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sinistra

Cavalieri, demagoghi e Popolo

La satira di Aristofane parla all’Italia di oggi

di Eros Barone

CORO

O popolo, tu hai davvero un bel potere dal momento che tutti gli uomini ti temono come un tiranno! Ma sei mutevole e se qualcuno ti adula e ti inganna, tu ci trovi gusto e te ne stai sempre a bocca aperta davanti a chi parla; ma il senno che hai svanisce.

Aristofane, I cavalieri.

Nel prologo dei Cavalieri due servi di Popolo (rappresentanti della classe dei cavalieri e controfigure di Nicia e Demostene, generali che si erano distinti nel corso della guerra) si lagnano dei raggiri di Paflagone (eteronimo attribuito da Aristofane a Cleone, capo del partito democratico) e dei suoi soprusi contro i compagni. Ma vi è un oracolo che preannuncia che Paflagone, questo servo divenuto tiranno grazie al suo carattere arrogante, alla sua linguaccia e alla protervia con cui gestisce il potere,sarà rovesciato da un salsicciaio (per cogliere l’ironia di questa attribuzione onomastica si consideri che il nome di Paflagone si connette in greco al verbo ‘ribollire, gorgogliare’, laddove è evidente l’allusione all’eloquenza demagogica di Cleone). In quel mentre sopraggiunge il Salsicciaio, recando le interiora che vende in giro per la città, cosicché i due servi gli rivelano la profezia che lo riguarda.

Invano il Salsicciaio (Agoracrito è il suo nome, che in greco significa “colui che è eletto dalla piazza”) si schermisce, dicendo di non essere adatto al governo perché ignorante, di bassa estrazione, cresciuto nella strada. Egli viene allora rassicurato circa il fatto che proprio queste sono le qualità che occorrono per insignorirsi del popolo e vincere Cleone. D’altronde, non vi è gran differenza tra il suo attuale mestiere e la funzione che dovrà svolgere una volta asceso al potere: al posto delle frattaglie dovrà impasticciare e insaccare gli affari pubblici. Arriva, a questo punto, Paflagone, minaccioso, che ha subodorato il complotto: Agoracrito vorrebbe fuggire, ma il coro dei Cavalieri (i quali, come si è detto, rappresentano l’aristocrazia e sono avversi al partito democratico e alla guerra che per quasi un trentennio, alla fine del V secolo a.C., contrappose Atene a Sparta) accorre in sua difesa e incalza Paflagone, mentre il Salsicciaio, ringalluzzito, lo assale a sua volta con accuse e minacce di ogni sorta, alle quali l’altro risponde da par suo. Sennonché Paflagone, sopraffatto dagli avversari, sviene. Riavutosi, corre a prendersi la rivincita dinanzi al Consiglio popolare, della cui fedeltà è sicuro. Qui Agoracrito lo raggiunge e celebra il suo trionfo, poiché è riuscito ad ottenere l’appoggio del Consiglio battendo l’avversario in adulazione, impudenza e corruzione. Paflagone, dopo un nuovo alterco con Agoracrito, gli propone di appellarsi a Popolo in persona. Così, i due rivali, per accattivarsi il favore di Popolo, fanno sfoggio della più spudorata adulazione, degli espedienti più spregevoli e dei trucchi più improbabili. Ancora una volta, su questo terreno, il Salsicciaio si rivela imbattibile, talché Popolo decide di destituire Paflagone e di conferire la somma del potere al Salsicciaio, mentre questi esce confuso e scornato. Poco dopo ritorna Agoracrito giubilante, con Popolo da lui gratificato, ringiovanito e avvolto in vesti lussuose. Popolo ha quindi scelto di affidarsi ad Agoracrito, che gli garantirà un avvenire prospero e felice, ponendo fine alla guerra e stabilendo una pace duratura. Dal canto suo, Paflagone farà ora il mestiere di Agoracrito, mentre questi vivrà nel Pritanèo, sede dell’amministrazione pubblica, a spese dello Stato.

Oggetto, nel corrente anno, di ben due allestimenti (il primo realizzato dal Teatro Stabile di Bolzano e il secondo presentato al Teatro Greco di Siracusa), segno della urticante attualità dei temi affrontati da Aristofane (la degenerazione della democrazia e, quali suoi inevitabili corollari, il populismo e la demagogia), la commedia I cavalieri è un’opera imbarazzante e settaria, che descrive e interpreta, nell’ottica di un autore che critica spietatamente la politica coeva e vagheggia un impossibile ritorno al passato, eventi di capitale importanza nella storia ateniese. È con quest’ottica, conservatrice e reazionaria ma ricca di importanti risvolti critici e conoscitivi (si potrebbe richiamare, in questo senso, la nozione lukacsiana di “apologia indiretta”, valevole per autori di altre epoche e civiltà come, ad esempio, il Balzac del periodo della monarchia orleanista), che un Aristofane appena venticinquenne, in una città stremata dal quinto anno consecutivo di guerra contro Sparta, decide, servendosi delle armi non sempre maneggevoli della commedia satirica, di contrastare il successo politico riportato dal campione dei guerrafondai, Cleone. E lo fa in prima persona, dichiarandosi a rischio della vita (di contro all’uso di servirsi di prestanome) autore e regista di un’opera che ancor oggi, a distanza di quasi duemilacinquecento anni, risulta essere la più feroce satira politica che mai sia stata scritta.

