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Dire no al riarmo è dire no alla Nato. Perché saranno due i cortei a Roma
di Coordinamento "Disarmiamoli"
Quello che sta succedendo è sotto gli occhi di tutte e tutti: la “Terza guerra mondiale a pezzi” ha un’accelerazione senza precedenti con l’attacco diretto di Israele contro l’Iran, il genocidio a Gaza, l’investimento europeo nel conflitto ucraino, la guerra commerciale degli USA di Trump, la corsa folle al riarmo a cui assistiamo da mesi.
Tutto ciò non sta avvenendo per caso o per la “pazzia” di singoli leader politici, ma è il frutto del nostro sistema economico e politico. Ormai ce lo dicono senza alcuna ipocrisia: le classi dominanti degli Stati Uniti, e il blocco “occidentale” che hanno costruito intorno a loro, vogliono continuare a mantenere il predominio a livello mondiale, e per farlo devono impedire a nuovi attori, che siano la Cina o potenze regionali, di acquisire spazio e di crescere.
Questa rinnovata aggressività imperialista ovviamente va a danno di tutti i popoli e delle classi lavoratrici: innanzitutto di quelle del sud del mondo bombardate, affamate, sterminate, o costrette a intrupparsi dietro i loro leader quasi sempre tradizionalisti e autoritari, ma anche di quelle occidentali, che sempre più si vedono spinte verso l’economia di guerra e i sacrifici che questa comporta, mentre subiscono gli effetti della crescita dell’estrema destra, che negli USA e nella UE torna a essere lo strumento politico per gestire la crisi del capitalismo.
È in questo contesto che prende tutto il suo senso il vertice della NATO previsto a L’Aja dal 24 al 26 giugno. Si tratta di un momento estremamente importante perché in quest’occasione i leader della NATO dovranno decidere di quanto dovrà crescere la spesa militare dei membri dell’Alleanza.
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Referendum: come disarmare l’astensione
di Alfonso Gianni
Le condizioni in cui una sconfitta può evitare di trasformarsi in un irreversibile disastro sono almeno due. La prima è quella di riconoscerla come tale senza cavillose giustificazioni. La seconda è analizzarne bene le cause, aprire un dibattito su queste, senza avere la fretta di giungere a improvvisate conclusioni. Solo così si può sperare di risalire la china. E non è detto che basti.
Ora proprio il netto insuccesso della prova referendaria di giugno su tematiche della massima importanza come il lavoro e la cittadinanza ci costringe – ed è indispensabile che ciò avvenga – a considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Questa risulta particolarmente sottolineata constatando la distanza considerevole che ha separato i Sì al primo dei quattro quesiti sul lavoro (quello relativo alla reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo anche per chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015) da quello sulla cittadinanza. I numeri parlano chiaro: il primo quesito, il più votato tra quelli sul lavoro, ha raggiunto 13.310.443 voti (comprendendo anche quelli provenienti dall’estero), mentre quello sulla cittadinanza (sempre con i voti esteri) si è fermato a 9.748.806. Nella provincia di Bolzano, ove si è votato di meno che nel resto d’Italia, il No al dimezzamento degli anni d’attesa per conseguire la cittadinanza ha addirittura superato i Sì con il 52% dei voti.
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È morto il Papa, viva Jacques Camatte!
Coup de dés
di Donatello Fumarola
Nei giorni (pasquali) in cui se ne andava all’altro mondo il papa più a sinistra che si ricordi (almeno stando alle sue dichiarazioni pubbliche, alla vulgata di quella figura pop che ha saputo essere il gesuita Bergoglio) se ne andava anche una delle figure meno conosciute, più schive e più ostinate e originali della cultura politica europea, il francese Jacques Camatte1. Filosofo, attento e acuto interprete di Marx, sodale di Amedeo Bordiga (fondatore del PCI) col quale da giovanissimo (negli anni Cinquanta) intraprende uno scambio epistolare che porterà a un’amicizia e a un intenso dialogo (non privo di contrasti) che durerà fino alla morte di quest’ultimo. Membro del Partito Comunista Internazionale fino al 1966. Dal 1968 è fondatore e animatore della rivista «Invariance», ancora attiva on-line. Autore di svariati testi teorico politici che portano, tutti, la stessa dedica (alla moglie) e lo stesso esergo:
Il tempo è l’invenzione di uomini incapaci di amare.
L’amore quindi al centro, o almeno è così che mi piace leggere il senso persistente del pensiero complesso e stratificato di Camatte, della «Gemeinwesen» come comunità di affetti, comunità di amatori, di persone capaci di agire per smuovere «il sole e l’altre stelle» (il sol dell’avvenir!). Mi è capitato spesso di citare questa frase di Camatte, quasi ogni volta che qualcuno sottolineava la minaccia di un ritardo, insegnatami da un amico che viveva costantemente fuori orario e conosceva e mi ha fatto conoscere Camatte.
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Eutanasia di un impero: le guerre alla Russia, all’Iran e (domani?) alla Cina
di Alberto Bradanini
1. Le oligarchie americane perennemente belliciste, insieme al cagnolino da passeggio israeliano, hanno deciso di incendiare il Medio Oriente, in una strategia che non riguarda solo tale regione, ma include l’Europa (Ucraina) e l’Estremo Oriente (Taiwan-Cina). Proviamo a indagare. Innanzitutto, Biden o Trump, questo è il nostro avviso, non fa molta differenza. I due fronti, Rep o Dem, sono entrambi lucciole elettorali che si spengono quando gli attori principali o le comparse diventano presidenti, deputati o senatori.
