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Il conflitto dal principio

Andrea Colombo

Incontri. Come decifrare il decennio rosso italiano? Facendo un passo indietro, rientrando in fabbrica e ritrovando le origini delle lotte nella storia operaia. Parola di Maurizio «Gibo» Gibertini e Roberto Rosso

11clt 1Cosa è stato dav­vero il «decen­nio rosso»? Quali sono stati i fatti salienti e i pro­ta­go­ni­sti reali di que­gli anni ’70 sui quali con­ti­nuano a uscire libri a raf­fica, ma quasi sem­pre cen­trati su armi e armati, oppure, ma in misura già infi­ni­ta­mente minore, sulle peral­tro glo­riose orga­niz­za­zioni extra­par­la­men­tari? Chi, da quel qua­dro del pas­sato spesso bugiardo e ado­pe­rato ad arte per con­di­zio­nare il pre­sente, è stato espunto, rimosso e can­cel­lato? Almeno quest’ultima rispo­sta è sem­plice: a essere stati can­cel­lati dalla memo­ria sono stati gli ope­rai, veri «per­so­naggi prin­ci­pali» del decen­nio più denso di con­flitti nella sto­ria ita­liana, le loro lotte duris­sime, la loro rab­bia, il potere che erano riu­sciti a con­qui­stare nelle fab­bri­che.

Un gruppo di pro­ta­go­ni­sti di quella sto­ria prova ora a col­mare un vuoto di memo­ria che minac­cia di tra­sfor­marsi in defi­ni­tivo stra­vol­gi­mento della sto­ria. Tra que­sti Mau­ri­zio «Gibo» Giber­tini, ex mili­tante dell’Autonomia mila­nese, e Roberto Rosso, prima diri­gente di Lotta con­ti­nua a Milano, poi tra i fon­da­tori di Prima Linea.

 

Come è nato que­sto progetto?

Gibo: Era­vamo sem­pre più disgu­stati per come il rac­conto di quella fase sto­rica viene stra­volto per essere uti­liz­zato nel pre­sente come stru­mento cul­tu­rale di repres­sione dei con­flitti. Poi ci siamo resi conto che però non si poteva par­lare della seconda fase degli anni ’70, del ’77 insomma, senza arre­trare nel tempo in modo da spie­gare cosa dav­vero era suc­cesso e per­ché, soprat­tutto nelle fab­bri­che. La fase che va dal 1968 al 1973 è fon­da­men­tale per­ché è lì che esplode la lotta ope­raia e poi si allarga nei quar­tieri ope­rai e nel sociale. È in quel momento che nelle fab­bri­che si affer­mano vere e pro­prie forme di «potere ope­raio».

Mol­tis­simi pen­sano al ’68 come a un movi­mento di stu­denti pro­ve­nienti per lo più dai ceti medi. Ma il ’68 fu anche ope­raio. A Val­da­gno, a Porto Mar­ghera, alla Pirelli di Milano ci furono con­flitti duris­simi e se il ’68 ita­liano è durato oltre dieci anni è in virtù della mas­sic­cia pre­senza ope­raia. Se dovessi indi­care l’anno in cui si afferma un vero potere ope­raio nelle fab­bri­che ita­liane, forse è il 1973, l’anno dei faz­zo­letti rossi e dell’occupazione di Mirafiori.

 

Con che metodo state procedendo?

Gibo: Ave­vamo a dispo­si­zione una serie di com­pe­tenze, soprat­tutto negli audio­vi­sivi e negli archivi, e abbiamo ini­ziato a rac­co­gliere mate­riale, regi­strando i rac­conti e le testi­mo­nianze degli ope­rai che di quella sto­ria sono stati pro­ta­go­ni­sti. Abbiamo anche lavo­rato sul mate­riale già esi­stente, che non è mol­tis­simo, ma c’è. Come metodo, abbiamo scelto di pro­ce­dere non con una rico­stru­zione affi­data a pro­fes­sio­ni­sti, ma attra­verso il rac­conto diretto, dun­que rac­co­gliendo mate­riale che possa poi costi­tuire un archi­vio da met­tere a dispo­si­zione anche degli sto­rici.