La sferzante requisitoria condotta contro il detestato e potente nemico (vale a dire Cleone, alias Paflagone) ruota attorno al paradosso per cui soltanto un personaggio più ripugnante di quello al potere potrà scalzare quest’ultimo. Così, rappresentando attraverso i disegni satirici di Georg Grosz “la lunga notte della democrazia” e suggerendo il parallelismo con la repubblica di Weimar, nello spettacolo siracusano veniva delineata, prendendo le mosse da una condizione di profondo degrado della vita pubblica, la decadenza di una grande civiltà caduta in mano ad una classe dirigente corrotta e ignorante.

Paflagone, Nicia, Demostene e il Salsicciaio sono i personaggi dei Cavalieri (per la verità, ve ne è anche un altro, Tregua, la quale tace, a buon diritto, per tutto lo svolgimento della commedia). Non è difficile divertirsi, se di divertimento si può parlare per la ricerca di isomorfismi storici, a stabilire le corrispondenze di questi personaggi con le principali figure della politica italiana odierna: Renzi somiglia come una goccia d’acqua a Paflagone, Berlusconi al ricco Nicia, Salvini al generale Demostene con cui condivide il culto delle armi, e Di Maio ad Agoracrito, il Salsicciaio (la rima è rivelatrice...). Tutti costoro sembrano tratti, in virtù di un’opera di suggestiva magia storico-letterario-politica, dalla compagnia dei Cavalieri di Aristofane (424 avanti Cristo). Se avevamo bisogno di una lezione sull’importanza, sulla pregnanza e sulla (relativa ma sostanziale) continuità della storia in tema di degenerazione della democrazia, la letteratura greca ce la fornisce, oltre che nella sua imponente e prestigiosa storiografia, in questa che, fra le commedie di Aristofane, è quella in cui maggiormente domina l’elemento politico.

Tornando al periodo storico in cui la scrisse, vale la pena di ricordare che Aristofane è davvero implacabile nel demolire il potente demagogo: bassi natali, ignoranza, modi da strada, linguaggio triviale, scostumatezza, sfrontatezza, avidità, adulazione, ambizione sconfinata, dissimulazione, arroganza, crudeltà e dubbia lealtà politica: ecco il campione della democrazia, l’idolo degli ateniesi. E Popolo (in greco ‘Demos’) è degno del suo protettore: meschino, gretto, vanesio, favoreggiatore di chi sa adularlo e sollecitarne i bassi istinti. Aristofane ha qui creato, per dirla con gli antropologi, l’‘ideal-tipo’ del “trickster” (cioè, per un verso, dell’astuto imbroglione e, per un altro verso, del divino buffone), generatore e, nel contempo, vittima dei demagoghi, che non sono nient’altro che lui stesso, gente del popolo.

Ciò nondimeno, se vi è una figura nei Cavalieri viva e quanto mai attuale, è quella di Popolo. Essa acquista risalto non solo per i suoi difetti, messi in luce impietosamente da Aristofane, ma anche per i suoi pregi. Ciò si può constatare leggendo il breve dialogo tra il Coro, di cui ho riportato la prima battuta nell’epigrafe di questo scritto, e Popolo. Dice quest’ultimo, rispondendo alla prima battuta: «Voi credete che io sia uno scemo; ma siete voi che non avete cervello sotto i capelli. Io faccio lo scemo a bella posta: mi piace trangugiare ogni giorno un buon pasto e accondiscendo a mantenere un ministro ladro; ma quando questo si è ben rimpinzato, lo sollevo e lo sbatto a terra». Coro: «In ciò fai bene, se nel tuo modo di agire c’è la saggezza che dici, se allevi di proposito nella Pnice [luogo dove si riuniva l’assemblea dei cittadini ateniesi] gente simile, così come si alleva una vittima destinata a un sacrificio pubblico, e poi, quando non hai più il tuo solito pasto, te lo procacci immolando le persone che hai ingrassato». Popolo: «Vedete dunque come sono furbo nel circuire quanti credono di saperla lunga e di imbrogliarmi: io li tengo d’occhio continuamente senza mostrar di accorgermi delle loro ruberie; ma poi li faccio rivomitare tutto quello che hanno rubato usando come emetico i voti tratti dalla pentola scoperchiata». Qui Popolo palesa la sua vera identità, che è quella del finto tonto: egli finge di lasciarsi abbindolare dai demagoghi, ma sotto sotto capisce il loro gioco e al momento opportuno si sbarazza di loro.

Quanto al Salsicciaio, è opportuno sottolineare che egli vince Paflagone appunto perché lo supera in spavalderia e ribalderia. Questa è l’amara conclusione della commedia: sta di fatto che, poche settimane dopo la rappresentazione, gli ateniesi eleggevano Cleone a stratego, ossia al grado di generale in capo delle forze armate.


* Nella traduzione dei passi citati ho utilizzato, in base al criterio della scorrevolezza e della perspicuità, due diverse traduzioni dei Cavalieri: Aristofane, Le Commedie – Gli Acarnesi, I Cavalieri, Le Nubi, BUR, Milano 1964; Ettore Romagnoli, Aristofane – Le Commedie, Istituto Editoriale Italiano, Milano, s.d.

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