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La morsa istituzionale UEM e "interna"
Tra fallimenti nascosti e incostituzionalità conclamate
Quarantotto
1. Una delle cose più tristi della crisi italiana è che la stragrande maggioranza degli italiani non ne capisce gli eventi, limitandosi a subirne le conseguenze come un fatto ineluttabile.
Tutto quel che i media consentono di "capire", attraverso un'attenta disseminazione di slogan e paralogismi di espertoni vari, è che le cose vanno male per via della corruzione e, in stretta connessione, dell'eccesso di spesa pubblica; questi "mali", ormai plebiscitariamente considerati incontestabili, confluiscono nell'indicare la causa dell'eccesso di prelievo fiscale, la cui attenuazione viene promessa, appunto,come conseguenza dell'abbattimento di corruzione e spesa pubblica (senza alcuno spiraglio di credibilità delle misure proposte, che non sia mero annuncio, che dico, bombardamento!, mediatico).
Mi potrete obiettare che queste cose ve le ho dette molte volte e con mille sfaccettature: ma la premessa serve a richiamare il "perchè", ora e in concreto, cioè nei fatti in preparazione per tutti noi, la situazione promette di virare dal male al peggio.
Siamo di fronte ad un accanimento che si avvale della saldatura di un duplice livello istituzionale: cioè di scelte politiche che si traducono in super-norme che realizzano lo schemino propagandistico riassunto in premessa, con l'effetto di acutizzare la crisi, operando in modo inutile ed anzi opposto rispetto all'obiettivo (immaginifico) della sua risoluzione.
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Virtuosismo anonimo, uscita negata
Recensione in estremo ritardo a “Grammatica della moltitudine” di Paolo Virno
di Marco Ambra
Ora andate, lavorate! Non vi sarà data paglia, ma voi darete lo stesso numero di mattoni.
(Esodo 5,18)
Riprendere in mano la pletora di tesi e intuizioni che Paolo Virno snocciolò pochi mesi prima del G8 di Genova – quindi a ormai dodici anni dalla loro prima pubblicazione nel 2002 e a ben tredici dal seminario tenutosi all’Università della Calabria in cui furono trascritti – in Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (DeriveApprodi, IV edizione, 2014) potrebbe sembrare un esercizio sterile, quasi un attardato tentativo di leggere la sua capacità analitica e predittiva con un rassegnato senno del poi. Eppure questo testo anfibio, un po’ trascrizione di un seminario universitario che molto conserva del ritmo del parlato e un po’ lapidaria enunciazione di tesi sulla moltitudine postfordista tanto ha ancora da dire sulla cangiante relazione fra Lavoro, Politica e Intelletto di questo secondo decennio del XXI secolo.
Innanzitutto sull’attualità dell’antica disputa da cui l’analisi di Virno prende le mosse, ovvero quella contrapposizione fra le categorie politiche di popolo e moltitudine che nata nel XVII secolo dalle fucine filosofiche di Hobbes e Spinoza torna oggi a essere interessante.
Se il “popolo” ha descritto la forma di vita associata e lo spirito pubblico dello Stato moderno, del Leviathan hobbesiano, oggi che questo svanisce delocalizzando il monopolio della decisione politica, una nuova soggettività, eteroclita e dinamica, aleggia sulle sua ingombrante assenza. Che però questa fantasmagoria viva sia la moltitudo spinoziana, una pluralità che persiste in quanto tale sulla scena politica, non è dato poterlo dire, così come è ineffabile quella «sfera pubblica non statale» (p. 62) che si conforma al suo modo d’essere, e che fa oggi capolino nelle esperienze associative e politiche dei No-Tav o dei Cinema e Teatri occupati in giro per il paese.
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Spagnolo a 5 stelle
Leonardo Mazzei
L'hanno chiamato Democratellum ma non si sa bene il perché
Cari amici del M5S non ci siamo proprio. Il problema non è la disponibilità a discutere con Renzi di legge elettorale. Il problema è piuttosto il contenuto della proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati.
Quando, all'inizio dell'anno (leggi QUI), Renzi lanciò la sua offensiva sulla nuova legge, tre furono le opzioni avanzate: il sistema delle comunali, il Mattarellum, il sistema spagnolo. Poi, pochi giorni dopo, previo accordo con Berlusconi, quell'offensiva produsse il mostruoso Italicum, un incredibile incrocio tra il doppio turno delle comunali ed il premio di maggioranza del vecchio Porcellum, con l'aggiunta di soglie di sbarramento di tipo turco.
Per adesso questo obbrobrio giace su un binario morto. Lo sbruffone fiorentino ha dalla sua la forza di chi ha vinto nettamente le elezioni europee, ma deve fare i conti con le resistenze, più o meno sommerse, di chi a gennaio aveva sottoscritto il "Patto del Nazareno". Vecchie, presunte, convenienze stanno forse venendo meno.
E' in questo quadro che va letta l'iniziativa del M5S. Un tentativo di inserirsi in uno scenario assai fluido per cercare di limitare i danni della legge renziana.
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Ucraina, cronaca di una deriva annunciata
Gianfranco Greco
“Una rivoluzione? No, una semplice redistribuzione delle carte…Questo governo difende gli stessi valori del precedente: il liberismo economico e l’arricchimento personale.” (Vladimir Ishchenko, sociologo e direttore del Centro di ricerca sulla società, di Kiev)
Majdan
Il composito puzzle ucraino emerso a partire dal febbraio di quest’anno ed emblematizzato dai fatti della Majdan, ha in effetti una gestazione assai più datata nel tempo, cogliendo il senso della quale si può seguire il filo logico degli avvenimenti evitando, così, un ricorrente ritualismo della stampa mainstream ma soprattutto le stramberie di chi si trastulla disinvoltamente coi doppi standard o, ancor di più, i pistolotti soporiferi alla Ceronetti il quale, finendo per alimentare una demonologia tuttora persistente, fa ricorso a vacue litanie che si rifanno a “La Russie éternelle” anche se – in un empito di bontà – ci risparmia l’evocazione del mitico 7° Cavalleggeri.
