a livello politico, nonostante la demagogia sociale, lavora per assicurare gli interessi della grande borghesia monopolista. Da questo punto di vista, esiste un parallelismo perfetto con il fascismo storico, poiché il rapporto fra la Lega e le componenti più reazionarie del grande capitale, degli industriali e degli agrari è (non congiunturale e tattico ma) strutturale e strategico.
I Cinque Stelle, fortemente ridimensionati nei rapporti di forza con il loro alleato-concorrente di governo e incalzati dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra, seguono una linea ondivaga e velleitaria che nasce dalla fragilità della cultura politica di riferimento, dal carattere ‘liquido’ del movimento e dalla mancanza di una solida base sociale.
In sostanza, di loro, così come, in un altro senso, del Partito Democratico, si può dire che, a pari titolo anche se in campi diversi, lavorano per il re di Prussia, che è quanto dire per il leghismo e per la fascistizzazione. Non per nulla la mobilitazione reazionaria delle masse, che rappresenta il vettore più potente della fascistizzazione, è ‘a parte objecti’ il frutto velenoso della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, che ha contribuito a dividere le masse e ad isolare la classe operaia, mentre ‘a parte subjecti’ è la conseguenza tanto della politica perseguita dal gruppo dirigente renziano a favore di alcuni settori del capitalismo italiano ed europeo (quelli maggiormente legati al mercato tedesco) quanto della funzione svolta dal Movimento Cinque Stelle nel favorire, alleandosi ad un partito neofascista e impantanandosi nella melma di una politica del ‘giorno per giorno’ sganciata da un progetto adeguato alla fase, un consistente deflusso dei suoi voti verso l’alleato-concorrente: due apprendisti-stregoni che stanno già facendo, e ancor più faranno, i conti con le operazioni politicamente controproducenti e socialmente dannose che hanno posto in essere.
Dal canto suo, la Lega ha riscosso un crescente consenso negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame etnocentrico, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzati dal mercato unico europeo. Infine, ha monopolizzato il tema della sicurezza non solo per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi, ma soprattutto per sacralizzare, sul piano pratico e ideologico, la proprietà privata (e questa è la ragione principale per cui, orbitando anch’essi all’interno di questa decisiva sfera ideologica e dei relativi interessi pratici, i partiti ‘di sinistra’ sono stati, sono e saranno del tutto incapaci di rappresentare un’alternativa alla Lega).
Per quanto riguarda taluni settori, anche rilevanti, del capitalismo italiano (energia, metallurgia, meccanica, grande distribuzione ecc.), questi settori hanno scelto di appoggiare la Lega in quanto hanno bisogno della sua politica ultrareazionaria e di scissione sistematica del proletariato per cercare di frenare l’inesorabile declino dell’imperialismo italiano e conservare i rapporti sociali esistenti, per intensificare lo sfruttamento e ridurre ulteriormente salari, diritti e spese sociali, per sopprimere le libertà democratiche degli operai, intimidire e attaccare le organizzazioni di classe e le forme di lotta più decise, impedendo, in coerenza con l’imperativo della controrivoluzione preventiva, che la ribellione proletaria e popolare si diriga contro le basi del sistema di sfruttamento.
Le menzogne spacciate da Salvini e il rifiuto opposto alla richiesta di riferire personalmente in Parlamento sul caso Lega-Russia non esprimono solo il timore per le conseguenze politiche di uno scandalo che dimostra la profonda corruzione del partito che dirige (condannato, fra gli altri reati, a rifondere 49 milioni di euro allo Stato per appropriazione indebita), ma mettono anche in luce il totale disprezzo del ministro di polizia e del suo partito nei riguardi della democrazia parlamentare borghese. La vicenda costituisce un altro tassello del processo di fascistizzazione dello Stato, che procede attraverso una lotta acuta con i vecchi partiti borghesi e nello stesso campo populista, all’interno del quale il M5S è in posizione totalmente subalterna.
