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Da Marx al post-operaismo
Un volume a cura di Sgro’ e Viparelli
di Marco Cerotto
Il testo Da Marx al post-operaismo[1] offre una lettura teorico-politica che ripercorre circa un secolo di riflessioni filosofiche variegate tra loro, ma che esaminando gli sviluppi della società capitalistica contemporanea adoperano la metodologia marxiana come chiave di lettura del presente, estrapolando però contenuti e concetti ereditati dalle diverse tradizioni del pensiero politico moderno che l’opera di Marx ha generato. Si tratta di un lavoro svolto da «giovani leve», come scrive Giovanni Sgro’ nell’Introduzione, le quali però si orientano decisamente verso la comprensione di determinati filoni teorici che hanno tentato di plasmare la prassi politica, cioè delle organizzazioni operaie, dal momento che posero all’attenzione delle loro analisi gli sviluppi politici della stessa classe operaia.
Dall’analisi degli sviluppi filologici su L’ideologia tedesca, dalla quale però emerge un’accesa diatriba teorico-politica scatenatasi in un periodo storico particolare (quello degli anni Venti e Trenta del secolo scorso) tra gli interpreti marxisti sovietici e quelli tedeschi socialdemocratici per l’affermazione indiscussa dell’eredità marxiana, allo studio dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e all’elaborazione del concetto marxiano di «uomo bisognoso di una totalità di manifestazioni di vita umane» (p. 53), si giunge ai tedeschi Benjamin e Marcuse, influenzati dal clima di devastazione totale provocato dalla Prima guerra mondiale e dal consolidarsi dei regimi nazi-fascisti che condussero l’Europa al suo secondo suicidio. Ciò che accomuna i due pensatori tedeschi è la considerazione dello svilimento del soggetto rivoluzionario, vale a dire la discontinuità della riflessione della classe operaia nei termini delineati da Marx, come classe capace di emancipare tutta la società emancipando sé stessa.
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Anni Settanta: Operazione "Blue Moon"
di Afshin Kaveh
Folle è l'uomo che parla alla luna. Stolto chi non le presta ascolto.
William Shakespeare
Con due gocce d'eroina s'addormentava il cuore.
Fabrizio De André
Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l'ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. E' l'autoritratto del potere all'epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza.
Guy Debord
A prescindere dal nome velatamente romantico, il quale potrebbe rievocare una fuorviante prosa shakespeariana, l’Operazione Blue Moon, condividendo alla lontana la sola tragicità del drammaturgo, è stata la deliberata e massiccia diffusione dell’eroina in Italia, con sapiente gestione del mercato delle droghe soprattutto da parte del blocco dei servizi segreti occidentali con l’avvallo di molteplici organi istituzionali, in un determinato scenario storico quale era quello degli anni ’70, caratterizzato dal forte impatto di un conflitto politico e sociale scaturito da quella che, tra i paesi europei, può essere vista come la più lunga e intensa stagione del Sessantotto e delle sue ramificazioni.
Mi è già capitato di citarla, seppur fugacemente, in un precedente articolo sulla droga, allo stesso modo in cui gli ho anche dedicato il capitolo conclusivo di un libro.
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La bolla dell’overtourism si è sgonfiata, ma tornerà presto a crescere
Giuliano Battiston intervista Marco d’Eramo
Diffida degli annunci di palingenesi sociale, Marco d’Eramo, saggista e autore de Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo. L’idea che dopo la pandemia il mondo dovrà necessariamente cambiare, e in meglio, gli appare ingenua. Così anche l’idea che la pandemia possa trasformare un’economia intrinsecamente espansiva come quella turistica, riconducendola dentro parametri di sostenibilità sociale ed ecologica. La bolla dell’overtourism si è sgonfiata, ma tornerà presto a crescere. Presto torneremo a consumare il pianeta, le città globali quanto gli angoli più sperduti. Perché “anche chi si estasia per il canto degli uccellini in città sbava per andare in aereo, riprendere l’automobile e lasciare dietro di sé tracce chimiche”. E “il più grande esperimento di ingegneria sociale della storia” – quello in cui siamo immersi a causa della pandemia – “verrà presto dimenticato”.
* * * *
Un “guscio vuoto”, un “fondale di teatro” sul quale viene messo in atto lo spettacolo del turismo. È così che ne Il selfie del mondo descrive Roma, città devota al turismo che nelle ultime settimane, come molte altre, si è trasformata a causa della pandemia. Che impressione le fa vedere le quinte vuote?
L’immagine di Roma che abbiamo visto nelle scorse settimane rimane dentro l’immaginario turistico, e rimanda alla parte del mio libro sulla coscienza infelice del turista, il quale vuole sempre stare dove non ci sono altri turisti, dove non c’è lui. La sua massima ispirazione è stare dove non ci sono altri suoi simili, ma è impossibile. La Roma che si presenta ai nostri occhi è dunque doppiamente turistica, una sorta di spiaggia dei Caraibi dalla sabbia fine e immacolata, finalmente deserta, ma talmente deserta da non poter accogliere neanche gli abitanti. Riflette la stessa contraddizione del turismo in generale.
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Riprendere la nostra storia per riaprire la strada al futuro
di Norberto Natali
Riceviamo e pubblichiamo questo contributo del 2013 sulla figura di Pietro Secchia
E’ il momento di vuotare il sacco (quasi tutto).
Fra le tante ragioni ci sono quelle di risolvere alcuni stranissimi “misteri” della nostra situazione politica.
Provo ad elencarne alcuni, senza badare al loro ordine di importanza:
1. Il PCI è oggetto di una sistematica cancellazione dalla memoria collettiva, dalla storia d’Italia che non ha eguali per alcuna altra forza sociale e politica. Ciò si integra, paradossalmente, con una campagna di deformazione e denigrazione della sua storia e della sua identità che alcuni portano avanti, tuttora, quasi quotidianamente.