Non è certo utilizzando la partigianeria come criterio distintivo ma soprattutto come chiave di lettura che si comprende appieno cosa sta avvenendo a Kiev o a Damasco e neanche quello che è avvenuto a Tunisi, ad Ankara o al Cairo.
Fare riferimento alle moderne forme dell’imperialismo, nell’interpretare l’attuale crisi ucraina, non è certo esercizio blasfemo che possa far arricciare il naso laddove si staglia sempre più nitida la percezione che i veri protagonisti della vicenda vanno oltre i mazzieri neonazisti o i russofoni del Donbass come spiega con la sua usuale chiarezza Barbara Spinelli: ” La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington.
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Desiderio: Pulsione = Verità: Sapere
Slavoj Žižek1
Secondo quanto indica Jacques-Alain Miller, il concetto di “costruzione in analisi” non si basa sulla (dubbia) pretesa che l’analista abbia sempre ragione (se il paziente accetta la costruzione proposta dell’analista, ciò rappresenta l’inequivocabile conferma della sua correttezza; se il paziente rifiuta, questo è un segno di resistenza che, di conseguenza, ribadisce il fatto che la costruzione abbia in qualche modo toccato la verità); il punto sta, al contrario, nel lato opposto della questione: “l’analizzando è sempre, per definizione, dalla parte del torto”. Al fine di giungere a tale conclusione, è necessario soffermarsi sulla distinzione cruciale tra la costruzione e la sua controparte, l’interpretazione, il cui rapporto è correlativo a quello della coppia sapere/verità. L’interpretazione è un gesto che è già sempre incorporato nella dialettica intersoggettiva del riconoscimento tra analizzando e analista, il cui intento è quello di concorrere alla produzione di un effetto di verità legato a determinate formazioni dell’inconscio (un sogno, un sintomo, un lapsus). Il soggetto dovrebbe allora poter “riconoscere” se stesso nella significazione proposta dall’interprete, precisamente con l’intento di soggettivarlo, al fine di assumere il significato proposto come “suo proprio” (Si, oh mio Dio, quello sono io, volevo davvero questo). Il successo dell’interpretazione è determinato da questo “effetto di verità” nella misura in cui influisce sulla posizione soggettiva dell’analizzando (suscitando ricordi di eventi traumatici fino a quel momento profondamente repressi che provocano resistenza violenta). In netto contrasto con l’interpretazione, la costruzione (ad esempio, quella di una fantasia fondamentale) ha lo status di un sapere che non può mai essere soggettivizzato, assunto dal soggetto come verità su se stesso, come la verità in cui egli può riconosce il nucleo più intimo del suo essere.
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La differenza italiana
Genealogie dell’impersonale, della passività radicale e della debolezza tra Esposito, Agamben e Vattimo
di Andrea Sartori*
In un articolo pubblicato nel 1976 sulla rivista L’erba voglio fondata dallo psicoanalista Elvio Fachinelli (1928-1989), Mario Perniola individuava nell’eterno ritorno dell’uguale il tratto fondamentale (e paradossale) della differenza italiana. Secondo quella diagnosi, il Paese era bloccato – fin nel suo genoma culturale – nell’impossibilità di evadere dall’apparenza del cambiamento. Perniola dilatava pertanto l’amara constatazione di Tomasi di Lampedusa (1896-1957) – secondo la quale tutto deve cambiare perché tutto rimanga così com’è – a cifra interpretativa non solo dell’Italia unificata, ma delle sue radici culturali pre-risorgimentali, addirittura cinquecento-secentesche. Il barocco italiano, ad esempio, con la sua enfasi sulla mutevolezza delle forme e delle immagini – l’Adone di Giovan Battista Marino (1569-1625) venne pubblicato nel 1623 a Parigi – già preludeva nell’analisi di Perniola alla levità, alla leggerezza senza peso specifico d’una società che ben conosciamo. Un società, in altri termini, il cui immaginario doveva essere fagocitato a breve da un nuovo soggetto economico-politico, incentrato sul possesso e l’utilizzo dei mass-media (della televisione, in particolare). Non molti anni dopo il 1976 in cui uscì l’articolo di Perniola, il governo socialista presieduto da Bettino Craxi cedette di fatto, tra il 1984 e il 1985, il monopolio della televisione commerciale a Silvio Berlusconi – ponendo così le basi di un successo che l’imprenditore, a partire dal 1994, avrebbe sfruttato anche sul piano politico.
La «differenza italiana» di cui si parla oggi, in tempi ben più recenti, per lo meno a partire dall’omonimo saggio di Antonio Negri pubblicato nel 2005 per l’editrice Nottetempo, è di tutt’altro tenore. È davvero differente. E questo non solo perché, come accade nella ricostruzione di Negri, è stato in Italia che si è parlato di Operai e capitale (Mario Tronti, 1966) al di fuori della prospettiva d’una filosofia della storia di derivazione hegelo-marxista, o di differenza sessuale (Carla Lonzi, e successivamente Luisa Muraro, Adriana Cavarero), al di là della questione della parità giuridica, dell’uguaglianza dei diritti, tra uomo e donna.
