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Parole di destra
di Armando Lancellotti
Luc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00
A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto l’urgenza dei fatti”, da intendersi come il dilagare inarginabile dell’estrema destra francese, di quel Front National, che un paio di mesi più tardi, nelle elezioni europee del 24-25 maggio, si sarebbe affermato come primo partito nazionale con il 25% circa dei consensi. Il secondo merito consiste nel fatto di considerare la spaventosa deriva politica francese ed europea verso l’estrema destra attraverso l’analisi delle parole, dei termini, delle forme linguistiche che esprimono concetti dentro ai quali si addensano grumi di pensiero reazionario e fascista che, qualche anno fa ripescati dalla loro condizione di latenza e riemersi attraverso i percorsi carsici del pensiero politico, ormai imperano, tracotanti e sicuri al punto da essersi trasformati in un nuovo “senso comune”, in un «inquietante spirito del tempo in espansione» (p. 8). Ed infine, non meno importante è l’intento di contribuire al risveglio di una sinistra francese (e poi europea) che disorientata e tramortita non sembra in grado di resistere all’onda montante di questo nuovo “fascismo da terzo millennio”. [Per analoghi temi riguardanti l’estrema destra italiana vedi su Carmilla “Cinghiamattanza”: pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo millennio”].
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Jean Baudrillard, il delitto perfetto?
di Davide Gatto
Un esergo adatto a presentare questo libro di Baudrillard – Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? – cronologicamente un po’ datato (1995, Èditions Galilèe, Paris; 1996, Raffaello Cortina Editore, Milano), ma di fatto così attuale da apparire ora profetico – potrebbe essere rappresentato da alcuni celebri versi di Leopardi:
Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema (…).
(…) e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto è simile, e discoprendo,
solo il nulla si accresce.
(Ad Angelo Mai, vv. 87-88; 98-100)
Il saggio del filosofo e sociologo francese (1929 – 2007) si compone di due distinte sezioni: la prima, che ripete il titolo dell’opera (Il delitto perfetto), occupa i due terzi del libro ed è di carattere speculativo, mentre la seconda (L’altro versante del delitto) ragiona sulle evidenze del ragionamento teoretico in alcuni aspetti emblematici – psicologici, sociologici, politici – del mondo contemporaneo.
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Marine Le Pen: ordoliberismo o keynesismo?
di Moreno Pasquinelli
“Se una cosa sembra una papera, cammina come una papera e fa qua-qua, probabilmente è proprio una papera”
Suscitò critiche, due anni fa, il mio articolo del gennaio 2014: «CHE COS’È IL FRONT NATIONAL DI MARINE LE PEN (dedicato a quelli che la dicotomia destra-sinistra non c’è più)».
Si trattava di un'analisi del programma del Front National — per l’esattezza «MON PROJECT. POUR LA FRANÇE ET LES FRANÇAIS» —, quello sul quale il FN condusse la campagna per le presidenziali del 2012.
Alle porte delle ancor più importanti elezioni presidenziali imminenti, vale forse la pena tornare sull'argomento, analizzando l'odierno programma elettorale del Front National — in particolare le misure economiche che esso prenderebbe una volta salito al governo —, dandone un giudizio di massima, ed anche verificando se vi siano aggiustamenti rispetto a quello del 2012 e, nel caso, quali sono ed in quale direzione vanno.
2012: Stato (poco) keynesiano di poizia
Nel mio pezzo del 2014, mettevo in guardia coloro che guardavano con eccessiva simpatia e/o indulgenza al Front National, segnalando come esso, al netto di numerose proposte di politica economica sostenibili, non solo fosse molto ambiguo sulla questione dell'euro, ma avesse, oltre ad una visione revanscista e imperialista della Francia, una concezione fortemente autoritaria della democrazia, anzi perorasse un tetragono Stato di polizia.
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Forma è sostanza. Appunti su forme della politica e forme di vita
di Rocco Albanese
“Passa il tempo / sembra che non cambi niente.
/ Questa mia generazione / vuole nuovi valori”.
F. Battiato, Aria di Rivoluzione, 1973
Nessuno ci regalerà niente
Tra pochi giorni si celebrerà a Rimini la nascita di un nuovo soggetto politico della sinistra. Il congresso fondativo di Sinistra Italiana arriva, però, in un momento caratterizzato da contraddizioni tanto generalizzate quanto profonde. Ed è da un punto di vista generazionale che vale la pena guardare a queste contraddizioni, così come all'apertura di uno spazio politico che aspira ad essere nuovo”.
