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Boicottare le università israeliane è una rivendicazione legittima e importante
di Lorenzo Lodi*
Una raccolta firme lanciata da un gruppo di accademici e le mobilitazioni degli studenti nelle università hanno acceso il dibattito sul boicottaggio degli atenei israeliani. Personaggi del mondo della cultura, come Tomaso Montanari, hanno criticato la rivendicazione in nome dell’ “autonomia e dell’indipendenza dell’università”. Si tratta invece di una parola d’ordine efficace contro la macchina di morte israeliana e per fare pressione sullo Stato sionista, colpendone l’economia. La rivendicazione dà inoltre il pretesto per smascherare l’idea che le università possano essere considerate contesti neutrali e al di sopra delle parti.
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Nelle ultime settimane le azioni militari genocide del governo Netanyahu ai danni della popolazione palestinese hanno suscitato un moto di indignazione nelle università in Italia, coinvolgendo sia settori di studenti, che di docenti e ricercatori. In particolare, un gruppo di accademici dell’Università di Bologna ha redatto e fatto circolare una raccolta firme rivendicando un cessate il fuoco e la rottura dei rapporti di collaborazione tra atenei italiani e israeliani, spesso implicati nelle pratiche di colonizzazione promosse dal governo di Tel Aviv. Una rivendicazione del genere risuona con i principi della campagna di boicottaggio collegata al movimento internazionale BDS (Boycott Disinvestment Sanctions), per la fine delle politiche di apartheid israeliane. L’iniziativa ha interagito con le occupazioni e le proteste che vari collettivi universitari hanno messo in campo in alcune città, accogliendo tra le rivendicazioni la richiesta degli studiosi di Bologna.
Naturalmente, il comunicato ha suscitato le ire della componente maggioritaria dell’accademia, coinvolgendo non solo fasce apertamente sioniste, ma anche studiosi vicini alla sinistra, che hanno attaccato duramente l’idea del boicottaggio accademico.
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Salvatore Biasco e l’instabilità dell’economia mondiale nella prospettiva dei “cicli valutari”
di Daniela Palma
Abstract: Con il saggio su “I cicli valutari e l’economia internazionale” di fine anni Ottanta (1987), Salvatore Biasco avvia una importante riflessione teorica sul regime di fluttuazione dei cambi, confutando sulla base di un approccio keynesiano la validità dei modelli di determinazione del tasso di cambio ispirati ai principi di efficienza dei mercati finanziari. A partire da un quadro analitico di determinazione su base finanziaria del tasso di cambio nel quale le scelte di portafoglio degli operatori internazionali avvengono in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, l’analisi mette in luce come la finanza speculativa di breve periodo amplifichi i movimenti della fluttuazione, provocando squilibri strutturali dell’economia reale, che retroagiscono sulla dinamica del cambio e concorrono a destabilizzare il quadro macroeconomico. Su questa linea interpretativa l’analisi di Biasco approda successivamente a una lettura del disequilibrio economico che ha caratterizzato la dinamica dello sviluppo mondiale fino al culmine della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, sottolineando il ruolo del dollaro, in quanto valuta di riferimento del sistema monetario internazionale, e il contributo dell’instabilità dei mercati valutari alla crescente fragilità finanziaria che ha investito l’economia capitalistica.
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Quando nel marzo del 1973, sotto i colpi della speculazione, il sistema di Bretton Woods dei cambi fissi andò definitivamente in crisi ed ebbe inizio il regime della fluttuazione,
non si avevano [di quest’ultimo] che vaghe nozioni a priori. Per gli stessi libri di testo di economia internazionale la fluttuazione era solo un’occasione di esercizio logico […]. Si pensava che il movimento dei cambi avrebbe corretto automaticamente gli squilibri che il vecchio sistema delle parità fisse lasciava accumulare. Apparentemente i cambi si muovono per riportare l’equilibrio, ma il loro stesso movimento muta all’interno e all’esterno le condizioni dell’equilibrio. Esso viene continuamente inseguito; viene raggiunto spontaneamente solo dopo lungo tempo e dopo mutamenti spesso intollerabili” (Biasco, 1985, p. 114).
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La débâcle militare e la resa dei conti interni: cosa accadrà ora a Kiev?
di Giacomo Gabellini
All’inizio di novembre, il generale Valerij Zalužny, comandante in capo dell’esercito ucraino, ha scritto un articolo pubblicato sull’«Economist», arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica.
Dal quadro dipinto dal generale, emerge con chiarezza cristallina che la controffensiva avviata nella tarda primavera di quest’anno dalle forze armate ucraine non ha raggiunto alcuno degli obiettivi perseguiti dal governo di Kiev e dai suoi sponsor occidentali. Secondo Zalužny, il conflitto «si sta muovendo ora verso una nuova fase: quella che noi militari chiamiamo guerra “di posizione”, di combattimento statico e logoramento sulla falsariga della Prima Guerra Mondiale, in contrasto con la guerra “di manovra” di movimento e velocità».
A suo avviso, le forze in campo si sono arenate in una situazione di stallo che non lascerebbe spazio ad alcuna svolta significativa della guerra, poiché la parità tecnologica – tipica dei conflitti simmetrici che l’Occidente si è ormai disabituato ad affrontare – che caratterizza i due schieramenti impedisce alle truppe di sfondare le linee difensive del nemico. Ne consegue che, in assenza di un concreto avanzamento qualitativo ma anche quantitativo di una parte sull’altra dal punto di vista delle capacità militari e di intelligence, il conflitto è destinato a languire nella condizione in cui si trova allo stato attuale.
Per Zalužny, il superamento della guerra di posizione passa necessariamente per l’ottenimento «della superiorità aerea che consenta alle forze di terra di penetrare in profondità nei campi minati; di una maggiore efficacia del fuoco di controbatteria; di accresciute capacità in materia di guerra elettronica, oltre che dalla possibilità di formare e addestrare unità di riserva in numero adeguato», attualmente compromessa dalle diserzioni di massa che si registrano ormai da molti mesi.