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Il vero "bail-out"? Quello della Germania
Thomas Fazi
Tra i tanti motivi per cui l’Europa – e in particolare la periferia – fatica a uscire dalla crisi, ce n’è uno che forse spicca su tutti: ossia, il fatto che a molti (inclusi, viene il sospetto, i nostri governanti) non è ancora chiaro come ci siamo entrati. Ci si rende conto di ciò ogniqualvolta si cerchi di ragionare sulle responsabilità della Germania nel perpetuarsi e aggravarsi della crisi – cosa che su questo blog facciamo con una certa solerzia, e non certo per pregiudizio anti-tedesco. In questi casi, a prescindere dalla validità delle proprie argomentazioni, è comune sentirsi rispondere: “Sì, avete ragione, la Germania potrebbe fare di più, ma bisogna pur capirli i tedeschi: hanno già sborsato tanti soldi per salvare le scalcagnate economie della periferia ed è normale che non se la sentino di sborsarne altri”. È infatti piuttosto diffusa l’idea secondo cui la Germania sarebbe giustificata a chiedere garanzie e sacrifici ai paesi della periferia – e a essere riluttante a fare ulteriori concessioni –, in quanto avrebbe già contribuito massicciamente ai “salvataggi” – o bail-out – di Grecia, Irlanda, Spagna, ecc. Insomma, anche la Germania, a suo modo, avrebbe pagato un conto piuttosto salato per via della crisi. Secondo questa lettura, la Germania potrebbe essere paragonata a una sorella maggiore severa, forse un po’ ottusa, ma comunque disposta ad aiutare i propri fratelli nel momento del bisogno. Ma è veramente così?
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Il divorzio (all’italiana) fra debito pubblico e ricchezza privata
di Maurizio Sgroi
C’è molto sentimento nel rapporto che noi italiani intratteniamo col nostro debito pubblico, che poi altro non è che l’apparenza contabile del nostro Stato e perciò, in sostanza, la fisionomia di noi stessi.
Tale sentimento, che oggi volge all’odio dopo una lunga stagione d’amore, racconta del difficile rapporto che intratteniamo con noi stessi, ora egotico/superomista, ora autoflaggellante/esterofilo, ma soprattutto racconta di una lunga relazione, un matrimonio quasi, che il popolo italiano ha intrattenuto con il suo bilancio pubblico, facendone la cornucopia della loro privatissima ricchezza al prezzo, appunto, del debito che conosciamo, che tanto scandalo ha generato nel mondo finendo con l’interrompere l’idillio.
Sicché il matrimonio è diventato un divorzio.
Divorzio all’italiana, comunque. Quindi pieno di sotterfugi e balletti, un passo avanti e due indietro, con l’occhio giudicante dei perbenisti che alla fine ti spingono al delitto: proprio come nel vecchio film di Germi.
Sicché il divorzio fra il nostro debito pubblico e la nostra ricchezza privata non ha mai avuto la meritata evidenza che pure hanno trovato nelle cronache divorzi assai meno rilevanti, se non per gli appassionati, come quello dell’81 fra il Tesoro e Bankitalia, di cui chi segue questi argomenti potrà trovare ampi resoconti sulla rete.
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L'Europa in crisi e il mistero della competitività
Andrea Ginzburg , Annamaria Simonazzi
Come dimostra la Germania, lo sviluppo economico dei paesi dell'Eurozona dipende dalla specializzazione della produzione
Come scrive Mariana Mazzucato nel suo libro Lo Stato imprenditore, la cosiddetta ‘economia dell’offerta’ lanciata negli anni ’80, indirizzata a ridurre le tasse sui profitti per rilanciare gli investimenti, ha avuto scarsi effetti sugli investimenti stessi e quindi sulla crescita, ma effetti importanti sulla distribuzione del reddito. Si potrebbe facilmente estendere questa conclusione anche alle riforme del mercato del lavoro attuate in Italia negli ultimi 15-20 anni. Come ha documentato Maurizio Zenezini in un’analisi molto dettagliata della relazione fra queste riforme e la crescita (Economia e società regionale, 2, 2013), mentre l’Italia—attesta l’OCSE—ha sperimentato negli ultimi 15 anni la più forte deregolamentazione del mercato del lavoro della maggior parte dei paesi OCSE, l’economia ha smesso di crescere ancor prima del collasso del 2009 e le riforme recenti, “pur considerate imponenti dagli stessi responsabili della politica economica” sembrano incapaci di rivitalizzare l’economia, così che le previsioni di crescita sono state continuamente riviste al ribasso. Ad un’analisi retrospettiva, gli effetti di queste riforme sulla crescita appaiono nulli nel breve periodo e modesti, nel migliore dei casi, nel lungo periodo. Contemporaneamente, le retribuzioni contrattuali reali per l’intera economia italiana sono rimaste ferme fra il 1993 e il 2011. In quest’ultimo anno, valevano il 77% della media dei paesi OCSE, mentre erano pari all’85% della media dodici anni prima. Non c’è bisogno di ricordare qui i disastrosi dati sulla caduta, in Italia, dei livelli di occupazione e sulla crescente incidenza del lavoro precario.
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WikiLeaks: ecco l’accordo segreto per il liberismo selvaggio*
di Stefania Maurizi
Si chiama Tisa (Trade in Services Agreement) il documento rivelato grazie all'organizzazione di Assange. Un trattato internazionale di lobby e governi per liberalizzare i servizi: dai dati personali alla sanità passando per le assicurazioni. Sarebbe la vittoria definitiva della finanza sulla politica
Un trattato internazionale che potrebbe avere enormi conseguenze per lavoratori e cittadini italiani e, in generale, per miliardi di persone nel mondo, privatizzando ancora di più servizi fondamentali, come banche, sanità, trasporti, istruzione, su pressione di grandi lobby e multinazionali. Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione.
L'Espresso è in grado di rivelare parte dei contenuti del trattato grazie a WikiLeaks, l'organizzazione di Julian Assange, che lo pubblica in esclusiva con il nostro giornale e con un team di media internazionali, tra cui il quotidiano tedesco “Sueddeutsche Zeitung”. Una pubblicazione che avviene proprio in occasione dell'anniversario dei due anni che Julian Assange ha finora trascorso da recluso nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, come ricorda l'organizzazione.
Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E' un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell'economia dei paesi sviluppati, come l'Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea.
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La scienza del conflitto. Secondo il Pentagono...
Dante Barontini - Nafeez Ahmed *
Si fa presto a straparlare di “conflitto”. Se uno si accontenta di nuotare – sempre meno liberamente – nelle “tonnare” predisposte in piazza dalla polizia italiana, meglio che non si avventuri in questa lettura. Se invece non sopporta proprio di sentirsi come un insetto sotto la lente dell'entomologo, è bene che vada avanti.