Appena due mesi fa, il referendum costituzionale si rivelava lo strumento con cui l'81% delle persone tra i 18 e i 34 anni tirava un gigantesco schiaffo all'establishment e al grande bluff renziano. Sarebbe però un errore madornale astrarre, mitizzare e semplificare quel voto generazionale. È vero che esso, per le sue proporzioni, ha assunto la fisionomia di una rivolta. Ma non è men vero che le cifre di questa rivolta sono soprattutto la stanchezza, il disincanto, il risentimento. Come scriveva Gesualdo Bufalino, infatti, nell’asfissia del sentire, che a gara con l’altra del respiro ci soffocava le fauci, ogni parola grande stingeva, appariva una truffa di adulti. Anche la libertà, anche la verità”.
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La fine del neoliberismo progressista
di Nancy Fraser
[Pubblichiamo la traduzione di due articoli della femminista americana Nancy Fraser dal sito della rivista DISSENT. Il primo The end of “progressive neoliberalism” è del 2 gennaio 2017, il secondo Against Progressive Neoliberalism, A New Progressive Populism è stato pubblicato il 28 gennaio ed è una replica a un articolo critico di Johanna Brenner There Was No Such Thing as “Progressive Neoliberalism” del 14 gennaio. Nancy Fraser ha lanciato insieme a Angela Davis e altre femministe americane l'appello per uno sciopero internazionale e militante per l'8 marzo]
L’elezione di Donald Trump rappresenta una della serie di drammatiche rivolte politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista. Queste rivolte comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di Bernie Sanders per la nomination del Partito Democratico negli Stati Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi. In ogni caso, gli elettori stanno dicendo “No!” alla combinazione letale di austerità, libero commercio, debito predatorio e lavoro precario mal pagato che caratterizza il capitalismo finanziarizzato oggi. I loro voti sono una risposta alla crisi strutturale di questa forma di capitalismo che si è prima materializzata con il quasi crollo dell’ordine finanziario globale nel 2008.
Fino a tempi recenti, però, la risposta principale alla crisi era la protesta sociale – drammatica e vivace, di sicuro, ma in gran parte effimera. I sistemi politici, al contrario, sembravano relativamente immuni, ancora controllati da funzionari di partito e dalle élite dell’establishment, almeno negli stati capitalistici potenti come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania.
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Contro la sinistra globalista
di Carlo Formenti
I teorici operaisti italiani di matrice "negriana", che trovano spazio sulle colonne del giornale "Il Manifesto", detestano la sinistra che scommette su quelle lotte popolari che mirano alla riconquista di spazi di autonomia e sovranità, praticando il "delinking". Ma così facendo diventano l'ala sinistra del globalismo capitalistico
Correva l’anno 1981 quando il Manifesto recensì il mio primo libro (“Fine del valore d’uso”). Era una stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore. Quel breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di Feltrinelli, analizzava infatti gli effetti delle tecnologie informatiche sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre cose, prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune tendenze di fondo – che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali, favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo mondo. Il recensore (di cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”, DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la parola recensione, perché – più che di questo – si tratta di una tirata ideologica contro i populismi - etichettati come protofascisti – che incarna il punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista” contro questo nemico comune.
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La distopia sbagliata
di Dario De Marco
In epoca di Trump e “fatti alternativi”, 1984 di George Orwell è tornato a scalare le classifiche di vendita. Ma siamo sicuri che il classico dell'autore britannico sia la distopia più adatta a raccontare il tempo in cui viviamo?
Ho visto milioni di persone terrorizzate dall’idea di essere osservate dal Big Brother; le ho viste alzare lo sguardo al cielo con angoscia, e non trovarci nessun occhio; le ho viste abbassare la testa, alquanto rincuorate, e mettersi in coda per comprare l’ultimo smartphone con videocamera a 16 megapixel e grandangolo a 135°.
Se ci trovassimo in un romanzo paranoide di Philip K. Dick, si potrebbe iniziare il discorso in questi termini. E forse anche finirlo, senza aggiungere altro. Invece siamo nella cosiddetta “realtà”: dobbiamo parlare di “fatti”, dobbiamo partire dalla cronaca, dobbiamo iniziare così:
Da quando Donald Trump ha iniziato il suo mandato presidenziale, il libro 1984 di George Orwell ha conosciuto un boom di vendite, fino addirittura a tornare in classifica. Comprensibile. Una realtà in cui il passato è modificabile a seconda delle convenienze politiche, e in cui una persona può credere vera un’affermazione e la sua smentita, in barba al principio elementare di non contraddizione, ricorda da vicino la distopia orwelliana. Alternative facts, il bipensiero. Eppure. Una società del controllo, oppressiva, violenta, totalitaria: siamo proprio sicuri di essere preoccupati per la distopia giusta?
