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Tra impossibile riformismo e necessaria mediazione
Militant
Il vero dato duraturo che ci lascia la crisi economica in cui siamo immersi – nonostante gli zerovirgola strombazzati da un’informazione embedded – è la natura irriformabile dell’attuale modello produttivo, e più in generale del capitalismo. Tale irriformabilità ha mandato in tilt il rapporto tra sinistra politica e questione sociale, che si basava proprio sulla possibilità redistributiva. In sintesi, il capitalismo “riformabile” garantiva una contrattazione economica costante delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La garanzia, in questo caso, non si deve intendere come volontaria concessione di miglioramenti dati da una crescita economica diffusa, ma la possibilità di arrivare a quei miglioramenti attraverso lotte di classe. Oggi qualsiasi lotta di classe, stante l’attuale modello produttivo, la concorrenza internazionale, la cornice sovranazionale, l’assenza di politica, può al massimo resistere all’attacco padronale (resistere in questa o quella vertenza, mai generalmente, oltretutto), ma non attivare un’inversione di tendenza. Non è possibile giungere ad alcun miglioramento economico insomma, e questo fatto ha interrotto il rapporto naturale tra questione sociale e sinistra, fondata sulla convergenza di interessi per cui le lotte sociali rinforzavano quelle politiche e viceversa. Se la sinistra non garantisce più la possibilità di un miglioramento economico, la base sociale di riferimento (il mondo del lavoro dipendente salariato) cessa di essere allora naturalmente legata ad essa, scegliendosi di volta in volta la sponda politica che faciliti forme di resistenza all’impoverimento costante.
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La filosofia del fantasma in Marx
di Luca Cangianti
L’opera più famosa, diffusa e tradotta di Marx, il Manifesto del partito comunista, si apre con l’apparizione di uno spettro, quello del comunismo “che si aggira per l’Europa”. Tuttavia anche i suoi scritti più teorici sono pieni di vampiri, lupi mannari, creature frankensteiniane e altre suggestioni gotiche. Ciò non deve stupire, visto che il filosofo adorava Shakespeare ed era un lettore accanito di letteratura fantahorror. Meno risaputo è che queste figure, lungi dall’essere un mero dispositivo retorico, svolgono una specifica funzione epistemologica (cfr. Carmilla del 28.6.2014 e del 29.7.2014).
Nel Manifesto Marx illustra il processo di rimozione psicosociale del comunismo e della crisi economica del capitalismo attraverso la metafora del fantasma. In questo caso egli s’inspira a Shakespeare che spesso fa comparire lo spettro quale indizio di un crimine occultato – ad esempio con l’apparizione del fantasma di Banquo nel Macbeth o di quello del re ucciso nell’Amleto. Il riemergere del crimine rimosso è accompagnato inoltre dall’annuncio di una crisi imminente: “penso che tutto questo presagisca una qualche inusitata catastrofe nel nostro stato”, dice Orazio a Marcello nell’Amleto.
Gli ectoplasmi agitano le loro catene anche nel Capitale. Marx afferma che i feticismi e le apparenze fallaci descritte nella VII sezione del III libro sono una mistificazione del modo di produzione capitalistico, un “mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose” (Editori Riuniti, 1981, 943).
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L’occupante ferino
Intervista a Karl Heinz Roth
Karl H. Roth, riguardo a Alexis Tsipras la cancelliera Merkel ha di recente spiegato di voler mantenere la Grecia nell’Euro. Il Premier di SYRIZA ha risposto: «Noi abbiamo fatto la nostra parte. Faccia lei la sua». Cosa dovrebbe fare Berlino?
Il Governo Federale Tedesco dovrebbe approvare una moratoria e un taglio dei debiti. Questo è il punto di partenza decisivo, per giungere a una soluzione della crisi greca.
Attualmente non si discute né dell’uno né dell’altro. Bensì di una lista di riforme. Ciò è adeguato alla sfida?
No, poiché i problemi sono giganteschi. La Grecia è in rovina. Circa il 15% del capitale (Kapitalsubstanz) è andato distrutto. I diktat della Troika e i tagli sociali intrapresi finora hanno ridotto il rendimento economico di quasi il 30%. Sia riguardo la domanda interna, gli investimenti e il settore sanitario: vediamo dati totalmente catastrofici. Se non vengono mossi dei passi radicali, non solo la Grecia, bensì – ne sono convinto – anche l’Europa si troverà in una situazione molto pericolosa.
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La politica è uno specialismo. Però…
Aldo Giannuli
So di toccare un tema delicato che fa scattare molte suscettibilità, ma, tanto vale, dirla subito con franchezza: chi sogna una politica senza intermediazioni, praticabile immediatamente da tutti, è completamente fuori strada, perché la politica è inevitabilmente uno specialismo, come l’economia, la medicina, l’architettura o la matematica. Mi dispiace ma è così.