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«I veri cannibali sono i capitalisti»
Giorgio Fazio intervista Nancy Fraser
«La società capitalista dipende da ciò che non era e talvolta ancora non è considerato lavoro». Da questo presupposto Nancy Fraser prova a trovare punti di congiunzione tra le diverse lotte
Con il suo ultimo libro Capitalismo cannibale (Laterza, 2023) Nancy Fraser ci ha consegnato una delle diagnosi più ampie e penetranti, oggi in circolazione, del capitalismo contemporaneo e delle sue tendenze autodistruttive. Intrecciando diverse linee di ricerca e tradizioni teoriche Fraser ha messo a disposizione un aggiornato vocabolario critico, che punta a rendere visibili i potenziali di trasformazione emancipativa che stanno emergendo nell’«interregno» in cui ci troviamo, infestato dai più disparati «fenomeni morbosi».
Questa intervista è stata rilasciata a margine della lezione pubblica che ha tenuto presso il dipartimento di filosofia dell’università La Sapienza di Roma, nell’ambito del ciclo di conferenze dedicato alle nuove frontiere della teoria critica contemporanea: «Technology, Work and Democracy».
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Il tuo ultimo libro si intitola Capitalismo Cannibale. Perché dovremmo parlare di «capitalismo cannibale» per comprendere le logiche e le dinamiche del capitalismo?
Per definizione un cannibale è colui che mangia la carne di un altro essere umano, quindi più o meno di qualcuno della sua stessa specie. Nella storia razziale è stata proprio l’Europa imperialista a utilizzare questo concetto nei confronti delle persone africane. Io dico che i veri cannibali sono i capitalisti, non riferito ai singoli individui ma all’intero sistema. In qualche modo possiamo dire che questo sistema incentiva e invita i grandi investitori, le grandi corporation e altri soggetti con forti interessi economici ad accumulare profitto mangiando, cannibalizzando, le risorse che non sono necessariamente parte dell’economia ufficiale, come il lavoro di cura, il lavoro coatto e servile, i beni pubblici.
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La battaglia della Moneta Fiscale
recensione di Stefano Lucarelli*
Sylos Labini S. (2022), La battaglia della Moneta Fiscale. L’idea, i rapporti politici, gli attacchi, le prime applicazioni, le prospettive, Firenze: Il Ponte Editore, pp. 152, ISBN: 978888861869
Stefano Sylos Labini si fa testimone di una vicenda davvero emblematica per tutti coloro che sono interessati a comprendere le relazioni istituzionali che caratterizzano la politica economica italiana. La battaglia della Moneta Fiscale, infatti, può essere letto come il resoconto della elaborazione, diffusione e realizzazione di un progetto innovativo per la politica economica nazionale – la creazione di fatto di un circuito finanziario basato su uno schema di compensazione di crediti fra imprese, banche e governo.1 La definizione più generale di moneta fiscale è: “qualunque strumento trasferibile a terzi che lo Stato s’impegna ad accettare dal portatore per l’adempimento delle proprie obbligazioni fiscali e previdenziali nella forma di riduzione degli importi dovuti all’Amministrazione Pubblica” (p. 34).
Tuttavia, la definizione più accurata è, secondo Sylos Labini, quella presente all’interno del disegno di legge d’iniziativa parlamentare A.S. 2012 “Delega al Governo per l’istituzione dei buoni digitali di sconto fiscale”, presentato il 9 novembre 2020 al Senato:
qualunque titolo al portatore che lo Stato s’impegna ad accettare anche in forma compensativa, ai fini dell’adempimento delle obbligazioni fiscali, contributive e previdenziali, nonché per i pagamenti relativi a prestazioni sanitarie […] erogati in forma gratuita e aggiuntiva, ossia non sostitutiva rispetto ai redditi percepiti in euro, al fine di consentire l’espansione del potere d’acquisto e stimolare la domanda interna del sistema economico e finanziario nazionale. […] dopo due anni dalla loro emissione, i buoni digitali di sconto fiscale possono essere utilizzati sia dalle persone fisiche che dalle imprese per ottenere una corrispondente riduzione di obbligazioni finanziarie verso le amministrazioni pubbliche senza che lo Stato sia tenuto a rimborsarli in euro alla scadenza essendo non payable tax assets ovvero attività fiscali non pagabili (p. 116 e ss.).2
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La cesoia corazzata
di Salvatore Bravo
Il conflitto tra sionismo e palestinesi è giunto a un punto di svolta, la sproporzione tra l’attacco di Hamas e la reazione di Israele rivela la verità di una guerra dai contorni genocidiari. Se si pongono in successione gli eventi del conflitto negli ultimi decenni, la deriva sanguinaria in cui siamo, è solo l’effetto di un meccanismo di violenza ed esclusione in atto da non poco tempo. Gli scritti di Giancarlo Paciello con i loro dati e con la loro documentazione ricostruiscono la verità storica del presente ricostruendo la storia del conflitto. La Nakba (esodo) ovvero l’esodo palestinese è stato per Giancarlo Paciello un evento storico divenuto parte della sua biografia, egli non ha solo svolto un lavoro di ricerca, ma ha vissuto profondamente il dolore di un popolo costretto all’esodo e alla diaspora. Nei suoi scritti ha utilizzato il termine “sionismo”, poiché non accusa il popolo israeliano ma solo i sionisti.