Ciononostante viene completamente eliminata una parte assai importante del PCI che è quella simboleggiata dalla figura e dall’opera del compagno Pietro Secchia. Una sorta di occultamento nell’occultamento (potremmo dire: una cancellazione al quadrato) veramente significativa.
Solo un mese fa, Giorgio Napolitano ha rilasciato un’intervista alla Repubblica di oltre un’ora, quasi interamente dedicata alla storia del PCI: sembra che Pietro Secchia, con tutto ciò che rappresenta e significa, non sia mai esistito.
2. Trenta-quarant’anni fa c’erano alcune forze di estrema sinistra dedite all’attacco, anche violento, contro il PCI. Nel migliore dei casi si giustificavano lamentando “l’accordo DC-PCI”. I discendenti politici di quelle forze, oggi, si coalizzano e si candidano con un partito (il PD) composto da esponenti del PCI e della DC e che è la principale componente degli attuali, maledetti, governi fondati sull’accordo PD-PDL.
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Ci vuole più Stato (sociale)
di Roberto Artoni
Per uscire dalla crisi avremo bisogno di un rafforzamento dello Stato sociale: ripristino della funzionalità del sistema previdenziale, allargamento dell’intervento nella sfera sanitaria e nell’area assistenziale, oltre a una maggiore equità, dovranno essere gli elementi chiave per una ripresa dopo la pandemia
Nella pubblicistica, non solo accademica, un tema ricorrente riguarda natura e ruolo dello stato sociale, cui si attribuiscono, o attribuivano, molte responsabilità per i problemi che affliggono le economie dei paesi avanzati, salvo poi ricredersi e chiederne il potenziamento nei momenti di crisi sociale.
Per chiarire i termini del problema, in queste note toccherò alcuni punti essenziali: articolazione dello stato sociale fra componenti private e pubbliche, dimensioni dello stato sociale in Europa, problemi specifici dell’Italia e quadro di politica economica necessario per un buon funzionamento del sistema di welfare.
Le funzioni e l’articolazione dello stato sociale
Tutte le società e tutte le epoche hanno affrontato i problemi connessi alle aree di intervento dello stato sociale (vecchiaia, invalidità, povertà e disoccupazione). Caratteristica dell’evoluzione degli ultimi 150 anni è stata l’istituzionalizzazione di queste funzioni, nel senso che un’estesa responsabilità pubblica è emersa per effetto dell’industrializzazione e del superamento della famiglia patriarcale, oltre che per il ridimensionamento del ruolo delle istituzioni ecclesiastiche. Nel secondo dopoguerra ha assunto rilievo il concetto di diritto di cittadinanza, realizzabile solo con una partecipazione consapevole di tutti i cittadini alla vita collettiva e certamente incompatibile con una situazione personale di deprivazione.
L’assunzione di una responsabilità collettiva ha tuttavia posto il problema dell’assetto più appropriato, dovendosi scegliere fra sistemi pubblici (in cui la responsività collettiva copre sia il momento del finanziamento dei servizi, sia quello dell’erogazione) o privati (anche se gli assetti privati richiedono comunque un concorso pubblico sotto forma di regolazione e di agevolazioni fiscali).
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Elementi di teoria delle crisi economiche
di Gianfranco La Grassa
1. Dovrei essenzialmente parlare della crisi del 1929. E’ ovvio che ogni avvenimento storico ha una sua singolarità specifica e va inquadrato nell’epoca del suo verificarsi. Do però per scontata la conoscenza di tutto il “contorno” storico della crisi del 1929, solitamente considerata la più grave delle crisi che comunque, in forme e con intensità diverse, coinvolgono il nostro sistema sociale detto capitalistico e ne arrestano il tendenziale sviluppo. Per larga parte del 1800, nell’epoca del capitalismo detto di concorrenza, le crisi erano fenomeni verificantisi all’incirca ogni 8-10 anni con caratteristiche molto simili fra loro. Negli ultimi decenni, in specie dopo la seconda guerra mondiale, la situazione di crisi appare meno regolare nelle sue cadenze e nelle sue forme di manifestazione, ma ciò non esclude che si cerchi sempre di cogliere le caratteristiche comuni di fenomeni diversi, comunque appartenenti alla “classe” di quegli accadimenti in grado di interrompere lo sviluppo capitalistico e di provocare anche, come appunto nel caso del 1929, netti arretramenti produttivi accompagnati da gravi sconvolgimenti dei circuiti economici e finanziari, e da sconquassi sociali di notevoli proporzioni con le loro brusche ricadute politico-istituzionali (per tutte si pensi all’ascesa del nazismo nel 1933, non certo causata dalla crisi ma senz’altro da questa favorita).
Prima di entrare direttamente nel discorso sulla crisi, con riferimento particolare a quanto accadde nel 1929 e anni successivi, voglio ricordare – poiché ciò avrà una sua utilità in seguito – la possibilità di catalogare tale fenomeno in due tipologie fondamentali. La prima trova la sua principale esemplificazione nel periodo 1873-96; si tratta di una sostanziale (lunga) stagnazione, non di un vero e proprio brusco tracollo economico-finanziario.
