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palermograd

L'ecomarxismo di James O'Connor*

di Riccardo Bellofiore​

Quasi 30 anni fa usciva sulla benemerita (e ormai quasi introvabile) 'rivista internazionale di dibattito teorico' MARX 101 questo testo, adesso recuperato dall'autore (profetico nell'assenza di trionfalismo "sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura ") che gentilmente ci permette di ripubblicarlo

greenmarxL'ultimo libro di James O'Connor (L'ecomarxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989, trad. dall'inglese di Giovanna Ricoveri, pp. 56, Lit. 10.000), autore largamente e tempestivamente tradotto in italiano, ha certamente almeno un merito: quello di proporre, controcorrente, una "conciliazione" tra marxismo e ambientalismo, due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedono invece fieramente contrapposti.

L'obiettivo del saggio è, mi pare, conseguentemente duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la "parzialità" della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai "verdi", O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale.

La tesi centrale è, molto in breve, che l'ecologismo (ma anche i "nuovi movimenti sociali", e perciò anche il femminismo) puntano l'attenzione su questioni che sono qualcosa di più, e non di meno, della lotta di classe.

Il tentativo di O'Connor si svolge in quattro mosse.

La prima mossa è costituita da un ritorno alle rigorose definizioni di base del Capitale , che tengono esplicitamente conto delle "condizioni di produzione" tanto "esterne" (natura in senso stretto) quanto "personali" (la forza-lavoro come elemento materiale e naturale essa stessa).

La seconda mossa consiste in una traduzione della teoria della crisi economica del marxismo - si tratta qui in particolare della crisi da realizzo - in una teoria della crisi ecologica: la distruzione della natura dà luogo ad un aumento dei costi di riproduzione delle condizioni di produzione, quindi ad un uso improduttivo del capitale, che è costretto ad utilizzare una parte crescente del plusvalore per sanare le ferite che esso stesso procura all'ambiente invece di farne capitale addizionale.

La terza mossa consiste nel rendere esplicito che la ristrutturazione che cerca di porre rimedio alla crisi ecologica non può non passare attraverso le strutture dello stato, e più in generale la politica: le "condizioni di produzione" sono infatti, da sempre, per loro natura politicizzate; l'approvvigionamento delle materie prime o la riproduzione della forza-lavoro non possono, per varie ragioni, essere demandate a processi di produzione di capitali privati, ma richiedono una mediazione pubblica.

La quarta ed ultima mossa consiste nell'indicazione di uno sbocco politico conseguente, e cioè nella richiesta di "democrazia radicale": si tratta, appunto, di agire su tutte le strutture "politiche" - dallo stato, alle comunità locali, alla famiglia - democratizzandole, riunendo così i diversi spezzoni del lavoro sociale e ponendo finalmente sotto il loro controllo le condizioni di produzione.

Come si vede, O'Connor vede nella distruzione della natura la forma attuale della crisi, ed in ciò intende incorporare il marxismo nell'ecologia; al tempo stesso, individua nel dominio generale del capitale la causa attuale più grave del dissesto ambientale e nel bisogno di democrazia radicale un'esigenza universalistica, ed in ciò intende incorporare il pensiero verde nel marxismo.

A me sembra che il tentativo di O'Connor, nonostante le buone intenzioni, fallisca. Mi disfo rapidamente di una serie di obiezioni, che però sono tutt'altro che minori. Innanzitutto, l'argomentazione di O'Connor, benché non sia crollista in senso stretto perché individua sempre la possibilità di un doppio esito delle contraddizioni che sottolinea - uno "socialista" ed uno interno al modo di produzione dato - mutua però certamente dal marxismo un tono deterministico che è non poco fastidioso (le "conclusioni obbligate" in questo libretto si sprecano).