Le violazioni dei diritti umani da parte di “Israele” denunciate dall’ONU mostrano, altresì, l’impotenza degli organismi internazionali di fatto sotto il controllo delle gerarchie delle potenze economiche, in primis, gli Stati Uniti. I diritti umani sono solo un mezzo nella strategia dell’imposizione del nuovo ordine mondiale che affonda nel caos di guerre e sconfitte. La logica dell’esclusione fisica dei palestinesi trova un punto di svolta nella costruzione nel 2002 del Muro che separa la comunità palestinese da quella israeliana. Ogni anno si festeggia la caduta del muro di Berlino, e si inneggia alla libertà ritrovata, ovvero il neoliberismo, dei paesi dell’ex blocco comunista, ma il silenzio cala sui nuovi muri che tagliano i popoli e preparano con la discriminazione spaziale la successiva eliminazione fisica. Il Muro costruito da “Israele” per proteggersi da eventuali attacchi suicidi non è un confine.
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Il vento dell’odio e l’Europa, che fare?
di Antonio Cantaro
Una interruzione sine die della politica e del diritto. Le parole usate come proiettili. E i proiettili come parole. Hamas Netanyahu, Netanyahu Hamas. Guerra d’odio alla massima potenza. L’ideologia unionista non è un antidoto. È necessaria un'Europa autonoma, neutrale, mediterranea
In tempi di opposti e manichei fondamentalismi ci sforziamo, sin dal numero zero del nostro web magazine, di tornare ai fondamentali. Primo. La maggior parte delle guerre in corso tra Stati, tra popoli, dentro i popoli, sono sempre più guerre d’odio. Secondo. La guerra israelo-palestinese, ancor più di quella russo-ucraina, è guerra d’odio alla massima potenza. Terzo. Nessuna comunità è immune dal cadere nel baratro delle guerre d’odio, compresa l’Europa che pure nel secondo dopoguerra era risorta sotto l’egida del “mai più la guerra tra noi”. Quattro. L’ideologia europea (‘unionista’) è lungi dall’essere un antidoto alle odierne guerre d’odio. Quinto. Non sarà oggi, ma è quantomai urgente lavorare da subito a un’altra Europa che, insieme ad altri attori della politica internazionale, contribuisca alla ricostruzione di un ordine mondiale di giustizia e pace: un’Europa autonoma, neutrale, mediterranea.
Il confine dell’odio
Tanti storceranno il naso. Come si fa a negare – si obietterà – di fronte a quel che accaduto il 7 ottobre che, da una parte, c’è il male e, dall’altra, c’è il bene? Come si fa a negare che è stato l’odio palestinese ad aver oltrepassato il confine tra Gaza e Israele per colpire le più innocenti delle vittime? Da una parte, ha scritto Domenico Quirico, centinaia di giovanissimi ragazzi in festa, musica, balli riuniti per un festival e, dall’altra, giovani con coltelli e kalashnikov, il “kit per il paradiso”, il massacro e il martirio (La Stampa,12 ottobre: Israele-Gaza, il confine dell’odio). Qui c’è solo una verità, diversamente da quanto sosteneva nel 1938 David Ben-Gurion, uno dei fondatori dello Stato di Israele: «Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità.
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Palestina, cuore del mondo
di Nicola Casale
La Tempesta di Al Aqsa ha provocato molti turbamenti sia in quel che resta della sinistra anti-capitalista sia in molti militanti che avevano conservato sulla pandemia una lucidità di classe. Una vera e propria Sindrome di Hamas, come la definisce questo articolo https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/26619-raffaele-tuzio-la-sindrome-di-hamas.html che ne descrive brillantemente sintomi ed effetti. C’è effettivamente da interrogarsi su come mai soggetti che hanno rifiutato di dare credito a ciascuno dei dettagli politico-mediatici-scientifici agitati per gestione pandemica, vaccini, ecc. abbiano preso per buoni tutti i dettagli informativi tesi a dimostrare che l’azione della resistenza palestinese non fosse altro che un terroristico massacro di civili (ulteriore prova di come il problema non sia dell’informazione in sé, ma di come si crede in ciò in cui si ha bisogno di credere, in ragione della propria condizione materiale, di coscienza, ecc. che non è solo la condizione di classe, ma anche l’ambito generale sociale, economico, politico in cui si vive: tanto per dire, anche i giovani palestinesi che vivono da noi si alimentano della nostra stessa informazione, dei social, ecc., eppure ne traggono conclusioni diametralmente opposte e vanno in pazza a rivendicare con veemenza free Palestine… pur non essendo militanti di Hamas e senza necessità di prenderne le distanze).
Come ben detto nell’articolo, se anche si fosse trattato solo di un atto terroristico non avrebbe, in nulla, cambiato l’ordine dei problemi, ossia quelli di un popolo costretto a reagire, spesso con atti disperati (che solo tali solo per l’enorme asimmetria di armamenti), a una lunga, sistematica, brutale oppressione che non conosce limiti di alcuna natura. Ma non di questo si è trattato, bensì di una vera e propria operazione militare, fatta con i mezzi poverissimi che è possibile reperire nel quadro spaventoso di controllo militare e di intelligence esercitato da Israele, e messa in atto da tutti i gruppi di resistenza tranne Al Fatah.
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Preve a dieci anni dalla morte
Luci e ombre di un'eredità
di Carlo Formenti
Il decennale della morte è uno stimolo per ragionare sul lascito di Costanzo Preve in merito all’attualità di Marx e del suo pensiero. In questo articolo mi occupo di tre testi, La Scuola di Francoforte, Adorno e lo spirito del Sessantotto (Opere, vol. III ; Shibboleth, Roma 2023), La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo (Franco Angeli, Milano 1984, prossimamente ripubblicato da Shibboleth) e “Demos e Libertà” un articolo apparso sulla rivista “Eretica”. Ho strutturato l’articolo in cinque paragrafi dedicati, rispettivamente, al rapporto fra Preve e Lukács, alla critica del postmodernismo, alla critica della sinistra, al presunto idealismo di Marx, ai limiti del pensiero sociologico e politico di Preve.
