Filosofia, democrazia, Stato-nazione nei Quaderni del carcere
di Francesca Izzo (già Università L’Orientale, Napoli)
1. Teoria del moderno
I termini che compaiono nel titolo meriterebbero, anche singolarmente presi, una trattazione specifica ben più ampia di quella che è possibile in questa sede. Per delimitarne l’ambito, mi concentrerò sulla concezione della modernità elaborata da Gramsci: la sua genesi, la sua natura, le sue contraddizioni e la sua crisi. Il suo profilo emerge pienamente proprio nel nesso che tiene assieme filosofia, democrazia e Stato-nazione.
Né umanistica (la modernità sarebbe l’epoca dell’affermazione del regnum hominis, con l’inversione del rapporto Dio-mondo di contro alla trascendenza medievale) né “nichilistica” (la modernità sarebbe l’epoca della dissoluzione di ogni sostanzialità, destinata a consumare ogni fondamento stabile e ad affermare la libertà come decisione), la teoria del moderno di Gramsci si nutre, o meglio è un frutto originale, della sua rielaborazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi. E per anticipare quello che svilupperemo analiticamente nel prosieguo, per Gramsci l’epoca moderna non è “infondata”perché ha un soggetto, ma si tratta di un soggetto non umanistico: è lo Stato-nazione.
2. Filosofia della prassi (filosofia, politica, storia)
Come ampiamente mostrato dalla letteratura critica più recente, nei Quaderni Gramsci giunge, attraverso un percorso complesso e per nulla lineare, a maturare la sua interpretazione/revisione del materialismo storico in termini di filosofia della prassi, cioè di un’autonoma e integrale concezione della storia (una filosofia che è politica in quanto è integralmente storia) che non prende a prestito né dal materialismo filosofico né dall’idealismo elementi per “completarsi”; insomma, Gramsci rifiuta il cosiddetto “marxismo in combinazione”1. Il “ritorno a Marx” si inserisce appunto in questa ricerca di totale autonomia determinata da ragioni non astrattamente teoriche, ma altamente politiche.
A Gramsci appare sempre più evidente che la necessità della filosofia - in particolare di quella elaborata da Marx nelle Tesi su Feuerbach – discenda dal fatto che si tratta di rifondare su basi nuove la soggettività rivoluzionaria, il nuovo soggetto storico.
In effetti quello che aveva preso forma con la Rivoluzione d’Ottobre e la Terza Internazionale non ha dimostrato alcuna espansività, anzi si è ripiegato in una dimensione “economico-corporativa”, “statale-nazionale” non in grado di affrontare la lotta per l’egemonia che si combatte sul terreno della rivoluzione passiva. Insomma, il tema della filosofia è legato strettamente alla costituzione della soggettività storica: senza coscienza filosofica si rimane subalterni e non si lotta per l’egemonia, si rimane bloccati al livello del bisogno, della forza (l’economico-vitale di Croce).
Su questo punto decisivo, cioè che il marxismo è filosofia e che in tale connessione è racchiuso il suo valore epocale, Gramsci si oppone non solo a Croce, ma a tutti coloro che nell’equazione di marxismo e forza coglievano il tratto distintivo (subalterno) della sua presenza nella storia: penso qui all’opera particolarmente significativa di Max Weber e dei suoi numerosi seguaci. Rivendicando il carattere filosofico del marxismo, Gramsci mira, da un lato, a dare forma a una concezione integrale della storia, a un’unità di materiale e ideale, non più scissi e opposti o connessi da una logica causalistica o meccanicistica, secondo una prospettiva già indicata da Labriola; e, dall’altro lato, elabora una diversa teoria del soggetto, in fieri e orientato da una sorta di finalismo interno, cioè l’unificazione non conflittuale del genere umano, ma senza che questo si configuri come un già dato, un presupposto. Come si legge nei Quaderni:
«La filosofia della praxis invece non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni; non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia su classi subalterne; è l’espressione di queste classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo e che hanno interesse a conoscere tutte le verità [...]. La critica delle ideologie, nella filosofia della praxis, investe il complesso delle superstrutture e afferma la loro caducità rapida in quanto tendono a nascondere la realtà, cioè la lotta e la contraddizione, anche quando sono «formalmente» dialettiche (come il crocismo) cioè spiegano una dialettica speculativa e concettuale e non vedono la dialettica nello stesso divenire storico»2.
E tuttavia, ancora Gramsci scrive che
«Occorre dimostrare che la concezione «soggettivistica», dopo aver servito a criticare la filosofia della trascendenza da una parte e la metafisica ingenua del senso comune e del materialismo filosofico dall’altro, può trovare il suo inveramento e la sua interpretazione storicistica solo nella concezione delle superstrutture mentre nella sua forma speculativa non è altro che un romanzo filosofico»3.