Il conflitto sociale è materia che può e deve essere analizzata in maniera scientifica, tenendo conto dei precedenti storici come delle tecnologie esistenti, della “qualità” del nemico come di quella degli “amici”. Altrimenti ci si inoltra in un terreno sconosciuto, irto ovviamente di rischi imprevedibili, dotati soltanto delle proprie buone intenzioni e di una dose di incoscienza sopra la soglia.
Un'inchiesta eccellente apparsa sul giornale inglese The Guardian nei giorni scorsi aiuta a rimettere con i piedi per terra sia l'idea che la pratica reale del conflitto sociale. Come fa? Semplice: guarda a quel che il Pentagono sta facendo da alcuni anni a questa parte per “implementare” la sua già immensa conoscenza.
Da prima ancora che l'11 settembre rendesse concreto il concetto di “guerra asimmetrica”, ai piani alti della Difesa statunitense si era capito che “il nemico” dei futuri scenari bellici sarebbe stata la popolazione civile.
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La società aperta di Popper e i "guardiani" liberisti
Per niente platonici e frugali, ma molto mediatici
di Quarantotto
Tra le grandi utopie autoritarie, riemergenti nel corso della Storia, Popper individuò quella della Città Perfetta di Platone.
In essa, Popper, trovò proprio la radice delle varie forme di totalitarismo statale, incentrate sulla convinzione di aver trovato una verità assoluta e finale.
La cosa che può apparire singolare, alla luce delle vicende che si stanno verificando in €uropa - e che, in senso "derivato" e "mediatico", come vedremo, trovano il loro acme in Italia-, è che Platone fosse addirittura accusato di "comunismo", in base alle teorie da lui elaborate sulla conduzione politica della comunità sociale.
La "Res Publica" da lui concepita era, essenzialmente, (come evidenzia Galbraith nella sua "Storia dell'economia"; pagg.26-27), quella di una "entità" economica, cioè come insieme delle diverse occupazioni e professioni necessarie per la vita sociale (in queste includeva senza alcun problema la presenza degli schiavi, ma era un tratto comune a tutti gli uomini della sua "era").
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Jervis contro il sentito dire
Psicoanalisi, psichiatria e politica
di Francesca Borrelli
Per quanto la formazione di un intellettuale nato negli anni ‘30 sia tutt’altro che remota nel tempo, l’eco dei suoi maestri sembra già oggi, e purtroppo, inassimilabile al senso comune, come fosse un rumore di fondo più che un marcatore di significato. E’ dunque con una certa avidità che si ripercorrono molte della pagine dedicate ai ricordi che Giovanni Jervis trasse dal lavoro di Ernesto De Martino, di Raniero Panzieri, di Sebastiano Timpanaro, e persino di uno psichiatra solo di poco più giovane di lui come Ronald Laing, figure evocate in una collezione di scritti edita di recente con il titolo Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica (a cura di Massimo Marraffa, Bollati Boringhieri, pp. 280, euro 18,00). Gli anni in cui Jervis terminava gli studi superiori e si orientava verso la psichiatria furono anni cruciali: nel 1950 lo svizzero Roland Khün aveva scoperto gli effetti antidepressivi dell’imipramina, denunciando come fonti della sua fondamentale ricerca non tanto la medicina quanto la filosofia di Heidegger e la riflessione psicopatologica di Binswanger. Contemporaneamente alla corsa delle case farmaceutiche verso i profitti dei rimedi psicotropi, si feceva strada una concezione dei farmaci come sostanze relazionali, i cui effetti non sono scindibili dalla funzione terapeutica della parola;
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Rimettere al centro il lavoro?
Sebastiano Isaia
Nel suo saggio del 2010 La malattia dell’Occidente. Perché il lavoro non vale più (Laterza, 2013), Marco Panara, giornalista economico del quotidiano La repubblica, denuncia ciò che da tempo era noto agli economisti e ai leader politici di tutto il mondo: «La perdita di valore del lavoro, e il conseguente trasferimento di ricchezza del lavoro al capitale». Sulla scorta dei dati forniti dalle maggiori istituzioni internazionali che monitorano l’andamento dell’economia mondiale, egli calcola nell’ordine di 5 punti annui (circa 1500 dollari all’anno per ciascun lavoratore occidentale) questo indiscutibile trasferimento di ricchezza.
Il salario si fa sempre più anemico, mentre il profitto ingrassa con la stessa rapidità seguendo una “legge di sviluppo” che sembrava essere andata in soffitta insieme al polveroso Carlo Marx. Non è che “a volte ritornano”; è che il Capitale non è mai andato via dalla scena.
«Quello che sta accadendo in Occidente da un quarto di secolo a questa parte», scrive Panara, «è che il valore del lavoro diminuisce costantemente. Si potrebbe dire che nello scontro secolare tra lavoro e capitale in questa fase ha vinto il capitale». Perché «in questa fase»?
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La parabola degli 80 euro
Il governo Renzi e la questione della moneta
di Francesco Festa
1. Che le elezioni europee in Italia sortissero un esito così schiacciante per il governo Renzi, nessuna analisi, seppur la più lungimirante, avrebbe potuto immaginarlo. Sia per coloro che soffiavano sul fuoco della rottura europea, sia per coloro che puntavano ad una rottamazione (come la parte grillina), il 40% e più di voti assegnati al partito di maggioranza della Grosse Koalition all’italiana è un risveglio traumatico. E in più, in questa tornata elettorale si è registrata la più alta percentuale di votanti d’Europa. Tutto ciò richiede un esercizio di analisi che complichi il quadro, andando oltre quelle ragioni che rinviano alle tensioni esasperate dall’assalto grillino alla diligenza oppure alla paura per la fase storica.