Preve e Lukács
Preve è uno dei pochi filosofi italiani che abbia colto la portata del contributo dell’ultimo Lukács, raccolto nei quattro volumi della Ontologia dell’essere sociale (1). Negli anni Ottanta e Novanta - allorché la cultura neoliberale celebrava il funerale del comunismo - i marxisti ortodossi, ridotti a un manipolo di nostalgici, associavano il filosofo ungherese quasi esclusivamente a Storia e coscienza di classe (2), opera giovanile parzialmente ripudiata dall'autore (3), al contrario di Preve, il quale aveva capito il potenziale dirompente dell’Ontologia, un’opera monumentale che faceva giustizia dei dogmi del “materialismo storico e dialettico” senza accodarsi al liquidazionismo eurocomunista, mentre cercava di ridefinire e attualizzare le linee fondamentali del pensiero marxiano, sfrondandole dagli equivoci associati a certi “regimi narrativi” - così li definiva Preve (4) – presenti in alcune opere dello stesso Marx.
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Due guerre
di Enrico Tomaselli
Quella che si combatte in Ucraina, e quella che si sta combattendo in Palestina, non sono semplicemente due guerre che oppongono l’occidente collettivo al mondo multipolare, ma sono in effetti osservabili come due battaglie di una medesima, grande guerra globale, nella quale la declinante egemonia statunitense si confronta con le potenze emergenti. Un conflitto destinato a durare ancora anni, e che sarà segnato da nuove ‘battaglie’, in differenti quadranti dello scacchiere mondiale.
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Forse per la prima volta dal 1945, il cosiddetto occidente collettivo si trova a dover affrontare due guerre significative nello stesso momento. Si tratta di una situazione già di per sé eccezionale, ma lo è ancor più in quanto il mondo occidentale sta attraversando una fase a dir poco complicata, e in cui sicuramente la sua potenza (non solo militare) viene apertamente messa in discussione e sfidata, da parte di più attori sulla scena internazionale. E per quanto, soprattutto negli ambienti anglo-americani, una lunga dimestichezza con la geopolitica e le strategie globali dovrebbe aiutare a leggere correttamente la fase, ciò sembra invece non accadere. O quanto meno, non del tutto.
Dal punto di vista dell’occidente, infatti, sembra che – semplicemente – una guerra rimuova l’altra. Archiviata di fatto quella in Ucraina, data sostanzialmente per persa e comunque ormai fonte più di imbarazzo e fastidio, Stati Uniti e NATO sembrano essersi gettati sulla (rinnovata) guerra israelo-palestinese, con lo stesso entusiasmo dei primi mesi in Ucraina.
Anche se per il momento a sostenere economicamente Israele sono soltanto gli USA, mentre i paesi europei si limitano a un supporto politico totale e incondizionato [1], è evidente che l’onda lunga di questa guerra finirà per investire ancora una volta proprio questi ultimi.
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Il marxismo-keynesismo di Giovanni Mazzetti: una proposta per uscire dalla crisi
di Lorenzo Palaia
L’ esegesi e la sintesi tra il pensiero di Marx e quello di Keynes, per mano del già professore di economia presso l’università della Calabria Giovanni Mazzetti, non costituiscono un’oziosa operazione speculativa ma vogliono rispondere ai problemi concreti con cui la nostra società si trova a confrontarsi quotidianamente, cruccio di tanti intellettuali: perché questa disoccupazione e stagnazione strutturali continuano senza soluzioni, nonostante i tanti tentativi di mettervi mano? Perché le nostre società dei paesi sviluppati sono in una crisi che, nonostante i tentativi di dissimulazione, non è affatto contingente e sembra non presentare sbocchi? L’immagine eloquente in quarta di copertina del libro di Mazzetti, Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica, pubblicato dal sempre attento e interessante editore triestino Asterios (con cui l’autore ha pubblicato diversi altri libri), raffigura un robot alla catena di montaggio che licenzia il lavoratore umano e ne prende il posto. Si tratta del problema epocale con cui economisti e sociologi si trovano a dover fare i conti, dai quali l’autore prende ad esempio alcuni argomenti tipici – tra gli altri le tesi di Riccardo Staglianò, Domenico De Masi e Yuval Noah Harari – per confutarne le diverse impostazioni finora adottate. Sintetizzando, potremmo dire che l’atteggiamento più errato è quello di chi non concepisce affatto il problema perché non ne vede la novità: per costoro, l’innovazione tecnologica si trova oggi a produrre ciò che ha fatto sempre, distruzione di posti di lavoro e creazione di nuovi; così il capitalismo si auto-riprodurrebbe sempre ponendo esso stesso le condizioni per uscire dalle crisi in cui si caccia, che sono dunque in ogni caso crisi congiunturali.
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L’Unione europea verso l’irrilevanza economica?
di Vincenzo Comito
L’UE dovrebbe indirizzare la propria azione al mondo multilaterale. Prevale la tendenza a rinchiudersi nel campo atlantista, come mostrano le vicende russo-ucraina e israelo-palestinese, usate per far prosperare l’industria delle armi.
Nel testo che segue cerchiamo di analizzare con qualche dettaglio la situazione e le prospettive economiche dei paesi facenti attualmente parte dell’Unione Europea, concentrandoci comunque soltanto su alcuni aspetti della questione. Il quadro appare, almeno a chi scrive, allarmante e senza grandi prospettive.
La competizione mondiale sulle tecnologie avanzate
Un’analisi svolta dall’Australian Strategic Policy Institute (Hurst, 2023), con il sostegno del Dipartimento di Stato statunitense, ha analizzato di recente la posizione competitiva dei vari paesi del mondo nel campo delle tecnologie avanzate. In 37 dei 44 settori analizzati nella ricerca la Cina è il paese guida, superando anche gli Usa, che mantengono il primato soltanto in 7 settori. Nessuno degli altri paesi, compresi quelli europei, ha una posizione di leadership in qualcuno di essi. Il paese asiatico tende a posizionarsi, secondo lo studio, come la superpotenza scientifica e tecnologica principale del mondo. La Cina genera da sola all’incirca il 50% del totale mondiale degli articoli scientifici ad alto impatto. Può darsi che lo studio, per alcuni aspetti, sovrastimi la dominazione cinese, ma in ogni caso esso fotografa una situazione corretta nelle grandi linee, in particolare in relazione al ruolo dei paesi europei.