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Il capitalismo reale
di Renato Caputo
I crescenti limiti della democrazia formale borghese, fondata sulla delega, rilanciano l’esigenza della democrazia diretta, imprescindibile per una reale sovranità popolare
Dal “Rapporto sulla qualità dello sviluppo in Italia” del 2017, realizzato da Tecnè e dalla Fondazione Di Vittorio “emerge la fotografia di un Paese in cui la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi”, ha osservato la segretaria del maggiore sindacato italiano. Ciò che colpisce è che le diseguaglianze, i bassi salari, la progressiva proletarizzazione del ceto medio – che generano scarsa fiducia, anzi paura nel futuro – vengono presentate e percepite come una “scoperta”, quasi si trattasse di una novità di quest’anno. Quasi si trattasse di un’eccezione e non di una regola, propria del modo di capitalistico di produzione e per altro già evidenziata ai suoi albori, dal suo primo apologeta, Adam Smith, che in un noto paradosso notava come la ricchezza delle nazioni, prodotta dalla rivoluzione industriale, si sviluppava in modo proporzionale all’aumento della miseria in una parte crescente della popolazione.
Quest’ultima, che già Hegel definiva la plebe moderna, quale caratteristica strutturale e lato cattivo ineliminabile della società capitalista, nell’Italia odierna ha raggiunto quota otto milioni. Senza, ovviamente, contare i milioni di proletari che percepiscono, in cambio della vendita della loro capacità di lavoro, il minimo necessario per riprodursi come massa a disposizione del capitale per valorizzarsi.
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A libro paga fuori dalla fabbrica
La potente legge uguale per tutti non prevede per i padroni l’esecuzione forzata
di Andrea Vitale
La vicenda giudiziaria dei cinque operai FCA di Pomigliano, licenziati per aver inscenato il finto suicidio di Marchionne in segno di protesta contro il reale suicidio di due loro compagni di lavoro cassintegrati, continua ad essere una fonte inesauribile di spunti di riflessione sul diritto e sull’intero sistema giuridico italiano, rivelandone il fondamento di classe.
E’ noto che la Corte di Appello di Napoli (sentenza n. 6038/2016 del 27/09/2016)[1] ha ribaltato i due precedenti pronunciamenti del Tribunale di Nola (Decreto di rigetto n. 18203/2015 del 04/06/2015 e Sentenza n. 993/2016 del 05/04/2016)[2], che avevano in un primo momento dichiarato legittimo il licenziamento dei cinque operai. La sentenza dei giudici di appello ha il grande merito di aver smontato punto per punto le argomentazioni dei giudici di primo grado, dimostrando come la protesta messa in atto dagli operai sia stata una legittima manifestazione del diritto di esprimere la propria opinione critica. In questo modo, i giudici hanno dato ragione alla numerosa schiera di intellettuali e giuristi che avevano solidarizzato con la lotta degli operai licenziati in nome della difesa della libertà di critica e di satira[3], che i giudici di Nola avevano inteso invece limitare fortemente per i lavoratori dipendenti.
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Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città
Commento al libro di David Harvey
di Francesco Ventura
L'agile volume di David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, riedito per tipi di Ombre corte nel 2016 (I ed. 2012), raccoglie in centoventiquattro pagine tre articoli e un'intervista all'autore già pubblicati in inglese su altrettante riviste. Nel primo, Il diritto alla città, è chiarito e analizzato il senso di tale diritto in quanto "collettivo". Il secondo, La visione di Henri Lefebvre, è un breve saggio sull'ormai classico testo, Il diritto alla città, del filosofo marxista francese, uscito per la prima volta a Parigi nel 1969 e rieditato in italiano nel 2014 da Ombre corte. Il terzo, Le radici urbane delle crisi finanziarie. Restituire la città alla lotta anticapitalista, è un saggio dove l'autore ripropone in breve, e in relazione alle crisi finanziarie come quella recente, le tesi, strutturate e sviluppate in altri suoi libri, sulla relazione tra la necessità di assorbimento della sovraccumulazione di capitale e l'urbanizzazione, che pone la "città" - la parola è usata da Harvey per il suo valore iconico - come luogo centrale delle lotte anticapitaliste (dunque non più solo la fabbrica come nelle teorie marxiste tradizionali). Chiude il libro l'intervista, che verte, appunto, sulle possibilità di una Rivoluzione urbana.