Il Partito Democratico viene visto, soprattutto da quando è stato rivestito, per opera della segreteria Zingaretti, in contrapposizione a Salvini, dei panni e degli orpelli della cosiddetta ‘sinistra progressista’, come una forza alternativa alla destra, ma esso è in realtà, per la sua linea e per la sua base sociale (e in parte anche per quella di massa, se si considera l’organico insediamento dell’aristocrazia operaia al suo interno), uno schietto partito liberale borghese, del tutto interno alle compatibilità economiche e alle alleanze internazionali di una media potenza imperialista quale è l’Italia. Il falso ‘maquillage’ realizzato con la segreteria Zingaretti ha cambiato, frenando in qualche misura con la truffa/ricatto del ‘voto utile’ l’emorragia di consensi elettorali, il volto e la veste esteriore, ma non la sostanza intrinseca e la funzione di classe del Partito Democratico, che sono immodificabili. Il ‘partito operaio borghese’ di engelsiana memoria continuerà pertanto la sua opera deleteria di mistificazione e di inganno, fino a quando non sarà smascherato da una crisi di portata rivoluzionaria e le masse sfruttate non ne riconosceranno la reale natura di complice e gestore dello sfruttamento capitalistico.
Poche parole bastano a liquidare i cascami della Sinistra (suo malgrado) extraparlamentare. La liquidazione della centralità dell’autonomia di classe, consumata proprio negli anni della grande crisi capitalista; la sua sostituzione con la nozione democratico-borghese di cittadinanza progressista, riverniciata con qualche sbiadita coloritura sociale; l’appoggio e la partecipazione al II governo Prodi; le sperimentazioni ‘in vitro’ di schieramenti elettorali artificiosi e sempre più rachitici (Arcobaleno, Rivoluzione civile, Lista Tsipras ecc.) hanno costituito i ‘leitmotiv’ della catabasi e della eutanasia di questo movimento spettrale. Un ennesimo fallimento delle liste comuni di carattere elettoralistico ha infine ridotto questo piccolo movimento di ceti piccolo-borghesi ad un’esistenza querula, umbratile e servile, tenuta in non cale dalla borghesia monopolista cui non serve più come agente di corruzione ideologica della classe operaia, ignorata dalle masse proletarie con cui esso non intrattiene, né cerca di stabilire, alcun rapporto, e disprezzata dalle minoranze comuniste che ancora esistono nel nostro paese e che, lentamente ma progressivamente, si stanno riorganizzando.
4. Il processo di fascistizzazione avanza
Che il processo di fascistizzazione avanzi è ormai un dato di fatto del quale va preso atto. Quando si affronta questo tema, si deve, tuttavia, prestare attenzione a non incorrere in due distinti errori. Il primo errore è quello di limitare tale considerazione agli aspetti fenomenologici: una tendenza, questa, non a caso e significativamente incoraggiata dal Partito Democratico, intento ormai da tempo in un'opera di sfruttamento dell'immaginario antifascista tanto vacua quanto ipocrita, tutta fondata sulla rimozione, precedentemente portata avanti con successo dallo stesso centrosinistra per oltre vent'anni, della consapevolezza delle radici di classe del fascismo e dell'antifascismo e quindi del contenuto di trasformazione radicale dell'ordinamento sociale che quest'ultimo, se sincero e conseguente, assume in tutto il mondo ma, in particolare, in Italia. Il secondo errore è invece quello di ricercare negli avvenimenti attuali i tratti salienti del processo che condusse storicamente all’avvento del fascismo, sempre limitandosi ad accostamenti tra le caratteristiche esteriori dei due fenomeni che, evidentemente, sono solo in parte coincidenti.