Inoltre, la crisi ecologica, che O'Connor vede solo nel suo aspetto negativo, può essa stessa dar luogo ad opportunità di profitto (perché non dovrebbe essere un buon affare risanare l'ambiente, così come è spesso un buon affare ricostruire dopo la guerra? se O'Connor lo riconoscesse, potrebbe anche più facilmente rispondere a quei marxisti che a questa considerazione reagiscono allarmati per la messa in questione della purezza anticapitalistica dei movimenti o della politica "comunista", ricordando che, come altre volte nella storia, vie d'uscita capitalistiche dalle contraddizioni prodotte dal capitale stesso sono state il prodotto tutt'altro che naturale, e molto conflittuale, della lotta di classe, o più in generale della lotta tout court).

Infine, il fatto di voler rimanere ad un livello di astrazione troppo elevato impedisce ad O'Connor di percepire la forza astratta, e la miseria concreta, del tradizionale argomento marxista secondo cui la natura non costituisce mai una barriera insuperabile del capitale. E' vero, insomma, che la crisi ecologica difficilmente può essere vista come la forma finalmente inverata della teoria del crollo di Marx: ma, di nuovo, capita che gli uomini vivano nell'accidente e non nelle categorie, e può non essere molto consolante sapere che si è trovata una medicina contro l'invecchiamento se si è investiti da una macchina (fuor di metafora, la ragione grande dei verdi è la possibilità, sempre più concreta e meno remota, che il genere umano stia per superare ormai una soglia di deterioramento dell'ambiente, e che ciò renda di fatto esplosiva la questione della natura; non tutti i problemi che possono essere affrontati con successo saranno per ciò stesso risolti).

Ma credo, come dicevo, che l'obiettivo di O'Connor sia mancato per una ragione più di fondo, e cioè che il suo "ecomarxismo" è al tempo stesso internamente contraddittorio e facilmente consolatorio. Il libro è, insomma, troppo "marxista" per essere anche solo compreso dagli ambientalisti, e troppo tranquillizzante sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura. E' perciò inutile sia come proposta culturale rivolta ai "verdi", perché non li raggiunge, sia come provocazione rispetto al marxismo, cui fa le cose troppo facili.

I problemi più autentici rimangono così senza risposta, o anche solo approfondimento.

Esiste dentro Marx una questione della natura che è essenziale al suo apparato teorico, e non giustapposta o "tradotta" nel suo linguaggio, come si limita a fare O'Connor? Se, come credo, la risposta da darsi è positiva nonostante il fallimento del tentativo dell'economista-sociologo americano, ci si deve però chiedere se il marxismo è sufficiente come punto di vista scientifico delle lotte, anticapitalistiche e in difesa della natura. Personalmente, credo che non sia (più) così: che non tutto, a questo punto, sia riconducibile al marxismo (al marxismo ricco di Marx, si badi, non a quello povero dei ripetitori); che occorrano apporti teorici diversi, anche se non necessariamente contraddittori, rispetto a quelli consueti nella sinistra anticapitalistica.

Se le cose stanno così, ci vorrà molto più coraggio di quanto ne abbia dimostrato lo stesso O'Connor: più coraggio, certamente, nell'autocritica di un marxismo che ha ricondotto troppo alla produzione e tutto al lavoro o alla politica; ma anche più coraggio nella critica al pensiero verde, a quello femminista, e più in generale a quello dei nuovi movimenti sociali, che separa invece lavoro e bisogni, produzione e riproduzione.

Che sia possibile un approccio diverso al rapporto tra analisi teorica marxiana e questione della natura proverò a mostrarlo prendendo di petto un solo tema, accennato ma non sviluppato da O'Connor, e che è invece, a me pare, cruciale. Si tratta della centralità della forza-lavoro come elemento naturale tra le "condizioni di produzione".

Si sa che in Marx l'origine della ricchezza capitalistica sta nella differenza tra il lavoro vivo erogato dai lavoratori salariati e il lavoro oggettivato nei mezzi di sussistenza che tornano a questi ultimi: cioè nella differenza tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro. Ciò che però di solito non si percepisce è che in tal modo Marx afferma la dipendenza del capitale da un elemento naturale: che ha un corpo, insomma, da cui la capacità lavorativa è inseparabile.

