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Chi ha paura delle rivoluzioni?
Slavoj Žižek
Una delle cose che colpisce di più, nelle rivolte scoppiate in Tunisia e in Egitto, è l’evidente assenza del fondamentalismo islamico. Nella migliore tradizione della democrazia laica, le persone si sono semplicemente ribellate contro un regime oppressivo e corrotto e contro la povertà, chiedendo libertà e speranza economica.
È stata così smentita la cinica visione dei liberali occidentali, convinti che nei paesi arabi i sentimenti democratici riguardino solo una ristretta élite liberale, mentre la stragrande maggioranza della popolazione si lascia mobilitare solo attraverso il fondamentalismo religioso o il nazionalismo. Ora la domanda è: cosa succederà? Chi uscirà vincitore sul piano politico?
Quando è stato nominato un governo provvisorio in Tunisia, si è deciso di escluderne gli esponenti dei partiti islamici e della sinistra più radicale. Commento gongolante dei liberali: bene, tanto sono la stessa cosa, due estremi totalitaristici. Ma è davvero tutto così semplice? E se invece l’antagonismo principale e a lungo termine fosse proprio quello tra gli islamisti e la sinistra?
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Disordine capitalistico e popolo minore. Note sull’amnesia mediatica
di Andrea Inglese
“Il 15 settembre 2008, data del tracollo di Lehman Brothers, sta al fondamentalismo di mercato (ovvero il concetto che i mercati, da soli e liberi da ogni vincolo, possano garantire la crescita e la prosperità economica) come l’abbattimento del muro di Berlino sta alla caduta del comunismo.” Lo scrive un premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, nel suo ultimo lavoro, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera (Einaudi, 2010). Se in quest’affermazione c’è qualcosa di vero, e se noi, come si è spesso detto, siamo una società aperta, allora è divenuto necessario affrontare una discussione collettiva e spregiudicata sulla natura del capitalismo e sulla sua compatibilità con i principi di una società realmente democratica. D’altra parte, abbiamo visto in questi mesi un numero sempre maggiore di persone, pur sprovviste di Nobel per l’economia, testimoniare contro l’introduzione in Europa delle solite ricette neoliberiste (taglio della spesa pubblica, blocco dei salari, flessibilità del lavoro, privatizzazioni). Hanno rotto invisibilità e silenzio i lavoratori clandestini arrampicati sulle gru, gli operai che difendono i loro elementari diritti, gli studenti privati di futuro. Sennonché la risposta delle classi dirigenti a queste voci di dissenso pare bizzarramente riprodurre gli stessi principi di quella dottrina che ha subito nel settembre 2008 una plateale confutazione. La pretesa dei cittadini comuni di partecipare alle decisioni d’interesse generale è ingenua e controproducente, in quanto le questioni ultime, che sono tutte di natura economica, sono per ciò stesso destinate a una gestione oligarchica, di minoranze specializzate.
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E noi faremo come Schroeder
Sergio Cesaratto
In un impegnativo discorso in un meeting al Lingotto svoltosi gli scorsi giorni Walter Veltroni affronta anche alcune tematiche economiche su cui può valere la pena riflettere.
L’asse principale della proposta di Veltroni è di “fare come la Germania”, ovvero “un’Agenda 2020 per l’Italia” a imitazione di quella del governo Schroeder-Fischer (1998-2002) che ha gettato le basi del successo tedesco sino alla crisi, ma a quanto pare anche dopo. Tale modello, com’è noto, aveva come base la moderazione salariale e la flessibilità, concertata con le organizzazioni sindacali, nell’utilizzo della forza lavoro. Ad esso si è accompagnato il sostegno delle attività di innovazione tecnologica. Tale politica ha consentito il rilancio del modello tedesco basato su disciplina interna, qualità tecnologica e sviluppo delle esportazioni – via obbligata quest’ultima data la compressione dei consumi interni. Tale modello, che abbiamo altrove definito “ordo-mercantilista”, è stato in realtà favorito dalla contemporanea creazione dell’Unione Monetaria Europea (UME). Si deve anzi ritenere che la Germania abbia reagito con perfetto tempismo all’occasione che le veniva servita su un piatto d’argento dai suoi concorrenti di rilanciare il modello basato sulle esportazioni che si era appannato in seguito alla riunificazione tedesca.[1] Non v’è neppure dubbio che tale disposto combinato di un rafforzamento e indebolimento strutturale, rispettivamente, del centro e della periferia europei, sia alla base della crisi corrente di questa regione.