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Appunti per una epistemologia della conversione liberista della “sinistra”
di Salvatore Palidda
Premessa
Questo testo vuole essere soprattutto un invito alla ricerca epistemologica sul successo liberista che s’è compiuto grazie anche e talvolta soprattutto grazie alla conversione neo-liberista della “sinistra” in particolare nel campo degli affari militari e di polizia, campo di ricerca troppo spesso trattato superficialmente se non totalmente ignorato anche per ciò che riguarda l’intreccio stretto con altri campi[1].
Con formidabile lucidità nel suo celebre 1984 (del 1949), Orwell scriveva quali principali slogan del regime: “La pace è guerra”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza”. Orwell sintetizzava così quanto avevano mostrato il fascismo e il nazismo, e continuavano a praticare lo stalinismo e in generale tutti i regimi che, soprattutto dalla fine del XIX secolo, condussero alla Prima e alla Seconda guerra mondiale e ad altre mostruosità, smentendo le illusioni del progresso pacifico verso il benessere, la democrazia e i diritti umani. Dopo il 1945, ignorando i solenni proclami delle Nazioni unite, del “mai più” quelle aberrazioni, la storia politica del mondo è stata segnata da un coacervo di fatti che solo qualche volta sono andati in direzione della pace e dell’emancipazione dei popoli e dei diritti fondamentali di tutti.
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La legge contro le fake news: un misto di ignoranza e voglia di censura
di Fabio Chiusi
Bisogna ringraziare la senatrice Adele Gambaro (di ALA-SCCLP) e i 27 co-firmatari del disegno di legge, presentato in conferenza stampa al Senato il 15 febbraio (non ancora assegnato a nessuna commissione), per combattere le “fake news” – meglio, “prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”. Il testo, pur se in bozza (o forse proprio per quello), è infatti il miglior dizionario attualmente disponibile per comprendere come un certo establishment politico (e giornalistico) concepisca Internet e la sua regolamentazione: come lo fraintenda, demonizzi, e cerchi di irregimentare così che diventi un innocuo strumento di trasmissione del consenso, invece che un libero canale di espressione del dissenso.
Una vera e propria summa ideologica, dunque, che va ben oltre la sola questione delle bufale online che tanta (immeritata) attenzione ha suscitato da quando il mondo liberal statunitense ha diffuso la “fake news” per cui sarebbe stata la disinformazione online a far vincere Donald Trump.
Nella proposta di legge, sostenuta da rappresentanti di quasi tutto l’arco parlamentare, si sommano infatti questioni arcinote a chi si occupa di libertà di espressione su Internet nel nostro Paese:
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Etica, progresso, marxismo
Giuseppe Cacciatore
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al
progresso misurano quasi alla stregua di un certificato
di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p. 286).
Dove diminuisce il dolore dell’uomo là c’è progresso.
Tutto il resto non ha senso. (BROCH 1950, p. 19).
La storia universale è una storia del progresso – o forse
anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi
dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei
tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei mari
del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione
industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua
differenziazione fra paesi sviluppati e non-sviluppati,
per finire all’appropriazione dell’aria e dello
spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
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Globalizzazione. L’ufficialità all’attacco
Giovanna Cracco
Nel suo corso al Collège de France Sullo Stato (1), Pierre Bourdieu riflette anche sul tema dell’ufficialità e del discorso pubblico. Partendo dalla questione cardine che può essere sintetizzata nella domanda che cos’è lo Stato? – una serie di principî che consentono un dominio, il detentore della violenza legittima sia fisica che simbolica (riconosciuta come tale, e dunque basata anche su un consenso dei cittadini), un’illusione radicata nelle nostre menti, che dunque esiste essenzialmente perché crediamo che esita… – il sociologo francese analizza la contrapposizione tra pubblico e privato e la conseguente natura del concetto di ufficialità.