La tesi di Marx è appunto questa: nella compravendita della forza-lavoro, quest'ultima viene realmente ceduta dall'operaio al capitalista, cioè ad un altro, ed è dunque incorporata nel capitale. Ma a questa dipendenza del lavoro dal capitale, costitutiva della relazione sociale in questione, si accompagna in potenza, ma altrettanto realmente, una dipendenza del capitale dal lavoro. La prestazione lavorativa è infatti nient'altro che l'uso del lavoratore in carne ed ossa, cui quest'ultimo - non tanto come singolo, ma come collettivo - può "resistere", e che può in certe circostanze essere da lui "governata". Sicché, in forza di questa peculiarità che è insieme sociale e naturale, la merce forza-lavoro è diversissima da tutte le altre, perché chi la vende ha un interesse vitale all'uso che viene fatto di ciò che ha venduto, e a cui è - nel bene e nel male - "appiccicato" come alla propria pelle.

Questo tema è talmente al cuore della teoria marxiana che l'intera teoria della crisi potrebbe essere riletta traducendola nella relazione tra dinamica astratta del capitale e materialità corporea dei lavoratori.

La crisi da realizzo: perché il limite ad una astratta produzione per la produzione è dato dal fatto che l'estrazione del pluslavoro richiede che gli operai vengano riprodotti come tali, pena l'alternativa tra l'emergere di una crisi da "sottoconsumo" oppure il concretizzarsi di una rivolta della forza-lavoro ridotta ad una povertà assoluta; posizione meno peregrina di quanto possa apparire a prima vista, nell'era del dominio generale del capitale sui meccanismi di produzione e riproduzione mondiali, e se riferita dunque anche all'impoverimento del Sud rispetto al Nord del pianeta.

Si pensi inoltre alla famigerata teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: l'aumento del lavoro morto rispetto al lavoro vivo, delle macchine rispetto ai lavoratori, non dà luogo - si dice - alla caduta del saggio del profitto a condizione che aumenti in modo adeguato il saggio di sfruttamento; ma, anche qui, si tratta di una soluzione che può rivelarsi estremamente problematica, se si pone mente alla circostanza che questa via d'uscita aggrava la pressione sui lavoratori, e che il limite al capitale può riemergere di nuovo nella forma delle lotte sociali sulla produttività.

E, ancora, gli stessi "costi" improduttivi, da quelli classici (le "rendite") a quelli sottolineati da O'Connor (relativi al deterioramento della situazione ambientale) non appaiono forse intollerabili solo quando il conflitto sui luoghi di lavoro e nella distribuzione del reddito li rivela come tali?

Chi pensasse però, su queste basi, di poter risuscitare una pretesa totalizzante della teoria marxiana sarebbe fuori strada: e le ragioni ce le dice in fondo lo stesso ragionamento svolto sin qui. La forza-lavoro può essere sì antagonistica, ma è anche, di norma, una parte subordinata del capitale. A questo la spinge l'intero meccanismo sociale: infrangere questa regola è, appunto, la crisi. L'operaio vive se vive il proprio opposto, il capitale: ad esso è legato per il salario, per l'occupazione, per i mille fili di una cultura industrialista. Una cultura che ha finito con il devastare lo stesso marxismo, facendo ben presto scambiare la marxiana centralità delle lotte del lavoro salariato al fine dell'uscita dal dominio dell'economico per il suo contrario, cioè per una esaltazione della centralità della produzione, e quindi per una rivendicazione della centralità politica (dei rappresentanti) degli operai.

Se, come Marx pensava, la rivoluzione è rottura del dominio dell'economico, si dovrà allora andare oltre la centralità del lavoro: recuperare il valore femminile della "cura"; il rispetto della natura come "altro", che è inseparabile dalla vera conoscenza; il riconoscimento di ulteriori dimensioni essenziali dell'essere umano, come il piacere o la contemplazione, che non vanno viste come opposte al lavoro, ma che semmai vanno integrate con l'utilità della vita esteriore.

