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False promesse e ristrutturazioni ai danni dei lavoratori
di Alessandra Ciattini e Federico Giusti
Prima e dopo il neoliberismo
Lavorare meno per lavorare tutti\e, era uno slogan, anzi un obiettivo, del movimento operaio per ridurre l’orario giornaliero e settimanale, allentare la morsa dello sfruttamento, favorire nuova occupazione sapendo che un esercito industriale di riserva avrebbe potuto alla lunga determinare la contrazione dei salari e un sostanziale arretramento delle condizioni di vita e di lavoro. Il progresso tecnologico, consentendo di ridurre il lavoro necessario alla produzione rende la riduzione dell’orario di lavoro non solo possibile, ma anche necessaria se vogliamo garantire il lavoro a tutti. Perciò tale riduzione a parità salariale, in un determinato contesto storico, ha rappresentato anche una richiesta legata alla riconquista dei tempi di vita a favore dello studio, del tempo libero e delle relazioni familiari e sociali. Per lo stesso motivo il capitale rifugge la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario in quanto il ricatto della disoccupazione costituisce un formidabile fattore di disciplinamento della classe lavoratrice.
Erano gli anni nei quali le ricette neo liberiste in economia e in campo sociale non avevano ancora preso il sopravvento e lo Stato sociale, costruito prevalentemente sulle famiglie monoreddito, per quanto incompleto era tale da consentire una pensione dignitosa (gli anni maturati erano calcolati con il sistema retributivo con un assegno previdenziale in linea con gli ultimi stipendi percepiti), servizi pubblici in campo educativo e sanitario tali da far studiare i figli all’università, grazie anche alle allora famose 150 ore, assicurando alla popolazione il diritto alla cura e alla prevenzione, alla tutela insomma della salute.
Erano anche gli anni nei quali si rivendicava una medicina del lavoro atta a prevenire malattie professionali o a curarle con ampio ricorso a servizi gratuiti e semi gratuiti.
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Domenico Losurdo e i marxismi
di Salvatore Bravo
Capire la catastrofe che ha condotto la sinistra comunista a essere numericamente irrilevante è la via per comprendere la sua rinascita. Il liberismo impera da sinistra a destra, l’intero impianto parlamentare è sostanzialmente monopartitico. I nomi cambiano, i volti si susseguono, le parole, pertanto, celano messaggi sempre eguali, “democrazia”, dunque, ma senza opposizione. Essa agonizza sotto i colpi del formalismo giuridico. La Stato democratico protocollare è il segno della verità del liberismo: democrazia e liberismo sono un ossimoro. Gli studi di Domenico Losurdo lo dimostrano, per porre il liberismo nella sua cornice storica reale ed effettuale, è opportuno disporsi in una prospettiva storica non eurocentrica. Vi sono dogmi che bisogna rimettere in discussione, in modo da infrangere la sudditanza al politicamente corretto e riaprire “il tempo nuovo” della storia. La verità del liberismo è espressa massimamente nel colonialismo con il suo corollario di saccheggi e genocidi. Essi sono stati la normalità truculenta non riconosciuta della storia delle democrazie occidentali. La rimozione della politica coloniale liberista e la sua insufficiente tematizzazione hanno rafforzato il liberismo e hanno indebolito il comunismo, al punto che si possono individuare due tipi di marxismi: il marxismo occidentale e il marxismo orientale che, con il trascorrere dei decenni e delle lotte coloniali, hanno assunto identità profondamente diverse. La divisione indebolisce la progettualità politica e l’impianto critico, Domenico Losurdo individua nella contrapposizione senza sintesi dei due marxismi una delle cause strutturali della crisi del comunismo:
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Re-inquadrare. Funzione intellettuale, cornice e istigazione (in una società di like e influencer) (Prima parte)
di Gaspare Nevola
(IN SALA IL BRUSIO E’ ANDATO CRESCENDO…)
Mmm… Siate comprensivi, per favore, un po’ di silenzio. Diamo subito la parola a George Orwell. Grazie.
GEORGE ORWELL PRENDE LA PAROLA… (SIAMO NEL 1948 – No, ma se volete divertitevi pure a invertire gli ultimi due numeri o a immaginare di essere nel 2023).
Gentili signore e gentili signori…
Voglio solo sottolineare che il tipo di Stato che ci governa dipende necessariamente, almeno in parte, dall’atmosfera intellettuale dominante… Sono interessato all’effetto che le idee politiche e la necessità di schierarsi politicamente producono sulle persone di buona volontà.