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L’espulsione dei Palestinesi esaminata di nuovo
di Dominique Vidal*
Una ricostruzione storica fatta da Dominique Vidal circa 25 anni, ma tutt’ora utilissima per illuminare quello che l'”Occidente liberista” e Israele vorrebbero tenere sotto il tappeto (tutto quello che è avvenuto prima del “fatale” 7 ottobre).
Una riflessione anche breve sull’obiettivo strategico di Israele, fin dalla fondazione, porta all’unica conclusione possibile: “ripulire” della presenza palestinese i territori che a loro interessano, senza alcun limite predeterminato. Non a caso, tra le “unicità” di Israele c’è l’assenza di confini ufficiali…
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Cinquant’anni fa, l’ONU decise di partizionare la Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. La successiva guerra arabo-israeliana si concluse con Israele che espandeva la sua parte di territorio di un terzo, mentre ciò che rimaneva agli arabi fu occupato da Egitto e Giordania.
Diverse migliaia di palestinesi fuggirono dalle loro case, diventando i rifugiati al centro del conflitto.
Israele ha sempre negato che siano stati espulsi, né forzatamente né per politica. I “nuovi storici” di Israele hanno riesaminato tale negazione e hanno messo fine a una serie di miti.
Solo pochi riconoscevano che la storia del padre, di ritorno, redenzione e liberazione, era anche una storia di conquista, spostamento, oppressione e morte. Yaron Ezrachi, Rubber Bullets
Tra il piano di partizione per la Palestina adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947 e la tregua del 1949 che pose fine alla guerra arabo-israeliana, iniziata con l’invasione del 15 maggio 1948, diverse centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono le loro case nel territorio che alla fine fu occupato da Israele (1).
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La decrescita è contro gli interessi dei lavoratori?
di Don Fitz
I detrattori affermano che i lavoratori non sosterranno mai la decrescita, ma non capiscono né i lavoratori, né la decrescita
Il 2023 ha visto l’estate più calda mai registrata nell’emisfero settentrionale, mentre nell’emisfero meridionale si è vissuto l’inverno più caldo mai registrato; a tutto questo seguirà un autunno con terrificanti tempeste e inondazioni in tutto il mondo. Il numero di persone che attribuiscono la catastrofe climatica alla crescita economica è in aumento.
Ma non tutti concordano sul fatto che il problema sia la crescita [economica]. Alcuni rispondono che la crescita è destinata a permanere mentre il concetto di "decrescita" è un assurdo nonsense.
Molte delle accuse contro la decrescita hanno trovato delle risposte. Tra il libri, quello di Jason Hickel Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta (2021) è forse il più noto e leggibile. E un'eccellente raccolta di articoli (Planned Degrowth: Ecosocialism and Sustainable Human Development) è disponibile nell'edizione di luglio/agosto 2023 di Monthly Review.
La “decrescita” è contro i lavoratori?
Un'accusa sembra ancora priva di una risposta adeguata: «La classe operaia statunitense è intrinsecamente contraria alla decrescita perché comporterebbe una massiccia perdita di posti di lavoro». Questo fa pensare che i sostenitori della decrescita non abbiano mai sentito parlare di una settimana lavorativa più corta. Perché questa sarebbe la prima conseguenza della decrescita. Per molti lavoratori statunitensi, avere una settimana lavorativa di 40 ore sarebbe un gradito sollievo.
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La resistenza a Gaza smaschera l'imperialismo USA
di Sara Flounders*
La morsa degli Stati Uniti sta cedendo. La sua egemonia globale e la sua capacità di proporsi come l’unico decisore globale vengono messe in discussione da un popolo disperato e rivoluzionario tenuto totalmente prigioniero.
L’audacia della resistenza palestinese coordinata, iniziata con un’operazione a sorpresa il 7 ottobre, non è stata solo uno shock per la macchina militare sionista e la sua vantata rete di intelligence, ma sta anche inviando onde d’urto nell’impero statunitense.
Sia Israele che i governanti statunitensi si affidano ora alla forza bruta. Ma la forza bruta non può ribaltare questo colpo politico. Altre armi fornite dagli Stati Uniti per la distruzione di massa non fanno altro che chiarire il ruolo degli Stati Uniti – e susciteranno l’ulteriormente odio di milioni di persone nel Sud globale. La resistenza palestinese coordinata è una minaccia mortale per Israele e per il suo principale finanziatore.
Molti commentatori concordano sul fatto che il mito dell'”invincibilità” israeliana non si riprenderà mai da questo colpo. Il mondo intero ha visto, ancora e ancora, i video dell’audace volo coordinato su strati di recinzioni elettrificate, filo spinato e telecamere di sorveglianza da parte di piccoli deltaplani motorizzati, seguiti da droni leggeri. La protezione offerta dall’Iron Dome israeliano è stata infranta da raffiche di missili a spalla che hanno colpito i centri di comando israeliani fino a Tel Aviv.
Sebbene l’attacco sia stato una sorpresa, non è stato certamente non provocato. È stato un atto di disperazione da parte della popolazione di un campo di concentramento che ha sofferto 16 anni di isolamento totale e 75 anni di sfollamento completo. L’intera popolazione palestinese è stata condannata al carcere a vita.