Questo non significa che ci si debba mettere, ad occhi chiusi, nelle mani dei politici di professione o degli “esperti”, perché politici e tecnici sono tutt’altro che gente disinteressata di cui ci si possa fidare. E, peraltro, ognuno ha diritto di intervenire su decisioni che incidono sulla sua vita e sulla vita dei suoi figli. Il problema è come fare. Procediamo con ordine.
In primo luogo: perché la politica è uno specialismo ed in che senso lo è?
La politica non è fatta di pochi atti, come ad esempio fare sette leggi all’anno o decidere una volta per tutto come si spende il denaro dello Stato e come si alimentano le casse dello Stato. E’ fatta di decine di decisioni ogni giorno. Per limitarci alla sfera nazionale (senza tener conto degli enti locali) in un anno, il Parlamento approva mediamente 200 leggi, ma accanto ad esse ci sono le disposizioni ministeriali che ne guidano l’applicazione (regolamenti, circolari ecc.), inoltre ci sono gli atti di politica estera, le commissioni di inchiesta e di indagine, gli atti di controllo ecc.
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La recinzione dei diritti e il proletariato 2.0
di Lelio Demichelis
Ultime e penultime cronache dal mondo del lavoro. Primo fatto, i lavoratori volontari (o i volontari del lavoro?) per Expo 2015, lì dove si sperimenta – con il lavoro gratuito (quasi) di ultima generazione – l’ultima negazione della Costituzione (art. 36) e insieme la cancellazione del lavoro come diritto (ancora Costituzione, artt. 1, 2, 3, 4, 31, 32, 35, 37 e 41), oltre a violare la legge stessa sul volontariato (che deve essere gratuito, ma spontaneo). Secondo fatto, un’agenzia di lavoro interinale con sede in Romania ha offerto alle imprese la possibilità di assumere lavoratori italiani ma con contratti di lavoro rumeni, con risparmi del 40% sui costi del lavoro. Ovvero: se non è possibile de-localizzare in Romania (non è più di moda) si vorrebbe rumenizzare il mercato del lavoro italiano. Con un’aggravante: il titolare dell’agenzia ha dichiarato a la Repubblica: “Quella possibilità era del 2014. Orapurtroppo le cose sono cambiate. Da gennaio è entrata in vigore, in Romania una legge che aumenta il costo del lavoro. Così ai nostri clienti lo sconto del 40% non riusciremo più a garantirlo”. Alla fine è dovuto intervenire il ministero del lavoro italiano per ricordare l’illegittimità della proposta, senza tuttavia cancellarne l’oscenità.
Due casi tra i molti citabili e ormai quotidiani; passi ulteriori lungo il piano inclinato su cui è stato messo a forza un mercato del lavoro sempre più dominato dalla flessibilità e della competizione tra lavoratori.
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La percezione inversa
Margin call's count down
di Quarantotto
1. Proviamo a capire "l'implicito" (cioè quello che conta, essendo "l'esplicito" di un governatore di BC, generalmente, una tautologia) di questa ennesima dichiarazione di Draghi:
Draghi (a Washington, al FMI): Qe in piedi fino a quando serve.
Che poi sarebbe a dire:
"Il quantitative easing della Bce resterà in piedi per tutto il tempo necessario, è presto per dichiarare vittoria. Lo ha detto il presidente della Bce, Mario Draghi, durante un intervento al Fondo monetario internazionale a Washington".
Quindi la domanda è: per tutto il tempo necessario...a chi?
I mercati azionari europei (naturalmente eccettuata la Grecia...perchè sarebbe fuori dal QE) sono in forte rialzo e certamente c'era da aspettarselo.
2. C'è chi dice che il rally azionario dell'eurozona "non è una bolla"; si tratterebbe di aspettative giustificate dalla prospettiva di un rialzo dei profitti - dovuto naturalmente al traino delle esportazioni da "svalutazione"- per le euro-equities. Queste sarebbero ancora convenienti (rispetto ai titoli scambiati a Wall Street), registrando un rapporto prezzo/utili ancora dimezzato rispetto alle azioni scambiate a Wall Street; così il Sole 24 ore, riportando l'opinione di Goldman&Sachs!
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Claudio Napoleoni e il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy
di Riccardo Bellofiore*
1.Introduzione
Lo scritto che viene pubblicato di seguito[vedi qui] (Napoleoni, 2015) è la trascrizione di una lezione del 12 marzo 1973 tenuta da Claudio Napoleoni nel corso di Politica economica e finanziaria1. Oggetto della lezione è il commento del libro di Paul Baran e Paul Sweezy, Il capitale monopolistico, da poco pubblicato negli Stati Uniti (1966) e subito tradotto in italiano da Einaudi (1968)2.