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La rivoluzione egiziana e la conquista dello stato
di Gianni Del Panta*
La politica che troviamo su giornali e televisioni è materia di competenza esclusiva di ministri, burocrati, capitalisti, parlamentari, giornalisti, sondaggisti e accademici. Tutti gli altri sono invece meri spettatori, costretti a subire le decisioni prese in loro nome e chiamati, in quasi tutti i sistemi vigenti, a tratteggiare una croce su una scheda elettorale ad intervalli più o meno regolari. La correttezza procedurale delle operazioni di voto rappresenta il discrimine tra democrazie borghesi e autoritarismo, mentre la passività delle masse è l’elemento sul quale si fonda un qualsiasi regime nel quale le classi proprietarie dei mezzi di produzione sfruttano a proprio vantaggio la stragrande maggioranza della popolazione.
Gli eventi occorsi in Egitto tra il 25 gennaio 2011 e il 3 luglio 2013 dimostrano però come l’estraneità delle masse dall’arena politica non rappresenti in alcun caso un elemento ineluttabile. Gli sforzi delle classi possidenti e dei loro attendenti, per quanto ingenti, non sempre infatti riescono ad ottenere l’apatia delle masse. Quando la barriera che pone i subordinati in una posizione silenziosa e passiva crolla, scosse telluriche si sviluppano lungo tutte le articolazioni di una società. D’altronde, proprio l’irrompere violento delle masse sul terreno dove si decidono le loro sorti è il fattore che segna incontestabilmente l’avvio di un qualsiasi processo rivoluzionario. Non tutte le situazioni rivoluzionarie conducono però al successo della rivoluzione. Una questione cruciale in tal senso è quella del potere statale.
Esiste oggi tra le fila della sinistra movimentista una radicata convinzione che la conquista del potere da parte dei rivoluzionari sia un aspetto quantomeno secondario. Le varianti più oltranziste di questa vulgata giungono perfino a ritenere controproducente la presa del comando.
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La crisi Europea
di Sam Fleming, Jim Brunden, Michael Peel
“Sotto la crisi cui è in preda il mondo si possono scoprire gli indizi di una logica all’opera e questo ci permette di conservare fiducia nello sviluppo futuro”
Figure dell’immanenza. Una lettura filosofica del I Ching, François Jullien
Pubblichiamo la traduzione dell’articolo: Crisi in Europa: l’audace offerta di von der Leyen per nuovi poteri, apparso nella sezione “the Big Read” del prestigioso quotidiano economico finanziario britannico “Financial Times”.
Si tratta di un articolo, scritto a “sei mani” dai tre corrispondenti del giornale a Bruxelles, che ricostruisce l’attuale dibattito nei centri decisionali dell’Unione Europea rispetto alla politica economica da adottare.
Un momento topico, quello che sta attraversando l’UE, che rischia di mettere in discussione le sue aspirazioni, o come si esprime un anonimo funzionario intervistato dai giornalisti: “una questione di sopravvivenza per il mercato interno e il progetto europeo”.
Il contributo fa emergere tra le righe lo stile di lavoro della presidente della Commissione Europea, mostrandoci quale sia il reale processo decisionale nelle “stanze dei bottoni” a Bruxelles. In un passaggio preceduto da ciò che i latini avrebbero definito captatio benevolentiae – “procurarsi la simpatia” – i giornalisti ci informano che:
“Tuttavia, questa attenzione ai dettagli è stata affiancata da ciò che alcuni critici vedono come una mancanza di coordinamento politico ai vertici della commissione e una dipendenza eccessiva da un piccolo gruppo di consulenti di fiducia – alcuni dei quali sono venuti con lei da Berlino – per condurre un gruppo amministrativo di 32.000 membri.”
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La necessaria ambizione. Osservazioni su Stato, egemonia e organizzazione
di Rolando Vitali
“…quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio.” Antonio Gramsci
“La Germania […] non potrà abbattere le proprie barriere senza abbattere le barriere generali del presente politico. Non la rivoluzione radicale è per la Germania un sogno utopistico, non la universale emancipazione umana, ma piuttosto la rivoluzione parziale, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa.” Karl Marx
Per affrontare la difficile costruzione di una prospettiva socialista e democratica davanti al disastro ambientale, sociale e politico del capitalismo contemporaneo è necessario intraprendere un serio e lungo lavoro di chiarificazione, iniziando da alcuni snodi fondamentali: in questa situazione di crisi e di confusione, la mancanza di chiarezza sui punti di partenza può infatti facilmente portare all’impotenza e alla subalternità. Ma questa fase può anche permetterci di chiarire meglio quali siano i punti necessari da cui partire.
La crisi iniziata nel 2008 e l’attuale epidemia da Covid-19 hanno reso definitivamente evidente l’inadeguatezza del concetto di “globalizzazione” proprio dalle ipotesi altermondialiste e liberali : l’ideale di uno spazio globale di integrazione tra diritti, democrazia e sviluppo economico si scontra con la realtà di un campo instabile e conflittuale, dominato dai capitali internazionali e reso geopoliticamente coeso anzitutto dall’egemonia militare statunitense[1]. In questo contesto, ogni ipotesi di piegare le vigenti istituzioni internazionali in senso democratico e solidale appare del tutto velleitaria e subalterna: queste istituzioni, infatti, dimostrano tanta capacità di indirizzo quanta è quella delle nazioni che se ne servono per portare avanti la propria agenda. Né è di più né di meno.
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Il dilemma del debito
di Michael Roberts
Molte volte, ho accennato su questo blog a come l'aumento del debito globale riduca la capacità delle economie capitalistiche ad evitare collassi e a trovare un modo rapido per poter recuperare . Come ha spiegato Marx, il credito è una componente necessaria per oliare le ruote dell'accumulazione capitalistica, rendendo possibile il finanziamento relativo a progetti più ambiziosi e più ampi, nel momento in cui solo i profitti riciclati non sono più sufficienti; e a fare circolare il capitale in maniera più efficiente per gli investimenti e la produzione. Ma il credito diventa debito, e per quanto esso aiuti ad espandere l'accumulazione di capitale, se i profitti non si materializzano in una maniera che sia sufficiente a soddisfare quel debito (vale a dire, a ripagarlo insieme agli interessi per i finanziatori) ecco che allora il debito diventa un fardello che comincia a rosicchiare i profitti e la capacità di espandersi del capitale).