La verità è che il processo di fascistizzazione si fa di giorno in giorno più evidente, più opprimente e più capillare, e chiunque abbia una certa sensibilità ne avverte già da molto tempo la stretta. In questo senso, il governo Salvini-Di Maio è solo il punto di avvio di un ulteriore salto qualitativo. Se confrontiamo infatti la situazione della prima metà del XX secolo con la situazione attuale, risulta palese il tratto comune costituito dalla crisi strutturale del capitalismo. Il secondo elemento, però, e cioè un’alternativa rivoluzionaria in atto, è sostanzialmente assente. Inoltre, la crisi del capitalismo si produce oggi nel contesto generato da un altro evento epocale, di segno opposto a quello rappresentato dalla rivoluzione d’Ottobre: l’abbattimento del vallo antifascista di Berlino e la fine del campo socialista, cioè la vittoria della controrivoluzione.
Orbene, questa particolare situazione, in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è nemmeno in gestazione per assenza di antagonismo politico organizzato e diretto da finalità rivoluzionarie, dà luogo al fenomeno della “putrefazione dei processi storici”, di cui la fascistizzazione delle relazioni sociali è il frutto. La ricognizione finora svolta ha quindi permesso di porre in luce due elementi, la crisi strutturale del capitalismo e l’assenza di antagonismo organizzato, l’uno dei quali è convergente e l’altro è radicalmente divergente rispetto alla congiuntura storica che produsse storicamente il fascismo. Da ciò si ricava una prima conclusione: l’unica minaccia immediata che incombe sul capitalismo contemporaneo sono i suoi stessi limiti strutturali e le conseguenze che il loro manifestarsi comporta. Un fenomeno di acuta reazione, nella metropoli imperialista del nostro tempo, necessariamente erediterà la lezione del fascismo storico, ma non la riprodurrà, quanto meno nei suoi aspetti apertamente dittatoriali, se non in presenza di una soggettività politica capace di minacciare il dominio della borghesia monopolista.
D’altra parte, casi quali quello dell'Ungheria di Orbán, della Polonia, dei paesi baltici e dell’Ucraina dimostrano come il tipo di potere autoritario che serve oggi al capitalismo non abbia bisogno di mettere in discussione apertamente le caratteristiche esteriori della democrazia liberale, ad esempio il multipartitismo. È opportuno, inoltre, sottolineare che il fenomeno della fascistizzazione non si realizzerà, nella metropoli imperialista contemporanea, se non entro i confini dettati dalle compatibilità tra i regimi politici nazionali e il controllo economico e burocratico da parte delle istituzioni sovrannazionali e, in buona sostanza, dei vertici della piramide imperialista. Permanendo l’assenza di antagonismo politico e sociale soggettivamente organizzato, la borghesia è dunque libera di perseguire i propri interessi di classe dominante e di fornire alla crisi economica la propria risposta, che nella presente fase storica si identifica con la svalorizzazione delle forze produttive e l’accelerazione dei processi di concentrazione e/o centralizzazione del capitale.
Sennonché una conoscenza più adeguata del fenomeno della fascistizzazione della società italiana richiede che esso venga situato all’interno di quello spazio più ampio e di quel tempo più lungo che, all’inizio di questo articolo, è stato individuato come ‘ciclo politico reazionario’. La Brexit, l’elezione di Trump, la questione migratoria, prima ancora le guerre imperialiste contro i regimi progressisti della Libia e della Siria e le ‘dittature commissarie’ imposte all’Italia e alla Grecia sono stati gli eventi che hanno gettato la luce su una tendenza più articolata che include, tra i casi più rilevanti, la crescita delle forze neofasciste in tutta Europa, la restaurazione autoritaria in molti paesi sudamericani, lo spostamento a destra dell’India e dei paesi dell’Europa dell’Est. Un siffatto ciclo politico è, al contempo, l’effetto della “crisi organica di egemonia” delle classi dominanti e della stessa ideologia liberale. Esso si è configurato via via come reazione generalizzata all’erompere dei movimenti di massa contro le politiche di austerità negli anni centrali della crisi economica. A partire da questi eventi, il nazionalismo, declinato sempre più in chiave gingoista, si è presentato, da un lato, come una scelta, entro certi limiti, vantaggiosa per le classi dirigenti e, dall’altro, come uno strumento di rivendicazione immediata nella sempre più ristretta panoplia delle classi subalterne.