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L’esercito egiziano, Mubarak, gli Stati Uniti e il grano
Miguel Martinez
Curioso leggere in giro, questi giorni.
Una parte che dice, “Mubarak, lo sgherro degli americani“.
Una parte che dice, “complotto americano per rovesciare Mubarak“.
Il bello è che in qualche modo, possono essere vere entrambe le tesi.
Prima di tutto, la rivolta non è artificiale.
E’ ovvio che ciò che sta succedendo riflette un sentimento di quasi tutta la nazione, senza differenze di idee o di ceti sociali. Semplicemente, la grande maggioranza del popolo odia Hosni Mubarak, e a ragion veduta.
La domanda non è, quindi, se gli americani (semplifichiamo, intendiamo ovviamente coloro che negli Stati Uniti prendono le decisioni) abbiano creato una rivolta in un paese felice; ma se abbiano fatto qualcosa per dare fuoco alle già abbondanti polveri.
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La decostituzionalizzazione del sistema politico italiano
Luigi Ferrajoli*
E’ in atto un processo decostituente della democrazia italiana. Questo processo si manifesta nella costruzione di un regime personale basato sul consenso o quanto meno sulla passiva acquiescenza a una lunga serie di violazioni della lettera o dello spirito della Costituzione: le tante leggi ad personam, che formano ormai un vero corpus iuris ad personam dirette a sottrarre il Presidente del Consiglio ai tanti processi penali dai quali è assediato; le aggressioni ai diritti dei lavoratori e al sindacato; le leggi razziste contro gli immigrati, che hanno penalizzato lo status di clandestino; le misure demagogiche in tema di sicurezza, che hanno militarizzato il territorio, legittimato le ronde e previsto la schedatura dei senza tetto; il controllo politico e padronale dei media, soprattutto televisivi, che ha fatto precipitare l’Italia al 73° posto della classifica di Freedom House sui livelli della libertà di stampa.
Di solito questo indebolimento della dimensione costituzionale della nostra democrazia viene interpretato come un prezzo pagato a un rafforzamento della sua dimensione politica ottenuto con il conferimento agli elettori del potere di scegliere volta a volta la coalizione di governo: in altre parole, come una riduzione e una svalutazione della dimensione legale della democrazia in favore della valorizzazione della sua dimensione politica e rappresentativa, concepita peraltro come il fondamento esclusivo della legittimità dei pubblici poteri.
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UN RESPIRO DEL MONDO
Rossana Rossanda
Chi si aspettava una rivolta popolare in Tunisia, in Algeria, in Egitto? Nessuno. Non la Francia, persuasa di detenere idealmente il controllo su un paese che era stato sua colonia e ha fatto una gaffe clamorosa proponendo a un Ben Ali, già in fuga, di mandargli a sostegno le sue forze più esperte in tema di repressione. Non gli Stati Uniti, che avevano nel vacillante Hosni Mubarak il più forte alleato in Medioriente, l’Egitto essendo uno dei due paesi ad aver riconosciuto formalmente lo stato di Israele e speciale nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte nel conflitto fra Israele e Palestina. Barack Obama, che segue ora per ora la situazione, ha un bel chiedere a Mubarak di non ricorrere alla repressione. Mubarak non è tipo da prendere consigli e sfida ancora un popolo in collera, niente affatto disposto a contentarsi del licenziamento del governo e di un discorso pieno di promesse da parte di un despota.
La rivolta è partita dalla Tunisia, e sta contagiando la riva meridionale del Mediterraneo. E’ stata bloccata da un esercito potente e proprietario in Algeria, sul cui regime nessuno apre il becco, sia perché è il nostro grande fornitore di gas, sia perché vi abbiamo degli interessi enormi, sia perché la si considera un freno all’allargarsi dell’islamismo.