Per il resto, sono due le cose che accadono: per far fronte a quelli che sono gli obblighi per il debito esistente, le imprese più deboli sono costrette a chiedere più prestiti per coprire i servizi del debito, di modo che così il debito si impenna a dismisura. Inoltre, il ritorno per quello che è il rischio sul prestito per i creditori, ora può sembrare ancora più elevato, rispetto all'investimento in capitale produttivo, soprattutto se il beneficiario è il governo, un debitore molto più sicuro. In questo modo, la speculazione sulle attività finanziarie, fatta sotto forma di obbligazioni e di altri strumenti di debito, aumenta. Ma se c'è una crisi nella produzione e negli investimenti, questa forse è in parte causata dagli eccessivi costi dei servizi di debito, ed ecco che allora la capacità delle imprese capitaliste di riprendersi, e di dare inizio ad un nuovo boom, viene indebolita dall'onere del debito.
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Capitalismo finanziario
di Salvatore Bravo
Capitalismo astratto
Il terzo libro del Capitale di Marx pubblicato da Engels nel 1894 è sostanziale per comprendere dinamica ed effetti dei processi di capitalizzazione. L’analisi di Marx svela e rivela il fondamento veritativo del capitalismo finanziario. L’accumulo si struttura in assenza del capitale materiale, il quale è solo titolo di credito. Il capitale d’interessi si moltiplica in modo geometrico autoproducendosi, nuova divinità terrena che si autocrea e si autopone dal nulla, pertanto è ontologicamente ostile alla vita ed al lavoro. Divora i debitori, le loro vite e le muta in “interessi” con cui accumulare capitali, la cui genesi non è il lavoro, ma il tasso d’interesse. I debitori hanno perso il controllo del loro debito, sono oggetto di processi finanziari. La vendita dei titoli di credito è percepita dai capitalisti della finanza solo come fonte di investimento ed accumulo. Le vite dei debitori scompaiono dietro i titoli di credito, per lasciare al loro posto solo il calcolo degli interessi. Ogni debitore è così solo un numero, una data in scadenza, un nemico da cui astrarre la linfa vitale che tiene in vita il capitalismo finanziario. L’essere umano è trasformato in fonte per l’accumulo. Al capitalista non giunge nulla della sua sofferenza e della quotidiana tragedia per sopravvivere. Il debitore, in questo gioco, è sospinto nel suo olocausto, poiché se non sta al gioco del grande capitale è sospinto ulteriormente ai margini del sociale, è il paria da cui tutti fuggono. La violenza del capitalismo finanziario agisce secondo diverse direttive: dall’alto esige il pagamento con gli interessi in date non contrattabili, ma vi è, anche, la violenza orizzontale che fortifica l’automatismo finanziario. Il debitore subisce i sospetti del suo contesto di relazionale, lo si fugge e disprezza, poiché la religione del capitale non perdona gli sconfitti.
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Necessità e urgenza di una critica politica della scienza medica
di Silvio D’Urso
Ospitiamo con interesse questo testo di Silvio D’Urso, con la collaborazione di Marco Piccininni, che sottolinea la necessità di un'indagine sulla scienza medica, evidenziando come dietro l'ideologia della presunta "oggettività" di essa, vi siano in realtà interessi di classe contrapposti. Buona lettura!
Le nuove norme inerenti la riapertura delle attività commerciali, di cui Conte ha parlato nelle sue ultime conferenze stampa, sanno di Fase 2 che precipitosamente si trasforma in Fase 3 e di un’ostinata volontà di tornare - a tutti i costi - alla vita “di prima”. Conte ci assicura che questa decisione è stata presa sulla base di un “rischio calcolato” in maniera scientifica, ma chiaramente in questo calcolo la tutela di un sistema economico iniquo e criminale, ha giocato un ruolo fondamentale. Le decisioni sulle nostre vite vengono elaborate e prese nel campo del dibattito scientifico e medico, lontane da noi e dalla nostra comprensione, sacrificando la salute sull’altare del profitto. Questo momento storico lancia una sfida precisa ai comunisti: elaborare una critica politica della scienza medica che sia rigorosa e all’altezza della fase.
Noi comunisti sappiamo bene che, se vengono chiesti dei sacrifici, questi non vengono chiesti nell’interesse di tutti, ma avendo a cuore la salvaguardia di un sistema politico ed economico ormai al collasso. Questa nostra consapevolezza, però, confligge con l’apparente univocità del discorso scientifico che viene impiegato per legittimare eventuali modi di gestione dell’emergenza. Nei proclami di questo o quell’esperto non si fa menzione di alcun interesse di classe, si parla solo di ciò che va fatto per il bene di tutti. Ebbene, se non possiamo accettare acriticamente una presunta neutralità del punto di vista scientifico, non possiamo nemmeno opporci ad esso con uno scetticismo incondizionato e settario.
L’autorità degli esperti non deriva, infatti, dalla loro personalità o da un grande carisma, né si può vedere nella scienza una pura espressione della soggettività o un semplice prodotto dell’ideologia dominante.