A dispetto delle indecenti rappresentazioni che sfidano da tempo la legge di gravità, e che i potenti della terra fanno digerire a una popolazione alienata da consumismi televisivi e intontimenti cellularici, è ben evidente che senza la luce verde della corrotta plutocrazia statunitense – è una noia ripeterlo, ma repetita iuvant – i criminali sionisti potrebbero al più acquistare il carburante per rientrare in casa al termine delle loro sataniche riunioni ministeriali, non certo aggredire un paese grande cinque volte l’Italia e abitato da quasi cento milioni di persone.
Il G7, riunitosi in Canada il 16 e 17 giugno, pur nella confusione che ormai caratterizza i potenti dell’Occidente (non più della terra), ha rilasciato un testo in cui si afferma l’usuale invereconda litania che Israele ha diritto di difendersi e che l’Iran non potrà mai possedere un’arma nucleare. Le signorie loro, se la domanda è lecita, hanno la testa a posto o no? Avremmo infatti piacere di comprendere l’essenza di quell’imperativo categorico per il quale a Israele è concesso possedere l’arma atomica e all’Iran no. E in tal caso, da quale autorità superiore (Nazioni Unite, Congresso Mondiale dei Popoli, il Padreterno o altri) tali svalvolati hanno ricevuto il mandato di adottare cotanta equilibrata decisione. Prego.
Nel merito e a contrario, non pochi rinomati analisti ritengono che se l’Iran davvero acquisisse l’atomica, (sebbene abbia sempre dichiarato di non volerla e non vi siano prove che la stia acquisendo, come certificato dall’Aiea[1] e dal vertice dell’Intelligence americana Tulsi Gabbard[2]), il Medio Oriente potrebbe finalmente conoscere pace e stabilità, esattamente ciò che i terroristi sion-americani vedono come il fumo negli occhi.
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Ruggine siamo e ruggine ritorneremo
Nel Labirinto di Philip K. Dick 1
di Paolo Prezzavento
Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00
Per quelli come noi che hanno avuto modo di apprezzare le opere di Philip K. Dick nei vecchi Urania e Millemondi, nelle collane delle Edizioni Nord, nella Collezione Immaginario Philip K. Dick di Fanucci e adesso negli Oscar Mondadori, chi come noi ha avuto il privilegio di seguire da vicino i primi contributi critici italiani sull’opera di questo scrittore straordinario e visionario, chi ha avuto il privilegio ulteriore di tradurre opere come Ubik (1965), In senso inverso (1967) e alcuni dei romanzi e dei racconti più importanti della sua produzione, non può non salutare l’uscita del Meridiano Mondadori – Opere Scelte di Philip K. Dick, in due volumi, come una consacrazione dovuta da tempo a uno degli scrittori più geniali e profetici del nostro tempo, che hanno contribuito a plasmare, a scrivere il nostro presente e il nostro futuro.
Ma è possibile canonizzare Dick, normalizzare Dick, e – in definitiva – addomesticare Dick? Come si fa a ridurre nei canoni di un genere letterario – o della pura e semplice letteratura – un autore così originale? Ecco perché forse si sarebbe dovuto riflettere in modo più approfondito su alcuni spunti geniali presenti nelle cosiddette opere mainstream di Dick, quei tentativi di Dick di uscire dai canoni del romanzo di fantascienza, opere che purtroppo non sono state incluse in questo cofanetto.
Una famosa battuta di Emmanuel Carrère risuona nella mente del lettore invasato di Dick – o meglio, di PKD – per tutta la sua preziosa Cronologia ed è appropriata anche per comprendere l’approccio che avremmo avuto noi in un Universo alternativo, un Universo parallelo in cui, come scrive lo stesso Emanuele Trevi, “il Meridiano non l’ho scritto io, ma qualcun altro”. La battuta di Carrère è la seguente: “Nel caso del Cristianesimo delle origini, o del Cristianesimo in generale, dove finisce la patologia, la psicopatia, la malattia mentale, e comincia la religione?” Ne Il Regno (2014) Carrère ama descrivere i Cristiani della prima ora come un gruppo di pazzi scatenati, che facevano delle cose folli, che immaginavano un mondo che ancora non esisteva, di là da venire. Lo stesso fanno quel gruppetto di pazzi invasati, Phil, Kevin, David – ognuno rappresentante un diverso aspetto della personalità dello scrittore – che si interrogano sul Secondo Avvento di un nuovo Messia nel romanzo VALIS.
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Una lettura marxista della dottrina sociale della Chiesa
Ascanio Bernardeschi intervista Roberto Fineschi
L’intervista a uno dei maggiori filosofi marxisti viventi sul suo recente lavoro Da Pio IX a Leone XIV. Prospettive marxiste sulla dottrina sociale della Chiesa, per aprire una riflessione critica sull’evoluzione del pensiero e del “magistero” cattolico.
L’elezione del nuovo papa ha innescato la gara fra i commentatori per qualificare questo nuovo pontificato. Riteniamo che saranno i fatti a poter dare un giudizio informato, anche se le premesse non ci paiono promettenti a partire proprio dalla decisione di assumere del nome di Leone come richiamo all’autore della Rerum Novarum. Se, infatti, questa scelta viene da molti, forse dai più, vista come un’attenzione alla questione sociale che con quell’enciclica la Chiesa affrontava per la prima volta, non deve sfuggirci, invece, il carattere antisocialista di quel documento che vedeva come un elemento di natura la proprietà privata dei mezzi di produzione e, di conseguenza, contro natura le aspirazioni socialistiche e si poneva l’obiettivo di arginare il montante movimento delle classi lavoratrici proponendo palliativi alla terribile condizione dei lavoratori.