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Come difendere nella UE il lavoro
Emiliano Brancaccio* intervistato da Roberto Mapelli
D: L’euro è giunto, durante la crisi “greca”, a un passo dal baratro. Ma c’è da chiedersi come mai abbia resistito tanto, essendo fondato - in assenza di un governo comune della politica economica e di un prestatore di ultima istanza - solo su alcuni parametri intrinsecamente restrittivi e recessivi. Si chiama “Patto di stabilità e convergenza” europeo, ma sarebbe meglio chiamarlo “Patto di instabilità e divergenza”, perché in fin dei conti è questo il risultato che produce. In più, con l’euro sono venuti meno quei meccanismi di riaggiustamento valutario che consentivano di riequilibrare le forti differenze di produttività e competitività fra i vari paesi, mentre la forte dinamica delle esportazioni della Germania, che rappresenta da sola un terzo dell’intera economia europea, tende a spingere verso l’alto il tasso di cambio, spiazzando le economie dei paesi più deboli, i cosiddetti “maiali” (Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e gonfiando il loro disavanzo e debito pubblico. Ma allora il comportamento di un paese “virtuoso” come la “formica” Germania non è proprio la causa della crisi delle “cicale” e della crescente divaricazione dell’economia europea?
Fin dalle sue origini, l’Unione monetaria europea porta con sé una contraddizione interna che con la crisi globale è emersa in tutta la sua evidenza.
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La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels
di Sandro Moiso
Tristram Hunt, La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels, Isbn, Milano 2010, pp.400, euro 27,00
Di roghi di libri, certo, Friedrich Engels se ne intendeva.
A partire dalla messa al bando del Manifesto del Partito Comunista, nel 1852, seguita alla condanna dei comunisti nel processo di Colonia, innumerevoli sono state le opere da lui firmate, da solo o con Karl Marx, messe fuori legge o distrutte dai regimi reazionari o autoritari degli ultimi centosessanta anni.
Non solo per questo, però, si dimostra particolarmente utile la lettura del testo di Tristram Hunt dedicato alla vita di Engels.
La vita di un borghese rivoluzionario viene qui esposta al di fuori dell'agiografia che, troppo spesso, ha accompagnato le biografie di Marx ed Engels, soprattutto nell'era del cosiddetto socialismo reale. Anzi, si può tranquillamente affermare che quella prodotta da Hunt sia l'unica biografia degna di rilievo dopo quella scritta da Gustav Mayer nei primi anni trenta e tradotta in Italia soltanto nel 1969 da Einaudi.
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Civiltà occidentale come critica all'Occidente
Intervista di Felice Fortunaci a Marino Badiale e Massimo Bontempelli*
Una della tesi fondamentali del vostro libro è quella che riguarda la distinzione fra “Occidente” e “civiltà occidentale”. Potreste chiarirla?
Questa è in effetti la prima delle due tesi fondamentali del libro. Si tratta di una distinzione che è secondo noi necessaria per fare chiarezza nelle discussioni oggi frequenti, e piuttosto confuse, su questi temi. Per quanto riguarda la nozione di “Occidente”, la nostra tesi si può pensare come una critica della nozione comunemente diffusa.
Quest’ultima è ben compendiata dal sottotitolo di un libro pubblicato da Laterza (ma si potrebbero fare molti altri esempi): “Mondi in guerra”, di Anthony Pagden. Il sottotitolo recita “2500 anni di conflitto fra Oriente e Occidente”. Perché una simile espressione abbia senso, occorre pensare che vi sia una entità, chiamata “Occidente”, che esiste appunto da 2500 anni, e che questa entità, pur avendo magari subito un’evoluzione, sia identificabile lungo tutto questo arco di tempo, e vi sia una continuità nella sua evoluzione. Bene, noi sosteniamo che questa entità non esiste nella storia, ma è una costruzione ideologica.
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Gli Stati Uniti e la rivolta egiziana
by Miguel Martinez
Hosni Mubarak è un signore di 82 anni.
Le manifestazioni di questi giorni hanno dimostrato, poi, quanto il popolo egiziano lo ama.
Facendo queste due semplici considerazioni, ieri sera il presidente degli Stati Uniti ha fatto un discorso in cui ingiunge, con fare piuttosto autoritario, a Hosni Mubarak a fare delle “riforme” e a “dialogare” con il popolo.
Questo non vuol dire, mandare via Hosni Mubarak dopo 30 anni di fedele servizio; ma è una bella bacchettata a un impiegato che non ha saputo fare il suo mestiere.
Così, quando Hosni Mubarak se ne andrà, o in Arabia Saudita o direttamente in Paradiso, la colpa non sarà data agli Stati Uniti.
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Noterelle sparse sulle ultime gesta del cav. Berlusconi (e altre cronache dal Basso Impero)
Infoaut
Una ridda di finte contrapposizioni intorno ai vizietti del sultano non arriva a scalfirne il potere.