L’interpretazione fornita da Napoleoni ha più di un motivo di originalità e potrà risultare per molti versi sorprendente. L’economista italiano era impegnato allora in un’originale ripresa critica di Marx che faceva asse proprio sui suoi aspetti più controversi, la teoria del valore-lavoro e la teoria della crisi, temi su cui il contributo di Sweezy era stato fondamentale. Ciò non di meno egli si distacca dalla usuale critica marxista al libro di Baran e Sweezy, secondo cui i due autori si sarebbero collocati fuori e contro la teoria del valore-lavoro3.
Sorprendente era peraltro la stessa struttura del corso di Politica economica e finanziaria in cui quella lezione fu pronunciata. I corsi del 1971-1972 e del 1972-1973 avevano come titolo “La realizzazione del plusvalore e la politica economica nelle economie capitalistiche moderne”. In quel che segue faremo soprattutto riferimento alla lezione del 12 maggio 1973 che si può leggere alle pagine 41-51 di questo fascicolo. Un corso dove l’esposizione della macroeconomia neoclassica e keynesiana (lungo linee non molto distanti da una avvertita sintesi neoclassica, come la si leggeva nella prima edizione del bel manuale di Gardner Ackley (1971) adottato da Napoleoni, e come peraltro si poteva già ricavare dalle voci del Dizionario di economia politica che aveva curato4, come da qualsiasi altro scritto dell’economista abruzzese sul tema) veniva proseguita dalla discussione approfondita del dibattito sulla teoria della crisi nel marxismo (da Marx a Lenin, da Tugan Baranowskij a Rosa Luxemburg). Si adottavano inoltre come letture chiave testi così distanti nel marxismo come il Capitale monopolistico di Baran e Sweezy e il Marx e Keynes di Paul Mattick (1972).
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Sloterdijk, Macho, Byung-Chul Han
Antonio Lucci
La filosofia è morta, viva le scienze della cultura!
Un rapido sguardo ai nomi delle cattedre, ai programmi delle lezioni, alle monografie pubblicate dai docenti afferenti ai dipartimenti di filosofia delle università tedesche è sufficiente a rendere evidente quello che ai più potrà sembrare a prima vista un dato stupefacente: la filosofia intesa come teoria e produzione di teoria sulla realtà, e analisi critica della stessa, in Germania, nei dipartimenti di filosofia, è scomparsa.
Resta al suo posto la storia della filosofia (una filosofia trattata come bene museale, come un oggetto in sé conchiuso, immutato e immutabile, e per questo oggettivamente analizzabile), dunque – nel migliore dei casi – l’analisi storica di un oggetto concettuale cristallizzato in uno spazio e tempo altri, del tutto separati dal presente e dalla sua interpretazione. Accanto ad essa la filosofia analitica, di matrice anglo-sassone. Ma della filosofia come interpretazione critica dell’esistente, analisi e produzione di immagini del mondo, non resta praticamente (fatte salve le dovute, rare ma presenti, eccezioni) traccia.
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Per chi spara il bazooka
di Agenor
L’avvio del programma di acquisto di attività finanziarie e titoli di stato a media e lunga scadenza da parte della BCE, comunemente etichettato come “quantitative easing”, ha rinfrancato chi pensava che il tassello mancante per la sostenibilità dell’unione monetaria fosse la politica della banca centrale. In molti hanno voluto vedere in questa misura la risposta europea all’espansione monetaria della Fed in America, della Bank of England in Gran Bretagna, o della Banca del Giappone, che ha aiutato questi paesi a uscire prima e meglio dalla crisi, soprattutto perché eseguita in combinazione con politiche fiscali espansive. Gli effetti benefici del cosiddetto “bazooka” di Draghi dovrebbero quindi far sparire come per magia i problemi che hanno portato la zona euro sull’orlo del collasso. L’obiettivo principale è quello di abbassare i tassi sui titoli di stato a lungo termine e generare in tal modo una spinta inflattiva. Il conseguente deprezzamento dell’euro rispetto alle altre monete dovrebbe poi anche far ripartire l’export, proprio come ai tempi della lira. Tutto perfetto, quindi. O no?
Purtroppo, quest’analisi pur comunemente diffusa trascura alcuni fattori decisivi. Primo, la tempistica. La BCE è arrivata a questa decisione con circa sei anni di ritardo rispetto al resto del mondo, quando l’intera zona euro è ancora al disotto del livello di reddito di sette anni fa, quando alcuni paesi membri – e al loro interno le fasce più deboli – sono stati letteralmente devastati, quando l’obiettivo del suo mandato, cioè un tasso d’inflazione sotto ma vicino al 2%, è stato clamorosamente, sciaguratamente, e prolungatamente mancato e la spirale deflazionistica è ormai cosa fatta.
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Marx contro Dracula
di Marco Zerbino
In “Sangue e plusvalore”, romanzo fantahorror di Luca Cangianti, un Karl Marx sull'orlo della depressione fa la conoscenza del giovane Daniel Pieper, che diventerà il suo assistente personale. Insieme, i due si mettono sulle tracce di un industriale-vampiro, Emil Constantin, addentrandosi in un'avventura che sarà anche un'esplorazione dell'arcano della produzione capitalistica...