In altri termini, in un approccio che voglia andare - per così dire - oltre Marx secondo Marx non è per nulla rifiutata la pluralità dell'identità sociale individuale: non è cioè vero, come ritiene l'antimarxismo volgare e alla moda, che in Marx si darebbe una forzata accentuazione del tema dell'unità teorica delle diverse identità attorno alla dimensione esclusiva dell' homo faber. Tutt'al contrario: se qualcosa di Marx è ancora oggi attuale, è proprio la sottolineatura che ad imporre un'unità coatta è semmai il capitale; ma anche che per lottare efficacemente contro il primato della produzione bisogna riconoscerne la realtà.

In questo modo, forse, la molteplicità dei nostri modi di essere non apparirà più come un insieme di maschere sociali superficiali intercambiabili e reciprocamente irrelate - cui oggi sembra opporsi con successo soltanto il richiamo ad identità rigide - ma come la ricchezza di determinazioni di un essere umano che nasce dalla relazione e cerca faticosamente e dolorosamente la strada della libertà e della solidarietà.


​(*) “L’ecomarxismo di James O’Connor”, Marx 101 n.s., n. 1, pp. 177-180, 1990

Comments

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Mario Galati
Wednesday, 28 August 2019 12:02
Perché Bellofiore, nella crisi da realizzo, preferisce usare la categoria del sottoconsumo al posto di quella della sovrapproduzione? Forse ciò fa parte della sua revisione della teoria marxiana della crisi e della caduta tendenziale del saggio di profitto. Perché Bellofiore usa la categoria dell'economico nel senso classico borghese e non nel senso ampio e totale marxiano (ossia, della prassi umana della produzione e riproduzione sociale e dell'homo faber non ridotto alla produzione "economica" intesa nel senso comunemente accettato? Mi sembra che ciò comporti quella separazione tra struttura e sovrastruttura, estranea al pensiero di Marx (pensiero che Bellofiore vorrebbe recuperare in antitesi ai marxisti). Non credo che Marx intendesse lottare contro il primato della produzione, ma per un nuovo modo di produrre. Il pluralismo delle identità irrelate generato dal vecchio modo di produrre sarà sostituito dal pluralismo degli individui onnilaterali, e perciò universalmente relati, del nuovo modo di produrre.
Fermo restando che Bellofiore non scrive mai cose banali o peregrine, credo di poter concordare con le osservazioni critiche di Eros Barone.
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michele castaldo
Saturday, 17 August 2019 16:14
Caro Claudio Della Volpe,
di automatico in natura non c'è niente, tanto è vero che non è automatico che si interri un seme e nasca "automaticamente" la pianta con le caratteristiche corrispondenti ad esso.Tutto funziona per un movimento di aggregazione e disgregazione atomistica: dunque non la stessa acqua scorre nello stesso fiume e mai la storia si ripete uguale a sé stessa.
Questo modo di ragionare non è mio, ma di autorevolissimi padri quali Epicuro, Tito Lucrezio Caro, Giordano Bruno e - più vicino a noi - di Marx dei Grundrisse e di Marx - Engels del Capitale.
La vera questione che risulta INDIGERIBILE per i palati come quello di Eros Barone è l'IMPERSONALITA' dei processi storici in generale e quello del modo di produzione quale MOVIMENTO STORICO DEGLI UOMINI CON I MEZZI DI PRODUZIONE in particolare.
Tutti coloro che si nascondono dietro l'hegelismo lo fanno o perché non capiscono il materialismo storico o non lo vogliono capire. E contro chi non vuol capire non c'è nessun argomento convincente.
Esiste una differenza come il giorno e la notte tra determinismo e fatalismo, eppure certi intellettuali li mettono sullo stesso piano. La stessa differenza che passa tra implosione e esplosione o rivoluzione. Eppure molti intellettuali li mettono sullo stesso piano, perché? Semplice la risposta: perché i fattori che determinano la rottura e/o l'implosione di un movimento storico prescinde dalla loro e altrui volontà. Ecco la loro tragedia.
Michele Castaldo
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CLAUDIO DELLA VOLPE
Friday, 16 August 2019 10:04
Castaldo forse lei è un "automatico" nelle sue conclusioni?
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Pantaleone
Thursday, 15 August 2019 23:44
Merci aux deux auteurs, tout particulièrement la réponse de michele castaldo, m'a grandement aidée sur le chemin de la compréhension entre le rapport concret et le raisonnement subjectif.