Questa è un’età politica…
L’autentica reazione a un libro, ammesso che ci sia una reazione, di solito è “questo libro mi piace” oppure “non mi piace”… “questo libro sta dalla mia parte, quindi devo trovarci dei pregi”. Naturalmente, quando elogiamo un libro per ragioni politiche possiamo essere emotivamente sinceri, nel senso di approvarlo davvero in modo convinto; ma spesso capita che anche la fedeltà di partito richieda una palese menzogna… A ogni modo, innumerevoli libri a favore o contro la Russia…, a favore o contro il sionismo, a favore o contro la Chiesa cattolica e così via vengono giudicati prima di essere letti, e in realtà ancor prima che siano scritti. (…)
In noi si è sviluppata… una coscienza delle enormi ingiustizie e miserie del mondo (…)
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Salario minimo e questione salariale generale: gli obiettivi di una nuova lotta di classe contro il governo e le forze sindacali concertative
Editoriale di Stefano Tenenti*
La crescita esponenziale del lavoro povero
L’Italia è l’unico Paese OCSE in cui le retribuzioni medie lorde negli ultimi trenta anni sono diminuite. Mentre in Germania sono salite del 33,7% e in Francia del 31,1% in Italia si è registrato un calo del 2,9%. Nessun Paese occidentale ha avuto un andamento peggiore del nostro, come si evince dal 55° rapporto CENSIS 2021 sulla situazione sociale del Paese. nel frattempo le cose sono ulteriormente peggiorate.
Dentro questa situazione media generale si registra l’allargamento clamoroso del lavoro povero. Il ministro del lavoro Orlando, in carica fino a ottobre 2022 che aveva incaricato un gruppo di studiosi in materia per una ricerca correlata, ha chiarito che i “lavoratori poveri” in Italia sono il 25% del totale, uno su quattro, con una significativa differenza tra gli uomini che sono il 16,5% e le donne che invece schizzano al 31,8%. I settori dove si concentra questa condizione sono quello turistico-alberghiero, il commercio, il pulimento, la vigilanza, l’agricoltura, pur estendendosi a tutta l’economia del Paese. E questi non sono i dati peggiori, perché ci sono altri studi che, concentrandosi sul solo salario, avevano stabilito che sotto la soglia d’indigenza, nel 2017, si collocava il 32,4% della popolazione. (VisitINPS Scholars).
Ovviamente c’è un dato strutturale che spiega questa diffusione del lavoro sottopagato rappresentato dalla deindustrializzazione nazionale favorita dalla dismissione di gran parte dell’economia pubblica e dalla conseguente scomparsa di una politica industriale. Ma c’è anche un dato politico che pesa fortemente: la diffusione dei bassi salari e della conseguente ricattabilità di tutti i lavoratori aiuta i governi, da ultimo quello Meloni, a perseguire linee di concorrenza interna del mercato del lavoro che aiutano a spingere le retribuzioni verso il basso.
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Dobbiamo smettere di insegnare l'economia neoclassica?
Perpetuarla non aiuta gli studenti
di Louis-Philippe Rochon, Sergio Rossi
Dobbiamo insegnarla, ma solo per confutarla, per rendere gli studenti consapevoli di ciò che vi è di sbagliato ed estraneo al funzionamento dei mercati. Occorre fare una distinzione: se è vero che i mercati non seguono le leggi dell'economia neoclassica, il mondo è però dominato dalla sua pratica. Gli specialisti del governo, i politici, i banchieri e i professori preferiscono ignorare questa linea di separazione. Ma sono proprio questa consapevolezza e questa distinzione che dobbiamo insegnare ai nostri studenti.
* * * *
Ci sono molti articoli, blog e libri che criticano l'economia neoclassica - l'economia "volgare" - e che mettono in luce i suoi numerosi fallimenti. L'elenco è troppo lungo per discuterli tutti in questa sede, ma è abbastanza facile trovarli elencati nel canone della letteratura post-keynesiana ed eterodossa.
Autori come Paul Davidson hanno messo ripetutamente in discussione il realismo delle ipotesi neoclassiche, che non sono una descrizione adeguata del "mondo reale". Altri ancora, come Vicky Chick, hanno lamentato i difetti metodologici dell'economia neoclassica e la sua dipendenza dall'individualismo atomistico, dalla convergenza all'equilibrio, da meccanismi di autoregolazione e simili. Per alcuni, l'economia neoclassica "è morta", come sostiene Steven Klees, dell'Università del Maryland.