Vorremmo parlarne con Roberto Fineschi, fra i maggiori filosofi marxisti viventi, il quale recentemente ha pubblicato un libro che definisce come “rimaneggiamento di articoli recenti e passati” ma che, in realtà, affronta abbastanza sistematicamente il tema dell’evoluzione della dottrina cattolica attraverso i vari papi, da Pio IX in poi, con una intera parte opportunamente dedicata al solo papa Ratzinger. In un’altra, la prima, affronta il tema della dottrina sociale della Chiesa.
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L’Iran ora deve temere anche la mediazione di Putin
di comidad
Per dirla alla Marlon Brando/Kurtz, ci sono in giro dei fantasmi che hanno mandato il loro garzone a riscuotere i sospesi. Ci volevano una sfrenata fantasia ed una totale mancanza di lucidità per concedere credito a un cialtrone come Trump. Purtroppo anche un altro mito complementare che sembrava più verosimile, quello di Putin accreditato come grande “statista”, si sta sgretolando sotto i colpi dell’evidenza. In un recente articolo Giuseppe Gagliano si è soffermato sulle palesi analogie tra gli attacchi terroristici con droni da parte dell’Ucraina (o attribuiti all’Ucraina) in Russia, e di Israele (e forse non solo Israele) in Iran.
La definizione di terrorismo non ha una valenza morale ma tecnica; poiché, in entrambi i casi, dei mezzi di trasporto civile sono stati utilizzati come mascheramento per compiere attacchi nei confronti del nemico. Queste operazioni “sporche” sono sempre avvenute, ma chi le compiva, in caso di cattura, non poteva avvantaggiarsi dello status e dei diritti del prigioniero di guerra riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra; questo però è l’aspetto meno interessante della questione. Nel suo recente articolo Gagliano non fa riferimento a un altro suo articolo dell’ottobre del 2023 sulla sempre più stretta e articolata collaborazione militare tra Israele e Azerbaigian. Tra l’altro, tale collaborazione non prevede solo la fornitura di armamenti da parte di Israele, ma anche la licenza di fabbricazione di droni. Se si considera che l’Azerbaigian ha centinaia di chilometri di confine con la Russia e con l’Iran, e che consistenti minoranze azere sono presenti in Russia e in Iran, non si può evitare di fare due più due.
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Iran, l’altra faccia della Repubblica islamica: oltre i miti, nella realtà
di Gabriele Repaci
Smontiamo i cliché sull’Iran, una realtà complessa: non solo repressione, ma partecipazione femminile, pluralismo religioso e dinamismo culturale. Modernità e tradizione convivono in un sistema unico. Superare le semplificazioni e capire davvero
Il recente attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani ha riportato l’Iran al centro del dibattito internazionale, insieme ai soliti cliché che lo dipingono come un regime oppressivo, una prigione per donne e minoranze, un paese impermeabile alla modernità. È una narrazione comoda, netta, utile a sostenere lo scontro politico e ideologico. Ma, come spesso accade, è anche profondamente sbilanciata. Se si guarda con attenzione e senza pregiudizi, l’Iran rivela un’altra verità: una realtà complessa, piena di contraddizioni, dove coesistono spinte modernizzatrici e rigidità tradizionali, autorità religiose e forme di partecipazione popolare.
Il sistema istituzionale della Repubblica islamica non è facilmente classificabile. Non è una democrazia liberale, ma nemmeno una dittatura. È un ordinamento ibrido, unico nel suo genere, in cui poteri religiosi e meccanismi di legittimazione popolare si intrecciano in modo sofisticato. Al vertice si trova la Guida Suprema, figura che esercita un’influenza estesa, ma che non è del tutto sciolta da vincoli: viene nominata da un Consiglio degli Esperti, eletto a suffragio universale, che ha il potere – teorico ma esistente – di revocarla.
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Iran: i venti di guerra suscitano resistenze negli Usa
di Davide Malacaria
A quanto pare Trump si è consegnato ai neoconservatori che da decenni spingono per radere al suolo l’Iran, in combinato disposto con Netanyahu e soci. Questo nelle dichiarazioni roboanti e decisamente bellicose contro Teheran, anche se ancora non ha dato luce verde ai bombardieri americani, cosa che infastidisce non poco i suoi attuali fan, secondo i quali avrebbero dovuto farlo subito.
D’altronde, se Trump fosse del tutto organico a tali ambiti Israele non avrebbe mai attaccato in solitaria, ma si sarebbe coordinato con l’alleato fin dall’inizio. Né il presidente Usa continuerebbe a parlare di un possibile accordo con l’Iran, per fare il quale vorrebbe organizzare un incontro tra il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi e i due suoi uomini più fidati, il vicepresidente J.D. Vance e Steve Witkoff.
Anche se più che di accordo si dovrebbe parlare di una richiesta di resa incondizionata, dal momento che chiede lo smantellamento totale dell’apparato nucleare, rifiutato finora da Teheran.
Altro punto di distacco da Netanyahu e soci il fatto che non appare disposto ad assecondare un regime-change in Iran, dichiarato apertis verbis dal premier israeliano. Tale divergenza è sottolineata da un articolo di Bar’el pubblicato da Haaretz, in cui spiega che tale disposizione di Trump è evidenziata dal veto che ha posto sull’assassinio dell’ayatollah Khamenei.