“Caro Frederick, il gran freddo che è sopravvenuto qui e l'assoluta mancanza di carbone nel nostro alloggio mi costringono – sebbene questa sia per me tra tutte le cose del mondo la più penosa – a chiederti di nuovo del denaro. Mi ci sono deciso soltanto in seguito alla forte pressione esterna. Preferirei stare cento tese sottoterra piuttosto che seguitare a vegetare così. Tornare sempre importuno agli altri e per di più personalmente esser tormentato di continuo dalle più meschine miserie, alla lunga è cosa insopportabile”.
A scrivere queste amare righe indirizzate all'amico Engels è un Karl Marx in preda alla depressione e allo sconforto. Siamo nel gennaio del 1858 e il filosofo, esiliato a Londra da quasi un decennio in seguito al fallimento della rivoluzione tedesca del 1848, assediato da creditori che poche settimane prima aveva descritto in un'altra lettera come “lupi famelici”, assillato dall'indigenza e da vari problemi di salute, attraversa nei primi mesi di quell'anno un periodo particolarmente duro sul piano personale, tanto da mostrare i segni di una rassegnazione che suona un po' come un disarmante contraltare simbolico all'iconografia “diamat” del quadruplice profilo trionfante.
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Prassi, prassi produttive e crisi
Gramsci, Wittgenstein e Sraffa
di Guido Seddone
1. Premessa
Lo stabilirsi di una procedura sociale dominante viene considerato spesso in ambito filosofico con sospetto per via del rischio di polarizzazione o accentramento di potere politico e finanziario da parte di forze o classi sociali spesso minoritarie. La fase successiva allo stabilirsi di una procedura sociale è la sua giustificazione che in ambito marxista è solitamente definita come Ideologia. Tale ideologia ha una base filosofica in quanto coinvolge e presuppone una coerente unità del pensiero e una concezione del reale che si differenzia dal senso comune per il fatto di non essere frammentata ed occasionale. Inoltre, l’elemento ideologico si concretizza sia attraverso teorie economiche e politiche sia attraverso un assetto istituzionale e legale che rende possibile la conservazione e stabilizzazione delle attività produttive e dei conseguenti equilibri sociali.
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Alla catena sotto una triplice cappa
di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto
Pubblichiamo l’introduzione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto al volume da loro curato Morire per un Iphone. La Apple, la Foxconn e la lotta degli operai cinesi, che comprende contributi di Pun Ngai, Jenny Chan e Mark Selden. Il libro è uscito in questi giorni per I tipi di Jaca Book. Una lunga anteprima dell’introduzione è stata pubblicata su «il Manifesto» del 12 maggio 2015 con il titolo L’atelier infernale degli smartphone.
Se il computer potesse parlar di sé
Il computer e le sue applicazioni sono tra le prime macchine che potrebbero parlare ai loro fruitori in viva voce e in modo discreto. Potrebbero raccontare di sé, a cominciare da chi li produce. in altri termini, si tratta di macchine potenzialmente in grado di dialogare con i loro consumatori a proposito non solo delle varie fasi di lavorazione ma anche delle vite che in quelle fasi si sono consumate. Tuttavia chi è interessato a conoscere in quali condizioni è stato fabbricato il computer o il telefono che ha tra le mani si trova di fatto davanti a una cortina fumogena, quella che avvolge l’elettronica, uno dei settori industriali più segreti, insieme con quelli delle armi e del petrolio.
In genere, i fruitori dei prodotti elettronici si tengono tanto lontani dal mondo dei rapporti sociali della produzione elettronica quanto ne vengono tenuti lontani dalle imprese. Indubbiamente, il software attira qualche attenzione in più dell’hardware, poiché la storia del software è punteggiata da sorprendenti invenzioni. Per contro, l’elaborazione dei modelli di hardware appare pedestre, anche se si è dimostrata decisiva per le fortune di alcuni grandi marchi dell’elettronica, a cominciare dalla Apple. Nel software è lunga la galleria delle innovazioni presentate come colpi di genio di singoli individui. La galleria sarebbe più corta se si tenesse conto dei gruppi di ricerca non orientati al profitto, i cui risultati sono stati spesso fatti propri da predatori corporate1.
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Lavoro, reddito, genere
Che dibattito sia...
Marco Palazzotto
Reddito minimo, reddito incondizionato, reddito di dignità? Attraverso questo intervento di Marco Palazzotto – che esamina criticamente le proposte di legge attualmente in ballo - PalermoGrad entra nel dibattito in corso oggi in Italia, con l’ambizione di precisarne ulteriormente i termini e di allargarlo a tutte le realtà di movimento, sindacali, politiche etc. etc. disposte a confrontarsi. L’obiettivo politico che ci interessa è impedire che la montagna inaccessibile del Reddito Universale Incondizionato finisca col partorire il ratto di una riforma “alla tedesca”, con un mercato del lavoro spezzato in due tronconi; e, visto che siamo in Italia, col rischio tangibilissimo che il troncone “buono” cominci a gravitare verso il basso, “tanto c’è il reddito minimo”. Pensiamo che, accanto alla doverosa erogazione di un reddito sociale per i disoccupati, la crisi occupazionale vada affrontata nell’ottica del “Lavorare Meno, Lavorare Tutti”. Una logica solidale che peraltro può reggersi soltanto sulle gambe della creazione di nuovo lavoro, attraverso l’imprescindibile intervento del “pubblico”.