Per Bourdieu il pubblico è ciò che si oppone al privato, che è il singolare il particolare il personale ma anche il nascosto e l’invisibile: l’ufficialità porta con sé sia una universalizzazione che una moralizzazione
Sintetizzando il ragionamento, il pubblico è innanzitutto ciò che si oppone al privato, che è il singolare, il particolare, il personale ma anche il nascosto e l’invisibile; il pubblico dunque è il collettivo ma anche ciò che si mostra quando ci si trova davanti agli altri, divenendo ciò che è ufficiale.
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Dark data. Viaggio nella cyborg finanza II
di N3xuZ
“Do not go gentle in that good night / Rage, rage, against the dying of the light”. Ribellarsi al morire della luce. Addentrarsi nell’oscurità profonda come vorrebbe Dylan Thomas fa paura. Forse è la paura. Anche in finanza
Il buio ci circonda. Sembra vuoto, invece è pieno di lei. La materia oscura. La Dark Matter.
Non possiamo vederla, ma non significa che non esiste. Anzi compone l’universo molto più della materia ordinaria.
Possiamo osservarne gli effetti, questo sì. In particolare il modo in cui piega la luce. È l’effetto lente gravitazionale: la deflessione dei raggi di luce causata da una massa posta tra la sorgente luminosa e l’osservatore. La materia oscura agisce sulla luce piegandola e creando effetti visivi anomali. Come gli archi luminosi.
Nella luce si nasconde il segreto per conoscere cosa compone l’oscurità.
Anche i mercati finanziari sono circondati dal buio. E anche lì non c’è il vuoto. Anche quel buio è pieno di materia oscura, materia allo stato liquido. Sono le piscine oscure. Le Dark Pool.
Anche di queste possiamo osservare gli effetti. In particolare il modo in cui agiscono sui dati. Come una lente gravitazionale, agiscono su prezzi e valori delle variabili, creando effetti anomali.
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Debito sovrano risk weighted e Banche centrali indipendenti
Il "mistero" della finanza privata sostitutiva della sovranità democratica
di Quarantotto
1. In premessa ringraziamo, per l'ennesima volta, Arturo che non solo è l'acuto "filologo" multidisciplinare che continua a segnalare le fonti più rilevanti che confermano il discorso qui svolto, ma lo fa da un livello di comprensione che rischiara la fenomenologia come scienza cognitiva unificante di ogni serio approccio alle scienze sociali.
2. In questa occasione cerchiamo di sviluppare una dimostrazione unitaria del filo che lega, in modo consequenziale, la finanziarizzazione delle società (ex) democratiche dell'eurozona con il punto di approdo, solo in apparenza inatteso e, per taluni, sorprendente, della futura (ed imminente) regolazione €uropea dei titoli sovrani come risk weighted assets.
Questa finanziarizzazione passa, come s'è visto, per la sottoposizione istituzionale, per via di trattato internazionale, autoffermatosi al di fuori dei limiti dell'art.11 Cost., dell'attività finanziaria dello Stato, e quindi in definitiva del suo perseguimento dei fini che concretizzano la sovranità costituzionale, ai "mercati".
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“Fordismi. Storia politica della produzione di massa” di Bruno Settis
di Giacomo Gabbuti
Bruno Settis, Fordismi. Storia politica della produzione di massa, Il Mulino, Bologna 2016, 320 pp., 29 euro (Scheda libro)
In un libro che “rielabora e prosegue” una tesi specialistica già vincitrice del Premio Foa, Bruno Settis invita il lettore volenteroso di seguirlo a una lunga camminata alla ricerca delle origini e delle evoluzioni del fordismo. L’escursione non richiede particolare allenamento, ma sicuramente determinazione e curiosità: dalle acciaierie di Betlehem, dove Taylor inizio le sue osservazioni ‘scientifiche’, e dalla Detroit da cui prese le mosse l’epopea di Ford, il volume si chiude nella Torino della Fiat. Lungo il percorso, attraversa gran parte del mondo industrializzato o in via di industrializzazione a cavallo tra le due guerre mondiali. Il fordismo – tradizionalmente considerato il paradigma alla base della società di massa (se non della stessa modernità) – non fu però, ci spiega Settis, «un avvenimento accaduto una volta sola nel mondo, né un fenomeno unitario». Come ha colto Ferdinando Fasce1, obiettivo di Settis è decostruire l’idea di un fordismo “come sistema produttivo e sociale quintessenza della modernità, organico, definito una volta per tutte nella testa dell’eroe eponimo Henry Ford”. Piuttosto che una sola combinazione ideale di produzione di massa, rivoluzione dei consumi (sostenuta dalla celeberrima politica degli alti salari), e istituzioni pensate per redistribuire i frutti del lavoro e riconciliarne i conflitti, si è assistito a molti fordismi, diversi soprattutto nei rapporti con lo Stato e con le rappresentanze del lavoro.