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Il vero motivo per cui Israele ha attaccato l’Iran
di Ori Goldberg*
Mentre il conflitto tra Israele e Iran entra nel suo terzo giorno, le vittime da entrambe le parti aumentano. Almeno 80 persone sono state uccise in Iran e almeno 10 in Israele. Nonostante la risposta letale dell’Iran, i funzionari israeliani hanno continuato a insistere sulla necessità di attacchi contro diverse strutture nucleari e militari iraniane.
Sono state fornite numerose giustificazioni al pubblico israeliano, ma nessuna di esse spiega le vere ragioni per cui il governo israeliano ha deciso di portare a termine questo attacco unilaterale e immotivato.
Il governo israeliano sostiene che l’attacco fosse “preventivo”, volto a fronteggiare un’immediata e inevitabile minaccia da parte dell’Iran di costruire una bomba nucleare. Non sembrano esserci prove a sostegno di questa affermazione.
L’attacco israeliano è stato indubbiamente pianificato meticolosamente per un lungo periodo di tempo. Un attacco preventivo deve comportare un elemento di autodifesa, che a sua volta è generato da un’emergenza. Nessuna emergenza del genere sembra essersi verificata.
Inoltre, Israele ha suggerito che il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), pubblicato il 12 giugno, che condannava l’Iran per violazioni sostanziali degli impegni assunti nel Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari (TNP) fino all’inizio degli anni 2000, costituisca tale emergenza. Ma persino l’AIEA sembra respingere tale affermazione. Non c’era nulla nel rapporto che non fosse già noto alle parti interessate.
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La NATO in guerra
Paolo Cornetti intervista il gen. Fabio Mini
Il Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano Fabio Mini ha comandato tutti i livelli di unità Bersaglieri e ricoperto incarichi dirigenziali presso gli Stati Maggiori dell’Esercito e della Difesa. È stato Direttore dell’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI) presso il Centro Alti Studi e ha prestato servizio negli Stati Uniti, in Cina e nei Balcani. È stato Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo.
Negli ultimi anni è stato diverse volte ospite in varie televisioni in qualità di opinionista e ha già scritto, pubblicato e curato numerosi libri sui temi della difesa e della geopolitica. Inoltre, collabora con le riviste Limes e Geopolitica.
Grazie alla disponibilità del Generale e della casa editrice Dedalo abbiamo avuto la possibilità di intervistarlo in merito al suo ultimo libro La NATO in guerra – dal patto di difesa alla frenesia bellica, parte della collana Orwell diretta da Luciano Canfora.
* * * *
La Fionda: Nel Suo testo viene rimarcato spesso un divario tra la NATO in quanto organizzazione e il trattato costitutivo della NATO. Si può dire che la NATO ha tradito sé stessa? E quali sono, secondo Lei, i punti di maggiore divergenza tra ciò che la NATO è e ciò che dovrebbe essere negli intenti della sua carta fondamentale?
Generale Fabio Mini: La Nato ha effettivamente tradito sé stessa e tutti coloro che hanno servito nella Nato per decenni. O almeno tutti coloro che avevano conosciuto il Patto atlantico dalle sue origini e vissuto professionalmente la sua evoluzione.
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Israele – Iran: la guerra continua
di Gianandrea Gaiani
Aggiornato alle ore 17,00 del 17 giugno
Le operazioni iraniane contro Israele “continueranno tutta la notte, non permetteremo all’entità sionista di godere di pace e stabilità”, ha affermato nella tarda serata di ieri un comunicato del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica dell’Ian (IRGC) annunciando di aver lanciato la nona ondata dell’Operazione Vera Promessa 3 contro Israele, impiegando missili e droni. I pasdaran hanno precisato che “nelle ultime 72 ore sono state effettuate 545 operazioni con droni” contro obiettivi israeliani.
L’attacco è stato confermato dalle forze di difesa israeliane IDF che ha reso noto di aver individuato una raffica di missili balistici lanciati dall’Iran verso Israele dove le autorità hanno dato istruzioni alla popolazione di entrare nei rifugi.
“Abbiamo preso di mira la base da cui è partito l’attacco all’edificio dell’IRIB, la televisione di Stato iraniana colpita da Israele mentre le IDF hanno riferito del lancio di 10/20 missili balistici, in “buona parte” intercettati o caduti in aree disabitate.
Ma i lanci di missili e droni iraniani sono continuati tutta la notte bersagliando soprattutto le aree di Tel Aviv (colpiti secondo Teheran i comandi di Mossad e intelligence militare) e Gerusalemme e il centro-nord. L’ultimo allarme per il lancio di missili dall’Iran è stato diramato da IDF questa mattina.
In mattinata le IDF hanno reso noto di aver abbattuto nella notte circa 30 droni lanciati verso Israele, molti intercettati oltre i confini israeliani mentre altri sono stati abbattuti sulle alture del Golan.
Ieri sera l’Iran aveva attivato i sistemi di difesa aerea attendendosi evidentemente nuove incursioni aeree israeliane che nella giornata del 16 giugno si sono accanite su diversi obiettivi in diverse città e nella notte hanno colpito soprattutto l’ovest del paese dove le IDF affermano di aver distrutto decine di siti militari e di aver colpito centri di comando appartenenti alla Forza Quds del corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica.
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Il genocidio di Gaza tra decolonizzazione e competizione vittimaria
di Fabio Ciabatti
Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.
Sentimento di impotenza di fronte alla tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste angoscianti emozioni del suo autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi. Reazioni più che giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono le vicende della martoriata Striscia di terra tra Israele ed Egitto: le atrocità commesse a Gaza, approvate senza vergogna dall’élite politica e mediatica del cosiddetto mondo libero e sfacciatamente rivendicate dagli israeliani, non si limitano a minare la nostra fiducia nel progresso, ma mettono in discussione la nostra stessa concezione della natura umana, soprattutto l’idea che essa sia capace di empatia.