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Elezioni britanniche: qual è la lezione?
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
Sulla base dei sondaggi pre-elettorali, molti avevano previsto un collasso del bipartitismo britannico. Ma i Conservatori sono riusciti all'ultimo a conquistare la maggioranza assoluta in parlamento, anche se si tratta di una maggioranza risicata. Questo risultato non smentisce quelli che parlano di una crisi del sistema politico britannico. Anzi. Le elezioni confermano che le dinamiche democratiche nel Regno Unito, come accade un po’ ovunque in Europa, stanno andando incontro a profonde e rapide trasformazioni, che potrebbero addirittura essere accelerate dalla vittoria dei Conservatori e, soprattutto, dalla catastrofica sconfitta dei Laburisti.
In parte, i Conservatori hanno vinto perché, con l'aiuto cruciale dell'impero mediatico di Murdoch, sono riusciti a spaventare e quindi a mobilitare il loro elettorato tradizionale. Nonostante molti di questi elettori abbiano dubbi sui tagli ai servizi pubblici portati avanti da Cameron e colleghi nell'ultima legislatura, il voto ai Conservatori l'hanno dato comunque, così da evitare la "minaccia" di un governo laburista. A dispetto del suo timido riformismo, Miliband, il leader Labour che si è ora dimesso, è stato dipinto durante la campagna elettorale come un pericoloso sovversivo, ed è passata l'idea che una probabile coalizione tra Labour e partito indipendentista scozzese (SNP) avrebbe potuto avere conseguenze disastrose, anche sul piano economico, per le classe media inglese. Le politiche di austerità degli ultimi cinque anni sono state inoltre falsamente presentate come la causa della ripresa economica (che rimane debole), mentre molti autorevoli analisti sostengono da tempo che l’austerità ha rallentato e soffocato la ripresa.
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Macedonia, prove di golpe
di Michele Paris
La crisi politica che sta attraversando la Macedonia dall’inizio dell’anno ha fatto segnare una drammatica accelerazione in questi ultimi giorni con un violento scontro armato in una delle più importanti città del paese balcanico. Parallelamente, il panorama politico domestico continua a essere turbato dagli attacchi dell’opposizione al governo conservatore del primo ministro, Nikola Gruevsky, scosso martedì dalle dimissioni di due importanti ministri.
A partire dal mese di febbraio, il leader dell’Unione Socialdemocratica (SDSM), Zoran Zaev, ha inziato a rendere pubbliche una serie di intercettazioni di conversazioni di esponenti del governo che dimostrerebbero varie illegalità commesse dagli uomini al potere, da brogli elettorali alla manipolazione del sistema giudiziario.
Zaev continua inoltre ad accusare il premier di avere attuato una svolta autoritaria, con piani, tra l’altro, per mettere sotto controllo la stampa e sorvegliare le comunicazioni di decine di migliaia di persone.
In particolare, una delle intercettazioni diffuse dal leader socialdemocratico aveva scatenato settimana scorsa una manifestazione di protesta nella capitale, Skopje. I dimostranti si erano mobilitati per contestare il governo dopo che erano emerse le manovre delle autorità per insabbiare le indagini sulla morte nel 2011 di un 22enne dopo le percosse subite da un agente di polizia.
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Migrazione e lavoro
di Carla Filosa
Molte considerazioni politiche, e più o meno emotive, sono state già effettuate a favore o contro l’esodo di masse disgraziate verso i paesi “ricchi” dell’Europa. Il numero dei morti scandalizza più delle cause e delle sofferenze di queste morti, e nella conta – spesso impossibile – dei cadaveri, si evidenziano le paure, con reazioni difensive del “diritto” al privilegio del vivere “civile” o, all’opposto, le forme della solidarietà dell’accoglienza umana. Gli orrori della devastazione della vita, da cui questi sopravvissuti fuggono, hanno cancellato nelle loro menti perfino la difesa del diritto estremo all’esistenza, quello per cui si ha diritto ad ogni azione che ripristini l’universalità lesa del vivere individuale. A tanti di loro basta arrivare su un’altra sponda di terra, la morte o lo scempio dei loro affetti più cari è l’unico inseparabile bagaglio della loro interiorità minata per sempre. I più forti gridano alta la richiesta di aiuto. Se molti, ancora umani, rispondono a soccorrere, il potere al contrario osserva, dilaziona, si mostra compassionevole in qualche parata esteriore, organizza qualche aiuto ma poi opta per monitoraggi di polizia, interna in reclusioni forzate, ecc., da cui è fortunato chi riesce a fuggire ancora, dileguandosi nell’annullamento di un’identità “clandestina”. Di qui il rischio al rimpatrio, cioè alla morte per fame, guerre, malattie, mutilazioni, stupri, ecc., normalizzati nel superiore esercizio della “nostra” legge civile.