Dopo anni di allarmismi sul "regime" e retoriche sul "nuovo fascismo", il Presidente del Consiglio può permettersi di restare al governo, disprezzando gli altri poteri.
Sinistra e Cgil blaterano ma lo "sciopero generale" che Fiom e movimenti richiedono da mesi non viene proclamato. Intanto, alle porte dell'Europa, le popolazioni del Maghreb mostrano come liberarsi da corruzione e regimi imputriditi.
A tutt'oggi ci sono ancora pochi elementi per dire se il Presidente del Consiglio, tuttora in carica, riuscirà a sorpassare anche questa nuova fase critica del suo pontificato. Certo però le cronache di questi giorni testimoniano di un accanito attaccamento alla propria poltrona e il rifiuto netto di qualsiasi ipotesi di dimissioni.
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Le conseguenze politiche (anche a sinistra) dello scontro sociale sulla Fiat
Documento politico della Rete dei Comunisti
Il diktat di Marchionne su Pomigliano e Mirafiori illumina il tipo di risposta che il capitale manifatturiero in un paese avanzato - pensa di dare alla crisi.
Il successo inatteso dei “no” in entrambe le “consultazioni”, nonostante il ricatto esplicito, rende la “vittoria” Fiat solo contingente; la ripresa produttiva in questi stabilimenti (per nulla certa, nonostante le promesse) vedrà in campo lavoratori niente affatto piegati al volere dell'impresa.
Naturalmente, non ci si può attendere un collegamento meccanico e immediato tra resistenza operaia e auspicabile “incendio sociale”.
Se, probabilmente, avverrà quello che diceva qualcuno a suo tempo, ovvero che i reazionari alzano i massi per farseli ricadere sui piedi, a sinistra e nel versante di classe bisognerà ben guardarsi da una lettura meccanicistica.
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Un maglioncino di cashmere anche per me
di Sergio Bologna
Dicono che nei negozi di alta gamma c’è grande richiesta di maglioncini di cashmere. Pare che furgoni della Caritas passino e ripassino da villozze e case padronali a ritirare smoking, completi gessati, cravatte a quintali. E’ il popolo dei padroncini, di seconda, terza generazione, giovanotti dal SUV facile, MBA nella tasca dei pantaloni, che aspira a diventare un popolo di Marchionne. Tocca a loro. Guadagneranno la prima pagina della “Padania” o magari del “Sole24” per esser riusciti a negoziare contratti aziendali al ribasso? Pochi però riusciranno a farsi notare da Obama. Se qualcuno ha delocalizzato è andato in Romania, Albania, Bielorussia, Bangladesh, Cina, Marocco. Tanto che viene spontaneo chiedersi: ma a chi abbasseranno il salario, sotto lo standard del contratto nazionale? Agli artigiani terzisti? Ai pochi operai rimasti? Oppure alle cosiddette funzioni elevate, a quelli che portano il colletto bianco? Mi sa che saranno questi i più bastonati. Come alla Fiat, visto da lontano (perché da vicino non si può) il nuovo piano industriale dovrebbe fare assunzioni tra gli operai, almeno per rimpiazzare i vecchi, quelli del “no”, ma tra gli impiegati, quelli del “sì”, dovrebbe fare un macello.
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Parola chiave: Partito
di Mario Tronti
La parola chiave serve per aprire la porta dell’agire politico. Ecco allora la difficoltà. La parola partito sembra oggi non assolvere più a questa funzione. Bisogna capire se è la chiave che si è sverzata nel tempo, o se è la serratura a essere stata cambiata, da qualcuno o da qualcosa. La forma-partito, per continuare a usare questa formula di gergo al tempo stesso burocratica ed eloquente, si è dissolta per consunzione interna, o è stata destrutturata da infiltrazioni climatiche esterne? Ricerca. Prima di tutto ricerca. Questo si vuole dire con questo fascicolo di Democrazia e diritto. E ricerca comparata, tra presente e passato e dentro un presente plurale, fatto di storie diverse, ancora declinate nel solco tradizionale dello Stato-nazione.
Più indagine storico-politica, sociologica, politologica, che teoria. Se si è data una teoria del partito, è difficile pensare che si possa dare ancora, in queste condizioni. È interessante notare questa cosa: chi ha speso più pensiero sul tema dell’organizzazione di partito è stato il movimento operaio.