Da questo punto di vista, è opportuno ed illuminante aggiungere che la fascistizzazione si configura anche come il contraccolpo generato da un altro processo: la ‘democratizzazione’ della proprietà privata. Non per nulla, dalla Thatcher in poi, in Europa la diffusione del neoliberismo è stata declinata come un grande progetto volto ad estendere a tutte le classi sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli àmbiti della vita la logica patrimoniale: la ‘democratizzazione’ della proprietà privata è stata quindi, nel contempo, un mezzo potente per imborghesire il corpo sociale e una strategia con cui i neoliberisti hanno compensato la progressiva distruzione di un’altra forma di proprietà – quella sociale – incarnata, in qualche misura, dai moderni sistemi di ‘welfare’.
Questa particolare angolazione analitica permette di radiografare meglio quel vasto settore della composizione sociale della fascistizzazione, il cui protagonista non è affatto l’‘escluso’ o il ‘penultimo’, bensì una sorta di ‘sotto-borghesia’ costituita da quei ceti che si sono arricchiti negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso grazie al cosiddetto “capitalismo molecolare” e sono poi rimasti esclusi dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007. In Italia, per citare un caso paradigmatico, le modificazioni che hanno contrassegnato la funzione e il ruolo della Lega sono state rispecchiate dai mutamenti intervenuti nel suo discorso politico e sociale con una tale fedeltà e simultaneità che si possono, da questo punto di vista, considerare esemplari.
Così, sotto questo profilo, diventa intelligibile il crescente consenso che l’ideologia reazionaria è andata riscuotendo presso i gruppi sociali più poveri, esclusi dalla politica di diffusione della proprietà: consenso che ha dato luogo, per dirla con Gramsci, alla formazione di un “blocco storico” specifico. Il fenomeno testé evocato – rappresentato dalla ‘sotto-borghesia’ e dal lato reazionario della proletarizzazione dei ceti medi – dimostra quindi che è sbagliato, in primo luogo, sottovalutare l’intensità raggiunta dalla crisi di egemonia delle classi dominanti e dalla crescita correlativa del loro “sovversivismo” (cfr. sempre Gramsci), e, in secondo luogo, disconoscere la radicalità delle strategie che le classi dominanti sono disposte ad adottare per tentare di porvi un qualche argine.
Nondimeno, occorre precisare, sempre sotto questo profilo, che la questione qui evocata riguarda solo lateralmente un fenomeno politico come Salvini, poiché il problema principale è quello concernente la dislocazione dei soggetti di tradizione liberale e socialdemocratica. A tale proposito, va detto senza ambagi che una parte significativa dei gruppi dirigenti e dei maggiori gruppi editoriali del nostro paese non rifugge affatto dall’idea di fare ricorso a misure più o meno controllate di ‘guerra civile’ pur di superare la ‘crisi di legittimità’ a cui è esposta. Questa disponibilità non nasce semplicemente dall’esigenza di sintonizzarsi con quello che è considerato come un “senso comune popolare”, né da un mero calcolo di natura elettoralistica. Quello che si delinea è infatti un progetto complessivo di ristrutturazione dei rapporti sociali in senso sempre più autoritario e sempre più repressivo.
5. Quale strategia per il proletariato?
L’assunto da cui occorre prendere le mosse per rispondere correttamente alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo è che le classi lavoratrici sono l’unico strato sociale che abbia un interesse diretto alla salvaguardia della capacità del paese di produrre ricchezza. Questa realtà, chiaramente confermata dall’esperienza italiana della lotta di liberazione contro il nazifascismo e, segnatamente, dalla difesa armata delle fabbriche ad opera degli operai contro l’invasore tedesco, deve essere ovviamente occultata e rimossa per consentire al processo di concentrazione del capitale di tramutarsi in guerra economica perdurante per la svalorizzazione delle forze produttive nei paesi subalterni.