L’antisemitismo, oramai lo sappiamo, è stato cinicamente trasformato nella foglia di fico dietro cui si nasconde la ferocia di un genocidio trasmesso in diretta. Ma “La narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa più debole”.1 Infatti “molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire degli omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente”.2
Come è possibile che tanta atrocità abbia un appoggio internazionale così ampio, nonostante il comportamento israeliano neghi alla radice qualsiasi forma di autorappresentazione della civiltà occidentale? Certamente ci sono fondamentali ragioni di natura geopolitica. Ma c’è anche qualcosa di più che ha a che fare con il fatto che il cosiddetto mondo sviluppato si rispecchia in qualche modo nello stato sionista.
Tra i movimenti maggioritari c’è un forte senso di identificazione con uno stato etnonazionale che scatena la sua forza letale senza alcun vincolo. Questo spiega, molto meglio di qualsiasi calcolo di interesse geopolitico ed economico, la sorprendente complicità di molti occidentali in quella che è una trasgressione morale assoluta, vale a dire un genocidio3.
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L’ombra di Sigonella sui bombardamenti israeliani all’Iran
di Antonio Mazzeo
Passa immancabilmente dalla base siciliana di Sigonella parte del sostegno delle forze armate USA alla guerra di Israele contro l’Iran. Secondo il sito specializzato ItaMilRadar che monitorizza il traffico aereo militare nel Mediterraneo, nei giorni 13, 15 e 16 giugno sono state documentate lunghe missioni nello spazio aereo prossimo a Israele, Libano e alla Striscia di Gaza di un velivolo-spia Boeing P-8 “Poseidon” di US Navy, decollato dalla stazione aeronavale di Sigonella.
“L’aereo ha svolto missioni di sorveglianza particolarmente inusuali a largo della costa israeliana”, scrivono gli analisti di ItaMilRadar. “Il Poseidon ha voltato a basse quote — a volte scendendo sotto gli 800 piedi (243 metri d’altitudine, nda) — suggerendo la possibile ricerca di qualcosa che navigasse sotto la superficie del mare”.
“Tuttavia, è preferibile mantenere una certa cautela su questi voli di riconoscimento”, aggiungono gli analisti. “Negli ultimi due giorni, i Poseidon sono tornati a volare a più alte altitudini, continuando a monitorare la regione — possibilmente tenendo un occhio puntato su navi di superficie sospette, incluse unità cargo che potrebbero potenzialmente trasportare armi per tentare di attaccare Israele”.
Se resta incerta la motivazione dell’escalation dei voli nel Mediterraneo orientale degli aerei-spia di stanza a Sigonella, il trasferimento in alcune basi aeree europee di numerosi aerei cisterna di US Air Force confermerebbe l’intenzione di Washington di intervenire direttamente nel conflitto israelo-iraniano.
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MAGA vs neocons: la coalizione trumpiana si spacca sulla guerra all’Iran
di Infoaut
Qualcosa di interessante sta accadendo all’interno della coalizione che ha portato alla vittoria Donald Trump: la tentazione di entrare in guerra direttamente contro l’Iran al fianco di Israele sta creando scompiglio
Alcune importanti figure del movimento MAGA che interpretano gli umori della basa si stanno esponendo per criticare l’atteggiamento che ha tenuto l’amministrazione USA nei confronti dell’attacco israeliano all’Iran e si stanno muovendo per impedire un intervento più diretto nella guerra.
Personaggi come Tucker Carlson, Steve Bannon, Marjorie Taylor Greene, Rand Paul hanno criticato o espresso dubbi sulla scelta di Trump di celebrare l’attacco all’Iran come un risultato congiunto di Israele e Stati Uniti. Alcune testate conservatrici si sono spinte inaspettatamente a definire Israele uno “stato canaglia” e a condannare integralmente anche il massacro di Gaza.
Che il consenso unanime verso Israele si stesse indebolendo dentro la coalizione trumpiana lo si era già iniziato a notare da tempo. Durante i giorni precedenti all’operazione “Carri di Gedeone” persino Trump aveva fatto trapelare irritazione per l’atteggiamento dell’alleato. Ora che l’attacco contro l’Iran fosse una mossa concordata o che si sia trattato di un colpo di mano israeliano con Trump che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco cambia poco.
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Bombardare Teheran, ovvero il suicidio dell’Occidente
di Sergio Labate
A Gaza si continua a morire. E mentre Gaza muore noi abbiamo altro per cui riempire le nostre pagine social: la bomba atomica dell’Iran, questa gigantesca “minaccia esistenziale” per Israele e per tutti noi. Che in effetti, come è a tutti noto, non esiste e si affianca – quanto a dispositivo di propaganda – alla “minaccia esistenziale” di Putin che sarebbe già pronto a invadere Lisbona. Un’arma di distruzione di massa trasformata in arma di distrazione di massa.
Ora anche qui conviene premettere ciò che è scontato: non ho alcuna simpatia per il regime iraniano e non ho alcuna intenzione di difenderlo. Però vorrei stare ai dati di fatto. Che sono molto semplici: l’Iran ha un programma nucleare che è in itinere, la cui fine – ammettendo le peggiori intenzioni – non solo è di là da venire ma è anche rallentata da controlli serrati da parte di organismi terzi e internazionali (ci torneremo). Israele ha un arsenale atomico esibito e accertato che però viene pubblicamente e sfrontatamente sottratto a ogni controllo eventuale.