La Fenomenologia dello Spirito o le categorie crociane dello Spirito sviluppano in forma speculativa ciò che nel linguaggio storicistico della filosofia della prassi è il processo di costituzione dello Stato moderno e dell’esercizio dell’egemonia borghese. Infatti, solo la connessione filosofia/Stato moderno riesce a dar conto di ciò che Gramsci ritiene il tratto proprio della modernità, ma anche il suo limite intrinseco: la doppia tendenza della filosofia a realizzarsi e della vita, della radice vitale e passionale (per usare termini di matrice crociana), a innalzarsi ad attività consapevole, a “filosofizzarsi”. Il carattere soggettivo della filosofia moderna, il suo non poter più essere contemplazione, teoria scissa dalla pratica, segnala, per un aspetto, che la realtà razionale, oggetto della filosofia, non è un essere-già-da-sempre costituito (al pari della libertà), ma è un farsi; per un altro, mostra la radice “democratica” dell’epoca moderna.
3. La radice democratica dell’epoca moderna
Nelle note dei Quaderni si ritrovano molteplici e illuminanti riferimenti al nesso che stringe la teoria dell’egemonia alla natura tendenzialmente aperta e dinamica della classe borghese e al riflettersi di tale carattere sulle forme politiche. «La rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato» scrive Gramsci «consiste specialmente nella volontà di conformismo». Infatti, mentre
«Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro […]. La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico; tutta la funzione dello Stato è trasformata [...]»4.
Più precisamente possiamo affermare che l’equazione democrazia-egemonia, nella misura in cui formalizza il rapporto di scambio e di permeabilità tra dirigenti e diretti, tra gruppi egemoni e gruppi subalterni, individua la peculiarità dello Stato moderno, il suo tratto distintivo rispetto a tutte le forme politiche precedenti. È una forma che include il molteplice, l’altro da sé, e che dunque, per origine e struttura, si presenta come complessa ed espansiva:
«Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone, sia pure «astrattamente», nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati [...]»5.
Al cuore della sua lettura del moderno, esemplificata in alcune figure storico-simboliche – Machiavelli, i giacobini, Hegel –, Gramsci pone il nesso tra il pensare e il sentire, il connettersi contraddittorio di elementi da sempre distinti e ritenuti inconciliabili: la necessità economica e la libertà politica,l’oikos e la polis, l’economico-passionale e il razionale. Ed è nel contatto tra queste fin lì incomparabili dimensioni che Gramsci radica il fondamento storico -materialistico del soggettivismo e dell’immanentismo moderni: la teoria non vive più separata dalla sfera materiale della produzione e riproduzione, la contemplazione metafisica delle essenze tramonta con lo stabilirsi del nesso, mediato dalla forma statuale, dell’elemento razionale e di quello etico-passionale. È qui all’opera la “traduzione” gramsciana delle analisi di Marx del Manifesto e del Capitale.
Questa tendenza alla connessione ha una potenza e una vitalità tali da essere all’origine, secondo Gramsci, delle permanenti conquiste dell’immanentismo del pensiero critico e dello spirito scientifico6, che costituisce un freno all’implosione catastrofica della civiltà moderna aprendo una via allo sviluppo della democrazia oltre la forma statuale.
Il termine che nei Quaderni esprime questo nesso e la sua espansività “democratica” è nazionale-popolare. Qui il nazionale-popolare, che traduce un’espressione utilizzata dai populisti russi è la categoria interpretativa del processo tipico di formazione dello Stato moderno e delle sue diverse varianti. Esso incarna il principio propulsore della modernità, cioè la connessione “democratica” dell’economico- passionale e del razionale, di vita e ragione. La concezione gramsciana della democrazia non fa perno sugli aspetti rappresentativi, né su quelli tecnico-procedurali, ma mette in risalto il suo nucleo storico-realistico espresso dalla relazione di scambio e di permeabilità tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati (l’egemonia). Lo Stato moderno è la forma attraverso la quale si è affermato questo principio. Si comprende allora come il suo atto di nascita non sia racchiuso, per Gramsci, nella forma della sovranità, intendendo per essa l’Idea trascendente dell’unità politica, ordinativa del caos della contingenza, bensì nella territorializzazione del comando politico, ossia nel radicarsi della ragione politica nella fitta trama di passioni, di interessi, di fedi religiose e tradizioni comunitarie sedimentate in un territorio determinato. Lo Stato borghese è animato da un’espansi vità democratico-egemonica che trasforma in profondità il territoriale in nazionale, ovvero che mette sempre più estesamente in contatto ceti colti e ceti popolari. In un blocco di note dedicate a individuare nella storia romana alcune delle cause che spiegano i caratteri fragili e precari del processo di formazione della nazione italiana, Gramsci scrive:
«D’altronde anche ammesso che con le prime guerre puniche qualcosa muti nei rapporti tra Roma e l’Italia, che si abbia una maggiore unità anche territoriale, ciò non toglie che questo periodo sia molto breve ed abbia scarsa rilevanza letteraria […]. Non si può parlare di nazionale senza il territoriale: in nessuno di questi periodi l’elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico militare, cioè «statale» in senso governativo, senza contenuto etico-passionale»7.