Eppure, una rapida occhiata a quasi tutte le riviste e ai dipartimenti universitari conferma che l'economia neoclassica non è morta, anzi. Essa prospera nei dipartimenti universitari ed è ancora considerata l'unica opzione disponibile, nonostante l'ascesa di punti di vista alternativi, come la Modern Money Theory, o di idee eterodosse che lentamente si insinuano negli approcci tradizionali.
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Nemici giurati, falsi amici e veri alleati della causa palestinese
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Tocca a noi internazionalisti militanti, nemici irriducibili di ogni potere borghese, dire un’amara verità: se il genocidio di palestinesi in corso a Gaza potrà andare avanti per mesi fino a rendere totalmente inabitabile quel territorio per i suoi abitanti, come ha programmato il boia Netanyahu, questo potrà succedere solo ed esclusivamente per le armi e i dollari amerikani, il petrolio azero, arabo, brasiliano, russo, la complicità degli stati e dei luridi mass media italiani ed europei, e infine per il cinismo degli altri falsi amici della causa palestinese (Turchia, Cina, Iran) che stanno alla finestra a guardare impassibili l’orrendo “spettacolo”, studiando come poter trarre profitto dal sangue versato dai palestinesi.
Con tutte le differenziazioni e le contraddizioni del caso, contro i palestinesi, il popolo più proletarizzato e irriducibile del mondo, si è venuta a saldare un’alleanza di fatto delle più grandi potenze del capitale.
Ad aiutare Israele a portare avanti la sua azione genocida, non c’è solo l’“Occidente collettivo”, nemico giurato della libertà delle masse palestinesi, con gli Stati Uniti del capo-killer Biden in testa. C’è la banda dei Brics, vecchi e nuovi. C’è la Russia, storica grande amica di Israele e soprattutto della sua destra ultra-sionista, disposta a prendere verbalmente le distanze dal massacro solo per darne la colpa a Washington, e proteggere con questo escamotage i gangster al potere in Israele. C’è il Brasile, grande fornitore di petrolio a Tel Aviv. C’è l’India che, a mattanza in corso, ha concluso un accordo di fornitura di manodopera a Israele per sostituire decine di migliaia di proletari palestinesi da licenziare e da sprofondare nella disoccupazione e nella povertà. Ci sono tutti i paesi arabi che – al di là delle frasi di circostanza – non hanno mosso un solo dito per bloccare, e neppure ridurre, le forniture di petrolio essenziali per lo sterminio.
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Film da non vedere: “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi
di Joe Galaxy
Recensioni entusiaste, elogi sperticati di amiche e amici, voci che rimbalzano per ogni dove… siamo incuriositi a tal punto che ci siamo decisi: andiamo anche noi a vedere questo mitico film, quello della Cortellesi, “di cui tutti parlano”.
“Fusse che fusse…” e ci trovassimo di fronte a un film che rompe gli schemi ed esce finalmente dai binari del conformismo lecchino e complice, della commediola soporifera e vuota e della soap opera inguardabile e avvilente che intasano i nostri schermi. Andiamo, dunque! Il cinema è persino a cinquecento metri da casa, tutto torna, gli dèi sono con noi, sarà un film bellissimo (o almeno interessante).
Passano due ore (qualcosa in più, a causa del martellamento pubblicitario che precede il film, che non ci molla neanche in questa occasione, figuriamoci…) ed eccoci fuori. Cos’è successo nel frattempo? Se può interessare, ecco le nostre impressioni:
Innazitutto, ‘sto marito che la “corca de bbotte” (per restare al romanesco del film) ci appare subito un po’ troppo marcato. Sicuramente è stato delineato con questi tratti forti perché deve soprattutto rappresentare una sorta di archetipo del maschio patriarca, e simboleggiare un mondo di soprusi intollerabili. Tuttavia questa figura così fortemente caratterizzata rischia di far svanire molte sfumature del dominio patriarcale in famiglia, spesso molto più sottili di una salva di volgari legnate, ma non per questo meno dolorose. Nonché di assolvere a priori la soggettività femminile che invece, spesso, nelle famiglie ha contribuito attivamente a rendere la vita di casa un piccolo inferno (per esempio, accettando senza reagire lo stato di fatto, e anzi mettendoci del proprio) – anche se di solito in modo diverso dal temibile patriarca.