Chi legge queste righe ed è indottrinato dai cani da guardia del potere (genitivo soggettivo) – i vari Bocchino, Mieli, Meloni, Crosetto, Picierno, Fassino – dirà che questo è un punto di vista ideologico. Ecco, è proprio questo il punto da rivendicare nell’epoca della post-verità. Questi dati di fatto non sono un punto di vista soggettivo delle cose, ma le cose per ciò che sono, niente di più o niente di meno.
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Dalle armi di distruzione di massa di Saddam a quelle iraniane
di Davide Malacaria
“La questione non è se il regime iracheno debba essere eliminato, ma quando; la questione non è se si desidera vedere un cambio di regime in Iran, ma come ottenerlo. Se eliminate Saddam, il regime di Saddam, vi garantisco che avrà enormi ripercussioni positive sulla regione. Penso che la gente che vive accanto a noi in Iran […] dirà che il tempo di tali regimi, di tali despoti, è finito”.
Era il 12 settembre del 2002 quando l’allora semplice deputato Benjamin Netanyahu faceva questo discorso al Congresso esortando gli Stati Uniti ad attaccare l’Iraq, cosa che avvenne nel 2003 dopo una intensa campagna propagandistica per convincere il mondo del pericolo delle armi di distruzione di massa di Saddam.
I guerrafondai consegnati al credo delle guerre infinite non hanno molta fantasia. Non serve: sanno che, come accadde allora, la politica e l’informazione si sarebbero prontamente adeguate, con eccezioni meritorie, creando un clima favorevole ai loro crimini nell’opinione pubblica.
Oggi non c’è stato neanche bisogno di inventare di sana pianta l’esistenza delle armi di distruzione di massa dell’Iran. È bastata la denuncia dell’Agenzia atomica internazionale (AIEA) su asserite violazioni di Teheran dell’accordo sul nucleare, che però non segnalavano la bomba in arrivo, per aprire il vaso di Pandora.
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Roman Rosdolsky, «un bolscevico dell'anno 1920»
di Circolo internazionalista «coalizione operaia» - Prospettiva Marxista
Nota editoriale a Roman Rosdolsky, Studi sulla tattica rivoluzionaria, Movimento Reale, Roma, 2025
In un quadro storico in cui il proletariato mondiale si ritrova pressoché privo di proprie, autonome organizzazioni di classe; privo di significative avanguardie politiche capaci di custodire e trasmettere l’esperienza delle guerre del capitale e la coscienza della loro radice sociale, si fa minacciosamente sempre più vicino il vortice di una vasta conflagrazione imperialistica nel quale masse enormi di proletari verranno trascinate dalle proprie borghesie come carne da cannone, come manodopera da sfruttare ancora più intensamente nello sforzo bellico, come “danni collaterali” nelle gigantesche operazioni di distruzione rese possibili dal livello di sviluppo delle forze produttive del capitalismo.
Le tensioni della spartizione mondiale tra potenze e blocchi dell’imperialismo stanno ribollendo con sempre maggiore virulenza, mentre prendono sempre più forma i meccanismi ideologici con cui rendere i proletari di tutto il mondo funzionali a questo scontro di interessi a essi estranei e ostili. Le narrazioni della guerra dell’imperialismo come scontro tra “democrazie” e “autocrazie”, come difesa del “diritto” e delle “nazioni oppresse”, come passaggio obbligato per l’affermazione di un “bene” variamente declinato ma sempre rigorosamente di matrice borghese, circolano indisturbate, infettando milioni e milioni di proletari.
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Israele attacca l’Iran, in Occidente prevale il partito della guerra
di Roberto Iannuzzi
Pressato da Israele e dal “partito interventista”, Trump potrebbe finire per scatenare in Medio Oriente una guerra regionale dai risvolti imprevedibili
La guerra mossa da Israele contro l’Iran nelle prime ore del 13 giugno era per molti versi annunciata. All’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, il premier israeliano Benajmin Netanyahu aveva dichiarato che Tel Aviv avrebbe “cambiato il Medio Oriente”.
Il governo israeliano ha sfruttato quel sanguinoso evento per infliggere colpi durissimi ai propri avversari regionali riuniti nel cosiddetto “Asse della Resistenza” filo-iraniano.
Gaza, l’enclave palestinese controllata da Hamas, è stata rasa al suolo. Una violenta campagna di bombardamenti in Libano ha portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah in Libano, e all’uccisione del suo segretario generale Hassan Nasrallah.
Dopo la caduta del presidente siriano Bashar al-Assad in Siria, Israele ha smantellato le infrastrutture militari del paese con una serie di attacchi aerei. Dominando ormai i cieli siriani, e con lo spazio aereo iracheno controllato dall’alleato americano, per Israele la strada verso l’Iran era aperta.
A seguito di quegli eventi, nel dicembre 2024 avevo scritto che:
per il governo Netanyahu il trofeo finale resta l’Iran, rimasto più isolato a seguito dell’indebolimento dell’asse della resistenza.
Alla vigilia del cessate il fuoco in Libano, il premier israeliano aveva dichiarato che accettava l’accordo per tre ragioni: rifornire gli arsenali israeliani ormai svuotati, aumentare la pressione su Hamas, e concentrarsi sull’Iran.
Sulla stampa israeliana si sono moltiplicati gli articoli che parlano di una “finestra di opportunità” per colpire le installazioni nucleari iraniane alla luce dello stato di debolezza in cui si troverebbe Teheran.