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La Corte costituzionale tedesca spinge l’Italia tra le braccia del Mes
di Alessandro Somma
Uso e abuso della politica monetaria europea
Le misure di politica monetaria hanno sempre effetti di politica economica: la prima è una irrinunciabile componente della seconda. Proprio per questo l’Unione europea, competente in via esclusiva a dettare la politica monetaria, è riuscita ad imporre agli Stati membri scelte concernenti la politica economica, che pure è formalmente di loro esclusiva competenza. Determina cioè effetti in linea con l’approccio neoliberale alla spesa pubblica nel momento in cui stabilisce il costo e la disponibilità del denaro per promuovere la stabilità dei prezzi, e dunque per tenere bassa l’inflazione. Impedendo così di perseguire finalità contrastanti, come in particolare la piena occupazione, anche quando questa figura tra gli obiettivi di politica economica contemplati dalle Carte fondamentali nazionali: come affermato ad esempio nella Costituzione italiana (art. 4).
Se così stanno le cose, la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Quantitative easing, quello varato dalla Banca centrale europea sotto la Presidenza Draghi, non dice certo nulla di nuovo. Afferma che la misura, formalmente adottata per favorire il raggiungimento di un tasso di inflazione funzionale a ottenere la stabilità dei prezzi, produce effetti di politica economica. E non potrebbe essere altrimenti: l’acquisto di titoli sul mercato secondario inevitabilmente «migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri perché questi possono ottenere credito nel mercato finanziario a condizioni decisamente migliori», e questo «indubbiamente sgrava» il loro bilancio e aumenta gli spazi di manovra fiscale (sentenza del 5 maggio 2020).
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Bergamo: riflessioni dal centro della tempesta perfetta
di Marco Noris*
Nel balletto delle cifre sapremo mai il reale numero dei morti causati dal Covid-19? Difficile da stabilire. Possiamo, però dare qualche dato relativo, cercare di paragonare le situazioni. L’Italia appare la nazione al mondo più colpita dal virus, la Lombardia che conta circa 1/6 della popolazione del Paese detiene il triste primato del numero dei morti: più o meno la metà di tutti i morti d’Italia. All’interno di questa regione, la provincia di Bergamo detiene il record di decessi, circa la metà di tutti i decessi regionali per Covid-19. Insomma, la Bergamasca, una provincia di circa 1.100.000 abitanti, ha pressappoco gli stessi morti della Germania che di abitanti ne ha oltre 83.000.000. Non esistono particolari predisposizioni al contagio da parte dei Bergamaschi rispetto al resto del mondo, né le caratteristiche genetiche dei Bergamaschi sono poi così diverse rispetto a quelle degli altri abitanti del Paese o dell’Europa. Quindi le spiegazioni dovranno essere ricercate altrove e forse varrebbe la pena iniziare a fare almeno alcune congetture. Questa ricerca, ovviamente, non può essere esaustiva, sarà lunga e laboriosa né si potrà ridurre alla ricerca di una sola causa: sicuramente per la Bergamasca hanno influito diversi fattori ma sarà altresì importante capire se e come questi diversi fattori siano indipendenti tra loro e la loro contemporanea concomitanza sia il frutto del fato, oppure, come vuole la probabilità, tali fattori non siano tra di loro concatenati e interdipendenti.
Per cercare di orientarsi nel dedalo delle congetture e della notizie è bene fare ordine e procedere per punti.
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Decreto Rilancio: tante tutele… per i profitti
di coniarerivolta
Non è semplice giudicare il Decreto Rilancio, soprattutto a causa della natura eccezionale delle circostanze cui è chiamato a rispondere. Eppure, è assolutamente necessario cercare di sviluppare un’analisi autonoma di questa misura, che dice moltissimo sul futuro governo della crisi.
Partiamo dal principio. Il Decreto Rilancio comporta un indebitamento netto aggiuntivo rispetto al quadro preesistente che ammonta a 55 miliardi di euro. Le dimensioni del deficit aggiuntivo – un altro modo per definire l’indebitamento netto – risultano significative, soprattutto perché i 55 miliardi vanno a sommarsi ai 20 già previsti nel Decreto Cura Italia e, naturalmente, all’indebitamento netto programmatico, che era stato stimato nella Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF) intorno ai 40 miliardi di euro per il 2020. Insomma, il disavanzo di bilancio complessivo per il 2020 è considerevole e stimato al 10,4% del PIL dai più recenti indicatori di finanza pubblica elaborati dal MEF, al netto di ipotetici nuovi interventi del Governo.
Depurando il disavanzo di bilancio dalla spesa per interessi (circa 60 miliardi, il 3,7% del PIL) – che sappiamo avere un effetto macroeconomico trascurabile – otteniamo un disavanzo primario pari al 6,8% del PIL. Siamo di fronte a uno stimolo fiscale netto di circa 110 miliardi di euro e, nonostante uno stimolo di tale portata non si verificasse da decenni, questo è ancora insufficiente vista l’enorme caduta della produzione, che l’Istat ha stimato al 29% nel mese di marzo.
C’è voluta una pandemia globale per costringere la classe dirigente di questo Paese a ricorrere a politiche fiscali espansive, possibili, peraltro, solo finché permane la ‘sospensione’ delle regole europee di Maastricht e del Fiscal Compact.
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L’ultimo uomo
di Mauro Pasquinelli
Genesi e finalità della pandemia
Non e’ scopo di questa riflessione stabilire se la pandemia sia stata artificialmente creata dai nuovi padroni del mondo, o emerga spontaneamente dal caos della devastazione criminale della natura. Sia come sia l’imputato numero uno e’ il capitalismo, vuoi nella forma neo-liberista occidentale, vuoi in quella statalista cinese. Sia come sia la Pandemia e’ la nuova tecnica “miracolosa” per far si che il servo interiorizzi i comandi del Signore.
Se anche fosse, ma nessuno puo’ dirlo con certezza, che il virus sia stato modificato in un settore del laboratorio OMS di stanza a Wuhan, controllato da Inglesi e Americani, resta il fatto che la Cina e’ reticente e quindi complice, correa nel crimine.