Entre le réel historique et l'améliorantisme subjectiviste !
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Eros Barone
Thursday, 15 August 2019 23:34
Ma se prima - e sottolineo 'prima' - non si pone termine a 'questo' modo di produzione, ogni etica del futuro e ogni altra "ricetta per l'osteria dell'avvenire" è una vana utopia e, per dirla con Hegel, un esempio di "cattiva infinità". Leggo, infatti, nell'articolo sovrastante questo commovente quadretto idilliaco: "Se, come Marx pensava, la rivoluzione è rottura del dominio dell'economico, si dovrà allora andare oltre la centralità del lavoro: recuperare il valore femminile della 'cura'; il rispetto della natura come 'altro', che è inseparabile dalla vera conoscenza; il riconoscimento di ulteriori dimensioni essenziali dell'essere umano, come il piacere o la contemplazione, che non vanno viste come opposte al lavoro, ma che semmai vanno integrate con l'utilità della vita esteriore". Insomma, porre termine al modo di produzione capitalistico (MPC) - che è cosa ben diversa dal contemplare fatalisticamente il corso catastrofico del cosiddetto 'moto-modo di produzione', come se l'esito della sua crisi fosse predeterminato da non si sa quale 'deus ex machina' e la borghesia avesse come unica alternativa quella di suicidarsi (una visione, questa sì, metafisica e controrivoluzionaria, che non solo fa il gioco della borghesia, ma rispecchia e tende ad eternizzare l'impotenza attuale del proletariato) - ; dicevo, porre termine al MPC è la 'conditio sine qua non' per raggiungere un tollerabile "ricambio organico" tra società umana e natura esterna. Questo non significa certo che basti, di per sé, il superamento del MPC: in realtà, socialmente, culturalmente e tecnologicamente è necessario tutto un insieme di condizioni e di tempi per cominciare a pianificare coscientemente un simile obiettivo. Sennonché è profondamente sbagliato e fuorviante - come fa il riformista e revisionista Riccardo Bellofiore, che a questo proposito critica il marxista rivoluzionario James O' Connor - tentare di invertire l'ordine categoriale del processo storico (come fa l'utopia verde, facile preda dell'ideologia dominante, quando non pedina al servizio della 'green-economy' ecocapitalistica). Inoltre, se è vero che il richiamo alla considerazione delle condizioni di dissipazione della materia e dell'energia ha un'importanza tanto maggiore quanto più ci si avvicina alla percezione di limiti naturali non più impensabili, una simile considerazione è già, per le sue caratteristiche, interna ad una critica scientificamente fondata del MPC e delle società che sono incardinate su di esso. Pertanto, non esiste critica dei rapporti sociali del capitale se in essa non è presente 'ab intrinseco' anche la critica dei suoi rapporti materiali, dunque dei rapporti tra gli uomini e la natura esterna ad essi, mentre non vale la reciproca, in quanto la critica 'generica' degli aspetti materiali, per così dire 'alla Gretha', svolgendo, nel contempo, la duplice funzione 'oppiacea' di utopia e distopia impedisce di giungere alla critica 'specifica' della necessità dell'accumulazione di capitale.
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michele castaldo
Thursday, 15 August 2019 10:53
Brevissime annotazioni a questo scritto che se pur breve pone un problema di primaria importanza.
« l'approvvigionamento delle materie prime o la riproduzione della forza-lavoro non possono, per varie ragioni, essere demandate a processi di produzione di capitali privati, ma richiedono una mediazione pubblica». Si, ma il soggetto è il meccanismo capitalistico che asserve a sé la politica e le sue istituzioni.
« si tratta, appunto, di agire su tutte le strutture "politiche" - dallo stato, alle comunità locali, alla famiglia - democratizzandole, riunendo così i diversi spezzoni del lavoro sociale e ponendo finalmente sotto il loro controllo le condizioni di produzione». Un modo come un'altro - gramscianamente detto - per dire che la politica possa dirigere i rapporti economici. E' il fulcro che contraddice la tesi di fondo di Marx sull'impersonalità del modo di produzione capitalistico.
«nel bisogno di democrazia radicale un'esigenza universalistica, ed in ciò intende incorporare il pensiero verde nel marxismo». Non è un bisogno di democrazia ma un a necessità di disfarsi del meccanismo oggettivo e impersonale del mercato.