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Ucraina: fine dell’illusione occidentale
di Roberto Iannuzzi
Kiev sta esaurendo le sue limitate scorte di uomini, armi e munizioni, e l’Occidente non può fornirle ciò di cui ha bisogno. Per americani ed europei è un duro, quanto inevitabile, risveglio
Dopo quasi due anni di guerra estenuante, con una controffensiva fallita malgrado i lunghi mesi di preparazione e i miliardi di dollari spesi dagli alleati occidentali, nella capitale ucraina emergono pericolose divisioni ed è palpabile la disillusione.
Kiev si ritrova a cercare disperatamente di richiamare l’attenzione di Stati Uniti ed Europa, focalizzata sul conflitto di Gaza e sulle rispettive grane interne, mentre un lungo e duro inverno attende le decimate truppe ucraine, ormai ridotte sulla difensiva su gran parte del lunghissimo fronte.
Che l’Occidente abbia distolto lo sguardo dall’Ucraina non è un caso. Il conflitto ha infranto gran parte delle illusioni americane ed europee. A cominciare da quella di poter replicare le controffensive ingannevolmente vittoriose che poco più di un anno fa avevano permesso a Kiev di riprendere territori, a Kharkiv nell’est ed a Kherson nel sud del paese.
La “controffensiva di primavera”, poi rimandata all’estate, nelle aspettative era stata descritta come una campagna potenzialmente decisiva contro l’occupazione russa, che ne avrebbe spezzato il corridoio terrestre che unisce il Donbass alla Crimea, addirittura minacciando il controllo russo di quest’ultima.
Lanciata a giugno, tale controffensiva ha invece intaccato solo marginalmente la linea fortificata delle difese russe, al prezzo di enormi perdite per gli ucraini.
Voci inascoltate in Occidente
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L’ULTIMO 25 NOVEMBRE. Contro la variante fucsia del disciplinamento sociale
di Il Rovescio
Dopo quest’ultimo 25 novembre, proponiamo due testi diversi, che ci sembrano consonanti nel loro essere fuori dal coro. Il primo è della Coordinamenta femminista e lesbica, ed è già stato pubblicato sul loro blog https://coordinamenta.noblogs.org/. Il secondo, scritto da una compagna comunista, è inedito.
Se condividiamo l’allergia di queste compagne verso tutte le proteste comandate, nonché la denuncia della evidente strumentalizzazione istituzionale-poliziesca della vicenda di Giulia Cecchettin (e prima ancora dello stupro di Caivano), aggiungiamo da parte nostra una nota problematica.
Se dietro le mobilitazioni dello scorso 25 novembre (e più in generale dietro la riscoperta di massa, negli ultimi anni, delle questioni di genere) è difficile non scorgere una energica e interessata spinta mediatica, ci pare anche che la questione dei femminicidi e dell’oppressione patriarcale sia tanto reale1 quanto sentita. Mentre a dircelo è innanzitutto la vastità delle manifestazioni, attraversate da centinaia di migliaia di persone di ogni sesso e genere, «le piazze più sincere e arrabbiate» sembrano covare (e a tratti comunicare) anche una eccedenza, un bisogno di stravolgimento degli attuali rapporti sociali. Ce lo dicono sia alcuni slogan (a partire dal «se non torno a casa, bruciate tutto» nato dalle parole di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia), sia alcune azioni (come il meritorio infrangimento delle vetrine dell’associazione antiabortista Pro Vita durante la manifestazione a Roma). Insomma, pare che ormai molte persone, specialmente giovani, identifichino come patriarcato la totalità della presente organizzazione sociale, esigendo, in un modo o nell’altro, il suo superamento…
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Info-warfare, la 'terza guerra'
di Enrico Tomaselli
Un’analisi della info-warfare, la guerra dell’informazione, in relazione ai due principali conflitti in atto, quello russo-ucraino in Europa e quello israelo-palestinese in Medio Oriente. Come questa terza guerra si collega alle altre due guerre, e come interagisce con esse. Non solo propaganda, ma anche psy-ops
Nell’ambito della Grande Guerra Globale in cui ci troviamo immersi – e che segnerà certamente i decenni a venire – possiamo vedere in atto almeno tre guerre: quella europea, quella mediorientale e quella dell’informazione. Le prime due cercano di ottenere risultati politici attraverso l’uso delle armi, la terza attraverso il condizionamento delle opinioni pubbliche mondiali (e quindi dei governi).
Ma non si tratta di tre guerre separate, anzi sono strettamente intrecciate le une con le altre, e sotto molteplici aspetti. Delle relazioni tra le due guerre guerreggiate abbiamo del resto già detto in un precedente articolo [1].Le mosse tattiche e le manovre strategiche della guerra informativa tengono conto di quanto avviene sui campi di battaglia, cercano di darvi un senso inquadrandolo in una particolare lettura, sia al fine di confondere (e/o mobilitare) le opinioni pubbliche, sia nell’ambito di vere e proprie psy-ops volte a disorientare il nemico o a proteggere la parte che le mette in atto.