Si potrebbe sostenere che il voto italiano sia il sintomo di un paese assuefatto alla crisi; abbandonato all’ultimo sentimento rimasto, la speranza, quel sentimento infame inventato da chi comanda, e che per questo le persone abbiano concesso fiducia al PD, nella speranza appunto che esso conduca il paese fuori dal tunnel. Un paese che ha fatto suo l’auspicio che la crisi passi in fretta, che sia un processo, qualcosa di ciclico e congiunturale: prima, uno step recessivo, poi, uno ristagnativo e, infine, la luce in fondo al tunnel, con i primi segnali di ripresa, occupazione, ripresa della produzione e dei consumi.
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Il ritorno di Giovanni Arrighi
di Pierfranco Pellizzetti
Torna in libreria "Il lungo XX secolo" di Giovanni Arrighi, riedito dal Saggiatore con l'aggiunta di un poscritto dell'autore. Un piccolo grande classico di uno dei più apprezzati intellettuali italiani a livello internazionale, scomparso nel 2009. Una lettura essenziale per una profonda ritaratura delle analisi sulla crisi economica globale, a fronte dell'incapacità del pensiero dominante di interpretarne le cause.
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«Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio». (Fernand Braudel)
Un "grande libro" merita di essere considerato tale non sulla base delle ipotetiche verità che racchiude tra le sue pagine, quanto per i processi mentali a catena che innesca. Titolo, quello di grande libro, che - per l'anno 1994 - spetta senza dubbio a Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi storico dell'economia milanese, emigrato negli Stati Uniti quindici anni prima, nel 1979. Un periodo, durato fino alla sua morte, avvenuta nel 2009, in cui Arrighi ha insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein sempre nella Grande Mela.
Un milieu dove si coltivava - nel ricordo del maestro francese della longue durée e della civiltà materiale - una visione sistemica dei processi economici in totale contrasto con il paradigma dominante dell'epoca: il mainstream microeconomico al servizio di operazioni ideologiche, cornice concettuale della thatcher-reaganomic; strumenti di guerra accumulati negli arsenali della controrivoluzione neoliberista - appunto - nell'ultimo quarto del XX secolo.
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Berlino batte un colpo? Spigolature geopolitiche
di rk
Un tabù si rompe. Questo il tono generale dei commenti a un articolo apparso sull’edizione online del settimanale tedesco forse più importante: Die Zeit. Di cosa si tratta?
Il titolo suona: l’Europa deve ricalibrare i suoi rapporti con gli Usa. Sottotitolo: la Ue non può più sottomettersi a strategie made in Washington ma portare avanti i propri interessi e porre chiari limiti anche agli amici. L’autore, tedesco, non è un politico ma il direttore del programma di strategia del Global Policy Institute, un importante think tank di base a Londra. Come giustamente sottolinea il sito German-Foreign-Policy, il merito principale dell’articolo è di aver portato alla luce del sole l’acceso dibattito interno all’establishment tedesco sulla vicenda ucraina. Un dibattito che non solo rispecchia forti divergenze, del tutto trasversali ai vari partiti, sulle prospettive del legame tra Germania (e Europa) e Russia-Cina, ma anche gli umori di un’opinione pubblica niente affatto irretita nel corso anti-russo fin qui seguito, con più di un contorcimento, dal governo Merkel e nella narrazione delle vicende ucraine propinate dai media nazionali. (Ovviamente nulla di ciò trapela nell’informazione nostrana).
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Cosa ci insegna il convegno fantasma
Mimmo Porcaro
Il 14 giugno avrebbe dovuto svolgersi a Bologna un convegno su euro e dintorni, relatori Alberto Bagnai e chi scrive. Prima di parlare dei motivi per cui il convegno non si è svolto, vorrei dare un’idea di quello che avrebbe potuto essere.
Si trattava, io credo, di prendere atto delle tesi di Bagnai, molte delle quali sono incontrovertibili, e di chiedersi che cosa ne possa conseguire dal punto di vista politico. E quel che ne consegue non è un argomento in più da aggiungere alla lista delle cose da “approfondire” (che poi, nel gergo della sinistra, vuol dire “censurare”). E nemmeno un tema in più da affiancare a quelli soliti: c’è l’ambiente, ci sono i diritti civili e, toh!, c’è l’euro. E’ piuttosto qualcosa che implica addirittura la ridefinizione generale della strategia della sinistra (e dello stesso significato di questo abusatissimo termine), e quindi la costruzione, né più né meno, di una nuova forza politica.
Sì, perché la critica senza appello dell’euro e dell’Unione europea, la comprensione dei motivi che hanno spinto le nostre classi dirigenti verso l’europeismo dogmatico (ossia l’uso del vincolo esterno per regolare i conti interni con i lavoratori), la polemica contro le false spiegazioni della crisi italiana (casta, corruzione, debito pubblico) e l’ascrivere invece questa crisi, nella sua essenza ultima, al debito privato ed alla volontaria sottomissione al capitalismo nordeuropeo, possono condurre a conclusioni assai impegnative. E possono farci dire che l’alleanza dei lavoratori italiani con la frazione europeista del nostro capitalismo è un patto a perdere.