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Cremaschi, i suoi 1.000 orologi e la truffa “sovranista” di Eurostop
La redazione di “il cuneo rosso”
In calce una prima risposta di Giorgio Cremaschi e una replica di "Il cuneo rosso"
L’assemblea di Eurostop tenutasi a Roma il 28 gennaio scorso merita due note di commento. Nulla che passerà alla storia, intendiamoci. È solo cronaca. Cronaca di una delle tante forme, in Europa, di accodamento delle sinistre alla tematica, imposta dalle destre iper-nazionaliste, dell’uscita dall’euro e dall’UE come (falsa) via maestra per risolvere i gravi problemi sociali creati dalla crisi del sistema capitalistico. Le tesi presentate a Casalbruciato erano già state presentate nelle precedenti iniziative di Eurostop. Però un paio di cose almeno in parte nuove, ci sono state. Anzitutto l’estrema nettezza con cui è emerso il messaggio politico effettivo di Eurostop, soprattutto grazie all’ospite d’onore del consesso, il magistrato Paolo Maddalena. E poi la violenza verbale, il sarcasmo con cui il mite Cremaschi si è ritenuto in dovere di attaccare ogni prospettiva di lotta che sia fondata su basi di classe, quindi internazionaliste, anziché, com’è l’Ital-exit, su basi democratiche e popolari, e quindi nazionali e nazionaliste.
Il documento preparatorio dell’assemblea e l’intervento introduttivo di Cremaschi hanno come loro termine-chiave la rottura. Rottura con che cosa? Con l’euro e l’UE – la Nato, sebbene nominata, è rimasta molto sullo sfondo; si è parlato ben poco delle guerre Nato, e meno ancora del militarismo e dell’imperialismo italiano. Rottura con “la globalizzazione liberista”: è questo il nemico dal cui dominio affrancarsi, in un processo di “liberazione dal capitalismo liberista”.
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Althusser, Spinoza e la rivoluzione nella filosofia
Warren Montag a colloquio con George Souvlis
George Souvlis ha intervistato per Salvage (qui l'intervista in inglese) Warren Montag, professore di Letteratura Inglese e Comparata presso l’Occidental College di Los Angeles, studioso dai forti interessi politici e filosofici che ha scritto tra l’altro su Jonathan Swift, Spinoza, pensatori francesi contemporanei come Althusser e Pierre Macherey e, ultimamente, il fondatore dell’Economia Politica, Adam Smith
Il caso e la filosofia
Vuoi presentarti cominciando dalle esperienze formative (accademiche e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato?
La mia formazione politica e intellettuale è stata governata – e immagino sia stato giusto così - da una ‘logica dell'incontro’: sono stato straordinariamente fortunato, insomma. Se non fossi stato al posto giusto al momento giusto, e vicino alle persone giuste, non avrei mai pensato o scritto come ho pensato e scritto. Nella seconda metà degli anni Settanta a Los Angeles (dov’ero tornato dopo la laurea presa a Berkeley), ho incontrato Geoff Goshgarian e Mike Davis, con i quali abbiamo subito formato una specie di collettivo, comprendente anche qualche altro elemento (in particolare ricordo Samira Haj, che adesso insegna storia alla CUNY, credo). Organizzammo un gruppo di studio per leggere i tre volumi del Capitale, Late Capitalism di Mandel e altri libri.
Attraverso Mike (da poco rientrato dalla Gran Bretagna, dove si era avvicinato all’International Marxist Group) conobbi il trotskismo della Quarta Internazionale (o più precisamente la sua tendenza dominante), cioè quello di Mandel, Krivine, Bensaid, Tariq Ali e gli altri.