Rosso: Andando avanti col lavoro, però, abbiamo con­sta­tato che nelle fab­bri­che par­la­vano mol­tis­simo anche del pre­sente, così abbiamo intrec­ciato due sto­rie: quella degli anni ’70 e quella di un pre­sente che è segnato da una gran­dis­sima dif­fi­coltà e da uno stre­nuo ten­ta­tivo di resi­stenza. Que­sti mate­riali più attuali li stiamo già met­tendo in rete, come anche alcune delle inter­vi­ste sugli anni ’70 . Si pos­sono tro­vare su you­tube: «offi­ci­ne­mul­ti­me­diali», play­list Sto­rie operaie.

 

A fronte della potenza media­tica e cul­tu­rale di chi usa il pas­sato per garan­tirsi il domi­nio sul pre­sente, è ormai forse impos­si­bile resti­tuire a quella sto­ria la sua verità. Forse sarebbe meglio, invece, met­terla da parte e affran­care il pre­sente da quell’eredità…

Gibo: Noi cre­diamo pro­prio che una vera rico­stru­zione di memo­ria sia neces­sa­ria appunto per chiu­dere defi­ni­ti­va­mente quella fase. Non solo per con­tra­stare l’uso distorto che ne fa il potere a fini di repres­sione e con­trollo, ma anche per affran­care i gio­vani dal modello di allora, da que­sta spe­cie di coa­zione a rifare il ’77. In fondo è una situa­zione simile a quella che abbiamo vis­suto noi, allora, nei con­fronti della Resi­stenza inter­rotta. Credo che pro­prio per il peso di quella vicenda noi abbiamo accom­pa­gnato ana­lisi molto nuove e pun­tuali con metodi di lotta che erano invece molto tra­di­zio­nali e «anti­chi». Alla raf­fi­na­tezza dell’analisi non ha cor­ri­spo­sto un ade­guato livello nella pra­tica. È ora di con­se­gnare la memo­ria alla sto­ria, ed è pre­ci­sa­mente ciò che con que­sto lavoro vogliamo con­tri­buire a fare. Ma chiu­dere quella fase è impos­si­bile senza prima resti­tuire la realtà di quel che è dav­vero successo.

 

Dal punto di vista stret­ta­mente sto­rico, vi sem­bra di stare sco­prendo aspetti di cui non era­vate consapevoli?

Rosso: Asso­lu­ta­mente sì. Per esem­pio, è da sem­pre noto il ruolo che ebbero in quei con­flitti gli ope­rai immi­grati dal sud, molto meno quello, invece fon­da­men­tale, delle donne. Sono pro­prio le donne il prin­ci­pale vei­colo, a metà anni ’70, dell’estensione e dell’osmosi tra il con­flitto in fab­brica e quello sul ter­ri­to­rio, per­ché sono loro a incar­nare l’esigenza di spo­stare le lotte nell’intera strut­tura del sociale. Inol­tre stiamo lavo­rando, sia con le inter­vi­ste che con i mate­riali d’archivio già esi­stenti come il Fondo Man­to­vani della Fiom a Sesto San Gio­vanni, anche sul movi­mento ope­raio tra­di­zio­nale, il sin­da­cato insomma. Abbiamo fatto una lunga e secondo me pre­ziosa inter­vi­sta a Piz­zi­nato. Bene, i risul­tati sono in un certo senso sor­pren­denti: io allora ero segre­ta­rio della sezione di Lotta con­ti­nua di Sesto e quelli erano l’oggetto della nostra con­te­sta­zione. Ma a riguar­dare le cose oggi sco­pri che invece ingag­gia­vano con­flitti duris­simi e ave­vano por­tato le lotte ope­raie a un livello straor­di­na­rio.

Inol­tre, sem­pre a pro­po­sito di Sesto, tra­di­zio­nal­mente è sem­pre stata con­si­de­rata la «città ope­raia» per eccel­lenza. Ma se poi vai a vedere, ti rendi conto che già allora i pen­do­lari erano mol­tis­simi e che l’ideale della «città ope­raia» nascon­deva la realtà delle sue tra­sfor­ma­zioni sociali. Quando poi la realtà non la si rie­sce a più nascon­dere e l’ideale della «città ope­raia» entra in crisi, l’impatto poli­tico e sociale è deva­stante. Insomma, par­tendo dalla rico­stru­zione delle lotte ope­raie fini­sci per adden­trarti anche in una sto­ria del ter­ri­to­rio, a par­tire dai fon­da­men­tali piani urbani dei primi anni ’60.