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Stato di minorità
di Daniele Giglioli
[In questi giorni è uscito Stato di minorità di Daniele Giglioli (Laterza, collana Solaris). Ne pubblichiamo un estratto]
Non c’era in origine un disegno unitario. Ma via via che negli anni scorsi andavo scrivendo tre saggi dedicati all’immaginario del terrore, del trauma e della vittima, mi sono accorto che la domanda attorno a cui ruotavano era sempre la stessa: quali sintomi si manifestano in una società in cui l’agire politico è sentito come qualcosa di impossibile, non perché proibito ma perché ineffettuale, senza esito, svuotato di ogni concretezza? Da quali storie, da quali simboli, da quali discorsi quella società si fa rappresentare? Nelle pagine che seguono provo a tirare le fila affrontando direttamente il problema. Non propongo diagnosi né ricette, e nemmeno mi interessa trasformare l’analisi in una sentenza. Non porto argomenti per decretare che oggi l’agire sia impossibile, e se li avessi non li direi e non scriverei; così non è, in ogni caso. Mi limiterò a mostrare cosa accade quando viene avvertito come tale. Non per questo però la descrizione sarà neutra. L’obbiettivo di questo saggio non è tanto la constatazione quanto l’elaborazione di un lutto. Elaborare un lutto comporta attraversarlo e superarlo. Compito della critica non è solo dire la verità, ma contribuire a trasformarla.
In trappola
Tre gabbie, tre topi. La scena che segue è molto triste. Alle povere bestie vengono somministrate scosse elettriche; non mortali, ma comunque dolorose. Il primo topo ha la possibilità di uscire dalla gabbia. Il secondo non può, ma gli è stato affiancato un altro topo su cui sfogare aggressività e frustrazione. Al terzo entrambe le opportunità – fuga e conflitto – sono precluse.
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Benjamin sul confine tra lavoro e amore
Fabrizio Denunzio
Il testo di Maurice de Gandillac [pubblicato in calce a questa nota] costituisce il primo confronto della filosofia francese con l’autore dei «Passages». Emergono temi che lo collocano nel solco della riflessione contemporanea sulla società del rischio
La ricezione francese dell’opera di Walter Benjamin si lega alla prima traduzione che ne fece Maurice de Gondillac nel 1959 per conto dell’editore Juillard. Come quella italiana – l’epocale Angelus Novus del 1962 curata da Renato Solmi – anche l’edizione di de Gandillac si basava su una scelta dei saggi benjaminiani più importanti che Theodor W. Adorno aveva raccolto e pubblicato con Suhrkamp di Francoforte nei due volumi che portavano come titolo lapidario Schriften. Molto più dell’Italia, la Francia era quasi naturalmente predisposta ad accogliere un’operazione editoriale di questo tipo, non solo perché Parigi era stata luogo di asilo, sebbene non troppo ospitale, di Benjamin, non solo perché questi ne aveva amato e promosso la letteratura, ma anche perché, pensando soprattutto alle tormentate vicende editoriali dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ne aveva frequentato alcuni dei protagonisti: Raymond Aron, il grande sociologo direttore della sede parigina dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, sulla cui rivista vide la luce la prima versione del saggio; Pierre Klossowski, non solo traduttore di quest’ultimo, ma anche membro di quel Collegio di Sociologia di cui facevano parte Georges Bataille e Roger Caillois, ad alcune delle cui riunioni Benjamin era stato ammesso.
Il breve saggio che presentiamo alle lettrici e ai lettori de «il manifesto», qui tradotto per la prima volta in italiano, è il testo dell’intervento che de Gandillac tenne nel corso dell’importante convegno internazionale svoltosi a Parigi dal 27 al 29 giugno del 1983 e dedicato, non a caso, a «Walter Benjamin et Paris», i cui atti nel 1987 furono pubblicati dai tipi di Cerf.
Sono due i motivi d’interesse che spingono a pubblicare questo intervento: l’autore e l’interpretazione che dà della vita e dell’opera di Benjamin. Sebbene in Italia di de Gandillac non sia stato pubblicato nulla, il suo nome si lega a quello – questo sì molto più noto nei nostri ambienti culturali – di Gilles Deleuze. Esperto di filosofia antica e medioevale, de Gandillac fu direttore di tesi di Deleuze, di quella grande ricerca che conosciamo come Differenza e ripetizione.