La tesi è che l’Iran, isolato a livello regionale, potrebbe puntare a costruire l’arma atomica se i suoi impianti nucleari non verranno distrutti. Perciò l’aeronautica israeliana si starebbe preparando per un possibile attacco.
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True Promise 3: l’Iran risponde con la tanto attesa rappresaglia ipersonica
di Simplicius – Simplicius the Thinker
L’Iran ha lanciato la fase successiva dell’operazione True Promise 3.0, prendendo di mira diverse infrastrutture energetiche e militari israeliane. Questa volta ha utilizzato i più recenti missili ipersonici Fattah-1, che hanno avuto un impatto abbagliante su Tel Aviv e sul nord di Israele, uno spettacolo così spettacolare da rivaleggiare solo con gli attacchi [con i missili ] Oreshnik dell’anno scorso [in Ucraina]:
Fatttah-1 Hypersonic Missile hit the target and electricity gone. Look at the insane speed.pic.twitter.com/8B5Fq0Ezs8
— Sumon Kais (@sumonkais) June 14, 2025
Le scene erano quasi troppo irreali per essere credibili, come se si trattasse di un blockbuster eccessivamente spettacolare di Michael Bay. Tra gli obiettivi c’erano la raffineria di Haifa e il centro di ricerca israeliano del Weizmann Institute for Science di Rehovot, vicino a Tel Aviv:
Che ruolo ha la raffineria di Haifa, presa di mira dall’Iran? La raffineria di Haifa, nel nord della Palestina occupata, fornisce oltre il 60% del fabbisogno di carburante di Israele, dalla benzina al gasolio e fino al carburante avio. Con questi impianti danneggiati nell’attacco iraniano di questa notte, Israele dovrà affrontare un problema di approvvigionamento. Il successo dell’attacco alla raffineria di Haifa è un colpo strategico alla spina dorsale economica e militare di Israele. Il fatto che Israele taccia sull’attacco alla sua raffineria e non abbia ancora detto nulla ma si sia concentrato sui danni inflitti a Tamra – che credo siano stato causati dalla ricaduta di un missile intercettore di Israele (staremo a vedere) – dimostra che il colpo è stato doloroso. Ed è solo l’inizio…
Il New York Times, citando immagini condivise, riferisce che un centro di ricerca israeliano, il Weizmann Institute for Science, è stato danneggiato da un missile balistico iraniano nel corso degli ultimi attacchi al centro di Israele. L’edificio si trova a Rehovot, a sud di Tel Aviv e un incendio sarebbe scoppiato in uno degli edifici che contengono i laboratori.
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La gaza-izzazione dell’Occidente
di Christian Salmon
Mentre la narrativa occidentale presenta la politica genocida di Israele come semplici “operazioni militari”, a Gaza si sta in realtà sperimentando una tecnologia di dominio letale. L’Europa, più che spettatrice, è complice attiva di questa necropolitica; il suo silenzio rivela la vicinanza del suo immaginario a quello di uno Stato di Israele che non condanna, poiché entrambi condividono la stessa ossessione per il terrorismo islamista e il controllo biopolitico delle popolazioni immigrate.
Nel teatro mediatico contemporaneo, Gaza si è trasformata in un laboratorio di storytelling geopolitico. Ogni immagine, ogni testimonianza, ogni cifra diventa un elemento narrativo in una battaglia di racconti che va ben oltre i confini geografici del conflitto. Ci sono i morti di Gaza e c’è la loro scomparsa programmata nei racconti dei media occidentali. Tra i due, una macchina narrativa di formidabile efficacia trasforma un genocidio in un «conflitto complesso», i carnefici in vittime e i testimoni in «antisemiti». Come può una potenza militare genocida e i suoi alleati massacrare un popolo e vincere contemporaneamente la battaglia delle narrazioni?
Nei think tank di Washington e nelle agenzie di Hasbara, un esercito di narratori lavora giorno e notte per capovolgere la realtà. Ogni scuola bombardata diventa un «covo di terroristi», ogni ospedale distrutto nascondeva «tunnel di Hamas», ogni giornalista ucciso era un «combattente travestito». Gaza non è più solo un territorio di 365 chilometri quadrati dove sono ammassati due milioni di esseri umani. Gaza è diventata una storia, o meglio un campo di battaglia di storie… Nei corridoi ovattati dei ministeri e delle agenzie di comunicazione non si parla più di «guerra» ma di «operazione», non più di «bombardamenti» ma di «attacchi chirurgici», non più di «civili morti» ma di «danni collaterali». Il vocabolario militare si è trasformato in un linguaggio marketing, modellato dagli “spin doctor” che trasformano la realtà in una storia formattata per l’opinione pubblica occidentale.
Se c’è una cosa che viene occultata dalla ricorrente esposizione mediatica delle “narrazioni” israeliana e palestinese (autodifesa e resistenza) e dalla falsa simmetria delle forze in campo, è proprio la natura di questa guerra che, nella sua estrema razionalità, sconvolge tutto ciò che pensavamo di sapere sulla guerra totale, la guerra civile o la guerra coloniale.
È una guerra multidimensionale, combattuta in aria, sulla terra e persino nei sotterranei della Striscia di Gaza.
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Sul nucleare iraniano sterminati branchi di castronerie
di Massimo Zucchetti
Insegno al MIT un corso dal titolo: “Protect yourself at all times. Nuclear proliferation and control strategies through technology“.
Nonostante quello che mi hanno fatto, l’anno prossimo lo terrò anche al Politecnico di Torino, in un corso di dottorato.
La prima frase del titolo è quello che dicono gli arbitri ai due pugili prima dell’incontro.