 

Dal punto di vista geo­gra­fico, quale area volete pren­dere in considerazione?

Gibo: Ovvia­mente siamo par­titi, per così dire, dai nostri «ste­reo­tipi»: Milano, Torino, la Fiat, Porto Mar­ghera, i cen­tri del con­flitto ope­raio. Però inten­diamo coprire tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale, dalla Val d’Aosta alla punta dello sti­vale! Per ora stiamo già lavo­rando anche su Cas­sino, e anche que­sta è un’esperienza molto inte­res­sante per­ché smen­ti­sce il luogo comune secondo cui tutte le lotte ope­raie di quel periodo rispon­dono a un modello comune con varianti interne. Invece sco­pri che ci sono gran­dis­sime dif­fe­renze sia nella com­po­si­zione sociale che nella rispo­sta del territorio.

 

Di quale uti­lità può essere una rico­stru­zione delle lotte di allora per i con­flitti attuali?

Rosso: Lo scopo del nostro lavoro, in fondo, è pro­prio creare un canale di comu­ni­ca­zione tra ter­ri­tori diversi e tra gene­ra­zioni diverse. Cer­ta­mente c’è una tra­smis­sione di forme di lotta che può essere utile, dal blocco delle merci all’appoggio dei ser­vizi d’ordine alle fab­bri­che che erano occu­pate dalle donne, ma io non credo che sia que­sto l’essenziale. Quel che vera­mente può pesare è edi­fi­care una rela­zione viva, empa­tica, umana, rico­no­sci­bile tra i pro­ta­go­ni­sti dei con­flitti di oggi e quella fase che in realtà tiene già den­tro tutte le esi­genze e i biso­gni anche del pre­sente.

Credo che sia impor­tante, per gli ope­rai di oggi, sapere che è stato pos­si­bile ado­pe­rare nelle lotte deter­mi­nati stru­menti con le stesse leggi di oggi, all’interno dello stesso qua­dro, non in una situa­zione com­ple­ta­mente diversa. Il tema della vio­lenza è sem­pre ideo­lo­gico, mai ogget­tivo, ed è impor­tante sapere, ricor­dare che c’è stato un momento in cui, ripeto con le stesse leggi, era con­si­de­rato legit­timo quel che oggi viene bol­lato come inac­cet­ta­bile. È altret­tanto impor­tante, ad esem­pio per gli ope­rai immi­grati, ren­dersi conto che il Paese in cui sono venuti a lavo­rare è stato fatto e costruito anche in que­sto modo, con que­sti con­flitti e con que­ste moda­lità di lotta. E quando parlo di immi­grati, non alludo solo ai migranti pro­pria­mente detti, per­ché anche i gio­vani nati qui, oggi, si tro­vano in una con­di­zione di spae­sa­mento, alle prese con un futuro ino­spi­tale, che è iden­tica a quella dei migranti. Nes­suno, oggi, si sente più a casa propria.

 

Prima Roberto allu­deva all’importanza, sin qui non abba­stanza rico­no­sciuta, del ruolo delle donne. Ne avete già inter­vi­state alcune?

Rosso: No, non è facile rin­trac­ciarle. Ma ci sono espe­rienze spe­ci­fi­che che inten­diamo recu­pe­rare, come la Magneti Marelli di Milano, dove il grosso delle mae­stranze era fem­mi­nile e que­sto influiva sulle moda­lità di lotta e sugli obiettivi.

 

Un pro­getto tanto vasto e ambi­zioso ha i suoi costi. Dove avete sinora tro­vato i fondi e come spe­rate di tro­varne altri?

Gibo: Siamo par­titi su una spinta pura­mente volon­ta­ri­stica, con mezzi per­so­nali. Per lo start up poteva bastare ma è ovvio che andando avanti si ren­dono neces­sari finan­zia­menti: biso­gna viag­giare per tutta Ita­lia, tro­vare il tempo e i mezzi per rea­liz­zare il pro­getto. Inten­diamo cer­care fondi come pro­getto euro­peo e come pro-founding e stiamo già strin­gendo una serie di rap­porti e rela­zioni: con l’Archivio sto­rico del movi­mento ope­raio (Amod) e con alcune asso­cia­zioni par­ti­co­lar­mente sen­si­bili sul tema.

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