Al contrario, l’immaginazione politica dovrebbe ripartire proprio da qui per tendere a rompere la paranoia proprietaria: dalla memoria storica e dall’attualità socio-politica delle forme di appropriazione collettiva dei beni.
Del resto, se il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di vita, non ci sono fronti popolari, democratici o costituzionali che reggano, né l’antifascismo militante può da solo invertire la rotta: vi è, invece, il bisogno di politicizzare la vita e di rilanciare l’idea del socialismo se si intende lottare per davvero contro la Santa Alleanza del potere e del denaro.
Insomma, si tratta di capire che tra la democrazia liberale e il fascismo si interpone un lungo e articolato processo – la ‘post-democrazia’ - attraverso il quale l’estrema destra e le sue idee si socializzano gradualmente e diventano non solo ‘quasi-normali’, ma anche ‘quasi-normative’. Il fascismo può quindi apparire come un’opzione accettabile con cui talune frazioni dell’apparato statale stabiliscono apertamente i loro collegamenti. Non mancano, da questo punto di vista, le prove che talune idee fasciste stanno già circolando da tempo in strutture come la polizia o l’esercito. E se non è difficile immaginare che tali strutture possano fungere da supporto per passare all’offensiva quando la situazione sarà ritenuta matura dalle classi dominanti, non bisogna mai dimenticare che la transizione al fascismo è il risultato di un lungo processo. Siccome questo processo è in corso da diversi anni, ecco perché si deve parlare della fascistizzazione prima di parlare del fascismo. Naturalmente, tale processo, che non è ineluttabile e può essere contrastato e invertito, inizia ben prima del fascismo. Va da sé che quest’ultimo può pienamente affermarsi solo quando viene meno la mobilitazione rivoluzionaria delle masse nella lotta contro la fascistizzazione e nella lotta per il socialismo. Da qui scaturisce l’importanza di non minimizzare questo processo, dando per scontato che si tratti di una breve fase transitoria.
In realtà, i partiti politici tradizionali di orientamento liberale o socialdemocratico sono impotenti di fronte all’ascesa del fascismo e non riescono in alcun modo a fermare questo processo, di cui essi, tra le altre cose, sono la causa più o meno involontaria. Solo le classi lavoratrici sono in grado di contrastare e invertire il processo di fascistizzazione. Non si tratta, come dovrebbe esser chiaro, di deificare la classe operaia, ma di prendere atto, sul piano storico, che laddove il fascismo è stato sconfitto, la classe operaia era più attiva, più unita e più organizzata.
Oggi, a differenza del passato, esistono le condizioni per ridare alla classe quel partito, quella teoria e quell’ideologia senza i quali il proletariato ha le armi spuntate. Oggi, a differenza del passato, esistono almeno le condizioni ‘negative’ per non ricercare quelle scorciatoie opportuniste che hanno determinato la dissoluzione del movimento comunista in Italia.
Un partito comunista degno di questo nome deve dunque adoperarsi per la più vasta unità dei comunisti, ma sulla base di una linea rivoluzionaria e ideologicamente coerente. Un partito comunista degno di questo nome deve adoperarsi per lo sviluppo di iniziative politiche di approfondimento, dibattito e studio sulle principali questioni strategiche che sono oggi in discussione, senza disgiungere queste iniziative dalla partecipazione alle lotte reali che si svolgono nel paese. È perciò una necessità vitale, per un partito di questo tipo, la realizzazione della massima unità, sul terreno delle lotte sociali, con le forze sindacali di classe, con le organizzazioni del movimento studentesco e con i comitati di lotta, per costruire un’opposizione sociale alle politiche antipopolari del governo, per contrastare e invertire il processo di fascistizzazione, per rendere nuovamente concreta la prospettiva del socialismo.