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Un mese di conflitto: nessuna exit strategy dall’inferno di Gaza
di Roberto Iannuzzi
Tutti gli scenari post-bellici nella Striscia appaiono problematici, mentre il prolungarsi della campagna militare mantiene alto il rischio di escalation
A poco più di un mese dallo scoppio della guerra, l’inferno di Gaza non sembra avere vie d’uscita. Sicuramente non per i residenti di questa prigione a cielo aperto, sottoposta a uno dei più violenti bombardamenti della storia contemporanea. Ma apparentemente nemmeno per coloro (Israele, USA) che dovrebbero disegnare i futuri assetti dell’area.
I raid dell’aviazione di Tel Aviv sono in corso dal 7 ottobre, dopo che 1.200 - 1.400 israeliani erano rimasti uccisi nell’attacco terroristico senza precedenti condotto da Hamas quel giorno. Israele ha sganciato oltre 25.000 tonnellate di bombe su un’esigua lingua di terra, lunga 41 km e larga da 6 a 12 km.
In questo spazio ristretto – una delle aree più densamente popolate al mondo – vivono circa 2 milioni e 300 mila palestinesi (circa metà dei quali hanno meno di 18 anni), impossibilitati ad uscirne a causa di un blocco terrestre, aereo e navale in atto dal 2007.
I bombardamenti hanno provocato finora circa 11.000 morti fra i residenti della Striscia, in gran parte civili – per il 70% anziani, donne e bambini. Le stime sono fornite dal ministero della sanità di Gaza, controllato da Hamas ma ritenuto affidabile da organismi internazionali come l’ONU e da osservatori come Human Rights Watch.
E’ anzi probabile che il bilancio delle vittime sia molto più elevato, a causa dei numerosi cadaveri tuttora non estratti dalle macerie.
Secondo l’ONU, coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case, e sono ormai sfollati all’interno della Striscia, ammontano a 1,5 milioni. Sulla base di immagini satellitari, si stima che circa un terzo degli edifici nella parte settentrionale della Striscia siano danneggiati o distrutti.
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L’intellettuale combinatorio: Italo Calvino, l’impegno politico e la militanza culturale a cento anni dalla nascita (1923-2023)
di Alessandro Barile
Introduzione
Viviamo anni di ricorrenze. Forse non potrebbe essere altrimenti: le vicende politiche, culturali e anche letterarie del primo Novecento ancora ci investono e ci interrogano. E così, a partire dallo scoppio della Prima guerra mondiale, è tutto un rincorrersi di ricordi e celebrazioni. Se ci fermassimo alla sola vicenda letteraria del nostro paese, nel solo 2022 si sono ricordati i cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi, Beppe Fenoglio, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Luigi Meneghello, Pier Paolo Pasolini... E nel 2023, va ricordato almeno il nome di Rocco Scotellaro. Autori su cui di fatto il dibattito critico e le iniziative editoriali si sono già compiutamente assestate molti anni or sono: alla fisiologica vastità della letteratura prodotta in occasione del centenario non ha corrisposto un valore significativo, di svolta o di ulteriore affermazione. Chi non era noto al grande pubblico tale è rimasto, mentre i “campioni” letterari (Pasolini su tutti) non hanno di certo avuto bisogno della ricorrenza tonda per sancire la propria popolarità. E poi c’è Italo Calvino, di cui si è celebrato il centenario della nascita proprio nel 2023.
Di tutte le ricorrenze, quella di (e su) Calvino è la più difficile da maneggiare. È l’autore italiano tra i più noti all’estero, e su cui tanto – forse troppo – si è scritto sin dalla metà degli anni Cinquanta. La bibliografia che lo riguarda è smisurata, contando diverse decine di migliaia di testi, monografie, articoli. Per di più, è un autore che ha trovato immediato riscontro positivo sia nella critica letteraria che nella ricezione pubblica di massa, stabilendo una felice quanto problematica relazione tra cultura pop e accademica. È d’altronde lui stesso a riconoscerlo, precocemente, nel 1956:
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W la guerra
di Michele Castaldo
Non me ne vogliano i pacifisti, ma dopo aver letto l’editoriale, annunciato da una “civetta” in prima pagina, di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera di lunedì 6 novembre, e avendo deciso di scrivere un commento, non sono riuscito a trovare un titolo diverso che ne sintetizzasse al meglio il contenuto.
Il lettore si chiederà: perché questa “ostinazione” di una critica politica alla stampa dell’establishment?Perché nel cosiddetto mondo dei militanti della sinistra si preferisce mirarsi nelle proprie idee contrapponendo modelli ideali al modo di produzione invece di analizzare i fatti e come sono utilizzati da parte di chi si prefigge di consolidare le leggi che regolano gli attuali rapporti sociali incentrati sulla legge del valore e dell’accumulazione capitalistica, ritenuta fulcro dell’Occidente. [Nota 1]
Veniamo così al dottor Ernesto Galli della Loggia e del suo ultimo scritto « La storia figlia delle guerre (che si vuole dimenticare) ».
Innanzitutto c’è un primo svarione fin dal titolo, perché la storia non è figlia delle « guerre », perché queste sono espressione di effetti causali determinati dallo spirito di concorrenza generato a sua volta da necessità. Dunque volendo ricostruire certe “ragioni” storiche – come il nostro editorialista intende fare – dovrebbe risalire alle cause originarie non dei due ultimi conflitti mondiali, ma riandare un “poco” più indietro nel tempo dello « scambio » e intrattenersi sul periodo tanto caro ai nostri rinascimentalisti occidentali, ovvero a quella decantata impresa della « Scoperta dell’America » che permise il grande balzo agli europei.
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Sulla "punizione collettiva" sofferta dai palestinesi
di Alessandro Bartoloni
Sul fronte palestinese si levano numerose le voci di condanna per i morti patiti dalla popolazione civile. La “punizione collettiva” inflitta dal governo israeliano agli abitanti della Striscia di Gaza sarebbe una violazione dei diritti umani.“Un conto sono gli attacchi diretti contro Hamas, un conto la rappresaglia sui civili inermi…”, si dice.