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Sul razzismo
intervista ad Alberto Burgio
Il razzismo può apparire una questione non così cruciale nell’analisi della nostra società. In realtà la sua analisi può invece rivelare meccanismi profondi e illuminare alcuni dei tratti più importanti della nostra contemporaneità. Abbiamo deciso di rivolgerci per questo al prof. Alberto Burgio, professore di Storia della Filosofia all’Università di Bologna, che da diversi anni ormai si è occupato del fenomeno, intuendone la rilevanza e rendendolo oggetto delle sue ricerche (che hanno dato origine a libri come Studi sul razzismo italiano, a cura di e con Luciano Casali, Bologna, CLUEB, 1996; L’invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, Roma, Manifestolibri, 1998; Nonostante Auschwitz. Per una storia critica del razzismo europeo, Roma, DeriveApprodi, 2010; Razzismo, con Gianluca Gabrielli, Ediesse, 2012). Per il professor Burgio il razzismo non è un elemento estemporaneo ma qualcosa che si lega alle dinamiche più profonde della contemporaneità. Analizzare questo tema sarà dunque un’occasione per riflettere sul nostro tempo.
Domanda: L’attualità ci pone in maniera sempre più drammatica davanti a fenomeni migratori di portata crescente e al rinascere di atteggiamenti razzisti all’interno delle nostre società. Per interpretare tale fenomeno lei sottolinea la necessità di comprenderne le radici storiche profonde, al riguardo sottolinea quanto sia importante indagare quella che può esserne definita la genesi. Nel fare ciò lei mette in evidenza nei suoi libri un nesso decisivo che unisce il razzismo alla modernità. In che senso il razzismo può essere definito un fenomeno moderno?
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Play the riot
di Raffaele Alberto Ventura
Imbevuti di un immaginario videoludico, i black bloc che hanno assaltato Milano il primo maggio assomigliano più a gamer che a rivoluzionari
Le scritte, bisogna leggere le scritte. Così mi ha detto Leonardo Bianchi, che il primo maggio era a Milano e che sugli scontri ha scritto un reportage per VICE. Bisogna leggere le scritte sui muri per capire chi sono questi ragazzi in felpa nera, cosa pensano, cosa vogliono. Bisogna leggere le scritte per interpretare delle pratiche di guerriglia urbana che, malgrado le evidenti analogie e continuità, in qualche modo segnano una rottura rispetto alla vecchia tradizione della sinistra extra-parlamentare. E allora ho letto le scritte. Ho cercato di trattarle come indizi, anzi come tracce di un’ideologia nuova della quale una parte degli antagonisti non è nemmeno consapevole. Espressioni enigmatiche come “AUTONOMIA DIFFUSA MONDIALE”, “WE ARE GOD”, “LIBERI E SELVAGGI”, e poi una che mi ha colpito in particolare, “PLAY THE CITY”. Le ho lette, le ho analizzate, le ho googlate, e quello che ho scoperto mi ha fatto esplodere il cervello.
Milano, 01/05/2015: Play the city (foto Ivan Carozzi).
Oltre che scritta sul muro davanti alla banca UBI di Piazza Cadorna, l’espressione “Play the city” appare su alcuni manifesti affissi in città, che rimandano a loro volta a dei banner pubblicati sulla pagina del Comitato No Expo, che rivendica senza nessuna reticenza le operazioni del primo maggio. Ma cercando su Internet “Play the city”, si capita sul sito di un’azienda vicentina che organizza itinerari turistici per “scoprire la città in modo alternativo” attraverso quelli che vengono definiti “giochi urbani”.
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Un passaggio non aggirabile
di Marino Badiale
1. La casa editrice Jaca Book ha iniziato a pubblicare una collana di brevi testi intitolata ai “precursori della decrescita”. La collana è diretta da Serge Latouche, e ogni volumetto è formato da un saggio introduttivo e da una antologia di testi. Si tratta di una iniziativa che nasce a seguito di una analoga collana francese, sempre diretta da Latouche. L'uscita più recente della collana italiana è quella dedicata a Charles Fourier, uno dei più noti fra i “socialisti utopisti” del primo Ottocento. Il libro è curato da Chantal Guillaume, una filosofa che si interessa sia di Fourier (ha partecipato alla creazione della Association d'études fourieristes) sia di decrescita (ha fatto parte fa parte del comitato di redazione di “Entropia”, rivista dedicata appunto al pensiero della decrescita), ed è quindi senz'altro la persona più adatta per discutere sul tema “Fourier e la decrescita”.
Penso che una riflessione su questo tema sia un buon modo per discutere di un problema che mi sta molto a cuore, quello della creazione di un possibile nuovo movimento anticapitalista all'altezza dei problemi attuali, e del ruolo in esso del movimento della decrescita da una parte, e del pensiero marxista dall'altra. È noto che in genere i marxisti sono ostili, o quantomeno diffidenti, nei confronti della decrescita, ritenendo che si tratti di una realtà incapace di contrastare il capitalismo, o magari connivente con esso.