Nello stesso tempo, con altrettanta determinazione e chiarezza un partito comunista degno di questo nome deve respingere ogni appello all’unità con il centrosinistra. La storia degli ultimi anni ha dimostrato infatti che non esistono margini per qualsiasi riforma in favore dei lavoratori e delle classi popolari, che il potere è saldamente nelle mani dei grandi gruppi finanziari e che la collaborazione di governo con forze di centrosinistra conduce solamente al tradimento dei lavoratori. L’unità con il centrosinistra non è utile a fermare la destra, e anzi la rafforza e la radicalizza, aumentandone il consenso nei settori popolari.
Occorre quindi continuare la lotta politica e ideologica per far comprendere ai lavoratori e alle classi popolari che il Partito Democratico non è un partito in favore dei lavoratori; che non è migliorabile dall’interno; che non siamo tutti dalla stessa parte e che sulle questioni decisive il PD è il partito più rappresentativo degli interessi del grande capitale. In questo senso, occorre lavorare per contrastare il tentativo del PD di accreditare una “svolta a sinistra” che non esiste e che è solamente un espediente elettoralistico per riconquistare consensi. Allo stesso tempo, occorre spiegare che l’unità con la sinistra che cambia nome e sigla ad ogni elezione, che è pronta e prona ad accordi con il PD, porta all’immobilismo e all’estinzione; che è impossibile l’unità con chi nei fatti difende l’Unione Europea e la Nato, con chi non iscrive la propria azione nella prospettiva strategica dell’abbattimento del sistema capitalistico di produzione e di scambio.
Infine, un partito comunista degno di questo nome non può che essere internazionalista, il che significa innanzitutto contribuire alla ricostruzione internazionale del movimento comunista, già da tempo positivamente avviata.
Concludendo, la congiuntura storica in cui ci troviamo conferma che, al di là del successo a breve termine che la destra può ottenere nel mobilitare le masse intorno a un programma falso e divisivo, essa è sostanzialmente incapace di riscattarle dall’attuale condizione di disoccupazione, precarietà, incertezza del futuro e disperazione. La storia insegna infatti che, sebbene vi siano momenti nella vita di una nazione in cui il sistema esistente appare stabile e destinato a sopravvivere a lungo, tutto ciò può cambiare rapidamente, lasciando il posto a momenti in cui il sistema semplicemente non può più continuare come prima. Per il capitalismo questo momento, se non è ancora giunto, sembra però avvicinarsi giorno dopo giorno. Per quanti successi possa ottenere qui o altrove, la destra non può modificare questo dato di fatto, la fascistizzazione non passerà e l’idea del socialismo è destinata a ritrovare, arricchita dalle meditate lezioni del passato e dalla meravigliosa freschezza con cui la parte migliore della gioventù la sta riscoprendo, tutta la sua credibilità e tutta la sua forza di avvenire.
Indicazioni sitografiche sulle fonti consultate nel corso della stesura del presente articolo
https://proletaricomunisti.blogspot.com/2019/06/pc-6-giugno-la-rielezione-di-modi.html
https://ilpartitocomunista.it/2019/05/28/per-una-prima-analisi-del-voto-e-prospettiva-del-partito-comunista/
https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=6189
http://piattaformacomunista.com/
https://www.lacittafutura.it/editoriali/cosa-intendiamo-quando-parliamo-di-fascistizzazione-della-societa
http://www.operaicontro.it/?p=9755752515
http://www.euronomade.info/?p=10283
https://sinistrainrete.info/politica/15352-eros-barone-immigrazione-gingoismo-ed-esercito-industriale-di-riserva.html
https://sinistrainrete.info/politica-italiana/14145-eros-barone-vicoli-ciechi-e-cambiamenti-storici.html
https://sinistrainrete.info/politica-italiana/13625-eros-barone-il-governo-piccolo-borghese-e-antioperaio-degli-amici-del-popolo.html
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/12340-eros-barone-crisi-organica-venditori-napoletani-e-mezze-classi.html
https://sinistrainrete.info/storia/10230-eros-barone-cosa-ci-insegnano-le-tesi-di-lione.html
http://www.lariscossa.com/2017/05/09/linsegnamento-gramsci-costruzione-del-partito-comunista/
https://sinistrainrete.info/societa/14356-eros-barone-l-ideologia-della-casa-in-proprieta-e-le-catene-dorate-del-capitale.html
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/13792-eros-barone-cavalieri-demagoghi-e-popolo.html
Indicazioni bibliografiche
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, ed. a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. I, pp. 326-327; vol. II, p. 869; vol. III, pp. 1602-1604
Reinhard Kühnl, Due forme di dominio borghese: liberalismo e fascismo, Prefazione di E. Collotti, Feltrinelli, Milano 1973
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Dove va la transizione italiana?