Va precisato che nel lessico gramsciano il termine territorio non ha, in prima istanza, il significato di appropriazione e definizione confinaria; non rinvia cioè a una funzione di ordinamento spaziale da parte del potere, così come accade in altre elaborazioni teoriche, specie nell’opera di Carl Schmitt. Né tanto meno, come in Schmitt, evoca un’originaria co-appartenenza del politico-statuale e dell’“elemento terra”8. Esso piuttosto identifica l’immissione nella forma del politico-sovranità di ciò che costituisce, in linea di principio, la sua alterità: l’economico-passionale. La territorializzazione del potere mette in contatto, secondo la visione gramsciana, l’economico e il politico, stabilisce una connessione immanente tra le forme della razionalità politica e la vita nelle sue multiformi manifestazioni. Solo in seconda battuta, essa passa a indicare una delimitazione e l’esercizio entro confini definiti della sovranità statuale.
La dinamica di sviluppo dell’epoca moderna e del soggetto storico di essa, lo Stato, viene ad essere compresa e definita dalla nazionalizzazione del territoriale, ovvero dal travagliato processo di formazione dell’egemonia borghese la cui decifrazione occupa gran parte delle note carcerarie.
Gramsci spinge l’analisi all’indietro, ai primi accenni della civiltà comunale italiana, inoltrandosi sino al passaggio dalla Repubblica romana all’Impero; si sofferma sui fasti rivoluzionari della nazione per poi interrogarsi sui sintomi della sua crisi. Secondo la sua lettura, gli elementi fondamentali di questo processo sono, da una parte, la rivoluzione intellettuale che pone le basi di un pensiero immanentistico e soggettivistico che spezza il monopolio della cultura da parte della Chiesa cattolica e che soprattutto si libera dal cosmopolitismo di marca cattolica e umanistico-imperiale; e, dall’altra, un diverso rapporto tra città e campagna che rinvia alla formazione di un blocco storico urbano-rurale, egemonizzato dai gruppi sociali cittadini, che immette nel flusso della storia e della politica il mondo dei contadini. Tanto che, in una lettera del 19 ottobre 1931 a Tatiana Schucht, egli giunge ad affermare che in epoca moderna i contadini «sono […] la nazione»9. Un mondo contadino che, peraltro, è attraversato dalle correnti della riforma religiosa ed è stato reso sensibile alle istanze della libertà.
4. Machiavelli, i giacobini ed Hegel
Nei Quaderni Gramsci fa di Machiavelli «l’esponente più espressivo» di un «Umanesimo etico-politico» volto a gettare le basi dello Stato nazionale, di una comunità politica dai caratteri nazionali e popolarie per questo in lotta con il cosmopolitismo della Chiesa e il «mercenarismo» dei ceti cittadini:
«Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua scienza politica rappresenta la filosofia del tempo che tende all’organizzazione delle monarchie nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un ulteriore sviluppo delle forze produttive borghesi […]: se le classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente diverso dalle compagnie di ventura»10.
L’idea politica del Machiavelli gramsciano è tutta racchiusa in questo carattere di espansività del comando politico, di superamento dei limiti economico-corporativi dei gruppi urbani e del loro collegarsi egemonico e non oppressivo alle campagne (tanto che Gramsci parla addirittura dell’esistenza in nuce, in Machiavelli, della «separazione dei poteri» e del «parlamentarismo»11), nella ricerca delle condizioni materiali e ideali che possono spingere verso – e facilitare – la formazione di un nuovo blocco storico tra la città e la campagna. È il primo esempio paradigmatico del processo posto da Gramsci a fondamento dello Stato moderno: la territorialità che progressivamente si nazionalizza.
Da questo punto di vista, l’espansività dell’egemonia borghese, come è ampiamente noto, trova il culmine nel giacobinismo e nella filosofia hegeliana, considerati da Gramsci l’espressione più alta, entro i confini della forma statuale, della tendenza universalistica della democrazia moderna.