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Per una critica del "liberoscambismo" di sinistra
di Emiliano Brancaccio
La straordinaria prova di resistenza degli operai FIAT va sostenuta con iniziative politiche. Occorre incunearsi nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e protezionisti. Se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, se non si pongono argini alle fughe di capitale e alle delocalizzazioni industriali, la “guerra mondiale tra lavoratori” proseguirà indisturbata e ben difficilmente verranno a crearsi le condizioni per un rilancio del movimento operaio, nazionale e internazionale.
Le straordinarie prove di resistenza operaia in occasione dei referendum di Pomigliano e di Mirafiori hanno determinato una inattesa battuta d’arresto per Marchionne e per coloro i quali stanno scommettendo sulla cancellazione definitiva degli ultimi scampoli di movimento operaio esistenti nel nostro paese. Per il futuro tuttavia non c’è da illudersi. Nel tempo della crisi e in condizioni di piena apertura dei mercati e di libera circolazione dei capitali, le pressioni sui lavoratori sono destinate ad aumentare. Pensare quindi di respingere gli attacchi prossimi venturi affidandosi ancora una volta al solo coraggio operaio e alle connesse iniziative sindacali, è del tutto illusorio.
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La Tunisia e i Diktat del FMI
Come la politica economica provoca povertà e disoccupazione in tutto il mondo
di Michel Chossudovsky
Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l'ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore.
Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l'effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della "comunità internazionale".
Ma Ben Ali non era un "dittatore". I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economci occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.
L'ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano "imposti" dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI.
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Tassare i ricchi, per disarmare il regime dei padroni
Giorgio Cremaschi
Mentre Berlusconi è invischiato nei suoi scandali finanziari e sessuali, Marchionne sta conducendo un attacco che è anche più brutale di quello di Berlusconi ai diritti sociali e ai diritti dei lavoratori. Diciamo che c’è una specie di passaggio di testimone: Berlusconi può essere nei guai ma Marchionne continua una politica che è anche più aggressiva che portò qualche anno fa all’attacco articolo 18 dello statuto dei lavoratori. In fondo Marchionne che cosa dice? O mangiate questa minestra o saltate dalla finestra. O rinunciate al contratto nazionale, al diritto di sciopero, alle libertà sindacali, al diritto di scegliere il sindacato che volete – quindi, o rinunciate a tutto, oppure io vado da un’altra parte.
Questa è la più brutale delle aggressioni ai diritti del lavoro dal ’45 a oggi. Perché “regime dei padroni”? Padroni: chi sono i padroni?
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La politica come mitologia
di Cesare Del Frate
La filosofia è piena di miti politici, dal Leviatano di Hobbes, il mostro biblico chiamato a rappresentare il terribile e onnicomprensivo potere dello Stato, alla Città del Sole di Campanella, utopia in terra, fino al Katéchon di Schmitt, la forza che resiste, trattiene e dilaziona la fine dei tempi, che per il filosofo tedesco era nientemeno che il Sacro Romano Impero da lui tanto rimpianto.
Ben poco, tuttavia, la filosofia ha detto e scritto sulla mitologia politica, cioè sul mito che la politica è essa stessa: insomma, la narrazione fantastica e archetipica non è solo uno strumento per illustrare questo o quel concetto, separando emozione e raziocinio, bensì ha a che fare con il cuore dell’esercizio del potere nonché, ovviamente, con la ricerca del consenso.
Il Leviatano di Hobbes
Il mito è, essenzialmente, racconto: delle origini da cui veniamo e del futuro che ci attende. Di questo parlano i miti indigeni della “nascita” della comunità, ma pensiamo anche a Romolo e Remo, che fondando Roma col duro lavoro le assegnarono il destino dell’operosità, o a Didone la quale, erigendo Cartagine grazie a un inganno, ne prefigurò il fato legato al commercio e all’astuzia.
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Dalla democrazia alla violenza divina*
di Slavoj Žižek
1
In questa nostra epoca che si proclama post-ideologica, l'ideologia stessa è sempre più un terreno di scontro; quello sull'appropriazione delle tradizioni passate ne costituisce una delle espressioni. L'appropriazione da parte liberale della figura di Martin Luther King, di per sé un'operazione ideologica esemplare, è il sintomo più chiaro del carattere precario della nostra attuale condizione. Recentemente, Henry Louis Taylor osservava:
Tutti, anche i bambini, sanno chi era Martin Luther King, sanno che il suo momento di maggiore celebrità fu il discorso "I have a dream". Ma nessuno va oltre la prima frase. Tutto quello che sappiamo è che questo tizio aveva un sogno ma non sappiamo quale[1].