di Pierluigi Fagan
Si scriveva qui all’indomani del voto alle elezioni politiche del 2018, che l’Italia sembrava essersi messa in moto verso dove non si sapeva. A volte il muoversi ha chiaro solo il da dove scappare, non necessariamente il dove andare. Tale transizione giunge oggi ad un nuovo passaggio, da cui la breve analisi e commento.
In Italia, come del resto in Francia, Germania, Spagna ed altrove c’è una storica maggioranza di centro-destra vs un minoranza di centro-sinistra. Da quando seguo cose politiche, ovvero da non pochi decenni (parecchi decenni, più di tre) tale differenza si conferma più o meno puntualmente ad ogni elezione. Può essere più o meno pronunciata a seconda di quanta gente dei rispettivi schieramenti va a votare e -in alcuni rari casi come quello di Prodi- quando il centro-sinistra trova l’intenzione di aggregarsi nonostante le forti differenze interne, differenze più marcate e dirimenti di quelle del contro-destra, invertire gli storici rapporti di forza. Data la maggiore eterogeneità però, il centro-sinistra che pure arriva a sintesi nel cartello elettorale, naufraga poco dopo su qualche votazione marginale poiché i compromessi corrodono l’identità, là dove soprattutto per le forze più a sinistra del cs, l’identità è tutto. Essendo le più deboli, sono poi quelle a cui si chiedono i maggiori sacrifici identitari. Su questa sociologia delle intenzioni politiche che non muta quasi mai o molto lentamente, si verificano elezioni ora con questi simboli ora con altri, ora con questi leader ora con altri.
L’unica cosa che potrebbe auspicare un analista non troppo coinvolto nel giudizio di valore ovvero non troppo coinvolto nel fluttuare di maschere e discorsi che lasciano il tempo che trovano e verniciano di nuovo vecchie tenzoni, è solo di continuare a transitare, creare e distruggere forze politiche, creare e distruggere forme di governo, andare a votare il più spesso possibile, sperabilmente col sistema proporzionale. L’unica cosa che è interesse di tutti avvenga, è che la transizione vada avanti. E’ per non averla fatta, per averla congelata all’indomani dei primi anni ’90, che abbiamo accumulato una trentina di anni di ritardo rispetto a ciò che andava fatto. E’ un po’ come nelle forti sbronze, si combatte contro il combinato disposto di mal di stomaco e mal di testa ma alla fine, l’unica soluzione, sono le due dita in gola.
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Finale di partita, ma nessuno è sicuro di vincere
di Dante Barontini
E’ finita una stagione politica. Breve, quasi sempre fuori da ogni logica costituzionale, greve, senza un disegno unitario che potesse cogliere e provare a sciogliere i nodi che inchiodano questo paese sulla via del declino e le fasce deboli della popolazione su quella dell’impoverimento continuo.
La prossima può essere peggiore, qualsiasi sia una delle soluzioni ad oggi possibili.