Come analizzato in un altro contributo, solamente chi crede nelle guerre “umanitarie” può stupirsi per quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza.
In questo articolo proverò a spiegare perché tale modo di fare è, dal punto di vista della classe dominante israeliana, paradossalmente legittimo, legale e razionale. Occorre ricordare in tal senso come perfino i nazisti abbiano argomentato a Norimberga, di aver seguito la legalità e una ben precisa “razionalità” tecnico-economica, il che serve a ricordarci la necessità di un punto terzo di osservazione, capace di considerare l’abisso che può separare la legalità borghese e imperialista dalla giustizia sociale internazionalista.
I. La legittimità del male
La concezione che legittima gli attacchi contro formazioni militari e condanna quelli contro i civili presuppone una separazione netta tra l’organizzazione politica che comanda nella striscia di Gaza dal 2007 e i disgraziati che da questa organizzazione sono governati. Un presupposto irrealistico, che è stato più volte messo alla berlina sia dal governo sionista sia dagli analisti più attenti, i quali riconoscono il forte radicamento e consenso di cui godono gli estremisti islamici responsabili della controffensiva del 7 ottobre.
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Antisionismo, antiebraismo, antisemitismo
di Dante Barontini
Scriviamo spesso che essere a favore della libertà della Palestina, del diritto del popolo palestinese a vivere sulla terra in cui vive da sempre, non ha nulla a che vedere con l’”antisemitismo”. Una di quelle parole-stigma che chiudono ogni discussione e lasciano, perciò, la parola alle mazzate oppure al lasciar perdere.
Per fortuna non mancano ebrei capaci di spiegare meglio di noi – per internità a quell’universo culturale – che le cose stanno in tutt’altro modo. E che la religione, anche in quel mondo, viene usata strumentalmente dai “sionisti” per giustificare una politica di colonizzazione e apartheid.
Sono “sionisti” coloro che hanno voluto e costruito uno Stato confessionale – Israele è per legge, oggi, uno “stato ebraico”, che per noi atei non è diverso da uno “stato islamico” o uno “cristiano” – ben poco parente delle “democrazie liberali”.
Sono “ebrei” quelli che condividono quella religione, tradizione, cultura, che ha dato grandi menti all’umanità, in tutti i campi (Marx ed Einstein su tutti).
Sono “semiti” coloro che invece appartengono ad un ceppo linguistico che “che in origine occupava la regione compresa fra i monti Tauro e Antitauro a nord, l’altopiano iranico a est, l’Oceano Indiano a sud, il Mar Rosso e il Mediterraneo a ovest”. E dunque parlano “siriaco, aramaico, arabo, ebraico e fenicio”. Cinque lingue, non una sola. Cinque etnie, almeno, non una sola.
Si può insomma essere ebreo ma non sionista, semita ma non ebreo (i palestinesi lo sono, e gli arabi anche), e così via. Così come si può essere arabi ma non islamici; e soprattutto “terroristi” sia da islamici che da ebrei o anglosassoni.
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Il SI Cobas sciopera venerdì 17 novembre a sostegno del popolo palestinese, per fermare il genocidio a Gaza
Intervista al compagno Aldo Milani*
L’Esecutivo nazionale del SI Cobas ha preso ieri sera una decisione della massima importanza: organizzare uno sciopero venerdì 17 novembre in solidarietà con la lotta del popolo palestinese, per contribuire a fermare immediatamente il massacro che l’esercito israeliano sta portando avanti a Gaza con l’appoggio totale degli Stati Uniti e dei paesi dell’UE, tra cui in prima fila l’Italia di Meloni e Mattarella. Ne chiediamo la ragione al compagno Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas.
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Aldo Milani – Questa nostra decisione non cade dal cielo. Da sempre il SI Cobas sente di avere obblighi di solidarietà nei confronti dei proletari di tutti i paesi del mondo. Il nostro sindacato è composto da lavoratori e lavoratrici di più di 35 diverse nazionalità. Molti di loro provengono dai paesi arabi e di tradizione islamica. Perciò posso affermare che il SI Cobas ha l’internazionalismo proletario nel suo dna.
Da più di un anno, poi, siamo impegnati, con i compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) ed altri, in una serie di iniziative contro la guerra in Ucraina che ci hanno portato il 21 ottobre ad un grosso corteo davanti alla base militare italiana di Ghedi, dove sono depositate decine di bombe atomiche della Nato. In quella manifestazione abbiamo denunciato l’azione genocida dello stato di Israele, che data da decenni ma ha raggiunto in questi giorni una violenza sanguinaria spaventosa contro la popolazione di Gaza. Abbiamo fatto comunicati, indetto assemblee, partecipato a tante manifestazioni, ma – vista l’estrema urgenza di fermare questa mattanza – è venuto il momento di far fare un salto di qualità alla nostra azione. Lo sciopero è l’arma di lotta più efficace a nostra disposizione. E abbiamo deciso di usarla venerdì 17 in tutti i magazzini della logistica, nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro in cui siamo presenti.
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L’urlo di rabbia
di Luca Busca
Un “urlo” questo che prolunga l’urlo di dolore, un post pubblicato su Facebook circa un mese fa in cui piangevo la scomparsa della mia amata compagna di vita. Un grido di sofferenza che esprimeva l’impotenza nei confronti dell’ingiustizia di veder morire chi è ancora troppo giovane per andarsene. Un dolore che stravolge con forza l’intera sfera privata soprattutto in virtù della condivisione di una figlia di appena tredici anni. Il poco tempo passato è del tutto insufficiente a placare il dolore, ma è stato abbastanza per indurmi ad urlare di nuovo al fine di manifestare, però, una diversa emozione, l’ira. Una rabbia profonda che valica i confini del privato per irrompere nella sfera sociale, luogo dove il senso di impotenza assume caratteristiche diverse, ma altrettanto devastanti. Nel piano personale l’incapacità di affrontare l’impari lotta metafisica con la morte è comune all’intero genere umano. Anche chi si appella a vite ultraterrene o a reincarnazioni cicliche finisce per soffrire la perdita dei propri cari, né più né meno degli atei come me. Sul piano pubblico, però, per chi non crede in alcuna forma postuma di giustizia divina, perdere la battaglia contro l’iniquità sociale non è sopportabile, e per questo genera collera, ira, indignazione.