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"Vita senza valore"
Il feticcio del capitale e l'economia politica della "nuda vita"
di Bruno Lamas
Nota preliminare: questo testo costituisce la versione scritta di una presentazione dal titolo «"Vita senza valore". Il feticcio del capitale e l'economia politica della "nuda vita", svoltasi a Lisbona, il 21 febbraio del 2015, nel corso della giornata sull'argomento "Dalla nuda vita alla potenza destituente: il progetto 'Homo sacer' di Giorgio Agamben", organizzata dalla Unipop. In quest'occasione, con un tempo di esposizione limitato, si è trattato soprattutto di cercare di mostrare la critica dell'economia politica come il fondamentale "punto cieco" di concetti quali "homo sacer" e "nuda vita". In un prossimo saggio, tenterò di sviluppare la critica qui svolta, sottolineando soprattutto i vari aspetti problematici dell'opera di Agamben
Riguardo alla recente polemica sul costo, per il sistema sanitario portoghese, del trattamento dell'epatite C, un professore di economia, un certo Mário Amorim Lopes (2015), ha firmato un articolo sul giornale digitale "Observador" dal titolo: «Quanto vale una vita?». Facendo uso della tipica confusione feticista capitalista fra "scarsità di risorse" e "scarsità di denaro", la risposta alla domanda è poco più che un'introduzione cinica all'economia politica dell'eutanasia. «Sentimentalmente» - scrive costui - «diremmo tutti che non ha prezzo. Il problema è che le cure sanitarie hanno un costo. Ed essendo le risorse scarse, si pone il problema economico del costo dell'opportunità: per salvare una vita, quante ne dobbiamo sacrificare? (...) Queste decisioni, che riguardano delle vite, richiedono tuttavia un'analisi economica. E, per farlo, bisogna valutare il valore di una vita. (...) [E] nell'economia sanitaria esistono diversi metodi per tentare una stima [del suo valore]».
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È il capitalismo digitale, baby
di Roberto Ciccarelli
La confusione tra soggettività e divisione del lavoro è sistematica. L’enfasi sull’eccellenza e sulla singolarità di un individuo atomico totale coesiste con la trasformazione dell’individuo in un primate tecnologico connesso a un’applicazione.
Passaggio paradigmatico” è stato definito il capitalismo digitale dal colosso della consulenza McKinsey. Al World Economic Forum si è consultato il manuale di storia del capitalismo ed è stata formulata l’ipotesi della “quarta rivoluzione industriale”. Non è mancato chi, a sprezzo del ridicolo, ha parlato di un nuovo “Rinascimento” e addirittura di “Illuminismo”. Ma soprattutto questa declinazione del digitale veicola una richiesta politica: un governo trasparente, oggettivo, neutrale dell’innovazione capace di mettere ordine tra le individualità scatenate in competizione. Il capitalismo digitale occupa questo spazio.
Lo ha intuito Matteo Renzi che sfotteva Susanna Camusso in una celebre gag a palazzo Chigi: il sindacato è fermo all’epoca del gettone; il “rottamatore” incarnava l’epoca dell’Iphone. Dopo l’auto-rottamazione del fenomeno di Pontassieve al referendum del 4 dicembre, si è iniziato a parlare di Emmanuel Macron in predicato di diventare il nuovo presidente in Francia.
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Cosa bolle nel pentolone eurista?
Merkel e l' «Europa a più velocità»
di Leonardo Mazzei
L'Europa, intesa come Unione Europea, vive un drammatico processo di disfacimento. Sia pure in maniera assai lenta, se ne stanno accorgendo un po' tutti. Anche quelli che sul radioso futuro dell'Unione avrebbero di certo scommesso. Tra chi invece resta lì coi suoi dogmi euristi, degni di un'altra epoca che fu, c'è da segnalare senz'altro il Pd ed i pittoreschi cespuglietti di destra e di "sinistra" che gli ruotano attorno.
Costoro non sono però soli. A dargli manforte c'è una parte importante dei commentatori mainstream: quelli che hanno deciso di suonare la solfa del «meno male che Trump c'è», così ci costringerà a far quelle cose che diversamente non avremmo (come UE) mai fatto. Bella questa fissa del «vincolo esterno» come unico motore di quello che secondo loro sarebbe addirittura un «sogno»!
Ma su questo torneremo tra poco. Prima occupiamoci di cose più serie. Come noto la signora Merkel ha parlato a Malta di «Europa a più velocità». Subito dopo il signor Draghi è corso a chiarire che la diversificazione delle velocità non riguardava l'eurozona. Niente euro A ed euro B, insomma, ma «solo» un diverso grado di integrazione, maggiore per i paesi dell'area euro, minore per gli altri. Poi i due si sono incontrati e, almeno secondo i resoconti passati alla stampa, tutto sarebbe finito a tarallucci e vino.