Succede che il sottoscritto sia il maggior esperto italiano di disarmo nucleare. E’ un fatto, non una vanteria. C’è una classifichina internazionale piena di stranieri, perché in Italia – essendo un paese di servi asservito agli USA – pochi *tecnologi* se ne occupano. Sono, bontà loro, il primo italiano in codesto elenco, se si escludono colleghi che lavorano per la IAEA, ma quando sei lì rinunci naturalmente alla tua “nazionalità”.
Ho partecipato ai negoziati per l’accordo JPCOA con l’Iran nel 2015.
Leggo in questi giorni – da buoni e cattivi – castronerie a branchi. Sterminati branchi di castronerie.
Proviamo a smentirle, non si sa mai che uno su un milione capisca in quale oceano di bullshit lo stanno affogando.
1) L’Iran NON ha la bomba atomica. Non ci è neanche vicino, ad averla.
2) La IAEA ha ultimamente intensificato la frequenza delle sue ispezioni, dati i timori USA sulla non-adempienza dell’Iran ad alcune regolette, soprattutto sull’arricchimento dell’uranio.
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Israele ha aperto il vaso di pandora dell’atomica
di Pino Arlacchi*
Gli eventi della notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 rimarranno nella storia come il momento in cui l’irresponsabilità criminale di Tel Aviv, sostenuta dalla complicità di Washington e dall’impotenza dell’Europa, ha dato un colpo, forse mortale, al maggiore ostacolo verso la guerra atomica: il regime di non proliferazione nucleare stabilito dal Trattato del 1970 (Tnp) e costruito pazientemente nei decenni successivi alla Guerra fredda. Israele ha commesso un delitto di proporzioni storiche. Bombardando le installazioni nucleari civili di uno Stato parte del Tnp, posto sotto il controllo dell’Agenzia Atomica di Vienna (Aiea), Netanyahu ha violato simultaneamente il diritto internazionale, la Carta Onu e ogni principio di proporzionalità. Ma l’aspetto più grave è che questo atto ha fornito all’Iran la giustificazione giuridica perfetta per ritirarsi dal Tnp e sviluppare armi nucleari in piena legalità internazionale.
L’articolo 10 del Tnp permette il ritiro quando “eventi straordinari abbiano messo in pericolo gli interessi supremi” di uno Stato. È difficile immaginare evento più straordinario di un assalto militare. La Corea del Nord invocò lo stesso articolo nel 2003 per molto meno. E tre anni dopo aveva la bomba, in regime di legalità internazionale perché non si è mai riusciti a proibire l’atomica. L’Iran può ora citare un pesante attacco militare contro la sua sovranità territoriale e le sue installazioni militari legali. Netanyahu ha appena regalato all’Iran la strada legale verso l’arma nucleare. Gli Stati Uniti si sono resi complici di questa catastrofe diplomatica.
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I portuali, la città, il traffico delle armi del genocidio. A proposito di lotta di classe
di Stefano Rota*
Proponiamo un articolo di Stefano Rota estratto dal blog Transglobal: I portuali, la città, il traffico delle armi del genocidio. A proposito di lotta di classe vogliamo mettere anche noi l'accento "sulla crescente forza strategica della logistica e della finanza nei processi globali di creazione di valore. La logistica ha dei punti deboli nella catena di approvvigionamento su scala mondiale (ne ha anche la finanza, ma sono di altra natura). Sono quelli in cui una forza organizzata riesce a bloccare temporaneamente o rendere problematico il fluire di merci. Questo vale per i porti, per Amazon, per gli Steamers americani. Mettersi con i propri corpi in quegli snodi, con il blocco di un varco o il picchetto all’entrata di un magazzino, significa mettere in evidenza la (parziale) vulnerabilità della supply chain, costringere a cambiamenti di rotta marittima o autostradale le corporations che gestiscono quelle catene. Viene in mente una domanda che ha fatto Foucault nel corso di due interviste nella seconda metà degli anni Settanta: “Quando parliamo di lotta di classe, di che lotta stiamo parlando?” Di queste azioni, non c’è dubbio."
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Bombe sull'Iran: Israele apre il vaso di Pandora
di Davide Malacaria
Nessuna condanna dei leader occidentali per l’attacco del tutto illegittimo contro l’Iran. Un allineamento a Israele inquietante, non solo perché evidenzia la subordinazione a un Paese impegnato nel genocidio dei palestinesi, ma anche per le prospettive che apre: sia in politica estera, con il possibile ingaggio in una guerra aperta a fianco degli incendiari israeliani; sia all’interno, dove la democrazia viene erosa ogni giorno di più dalla connivenza con la follia israeliana.
Le connivenze dell’Occidente
Quanto scritto non si riferisce alla sola America che, pure informata, non ha partecipato ai raid per salvaguardare le sue basi nella regione (Trump non ha dato luce verde, anche se tanti tentano di accreditare tale placet, ma certo un supporto Usa c’è stato), ma all’Occidente collettivo, il cui più o meno tacito sostegno a questo atto di guerra insensata rappresenta un momento epifanico.
Quanto alla giustificazione del raid da parte del Cancelliere Friedrich Merz che ha invocato per Israele il diritto all’autodifesa, rimandiamo a un articolo di Pankaj Mishra sul Guardian che descrive come l’afflato filo-israeliano della Germania, che ha finito per abbracciare “l’etnonazionalismo omicida” di Gaza, non nasca dal senso di colpa per l’Olocausto, ma si nutra del razzismo nazista rimasto sottotraccia nella cultura e nella società teutonica e con il quale il Paese non ha mai fatto i conti (Macron è andato a ruota, ma per riflesso pavloviano).
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