La complicita’ tra neoliberisti e statalisti si realizza ugualmente se ipotizziamo, che la pandemia sia una falsa pandemia, utile ad entrambi i capitalismi per perfezionare e collaudare nuovi dispositivi di disciplinamento sociale. Ma lo e’ anche se ipotizziamo, al contrario, che il virus sia realmente presente, devastante ed espressione, come affermano i piu’ attenti ecologisti, del Global Warming, della deforestazione che restringe gli spazi di molti animali portatori del virus, e che annulla il naturale distanziamento tra loro e l’uomo.
In ogni caso e detto in termini marxiani, la pandemia pone sul banco degli imputati tout court il modo di produzione capitalistico, cioe’ un modello economico e sociale predatorio ed invasivo, nemico della salute pubblica, giunto per auto-combustione alla sua fase terminale e suicidaria.
Ci sono due laboratori dove si puo’ analizzare la pandemia, quello medico e quello politico sociale. Non essendo virologo posso solo inoltrarmi nel secondo campo.
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1918 + 1929 = 2020? Senza mappa in terre economiche sconosciute
di José A. Tapia*
Una crisi economica senza precedenti è ora iniziata. Il 23 aprile è stato comunicato che nel corso delle ultime cinque settimane, oltre 26 milioni di persone avevano presentato domande di disoccupazione negli Stati Uniti. Questi 26 milioni facevano parte dei 159 milioni di americani che erano stati impiegati a febbraio, poco prima che le politiche per mitigare l'epidemia di coronavirus avessero fermato l'economia domestica. Picchi simili di disoccupazione si verificano sostanzialmente in ogni paese del mondo.
Naturalmente, ora tutti "sanno" che la causa di questa crisi economica mondiale è la pandemia di COVID-19, e sarà difficile discuterne, allo stesso modo è difficile argomentare con l'idea che l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando nel giugno 1914 fu la causa della prima guerra mondiale, o gli embargo dell'OPEC furono la causa della crisi economica globale della metà degli anni '70, o la mancanza di regolamentazione e le frodi nei mercati finanziari furono la causa della Grande Recessione. L'idea che la nostra economia sia intrinsecamente stabile e che solo eventi esterni la spingano verso l'instabilità e la crisi è il principio guida dell'economia tradizionale ed è anche molto radicata nella psiche comune dei nostri tempi. Ma i fatti forniscono una prova evidente che è il contrario: la nostra economia è intrinsecamente instabile e tende a destabilizzarsi abbastanza frequentemente, circa una volta al decennio nei tempi moderni, con o senza innescare eventi come pandemie, "shock" nei mercati petroliferi o " frode "di banche e operatori finanziari.
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«È giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza»
Roberto Ciccarelli intervista Sergio Bologna
Cinquant'anni dallo Statuto dei lavoratori, una storia del lungo Sessantotto italiano che inizia nel 1960, dura fino al 1985, e ha cambiato profondamente tutta la società. Parla lo storico del movimento operaio Sergio Bologna: «Nel 1970 quello Statuto fu una conquista democratica, anche se la prassi operaia era più avanti. A chi vuole scrivere oggi statuti dei lavori rispondo che prima bisogna cambiare prima i rapporti di forza tra capitale e forza lavoro. Dopo potremo adottare nuove leggi. Esiste già la Costituzione, basta per tutelare il lavoro. Iniziamo a parlare di conflitto e dal suo primo movimento: la resistenza»
* * * *
Il modo più proficuo per cogliere il significato dell’avanzata impetuosa della classe operaia, e la sua sconfitta, tra il 1960 e il 1985, è quello di mettersi nei panni di un giovane oggi alle prese con la precarietà. A Sergio Bologna, storico del movimento operaio e tra i fondatori della rivista Primo Maggio, potrebbe domandare dove sono finite le conquiste costate tanti sacrifici? Dove sono finiti tutti i diritti?
“Certo – risponde Sergio Bologna – parlando di quel periodo così lontano, ti viene la curiosità di sapere che percezione ha oggi un giovane lavoratore dei suoi diritti. È consapevole di avere dei diritti, sa cosa vuol dire difendere un diritto sul luogo di lavoro? Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori del maggio 1970 è stato un importante gesto di civiltà, il riconoscimento e la tutela dei diritti sindacali un passo avanti del sistema democratico. Eppure moltissimi quadri sindacali e le stesse correnti politiche a noi più vicine lo consideravano già vecchio, già superato.
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Pandèmoni, pandementi e ciò che si deve fare
di Nico Maccentelli
1. Cosa non ha funzionato?
In questi ultimi tre mesi la vita di gran parte della popolazione mondiale è stata letteralmente stravolta dall’irruzione della pandemia da Covid-19. Tra proibizioni, quarantene, forme di controllo sociale iper-tecnologiche, bastonate, a seconda del paese, questa nuova realtà è subentrata a quella precedente all’improvviso creando panico sociale. Al tempo stesso le autorità e i media hanno cercato di spacciare i provvedimenti presi come inevitabili e i migliori possibili. Ma in realtà, se solo ci soffermiamo sulle modalità con cui per esempio il nostro governo ha affrontato questa pandemia, dobbiamo renderci conto che quello che è stato fatto sui cittadini italiani è un vero e proprio TSO di massa, con controlli polizieschi ossessivi, divieti di spostamento, sanzioni ad cazzum, a seconda dei tiramenti dei tutori dell’ordine che incontravi.