Matteo Salvini e la Lega hanno infine tolto la spina al governo Conte. Sono passate settimane di provocazioni continue, assorbite dai grillini con atteggiamento suicida e complice delle peggiori nefandezze, nell’eterno e noioso “gioco del cerino” su chi dovesse intestarsi la crisi di governo. Basti pensare alla presentazione strumentale di una “mozione No Tav” (nelle certezza che sarebbe stata bocciata) il giorno dopo aver votato la fiducia a quel “decreto sicurezza bis” che consentirà a qualsiasi futuro ministro dell’interno di affrontare il Movimento No Tav manu militari.
Salvini ha provato ieri a portare a casa l’ultimo successo possibile: le dimissioni “volontarie” di Giuseppe Conte, l’apertura di una velocissima crisi extraparlamentare (le Camere sono state appena chiuse) e infine il voto anticipato entro la prima metà di ottobre. Per capitalizzare – come riferito esplicitamente dallo stesso Conte in tarda serata – “il consenso conferitogli dalle elezioni europee e dai sondaggi”. Vantaggi privati in barba alle esigenze pubbliche, insomma.
Le consultazioni tra il presidente del consiglio venuto dal nulla e il Quirinale sono state probabilmente continue e la durissima dichiarazione di ieri sera – “non è il ministro dell’interno a decidere i tempi della crisi”, “venga in Parlamento come semplice senatore e capo della Lega” – porta direttamente a un dibattito parlamentare da concludersi con la sfiducia verso il governo, l’uscita della Lega dalla maggioranza e l’avvio del classico iter previsto dalla Costituzione (consultazioni al Quirinale, tentativo di presentare un “governo elettorale” o “tecnico”, e solo dopo – eventualmente – scioglimento delle Camere e indizione delle elezioni anticipate).
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Ancora su alcune false convinzioni circa il debito pubblico
di Davide Cassese
E’ stato pubblicato, su Il Foglio, un contributo dell’economista Gianpaolo Galli. L’articolopubblicato è parte di un capitolo, scritto da Galli, di un nuovo libro, edito dall’Istituto Bruno Leoni, dal titolo “Noi e lo stato: siamo ancora sudditi?”.
I punti su cui Galli si concentra sono sostanzialmente tre: la relazione tra debito pubblico e tassazione; l’idea per cui l’emissione di debito pubblico non troverebbe ostacolo, dato che i contribuenti non sono consapevoli che, in periodi futuri, verranno aumentate le tasse; l’onere che il debito rappresenterebbe per le future generazioni. Questo articolo intende controbattere alle tesi esposte da Galli, opponendo ad esso argomentazioni alternative.
1. Se emettere debito pubblico significa tassare
Nella parte iniziale dell’articolo Galli sostiene che poiché, prima o poi, il debito deve essere ripagato un aumento di debito di un certo ammontare oggi corrisponda ad un aumento delle tasse domani. Stando alle parole di Galli il debito sarebbe “tassazione differita”, e su questo Galli sostiene che vi sia “sostanziale consenso tra gli economisti”.
Su questo tema viene fatto un esempio in cui si suppone che lo stato decide di ridurre le tasse di 1.000 euro per ogni cittadino e di finanziare il mancato gettito emettendo un titolo con scadenza annuale e con cedola del 5 per cento. Secondo Galli “lo stato dovrà pagare 1.050 euro a ogni detentore del titolo, il che significa che ogni contribuente ottiene una riduzione di tasse di 1.000 quest’anno e un aumento di 1.050 l’anno prossimo.” Questo dovrebbe far presupporre un peggioramento della condizione della collettività. A parere di chi scrive questa conclusione è erronea per due ordini di ragioni.
Primo: Galli implicitamente sostiene che il debito pubblico debba essere azzerato. A meno che non si tratti di casi molto particolari, che rappresenterebbero un’eccezione e non certo la regola, non sembra esserci evidenza su fenomeni di azzeramento del debito pubblico da parte di un Paese tramite politiche di rientro. Si possono registrare, certo, fenomeni di riduzione del debito in rapporto al PIL ma non si registrano episodi in cui un Paese abbia azzerato il suo debito.
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