King aveva fatto molta strada dal 1963 quando, durante la marcia su Washington, le folle lo avevano salutato quale "capo morale della nostra nazione". Dal momento in cui aveva cominciato a occuparsi di questioni che esulavano dalla segregazione razziale, aveva perso gran parte del consenso dell'opinione pubblica e sempre più veniva considerato un paria.
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Il Mediterraneo incendia l'Europa
di Alfonso Gianni
Non solo la via d’uscita dalla crisi non si vede, neppure da lontano, ma lo scenario sociale entro il quale essa si svolge si sta infiammando. Se negli Usa e in Europa l’espressione continua a mantenere un significato essenzialmente metaforico - anche se manifestazioni, scontri e scioperi si susseguono con sempre maggiore intensità - altrove va presa alla lettera. E’ il caso di quanto sta succedendo nella parte meridionale del bacino mediterraneo con le “rivolte del pane” che sono già costati diversi morti in Tunisia e in Algeria. Se in quest’ultimo paese le tensioni che possono sfociare in fatti di sangue purtroppo non sono una novità, la Tunisia - ove la rivolta ha avuto un immediato esito politico, provocando la caduta del governo autoritario di Ben Alì che durava da 23 anni - era considerata fin qui un porto sicuro per il turismo europeo, praticamente l’unica risorsa per quel paese. Ora le diplomazie europee scoraggiano i propri cittadini a mettersi in viaggio nel Maghreb.
In entrambi i casi, altra differenza con il passato, la dimensione religiosa se non estranea non è certamente protagonista nel conflitto. Si è tornati alla difesa disperata della nuda vita.
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Ripensare Marx per abbandonarlo? Una riflessione
Ennio Abate
Può darsi che le proposizioni del marxismo non siano, e forse da cent’anni, più attendibili di quelle di tanti altri studiosi di economia e di sociologia; e che solo per complicati e repellenti equivoci presso due terzi del genere umano si sia continuato e si continui a credere, sulla fede di libri probabilmente non letti o non capiti, di poter dare o ricevere speranze, tormenti e morte, tuttavia levando il pugno e cantando l’Internazionale»
(F. Fortini, Lettere da lontano. A Enzo Forcella, L’Espresso 29 giugno 1986)
1.
Ho seguito, sia pur da isolato, per una sorta di fedeltà intellettuale alle figure scelte durante il mio tardivo apprendistato politico avvenuto in Avanguardia Operaia tra 1967 e 1976, molti dei discorsi, oggi completamente inattuali, sulla «crisi del marxismo» svoltisi dagli anni Ottanta in poi. Lessi i vari libri di Costanzo Preve (Il filo di Arianna, Il pianeta rosso, Il convitato di pietra),che mi parevano un argine alla liquidazione del pensiero di Marx. Mi affaticai per capire un mattone filosofico come «Marx oltre Marx» di Antonio Negri. Mi sono inoltrato con cautela pure tra le pagine di «Impero» e «Moltitudine» per annusare tracce di zolfo marxiano, sia pur mescolato a emanazioni foucaultiane e deleuziane. E più di recente, incappato un po’ casualmente nel sito «Ripensare Marx», ho seguito con assiduità soprattutto gli interventi di Gianfranco La Grassa, letto alcuni suoi libri e tentato in qualche occasione persino di interloquire con lui. Constatare che oggi anche lui, studioso serio e non per qualche stagione ma per una vita di Marx, giudichi necessario abbandonarlo («Due passi in Marx per uscirne» è il significativo titolo dell’ultimo libro che sta per pubblicare), mi ha posto di fronte a un aut aut.