Prendiamo allora il Giappone, paese con una cultura della gerarchia piuttosto spiccata. Lì le cose stanno andando diversamente: ai cittadini nipponici è stato indicato, non ordinato, di evitare assembramenti e di uscire di casa il meno possibile e con attenzione. Trattando la gente come cittadini appunto, non come dei bambini imbecilli da criminalizzare. Sulle singole situazioni la polizia è intervenuta informando e invitando a evitare comportamenti rischiosi. Questo fa uno stato civile. Ma l’Italia abbiamo visto civile non è. E si è posta come la capofila di un “sorvegliare e punire” nel mondo occidentale, il laboratorio sociale di un vero e proprio stravolgimento antropologico del tessuto delle ordinarie relazioni sociali e interpersonali.
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Economia e situazione dell’Unione Europea
di Marco Zuccaro
La crisi attuale, nata come emergenza sanitaria, avrà effetti devastanti sul piano economico e sociale, investendo la costruzione stessa della UE. Per capire cosa ci prospetta il futuro, occorre prendere in considerazione delle visioni alternative rispetto ai luoghi comuni del nostro tempo.
La MMT, spesso bollata come pseudo-scienza, è invece stata recentemente nominata nientemeno che da Mario Draghi come una nuova concezione da discutere in seno alla BCE. Perciò è possibile iniziare a ripensare alcuni concetti-guida sotto la sua prospettiva.
Per spiegare in modo semplice i principi esposti da teorie come la MMT o il Circuitismo occorre che tutti i cittadini, anche quelli che non si sono mai interessati all’economia, prendano piena consapevolezza di che cosa sia il “debito pubblico”, giacché tale argomento è stato l’assoluto protagonista della narrazione politica e giornalistica degli ultimi decenni: una vera costante, che ha finito col confondere molti.
Anzitutto va chiarito che il debito pubblico non è il debito dei cittadini, perciò ogniqualvolta ci si ritrovi a leggere che esso “pesi sulle spalle” dei cittadini (o delle generazioni future), quasi fosse un debito pro capite, si rammenti che cittadini e famiglie che acquistano titoli di debito pubblico non contraggono alcun debito privato, anzi, è vero l’opposto: divengono creditori verso lo Stato. Si potrebbe giustamente dire che al debito dello Stato corrisponda un credito di famiglie, banche, aziende, investitori e così via.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la funzione del debito; ebbene, per rispondere a questa domanda ci si dovrebbe interrogare sulla provenienza della moneta e sul funzionamento del sistema economico tutto.
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Gli Scritti etno-antropologici di Marx ed Engels
di Ferdinando Vidoni, Stefano Bracaletti
Presentazione dei curatori
Il presente volume delle Opere complete di Marx ed Engels[1] intende anzitutto fornire la traduzione completa dei cosiddetti «Quaderni di etnologia» marxiani, forse più compiutamente denominabili come «Quaderni etno-antropologici». Negli ultimi anni della sua vita, dal 1879 al 1882, Marx allargò infatti i suoi interessi anche alle nuove scienze umane dell’etnologia e di quella che oggi si usa chiamare antropologia culturale o sociale, che si andavano rapidamente sviluppando su uno sfondo evoluzionistico e che offrivano preziosi elementi di collegamento e confronto con il suo «materialismo storico». Compilò così corposi quaderni di Exzerpte o estratti con citazioni, riassunti, commenti da opere soprattutto di Lewis H. Morgan, John Phear, Henry S. Maine, John Lubbock.
L’insieme di questi materiali di studio marxiani (conservati all’Istituto Internazionale di Scienze Sociali di Amsterdam, Quaderni B 156 e B 150), redatti parte in inglese e parte in tedesco e con molte abbreviazioni, rimase sconosciuto al pubblico fino all’edizione dell’americano Lawrence Krader del 1972 (ed. Van Gorcum, Assen) e a quella, interamente in tedesco e con le abbreviazioni sciolte, del 1976 (curata dallo stesso Krader e con «traduzioni» di Angelika Schweikhart per l’editore Suhrkamp di Frankfurt a.M.). Quest’ultima edizione, più leggibile e pur sempre fedele, viene seguita essenzialmente in questa edizione italiana. Una versione spagnola condotta su quella iniziale di Krader è stata pubblicata da José Maria Ripalda per gli editori associati Siglo XXI e Pablo Iglesias di Madrid nel 1988. Delle parti relative a Morgan e a Maine è uscita anche una versione italiana a cura di Politta Foraboschi per le Edizioni Unicopli, Milano 2008.
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Il neoliberismo non è una teoria economica
Seconda parte* (Qui la prima parte)
di Luca Benedini
Le specifiche e colossali contraddizioni interne dell’austerità predicata dai vertici di Fmi e UE
Sulla mancanza di effettive giustificazioni economiche nei meccanismi di austerità antipopolare previsti da organismi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) o l’UE vi è una letteratura ormai vastissima, data la sostanziale assenza di concreti riscontri storici all’ideologia neoliberista secondo cui affidarsi al neoliberismo – rinunciando in gran parte o addirittura del tutto ai vari tipi di intervento pubblico indirizzati a ovviare ai “fallimenti del mercato” – dovrebbe provocare vantaggi economici a tutte le classi sociali e a tutti i ceti.