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Geopolitica dell'Europa
di Pierluigi Fagan
Questo articolo è di taglio storico-politico quindi attiene all’attualità non per richiami contingenti all’Unione europea o all’euro ma perché l’Europa è un sub-continente in cui si pone il problema geopolitico in forme pressanti e decisive, problema da affrontare con una prospettiva temporale larga
Europa-Europe
1. Europa, è considerata espressione geografica ma con alcuni corollari. Il primo corollario è che anche solo “geograficamente”, Europa è un sistema impreciso avendo tre confini certi ed uno -quello orientale- incerto, per lo meno per la piana tra fine degli Urali ed i tre bacini del Mar Nero, del Caspio e il lago d’Aral, che rimane aperta al Centro Asia. Il secondo corollario, è che la stretta vicinanza con Turchia, Medio Oriente e Nord Africa, la rendono molto sensibile alle interrelazioni con ciò che lì succede, Europa non è un sistema isolato. I due corollari, portano al terzo ovvero la constatazione che per quanto attiene alla Russia si ha a che fare con un sistema che geograficamente (anche se non demograficamente) è più asiatico che europeo. Per quanto attiene all’Europa del Sud Est, si ha a che fare con un sistema storicamente molto influito sia dalle migrazioni centro-asiatiche, sia dalla penisola anatolica (impero bizantino e poi ottomano), sia dalle divisioni determinate dalla contrapposizione est-ovest del Novecento. Per quanto attiene la Gran Bretagna, non solo questa deriva da una storia isolana (non isolata ma isolana) ma ha manifestato molta più propensione storico-culturale verso l’America del Nord che non verso l’Europa, almeno dalla fine della Guerra dei Cent’anni in poi (1453).
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L’Indicibile: Il libro nero del capitalismo imperialista
di Paul Street
Il sito CounterPunch pubblica una esauriente critica “da sinistra” all’amministrazione Trump. P. Street, invece di identificare semplicemente Trump col male, contrapposto a Obama, il bene, racconta più onestamente gli orrori imperialisti della politica estera USA, perpetrati da Obama e che Trump sembra voler proseguire. La maniera migliore di disinnescare razzismo, terrorismo, odio e migrazioni di massa, è che gli USA smettano di innescare guerre e violenze nei paesi musulmani, come fanno da almeno più di 20 anni a questa parte
I giornalisti americani “mainstream” che vogliono conservare i loro stipendi e il loro prestigio sanno che devono riferire gli avvenimenti in modo da non mettere in discussione il tabù della selvaggia e implacabile criminalità imperialista della nazione e del regime di disuguaglianza e oppressione che ne sta alla base. Questi argomenti sono considerati off-limits, in quanto travalicano gli angusti confini delle discussioni considerate educate ed accettabili. I commentatori e i giornalisti seri hanno il buonsenso – profondamente indottrinato – di evitare questi argomenti.
“Abbiamo fatto abbastanza come Nazione”
Un esempio eccellente è un recente report della CNN su come lo stop all’immigrazione musulmana del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump si ripercuote sulla piccola città di Rutland, Vermont.
Un giornalista della CNN ha intervistato due persone di parere opposto sull’accoglienza dei rifugiati siriani a Rutland. Il primo intervistato è stato il sindaco della città, Chris Louras, che sta cercando di fare di Rutland un hub di reinsediamento di rifugiati che nel 2017 dovrebbe accogliere 25 famiglie siriane.
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Addio, Unione Europea
Le condizioni di un processo apparentemente irreversibile di autodistruzione
di Rafael Poch
Tempi di cambiamento e di disordine
Il mondo si trova in una fase di cambio e grande disordine. Il modello del capitalismo neoliberista e la ricetta dell’egemonia nelle relazioni internazionali non funzionano da tempo, ma la sua inerzia continua ad essere forte e ci sta portando a schiantarci sugli scogli.
Quest’anno abbiamo avuto tre cambi principali che segnano questa tendenza:
– La sconfitta dell’occidente in Siria (che è il riflesso delle tensioni del passaggio dal disordine egemonico monopolare a quelle del mondo multipolare)
– Il cambio di orientamento degli Stati Uniti, con la direttiva di cambiare da “America World” a “America First” di Trump, che apre la porta a conflitti interni alla prima potenza mondiale e a tutta una serie di altri “first’s” nel mondo (“China First”, “EU first etc.)
– La scomparsa di ogni progetto comune europeo, disastro che porta a cercare nemici (la Russia) e ad incrementare la militarizzazione dell’ “Europa di difesa” (1)
Tutto questo è già molto per un solo anno e spiega abbondantemente il senso di vertigine che c’è nell’aria.
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