« Inoltre, la crisi ecologica, che O'Connor vede solo nel suo aspetto negativo, può essa stessa dar luogo ad opportunità di profitto (perché non dovrebbe essere un buon affare risanare l'ambiente, così come è spesso un buon affare ricostruire dopo la guerra? ».
In astratto è possibile tutto e il suo contrario. Ma il materialismo si sforza di relazionarsi sempre al concreto e la guerra non è la stessa cosa della distruzione dell'ambiente non fosse altro perché mentre la guerra è atto cosciente di distruzione la distruzione dell'ambiente è la causa dei processi impersonali - dunque incoscienti - dell'uomo che obbedisce a un meccanismo da sé a prescindere. Sicché l'ipotesi di Bellofiore di mettere sullo stesso piano cose che non stanno e non possono stare toglie alla sua tesi ogni credibilità. Ma c'è un altro aspetto ancora più importante: i due conflitti mondiali (Prima e Seconda guerra) si inserivano in una fase del moto di produzione ascendente, mentre l'attuale è una fase discendente dell'insieme del movimento storico del modo di produzione capitalistico.
Scava e scava e si arriva al punto vero della questione teorica in quest'aspetto descritto in modo chiaro da Bellofiore:
«[...] Sicché, in forza di questa peculiarità che è insieme sociale e naturale, la merce forza-lavoro è diversissima da tutte le altre, perché chi la vende ha un interesse vitale all'uso che viene fatto di ciò che ha venduto, e a cui è - nel bene e nel male - "appiccicato" come alla propria pelle». Perché sarebbe diversissima la merce proletaria rispetto a tutte le altre merci? Perché ha un" interesse vitale"? ma l'interesse vitale è legato all'interesse del capitale. E' inutile girare intorno. Se si vuole dire che la merce proletaria è diversa perché è composta dall'uomo dotato di intelligenza siamo alla metafisica, perché estrapoliamo l'uomo dal suo rapporto di produzione e dal suo ruolo complementare in quanto proletario tanto quanto quello del capitalista seppure ad esso subordinato. Questa è la vera questione.
Come entra in crisi un rapporto complementare? Non - come supponevano Marx e Engels nel Manifesto - attraverso l'antagonismo del proletariato che conquista il potere politico, instaura il suo potere e organizza nuovi rapporti (comunistici) attraverso l'abolizione della proprietà. Ma sono venendo meno quella complementarietà inserita all'interno di un unico meccanismo oggi mondiale rappresentato da Moto-Modo di produzione capitalistico.
Per concludere, Bellofiore insieme a tanti altri intellettuali critica il determinismo proprio perché non riesce a far propria la tesi centrale del Capitale di Marx che poggia su tre pilastri: a) il modo di produzione capitalistico è un movimento storico del rapporto degli uomini con i mezzi di produzione; b) che tale rapporto è del tutto impersonale e sfugge al controllo dell'uomo;
c) proprio per questo arriva là dove non crede di arrivare: implosione e crollo.
Sicché tale movimento storico arriva alla rivoluzione come conseguenza evoluzionistica e non perché si interrompe perché una parte di esso si sottrae e lo capovolge.
Difficile da digerire, ma questo è.
Michele Castaldo
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