Per comprendere bene l’entità e le ragioni di questa rabbia è necessario ripercorre il percorso della malattia di mia moglie. La prima diagnosi di tumore alla mammella arrivò a fine settembre del 2011. Il percorso fu quello classico dell’epoca: chemioterapia neo-adiuvante, intervento chirurgico (aprile 2012) e lunga radioterapia postoperatoria. Sono seguiti anni di terapia ormonale, molto pesanti in virtù della giovane età (34 anni). Proprio in considerazione di questa l’equipe medica preferì effettuare un intervento conservativo.
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La democrazia del reddito universale | Prefazione
di Andrea Fumagalli
Pubblichiamo un estratto della prefazione di Andrea Fumagalli alla nuova edizione di “La democrazia del reddito universale”, Manifestolibri, 2023 – a cura di Andrea Fumagalli e Cristina Morini. Questa nuova edizione del primo testo organico sul tema del reddito di base in Italia, ora diventato un classico del pensiero politico, avviene in un momento particolare, che segna il ritormo di politiche oscurantistiche nei confronti della necessità di rinnovare in senso estensivo il modello di welfare.
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A più di 25 anni di distanza, la tematica del reddito è diventata centrale. Quando questo libro uscì, erano veramente pochi coloro che, da sinistra, propugnavano l’introduzione di un reddito di base. Oggi il panorama è decisamente diverso, anche se più complesso e caotico. Il confronto nazionale ed internazionale sul basic income ha conosciuto un vibrante sviluppo ed al tempo stesso uno straordinario arricchimento. Il ragionamento collettivo sul tema ha trovato ulteriori connotazioni negli anni nei quali sono divenute egemoni condizioni e modalità produttive che caratterizzano il capitalismo contemporaneo: condizioni che hanno travalicato le classiche dicotomie tipiche del paradigma taylorista-fordista, in particolare quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro e tra produzione e riproduzione. Il Basic income è diventato, in questo modo, il fulcro attorno al quale diveniva possibile ridisegnare il nuovo statuto delle garanzie non solo del lavoro, ma della vita.
Nei primi anni del Duemila, prende corpo quello che possiamo definire, sino a ora, l’appuntamento più importante e numericamente significativo, che i movimenti del precariato metropolitano abbiano mai realizzato, non solo in Italia, ma in tutta Europa.
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Il biolaboratorio mondo
di Costantino Ragusa
“L’ingegneria genetica è una tecnologia tanto radicale quanto quella nucleare, non solo perché entrambe affrontano gli elementi costitutivi “estremi”della materia e della vita, disintegrando ciò che era ritenuto fino ad allora “insecabile”(l’atomo o la cellula), ma anche perché nell’uno e nell’altro caso non si tratta più di vere e proprie prove, dato che non c’è più l’insularità del campo di sperimentazione, e che il laboratorio diviene suscettibile di avere la stessa estensione del globo”.
Enciclopédie des nuisances
Recentemente in Italia, seppur ancora in contesti molto marginali, si è iniziato a discutere dei pericoli legati alle ricerche di ingegneria genetica e più in generale alle ricerche con agenti biologici, soprattutto dopo le recenti mobilitazioni a Pesaro contro l’apertura di un Istituto Zooprofilattico con classificazione di pericolosità biologica di livello 3.
Per forza di cose per comprendere quello che sta effettivamente avvenendo bisogna fare un passo indietro, anche abbastanza lungo, ma fondamentale per non sbagliare pensando che sia stato il clima di emergenza degli ultimi anni ad aver portato questi nuovi Biolaboratori, quando al contrario sono invece sempre i laboratori a creare le emergenze.
Intanto, per cominciare, le ricerche condotte in questi nuovi Biolaboratori non rappresentano certo una novità, sia per l’Italia, ma ancora di più per tanti altri paesi per il mondo.
Sono decenni che, segretamente, poi ufficialmente e poi di nuovo segretamente, vengono effettuate ricerche ed esperimenti senza sosta in questa direzione, ogni paese con le proprie caratteristiche e i propri diritti umani e animali da tenere in considerazione.
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Le testimonianze del 7 ottobre: l’esercito israeliano “bombarda” i suoi cittadini
di Max Blumenthal*
L’esercito israeliano ha ricevuto l’ordine di bombardare le case israeliane e perfino le proprie basi dopo essere state sopraffatte dai militanti di Hamas il 7 ottobre. Quanti cittadini israeliani che si dice siano stati “bruciati vivi” sono stati in realtà uccisi dal fuoco amico?
Numerose nuove testimonianze di testimoni israeliani dell’attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele si aggiungono alle prove crescenti che l’esercito israeliano ha ucciso i propri cittadini mentre combattevano per neutralizzare gli uomini armati palestinesi.
Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del Kibbutz Be’eri, ha istituito una hot line per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano. Ha detto al quotidiano israeliano Haaretz che quando la disperazione ha cominciato a prendere il sopravvento, “i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili – incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”.
Un rapporto separato pubblicato su Haaretz ha osservato che l’esercito israeliano è stato “costretto a richiedere un attacco aereo” contro la propria struttura all’interno del valico di Erez verso Gaza “al fine di respingere i terroristi” che ne avevano preso il controllo.
All’epoca quella base era piena di ufficiali e soldati dell’amministrazione civile israeliana. Questi rapporti indicano che dall’alto comando militare sono arrivati ordini di attaccare case e altre aree all’interno di Israele, anche a costo di molte vite israeliane.
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