Se vi è stato qualche momento e luogo in cui il passaggio al neoliberismo ha apportato vantaggi economici un po’ all’intera società, è stato semplicemente perché in quel luogo l’approccio politico-economico precedentemente dominante era divenuto così corrotto, incompetente e/o burocratizzato da causare gravi danni al fluire di tutta l’economia locale. Non è stato il neoliberismo quindi ad apportare quei vantaggi, ma semplicemente l’aver ridotto il peso e la portata di quei fenomeni di corruzione, di incompetenza e/o di eccessiva e inutile burocrazia. Quei vantaggi ci sarebbero stati – e pressoché certamente in una maniera nettamente più equilibrata tra i vari ceti sociali – anche con un approccio keynesiano lucido, onesto e capace di effettiva pragmaticità (che era appunto l’approccio rivendicato dallo stesso Keynes, il quale detestava sia quei fenomeni sia altre forme di allontanamento dalla pragmaticità produttiva come l’espandersi delle speculazioni finanziarie e l’insistere in economia su dei concetti ideologici senza mettersi profondamente a confronto con la concreta vita economico-produttiva del luogo).
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Decreto Rilancio. Ecco le occasioni perse
di Nuova Direzione
55 miliardi, dicono. Poco meno del cumulo del costo degli interessi sul debito pubblico e circa la somma che si spende ogni anno per l’istruzione. Questo è l’importo totale del Decreto con il quale il governo Conte intende tamponare la caduta a picco del sistema economico italiano. Stime di Bankitalia danno il Pil italiano, 1.750 miliardi, in caduta del 5% nel primo trimestre e previsioni ottimiste lo danno al -9% entro la fine dell’anno. Si perderebbe valore aggiunto per 150 miliardi, almeno. Dentro questo arretramento la parte maggiore la dovrebbe fare la produzione industriale, della quale potremmo perderne un quarto, e l’export. In misura minore caleranno i consumi delle famiglie e l’occupazione. La dinamica dei prezzi dovrebbe essere debole sui prodotti energetici ed il prezzo dei servizi, con riduzione del reddito dei relativi lavoratori, in particolare autonomi, ma vedere una certa inflazione dei prezzi alimentari, con danno per i ceti più deboli.
In queste condizioni, come sta accadendo un poco in tutto l’occidente, la nostra società si sta violentemente divaricando su molteplici linee di frattura:
In primo luogo, tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo, sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni, espedienti, variamente visibili e variamente sommersi. I primi, i visibili, sono circa 25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero essere 6 milioni.
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Il sistema-mondo, il neoliberismo e il malsviluppo alla luce della pandemia
di Giorgio Riolo
Il Covid-19 come catalizzatore-rivelatore di come funziona il mondo. Alcune considerazioni e alcune alternative
La solidarietà è la cura. La giustizia sociale è il vaccino.
Transnational Institute
1. Alcune premesse metodologiche
Molti contributi, analisi e proposte, attorno alla pandemia e alla crisi in atto si sono prodotti nel mondo. Il pensiero nella sinistra mondiale è stato ed è ricco, fecondo di proposte. Ha delineato scenari, prospettive e alternative. La presente svolta storica avrà conseguenze di enorme portata.
La dialettica è materia scolastica, filosofica propriamente. L’attuale preoccupante passaggio storico mostra in modo perfetto cos’è questa cosa. Così ostica per l’intelletto comune, per il normale pensiero della vita quotidiana.
La deforestazione, la manomissione e la manipolazione di ecosistemi delicati e gli enormi allevamenti intensivi di animali per l’alimentazione umana (suini, polli, bovini ecc.) sono all’origine del sorgere e del mutare di virus patogeni nuovi per gli esseri umani. Come è avvenuto nel recente passato per lo Hiv, Ebola, l’influenza suina, l’influenza aviaria, la Sars e la Mers. La recente pandemia Covid-19 da Sars-CoV-2 rientra in questa fenomenologia.
Fenomeni della ecopredazione ai fini dell’accumulazione e del profitto sfociano processualmente in un fenomeno sanitario esplosivo. La pandemia non è destino cinico e baro. Era annunciata. È il risultato della logica perversa del sistema.
La sua enorme diffusione su scala mondiale, la mortalità indotta, l’enorme impatto sui vari sistemi sanitari, esistenti o non esistenti, come in molte aree del Sud del mondo, le gravi conseguenze economiche e sociali in corso, la messa in discussione degli assetti democratici e politici e della convivenza umana costituiscono un fenomeno inedito rispetto alle precedenti crisi sanitarie e alle precedenti crisi economiche.
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Appunti su “la Distruzione della Ragione”, di György Lukács
di Vox Populi
Una lettura significativa degli ultimi tempi è stata “La distruzione della ragione”, pubblicata nel 1954 e scritta da György Lukács.
In questo libro, l’autore sostiene che le filosofie irrazionalistiche sono una parte molto importante (seppur non l’unica) del fondamento ideologico delle politiche reazionarie. Nel seguente articolo proveremo a riassumere quanto osservato dall’autore, espandendo poi il discorso al fine di trarre qualche conclusione iniziale, che ci sarà estremamente utile per il futuro.
Introduzione e breve riassunto
Il libro è stato completato nel 1954, durante il primo periodo “caldo” della Guerra Fredda. In questo periodo, Lukács era un intellettuale emarginato e dissidente a causa del suo forte marxismo hegeliano, contrapposto al “piatto” ed economicistico “marxismo” staliniano. Egli, come altri intellettuali del tempo (ad esempio Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Hannah Arendt) dovette rendere conto di come fosse stata possibile la barbarie nazista. Allora la sua ricerca si orientò verso il fondamento ideologico-filosofico del nazismo: l’irrazionalità.
I pensatori affrontati sono soprattutto tedeschi per motivi storici e sociali, ma l’autore fa notare a più riprese come il movimento irrazionalistico (ad esempio quello della “filosofia della vita” di Bergson, Dilthey e James) assuma portata internazionale, riflettendo una vera e propria epoca storica che coincise con le difficoltà di accumulazione del capitale, poco prima del suo “scatenamento imperialistico” nella Prima Guerra Mondiale e successiva “ricaduta” della Seconda Guerra Mondiale.
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