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Contro il muro
L'origine comune della crisi ecologica e della crisi economica
di Claus Peter Ortlieb
Se nei centri capitalisti, la discussione pubblica interpreta la crisi economica, nonostante la sua persistenza, come un fenomeno puramente passeggero, invece si accorge perfettamente del fatto che la crisi ecologica proviene dalle stesse fondamenta del modo di vita moderna. E' troppo evidente, infatti, la contraddizione tra l'imperativo economico della crescita, da una parte, e la finitezza delle risorse materiali e della capacità dell'ambiente di assorbire i rifiuti prodotti dalla civilizzazione, dall'altra. Da alcuni anni, la catastrofe climatica annunciata occupa il primo piano della discussione, anche se oggi se ne parla un po' meno, date le nuove priorità derivanti dagli sforzi di far fronte alla crisi economica. L'obiettivo dei 2° C, grazie al quale si dovrebbe essere in grado di evitare i peggiori effetti del riscaldamento globale, viene ormai considerato del tutto irraggiungibile. Eccetto il calo che si è registrato durante l'anno di recessione 2009, l'emissione mondiale di CO2 continua ad aumentare inesorabilmente, e a sua volta il cambiamento climatico comincia a rafforzarsi, segnatamente liberando un surplus di gas serra provenienti dallo scongelamento del permafrost, o diminuendo la riflessione delle radiazioni solari nello spazio a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Tuttavia, il cambiamento climatico non rappresenta che uno dei campi di battaglia su cui si combatte la "guerra del capitale contro il pianeta", come la chiamano i sociologhi statunitensi John Bellamy Foster, Brett Clark e Richard York nel loro straordinario libro (anche se in molti paesi non è mai stato tradotto) intitolato "The Ecological Rift. Capitalism’s War on the Earth", New York, Monthly Review Press, 2010.
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Elezioni europee, gattopardismo in salsa fiorentina e nuovo partito di massa del capitale
Domenico Moro
“Non eravamo esattamente d’accordo con l’incentivazione degli 80 euro, ma non mi sono azzardato ad avanzare alcun tipo di critica, ho compreso la necessità del governo di bloccare un voto anti europeo.”
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo
1. Il quadro europeo: crisi del bipolarismo e del bipartitismo e ascesa degli euroscettici
Negli ultimi mesi i mass media annunciavano e le forze politiche principali temevano la “tempesta perfetta” del voto euro-scettico. Il 22 maggio il Sole24ore titolava: <<Il voto europeo preoccupa i mercati>>, e il 25 maggio, giorno delle consultazioni, aggiungeva: <<Europa alle urne: mercati e riforme appese al voto>>. Invece, martedì 27 lo stesso quotidiano tirava un sospiro di sollievo: <<Piazza affari vola dopo il voto, Milano (+3,61%) miglior listino d’Europa>>. Anche le altre borse non se la sono cavata male: Madrid +1,22 per cento, Francoforte +1,28 per cento, persino Parigi cresce pur con un modesto +0,75 per cento.
La borsa è uno dei termometri che misurano l’opinione del capitale rispetto all’andamento della politica. Quindi, tutto bene per i circoli dominanti dell’establishment economico e politico? No, non proprio tutto bene. L’ondata euroscettica si è manifestata con forza, sebbene non così potente dappertutto come l’establishment europeista diceva di temere. A questo proposito, due sono gli aspetti più interessanti.
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Lati nascosti imperiali e subimperiali
di Piotr
Proprio quando occorrerebbe aiutare gli USA a deimperializzarsi senza collassi verticali, vanno ovunque al governo i bauscia, i fascisti e altri disastri
Il lato nascosto di Bausciolandia
Il 40% al PD di Matteo Renzi mi ha abbastanza sorpreso ma non sconcertato.
Tuttavia conta anche il sempre più forte calo dell'affluenza alle urne, così che il 40% del 58,6% fa meno del 24%. Ovviamente è un discorso che vale per tutti.
Il 40% a Renzi è il 18 aprile del PD. Ma con una differenza rispetto all'alba della DC. Mentre nel 1948 la Democrazia Cristiana aveva dalla sua il dopoguerra, la ricostruzione e le prime avvisaglie di quello che verrà chiamato il ventennio d'oro del capitalismo, Renzi ha contro la resa dei conti di una drammatica crisi sistemica. Certo, il fiorentino cerca di usare le stesse tecniche propagandistiche ma si capisce da lontano che è un "bauscia". Non è solo una questione di stile personale o di gorgia fiorentina. Chiunque al suo posto, con la sua missione da compiere, non potrebbe essere altro che un bauscia. Diciamo che forse è il bauscia giusto al monumento giusto.
Povero Renzi, se la DC dei tempi d'oro - composta per nulla da bauscia ma da gente molto seria, democristiana ma seria - poteva giustamente mostrare al "popolo sovrano" mezza pagnotta italiana e mezza pagnotta americana, perché era nell'ordine degli eventi che l'altra mezza pagnotta venisse dalla sponda opposta dell'Atlantico, oggi le cose sono capovolte e Obama ha fatto capire chiaramente che lui ha solo mezza pagnotta e il resto glielo devono dare i suoi alleati, ad esempio tramite il "Transatlantic Trade and Investment Partnership", il famigerato TTIP.
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Gas, nazi e media: la verità sulla guerra
Franco Fracassi
Un'azienda del gas, un oligarca e un'agenzia di pubbliche relazioni senza scrupoli, un gasdotto che non s'ha da fare e impronte che portano molto vicino alla Casa Bianca
«È mia profonda convinzione che un piccolo numero di parole, ma con grande impatto emotivo, possa modificare le convinzioni dell'opinione pubblica». «In Bulgaria è andato tutto bene. Adesso bisogna spingere per Odessa». Un inglese e uno statunitense. Per adesso non importa come si chiamino, né che ruolo abbiano in questa vicenda. Odessa, Sofia, Londra, Washington e Dniepropetrovsk. Questa è la storia di due incontri segreti. È la storia del controllo dell'approviggionamento di gas all'Europa. È la storia di un'agenzia di pubbliche relazioni in grado di manipolare l'informazione internazionale. È la storia del cuore del potere mondiale, e di come esso abbia anche a che fare con profitti personali. È la storia di un massacro nazista. È la storia di una guerra. In mezzo più di quaranta milioni di cittadini inermi. In altre parole, questa è la storia (a quanto pare) del perché in Ucraina c'è stato un colpo di Stato e del perché si sta combattendo una guerra civile.
Iniziamo con lo scenario. Le più grandi riserve di gas del mondo si trovano in Russia o in Kazakistan, Paese alleato di Mosca. Ma nuovi e ricchi giacimenti sono stati recentemente rinvenuti anche in Ucraina. La Russia è il più importante fornitore di gas all'Europa. Fino a pochi anni fa la maggior parte dei gasdotti (e degli oleodotti) transitavano per il territorio ucraino.