Tuttavia, essi segnalano anche l’emergere di contraddizioni e fragilità nelle fondamenta della democrazia dei moderni poiché territorialità ed universalismo, territorialità e democrazia, iniziano a non coincidere più. È noto che intorno al tema del giacobinismo la riflessione pre-carceraria e carceraria di Gramsci ha subito una evoluzione assai sensibile sino a configurare un vero e proprio capovolgimento di giudizio: da una iniziale valutazione negativa, il giacobinismo è divenuto nelle più tarde note gramsciane il paradigma della compiuta e risolta saldatura organica tra intellettuali e popolo, il modello della democrazia nazionale popolare borghese. E questo cambiamento di giudizio – influenzato dall’originale rimeditazione del paradigma leniniano della rivoluzione centrato sul rapporto operai-contadini più che dall’accostamento, proposto dallo storico della Rivoluzione francese Albert Mathiez, tra bolscevichi e giacobini – scaturisce dalla originale e complessa lettura che Gramsci fa del processo di formazione e sviluppo dello Stato moderno, che si va precisando ed approfondendo negli anni del carcere, anche con la revisione di convincimenti precedenti. Scrive infatti nei Quaderni:
«non solo essi [i giacobini] organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese»12.
E altrove:
«Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della formula della rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della Rivoluzione francese ha trovato il suo «perfezionamento» giuridico-costituzionale nel regime parlamentare, che realizza, nel periodo più ricco di energie «private» nella società, l’egemonia permanente della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso permanentemente organizzato […]: la base economica, per lo sviluppo industriale e commerciale, viene continuamente allargata e approfondita, dalle classi inferiori si innalzano fino alle classi dirigenti gli elementi sociali più ricchi di energie e di spirito di intrapresa, la società intera è in continuo processo di formazione e di dissoluzione seguita da formazioni più complesse e ricche di possibilità»13.
Questo stesso processo di creazione di un’unità nazionale popolare, incarnato sul piano politico dai giacobini, trova la sua espressione teorica nella filosofia di Hegel. Lo Stato etico hegeliano, con il ruolo di mediazione assegnato agli intellettuali funzionari, dovrebbe costituire il modello di realizzazione del principio filosofico moderno, intrinsecamente democratico perché tendente a estendere a tutti gli uomini la forma della razionalità borghese: «La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l’eticità o l’universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese»14.
L’interpretazione che Gramsci offre di Hegel tende a esaltare il nesso logico-storico espresso dalla dialettica: in Hegel, il dato storico viene a perdere la sua immediatezza empirica, quel carattere contingente che lo separava irrimediabilmente dal concetto, cosicché l’empiria, innalzandosi e immettendosi nel circolo del concetto, ne spezza il puro movimento “ideale”, rendendolo storicamente determinato. La filosofia tende a farsi politica. Questa inedita connessione hegeliana di tempo e concetto trova un punto di fusione nella figura dello Stato, la cui costituzione etica è determinata dall’incorporamento delle funzioni intellettuali, dall’incontro di forza e pensiero. «Senza questa “valorizzazione” degli intellettuali fatta da Hegel», scrive Gramsci, «non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle sue radici sociali»15. E nel Quaderno 26, verso la fine della stesura delle note carcerarie, chiarirà che la funzione «etica» svolta dagli intellettuali -funzionari è rivolta «all’attività, autonoma, educativa e morale dello Stato laico in contrapposto al cosmopolitismo e all’ingerenza dell’organizzazione religioso-ecclesiastica come residuo medioevale»16.
Sia nell’idealismo hegeliano che nel giacobinismo Gramsci mira a porre in luce la capacità di attivazione delle masse da parte del principio soggettivo moderno. Esso, con la sua energia e potenza, tende a spezzare l’immobilità naturalistica del “territoriale”(le masse subalterne legate direttamente o indirettamente alla terra e alle forme di vita che da essa promanano) e a immettere quest’ultimo nel circolo della storicità, nella stessa misura in cui spinge il pensiero, coloro che “sanno”, a entrare in rapporto con la multitudo, per ricorrere ad un’espressione e ad un tema cari a Spinoza.
5. Crisi organica e americanismo
Ma la forma entro cui questo processo si è sviluppato non riesce più ad assicurarne l’espansività, anzi– e ciò costituisce argomento di larga parte dei Quaderni– ormai si è avvitata in una crisi di carattere “organico” che ha preso inizio dalla “epoca dell’imperialismo” e dalla guerra mondiale:
«Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e in aspetti secondari e derivati. I più triviali sono: “crisi del principio d’autorità” e “dissoluzione del regime parlamentare”»17.