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Partitura per soggetti precari e pratiche politiche
di Andrea Fumagalli
Continuiamo il dibattito post 1 maggio. Stavolta ci soffermiamo sulle questioni aperte da quella giornata, in una prospettiva che non vuole analizzare i pro e i contro del 1 maggio ma piuttosto sottolineare le questione aperte.
Preludio
A più di una settimana dal primo maggio milanese, la discussione su ciò che è successo ha perso attualità. È tempo di spostarci dalle ragioni e dai torti di questo o di quel gruppo (discussione che non ci appassiona più di tanto) ai problemi e ai nodi che ci trasciniamo da tempo e che quella giornata ha posto ancor più in risalto.
La NoExpo-Mayday del primo maggio era organizzata da una rete (a cui poco può essere addebitato) e non da un singolo gruppo/collettivo che faceva da punto riferimento. E, in quanto rete, le relazioni di partecipazione – potremmo dire di cooperazione politica – che vengono attivate difficilmente riescono a convergere verso una gestione unitaria, su un unico obiettivo, con il risultato che prevalgono le forze centrifughe. L’autoreferenzialità, da sempre malattia del centrosocialismo nostrano, non è certo mancata in questa occasione, anzi. Possiamo parlare di una black (dark) side della cooperazione politica di movimento?
Adagio
D’altro lato, tutto ciò è esattamente specchio della “cooperazione sociale” agìta dalla condizione precaria. Le generazioni precarie sono infatti attivate dai processi di rete, si riconoscono dentro la pluralità del loro essere sociale, tuttavia stentano a ammettere che la propria evoluzione può darsi solo passando attraverso azioni non identitarie.
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L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”
Nadia Garbellini*
Il dibattito sugli effetti di una uscita dall’euro, promosso da economiaepolitica.it, si arricchisce con l’intervento di Nadia Garbellini, autrice di alcuni recenti saggi sul tema in collaborazione con Emiliano Brancaccio. Secondo Garbellini, i fautori della moneta unica a tutti i costi generalmente abbandonano il difficile campo della riflessione analitica e del confronto sulle evidenze empiriche per rifugiarsi in quello ben più comodo del dogmatismo
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
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A che punto è l’euro-notte
Federico Dezzani
L’allentamento quantitativo varato due mesi fa da Francoforte ha generato una bolla nel mercato delle obbligazioni sovrane europee ma ha fallito nell’imprimere una svolta all’economia reale, dove al contrario si registra la caduta dell’attività di Francia e Germania. Gli insuccessi di Mario Draghi e la concomitante debacle del “piano Junker” aprono la strada allo sfaldamento dell’eurozona, scaturibile dall’imminente default di Atene. La disgregazione dell’eurozona sarà accompagnata da una escalation militare in Ucraina, dove Washington e Londra stanno convogliando uomini e mezzi con intenti provocatori. Fallito il progetto degli Stati Uniti d’Europa, la minaccia strategica più temibile per gli angloamericani è sempre l’integrazione tra Germania e Russia.
L’ultima offensiva di Francoforte e Bruxelles è fallita
Un’unione monetaria senza una parallela integrazione fiscale è inevitabilmente destinata al fallimento tra i miasmi dell’austerità. L’euro, anziché essere il coronamento di un democratico processo d’integrazione europea, votato ed approvato dai cittadini, è stato all’opposto scelto come primo passo verso l’unione politica, proprio in virtù dei suoi prevedibili effetti destabilizzanti. Un sistema a cambi fissi calato su un’area valutaria non ottimale (l’eurozona) avrebbe nell’arco di un decennio accumulato tali tensioni (la crisi del debito sovrano e l’emergenza spread) da obbligare i Parlamenti nazionali a procedere spediti verso gli Stati Uniti d’Europa, con l’acquiescenza dei cittadini ammutoliti da possibili crack finanziari e default sovrani.
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Psicochimica e psicoarchitettura
Franco Berardi Bifo
Stimolanti e tranquillanti per cognitari metropolitani
Sul New York Times del 20 aprile 2015 sono usciti casualmente in contemporanea due articoli diversi per stile e per intenzione che descrivono da prospettive opposte e complementari la psicosfera americana contemporanea. Il primo, a firma Alan Schwarz reca il titolo “Workers under pressure abuse ADHD drugs” e appare nella pagina Business. Schwarz si occupa dei nuovi risvolti di un tema che da due decenni interessa medici, psicologi e pedagoghi: i disturbi dell’attenzione. Una sindrome che si può descrivere sinteticamente come incapacità di concentrare l’attenzione sullo stesso oggetto per più di qualche secondo è chiaramente legata all’intensificazione della stimolazione infosferica, al multitasking e alla riduzione dei tempi di esposizione dei dati al sistema occhio-cervello.
In passato il deficit d’attenzione venne segnalato e diagnosticato tra i ragazzini delle scuole elementari e medie. A milioni di pre-adolescenti venne somministrato un farmaco che si chiama Ritalin, composto di metilfenidato.
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