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Big data, complessità e metodo scientifico
Francesco Sylos Labini
Oggi è tecnicamente possibile la raccolta di enormi quantità di dati. Ma il trattamento dei “big data” non è in grado, di per sé, di migliorare la capacità di previsione di fenomeni naturali o sociali. Anche di fronte alla cono- scenza delle leggi dinamiche sottostanti, infatti, rimane difficile comprendere l’evoluzione di forze che danno spesso luogo a comportamenti caotici
Grazie allo sviluppo dell’informatica e di internet è ora possibile accumulare grandi insiemi di dati; si è così venuta a creare una nuova situazione che solo fino a qualche anno fa appariva impensabile. La quantità di dati archiviati in forma digitale, infatti, sta crescendo in maniera esponenziale e questo scenario pone una serie di nuovi problemi nuovi da considerare, dalla privacy degli individui alla qualità dell’informazione che può essere estratta dalle banche dati. Mentre ci sono delle applicazioni, come ad esempio lo sviluppo di traduttori automatici, in cui i dati possono davvero rappresentare un’innovazione fondamentale, la domanda che molti si pongono è se tali dati, da soli (senza cioè un modello teorico di riferimento) possano essere sufficienti per comprendere i fenomeni naturali o sociali, e se questa nuova situazione implichi una sorta di “fine della teoria”. In realtà, ci sono dei limiti intrinseci alla possibilità di estrazione di informazioni da grandi quantità di dati. Per illustrare il punto prendiamo le mosse da un esempio “storico” di comprensione di un fenomeno naturale avvenuto senza un modello teorico di riferimento.
Il comportamento caotico dei pianeti
Ogni civiltà a noi nota ha sviluppato delle conoscenze astronomiche: sono stati osservati i cicli del sole e della luna perché la loro conoscenza era importante per programmare le semine e i raccolti.
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Così muore l’economia italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
Il declino economico italiano data ben prima dell’adozione della moneta unica, ed è imputabile al combinato della continua caduta della domanda interna e, a questa collegata, della produttività. In uno scenario di desertificazione produttiva, le politiche di austerità e le c.d. riforme strutturali raccomandate dalla commissione europea, recepite in toto dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, non producono altri esiti se non aggravare il problema
Che il declino economico italiano sia essenzialmente imputabile alla caduta della produttività è cosa nota da tempo, e sorprende che il Ministro Padoan se ne accorga solo ora o che lo renda noto solo ora, al Festival dell’Economia di Trento il 31 maggio scorso. La riduzione della produttività è imputabile a numerosi fattori, fra i quali, non da ultimo, la caduta della domanda aggregata che si è registrata, in Italia, almeno a partire dagli ultimi venti anni, aggravata dalle politiche di austerità, dalla rilevante riduzione della quota dei salari sul Pil e dalla altrettanto rilevante contrazione della produzione industriale.
La Fig.1 evidenzia che il tasso di crescita della produttività, dal 2001 al 2010, è stato, per l’Italia, sistematicamente inferiore a quello registrato in tutti gli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Data l’ampiezza del periodo considerato, il fenomeno può considerarsi strutturale, derivante da una dinamica di lungo periodo che ha generato la progressiva desertificazione industriale dell’economia italiana; dinamica che si è prodotta ben prima della crisi, e che ovviamente la crisi (e le politiche economiche messe in atto) ha contribuito ad amplificare. Confindustria rileva, a riguardo, che dal 2008 al 2013 la produzione industriale in Italia si è ridotta di circa il 25%.
Fig.1: La dinamica della produttività in Italia, in Europa, negli USA (fonte ISTAT, 2011)
Il nesso che lega la dinamica della domanda a quella della produttività passa attraverso questi meccanismi.
1) Se aumenta la domanda, le imprese sono incentivate a produrre di più, dunque ad accrescere le loro dimensioni. L’aumento delle dimensioni d’impresa genera aumenti di produttività, per l’operare di economie di scala, ed è di norma associato a più alti salari. Vi è di più, dal momento che la dinamica della domanda aggregata ha anche effetti sulla produttività tramite variazioni della struttura demografica. Ciò a ragione del fatto che riduzioni di domanda di beni di consumo e di investimento si associano a riduzioni della domanda di lavoro (soprattutto a danno di individui giovani) e, per conseguenza, accentuano i flussi migratori (prevalentemente di giovani con elevati livelli di scolarizzazione), determinando una condizione di progressivo invecchiamento della popolazione. Una popolazione con età media elevata genera, con ogni evidenza, una forza-lavoro meno produttiva rispetto a una condizione nella quale è più bassa l’età media degli occupati [1].
2) La caduta della domanda incide anche sulla specializzazione produttiva. Nel caso italiano, essa si è associata all’intensificazione del processo di specializzazione produttiva dell’economia italiana in settori a bassa intensità tecnologica (oltre ad aver generato ondate di fallimenti d’impresa), tipicamente il made in Italy, l’agricoltura, il turismo. Si tratta di settori nei quali operano imprese con bassa propensione all’innovazione, che non occupano lavoratori con elevata dotazione di capitale umano. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni si sono, per così dire, limitati ad assecondare questo processo (ovvero a dequalificare la forza-lavoro), con una decurtazione di fondi alla ricerca scientifica di entità tale da mettere seriamente a rischio la tenuta del sistema formativo italiano. E poiché è innegabile che la ricerca scientifica è la necessaria pre-condizione per l’attivarsi di flussi di innovazione, non vi è da sorprendersi se – anche per questa via – le politiche economiche hanno significativamente contribuito alla progressiva desertificazione produttiva del Paese alla quale stiamo assistendo.