L’itinerario storico-morfologico percorso da Gramsci, nel dar conto, nei Quaderni, di questa doppia dimensione della sua ricerca,può essere racchiuso emblematicamente nel passaggio dalla territorialità all’industrialismo. Vale a dire dall’analisi storica e critica della nascita e dello sviluppo dello Stato moderno – che ha nella dimensione territoriale il suo elemento costitutivo e distintivo –alla individuazione di una nuova costellazione politica, che ha nella dimensione industriale, propria dell’americanismo, il suo terreno di coltura. L’americanismo si presenta agli occhi di Gramsci come la figura storica che, modificando il rapporto tra economia e politica e con esso l’equilibrio tra economico-passionale e razionalità, fa saltare l’identità di politico e statuale in una direzione progressiva, cioè democratica e non autoritaria e dittatoriale come sta accadendo nell’Europa dei fascismi e dello stalinismo. Esso apre alla possibilità di una diversa organizzazione del politico18. Secondo Gramsci
«L’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare [...]: questa condizione si può chiamare «una composizione demografica razionale» e consiste in ciò che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione», la «civiltà» europea è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza» e «complessità» della storia passata [...]. Si può anzi dire che quanto più vetusta è la storia di un paese, e tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili [...]»19.
La razionalizzazione di marca americana, che sviluppa l’esercizio dell’egemonia a partire dalla “fabbrica”, mette in discussione quel nesso di territoriale e nazionale, sulla cui base si era costituita l’espansività egemonica della statualità europea e stabilisce un nuovo terreno di lotta per l’egemonia, sia internamente agli Stati che nell’arena mondiale. Gramsci sottolinea positivamente la base nuova da cui può svilupparsi l’egemonia che elimina elementi arcaici, parassitari, legati alla rendita fondiaria, alla terra-territorio20, e semplifica l’intero sistema delle sovrastrutture. Anche dal punto di vista delle relazioni internazionali, l’americanismo segna la fine dello sviluppo militare e coloniale del capitalismo. Come dice altrove, «l’espansione moderna è di ordine finanziario-capitalistico», ovvero non l’occupazione militare di territori e il loro sfruttamento assicurano la supremazia mondiale, ma la potenza produttiva e la forza del mercato. Egli non crede però, come poteva sembrare nel suo consiliarismo di un tempo, che la risposta alla crisi si trovi nel circolo stretto produzione- politica. È piuttosto all’identità di filosofia e politica che il Gramsci dei Quaderni la consegna21, e questo significa elaborazione di una visione generale egemonica, intervento della mediazione intellettuale e costruzione di nuove forme politiche. L’assenza nell’americanismo di una «fioritura superstrutturale», la mancanza di intellettualità organiche, diremmo di un «nazionale -popolare» adeguato alla nuova figura produttiva, segnala che l’America non ha raggiunto una nuova fase «statale»22, una capacità di mediazione politica corrispondente all’espansione globale del mercato. Un compito storico che Gramsci ritiene tocchi ancora all’Europa elaborare.
L’americanismo insomma non è in grado di chiudere pos itivamente la forbice, la contraddizione che si è aperta tra un’economia, un mercato sempre più integrati internazionalmente, e una politica sempre più ripiegata nella dimensione nazionale. È questa forbice la radice vera della crisi postbellica. In una nota capitale del Quaderno 17, risalente al 1933 e interamente dedicata all’analisi della crisi, Gramsci scrive:
«Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, nient’altro. Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili […]. Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del «nazionalismo», del «bastare a se stessi», ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della «attuale crisi» è nient’altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell’economia»23.
Il nuovo soggetto storico dovrà dare prova della sua vitalità misurandosi con tale contraddizione e cercando di risolverla. Ma alle soglie di questa questione che apre al tema del moderno Principe conviene arrestarsi.
Comments
Siamo seri.
Ciò che non si riesce a comprendere,però, è dove Gramsci, che interpreta l'americanismo come movimento modernizzatore degli ultimi residui tradizionali-territoriali, progressivo nei confronti dei caratteri autoritari dell'organizzazione statale borghese, dia questa interpretazione anche nei confronti dello "stalinismo". Questa forzatura arbitraria, che non trova il minimo appiglio nella lettura delle note su americanismo e fordismo, è smentita dall'atteggiamento complessivo di Gramsci nei confronti del paese dei soviet e dello stesso Stalin (atteggiamento di un comunista rivoluzionario, non di un democratico riformista).
Smettiamola di tirare Gramsci per la giacchetta.