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La catena SPEZZATA
Anticipiamo brani del saggio che chiude il libro-inchiesta sul ciclo produttivo negli stabilimenti Fiat di Pomigliano compiuta da un gruppo di giovani ricercatori del Centro per la Riforma dello Stato. Ma sopratutto un'analisi sul valore politico e simbolico dell'insubordinazione operaia in un'impresa multinazionale alla luce del tentativo di introdurre modelli di relazioni industriali che cancellano i diritti sociali e la capacità di resistenza da parte del lavoro vivo
Mario Tronti
Una caratteristica del nostro sciatto tempo è la separazione degli ambiti: la fabbrica ai sociologi, il mercato agli economisti, le istituzioni ai politologi. Non funziona così. Non funziona nemmeno per i bisogni della conoscenza dei fenomeni: che, separati nella complessità delle loro componenti, diventano oscuri e risultano falsi. Tanto meno funziona per le necessità dell'intervento nei processi: che, spezzati, nel comportamento dei loro soggetti, diventano inagibili e risultano immodificabili. Occorre dotarsi di una visione lucida del Gesamtprozess di sistema, dove tutti gli attori in campo vengono riconosciuti nel loro spazio di movimento, con i loro interessi, e soprattutto con la forza che intendono usare per farli valere.
Ecco un primo punto. Pomigliano, nella fase acuta della vicenda, quella intorno al referendum, ci ha messo davanti agli occhi la sproporzione nel rapporto di forza che si era creata tra padrone e operai. O meglio, la forzatura contenuta nel ricatto del quesito referendario, questo voleva mostrare, e il risultato della consultazione, bisogna dire, che lo ha corretto. Non certo rovesciato, ma corretto senz'altro. Se «Pomigliano non si tocca» aveva imposto un'iniziativa al management Fiat, «Pomigliano non si piega» dava una risposta al contenuto ricattatorio di quella iniziativa.
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La Fiat a scuola
di Guido Viale
A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l'ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell'America. A quel tempo, nella Modernità, l'Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l'entrata ma l'uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?
Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero - accordata dal nuovo contratto - che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?
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Le risposte di Hu Jintao al Washington Post
sul Washington Post del 19/01/2011
Questa è una completa e inedita trascrizione di una serie di domande del Washington Post e del Wall Street Journal al Presidente cinese Hu Jintao. L’intervista è stata spedita alla fine di dicembre e le risposte, in inglese, sono state pubblicate dal governo cinese il 16 gennaio
Come vede l’attuale stato dei rapporti Cina-Stati Uniti? Quali sono le aree più promettenti della collaborazione reciproca tra Cina e Stati Uniti? Quali pensa siano le sfide più importanti di lungo periodo nel continuo e stretto sviluppo delle relazioni sino-statunitensi?
Già dall’inizio del ventunesimo secolo, grazie allo sforzo concertato di entrambe le parti, le relazioni tra Cina e Stati Uniti hanno conosciuto una crescita costante. Da quando il Presidente Obama è entrato in carica, abbiamo mantenuto stretti contratti attraverso lo scambio di visite, incontri, conversazioni telefoniche e lettere. Siamo d’accordo per il ventunesimo secolo nel costruire relazioni costruttive, cooperative e globali tra Cina e Stati Uniti. Insieme abbiamo istituito il meccanismo della commissione SED (China-US Strategic and Economic Dialogues). Nel corso dei due anni precedenti, la Cina e gli Stati Uniti hannno svolto una cooperazione funzionale in un ampio raggio di aree tra cui l’economia e il commercio, l’energia, lo sviluppo, l’antiterrorismo, applicazione della legge e la cultura. I due paesi hanno mantenuto stretti contatti e coordinazione riguardo i problemi principali delle zone calde, internazionali e regionali, e hanno guidato sfide globali come il cambiamento del clima e la crisi internazionale della finanza.
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Hu Jintao-Obama, la "bolla" cinese che sostiene tutto
Joseph Halevi
È una noia dover scrivere dell'incontro tra Hu Jintao e Obama ma un giornale non può non parlarne. Al di là del fatto che Obama è un «lame duck President», presidente-anatra zoppa, bersaglio sicuro dei cacciatori, è «noioso» il contesto delle relazioni tra i due paesi, perché falsato dalle dichiarazioni politiche. Esempio: Hu ha detto che il regime del dollaro è finito, cose già sentite in passato, in Europa fin dagli anni Settanta! Hu Jintao non ha la minima idea di cosa proporre al posto del sistema dollaro. Vuole solo minacciare gli Usa dicendo che la Cina non accetta di subire passivamente i costi finanziari dei surplus cinesi in dollari. Ma - come lucidamente dimostrato sul China Daily del 23 dicembre dall'ex dirigente della Banca del Popolo Yu Yongding - Pechino é vincolata alle esportazioni nette sia per gli interessi della classe capitalistico-statale dominante, sia per la dinamica industriale fondata sulla forza della riproduzione espansiva piuttosto che sulle innovazioni made in China.
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