3) La caduta della domanda è anche all’origine della restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi i mercati di sbocco, si riducono i profitti e, per conseguenza, si riduce la solvibilità delle imprese, rendendo sempre meno conveniente per le banche finanziarle. Date le piccole dimensioni aziendali delle nostre imprese (soprattutto nel Mezzogiorno), risulta per loro sostanzialmente impossibile attingere risorse nei mercati finanziari. Il che comporta una contrazione dei fondi destinabili per investimenti e, a seguire, la riduzione degli investimenti – in quanto accresce l’obsolescenza degli impianti – ha effetti negativi sulla dinamica della produttività.
4) La caduta della domanda aggregata agisce negativamente sulla dinamica della produttività anche a ragione del fatto che, accrescendo il tasso di disoccupazione, e riducendo conseguentemente il potere contrattuale dei lavoratori, incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (salari in primis), ovvero disincentiva le innovazioni [2].
Le opzioni di politica economica che derivano da queste considerazioni sono essenzialmente riconducibili a misure di stimolo della domanda, soprattutto per gli effetti che questi producono dal lato dell’offerta. Per contro, la Commissione Europea ha recentemente (ri)proposto una linea di politica fiscale di segno esattamente opposto, ovvero: per accrescere l’occupazione occorre “lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle imposte ricorrenti sui beni immobili, sui consumi e sull'ambiente, in modo da rafforzare il rispetto dell'obbligo tributario e combattere l'evasione fiscale”.
Si tratta, a ben vedere, non solo della reiterazione di proposte che si sono rivelate palesemente inefficaci (se non del tutto controproducenti), assumendo, contro ogni evidenza, che sia sufficiente la detassazione del lavoro per spingere gli imprenditori ad assumere; ma si tratta anche di provvedimenti che accrescono le diseguaglianze distributive, dal momento che l’aumento dell’imposizione indiretta grava con uguale incidenza su percettori di redditi alti e bassi [3]. Ed è anche poco difendibile l’idea che solo rendendo sempre più regressiva la tassazione che si rende possibile un aumento delle entrate fiscali, dal momento che questa misura, accrescendo le diseguaglianze distributive, deprime ulteriormente i salari reali, potendo incidere negativamente sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla stessa base imponibile.
Ma soprattutto, la detassazione del lavoro pone semmai le imprese nella favorevole condizione di competere tramite riduzione dei costi e, se il problema italiano è il problema della caduta della produttività, questa linea di politica economica non può che accentuarlo [4].
NOTE
[1] A ciò si aggiunge che la riforma pensionistica voluta dal Governo Monti ha significativamente contribuito ad accrescere l’età media dei lavoratori, con effetti di segno negativo sull’occupazione giovanile.
[2] Come osserva Alain Parguez, “a full employment policy automatically pushes for increased investment and therefore for the embodiment of more and more technology-innovations in the stock of equipment. It is tantamount to the proposition that a full employment policy sustains the growth of productivity in the long run” (A.Parguez, Money creation, employment and economic stability: The monetary theory of unemployment and inflation, “Panoecnomicus, 1, 2008, p.50). E’ rilevante, su questo aspetto, sgombrare il campo da un equivoco. L’indicazione prevalente, in materia di politiche del lavoro, suggerisce di commisurare i salari all’andamento della produttività del lavoro, data la duplice tacita assunzione secondo la quale i) la produttività del singolo lavoratore è quantificabile, ovvero è isolabile il suo specifico contributo alla produzione ii) le variazioni della produttività del lavoro sono interamente imputabili all’intensità lavorativa. Il punto qui in discussione è che, anche accettando l’ipotesi che la produttività del singolo lavoratore sia misurabile, il suo salario reale non può dipendere dal suo impegno individuale, giacché dipende, in ultima analisi, dalle decisioni autonome delle imprese in merito alla scala e alla composizione merceologica della produzione (ovvero al cosa e al quanto produrre). E’ del tutto evidente che una riduzione della produzione di beni di consumo riduce i salari reali, indipendentemente dal contributo del singolo lavoratore alla produzione. Cfr. A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
[3] Si tratta anche di un un’impostazione tecnicamente discutibile. E’ infatti difficilmente difendibile l’idea che si possano raggiungere due obiettivi (accrescere l’occupazione e ridurre l’evasione fiscale) con un solo strumento (l’aumento dell’imposizione indiretta).
[4] Per una trattazione approfondita di questi aspetti si rinvia a P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.
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Lenin a Pechino?
Leggendo «Utopie letali» di Carlo Formenti
Damiano Palano
Nel suo ultimo libro, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013), Carlo Formenti sembra tornare all’ottimismo dell’operaismo degli anni Sessanta e alla convinzione che l’estensione del capitalismo a livello globale debba produrre il ritorno al ‘classico’ conflitto tra capitale e classe lavoratrice. Proprio per questo Formenti critica le letture che ritengono che il soggetto trainante dei nuovi conflitti sia costituito dalla nuova ‘classe creativa’ prodotta dalla rivoluzione digitale, ma soprattutto attacca quelle «utopie letali» che, nel corso degli ultimi tre decenni, hanno spostato il terreno dei conflitti dal piano ‘materiale’ della contrapposizione tra capitale e lavoro al piano delle rivendicazioni ‘identitarie’ e ‘culturali’. Se questa critica ha merito di riportare l’attenzione sull’importanza dei fattori ‘materiali’, o sul ruolo che i ‘vecchi’ conflitti continuano ad avere anche nel XXI secolo, c’è però un limite nella posizione di Formenti: un limite che riguarda proprio il ruolo della dimensione ‘culturale’, e delle identità collettive, all’interno della «composizione di classe».
Ritorno al futuro
Nata proprio mezzo secolo fa, nel 1964, «Classe operaia» chiuse la propria esperienza teorico-politica dopo meno di quattro anni di vita, nel marzo del 1967, con la pubblicazione dell’ultimo fascicolo, che un po’ goliardicamente invitava i lettori interessati a non abbonarsi. Con quel numero si concludeva l’effimera parabola di una delle riviste fondative dell’operaismo italiano.
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