Se si tiene in mente questa premessa, si può provare a decifrare il significato di molte recenti mosse tattiche di questa guerra dell’informazione. E già il loro intensificarsi, per quantità e per qualità, oltre che per i contenuti, suggerisce chiaramente come le guerre guerreggiate siano in una fase critica, che richiede interventi narrativi esterni ai campi di battaglia.
In particolare, esamineremo sia dichiarazioni ufficiali, come quella del Segretario alla Difesa USA Lloyd Austin, che una serie di indiscrezioni e analisi giornalistiche, con riferimento sia al conflitto russo-ucraino che a quello israelo-palestinese.
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L’ombra della guerra si allunga in Sudamerica?
di Paolo Arigotti
La storia del Venezuela è molto tormentata, il canale di Nova Lectio le ha dedicato un paio di video di approfondimento circa due anni fa[1]. Assai meno conosciuta, invece, è quella di un altro paese ai suoi confini, la Guyana, per meglio dire la Repubblica cooperativa della Guyana, per distinguerla da quella francese, uno dei territori d’oltremare, residuo dell’immenso impero coloniale di un tempo, e il Suriname, ex Guyana olandese, indipendente dal 1975.
Questa nazione grande più o meno 100mila kmq quadrati in meno rispetto all’Italia (all’incirca 214mila contro i 301mila nostrani), con una popolazione di poco più di 800mila abitanti – il 40 per cento dei quali ancora nel 2017 viveva in condizioni di povertà – si affaccia sull’oceano Atlantico e confina con Venezuela, Brasile e Suriname. Il suo territorio è costituito in buona parte da foresta amazzonica ed è ricco di giacimenti petroliferi, ma anche di altre risorse naturali come gas, oro, diamanti, acqua e legname, con un sottosuolo e una piattaforma continentale in buona parte ancora da sfruttare.
La sua storia è molto articolata. Tra le curiosità che vogliamo citare, forse poco conosciuta, è che in conclusione di una delle diverse guerra combattute nel ‘600 tra inglesi e olandesi, i Paesi Bassi riacquistarono una serie di territori perduti, compreso quello corrispondente all’attuale Suriname, cedendo in cambio all’Inghilterra la città di Nuova Amsterdam, che poi sarebbe stata ribattezzata New York in onore del Duca di York.
La colonia britannica della Guyana sarebbe stata formalmente costituita nel 1831. Furono i nuovi padroni ad avviare la bonifica del territorio e impiantarvi colture intensive, a cominciare dalla canna da zucchero, che favorì l’industria dei derivati di rum e melassa.
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Nella striscia di Gaza si sta consumando un genocidio?
di Paolo Arigotti
Una premessa importante.
Nessuno qui ha la benché minima intenzione di avallare e/o giustificare una serie di azioni criminali, di qualunque provenienza, ma soltanto di fare un ragionamento per quanto possibile fondato sui fatti e sul diritto.
Naturalmente il focus si concentra su quanto sta avvenendo, sotto gli occhi del mondo, in Terra Santa, e tenteremo di capire se possa, o meno, essere corretto parlare al riguardo di “genocidio”.
Caitlin Johnstone, giornalista australiana, ha scritto di recente che: “Se decidessi di commettere un genocidio, mi assicurerei di uccidere più donne e bambini possibile per eliminare le generazioni future delle persone che sto cercando di spazzare via. Ora che si penso, immagino che farei sostanzialmente quello che Israele sta facendo a Gaza”[1].
Il contributo, ripreso e pubblicato in un articolo[2] dell’Ambasciatore Alberto Bradanini, ci porta dritti alla questione.
Il cosiddetto mainstream subito dopo l’attentato terroristico del 7 ottobre, attribuito ad Hamas, ha sposato senza riserve la tesi secondo cui la reazione dello stato ebraico possa essere avallata per il principio che “Israele ha diritto di difendersi”: potremmo citare numerosi interventi in questa senso, ma preferiamo lasciar perdere, rimandando – per chi lo desidera – ai singoli contributi.
Il diritto alla difesa legittima è, in via di principio, indiscutibile, essendo previsto anche dall’art. 51[3] della Carta delle Nazioni Unite: il problema non riguarda il principio, ma la sua applicazione, che deve necessariamente essere valutata rapportandola al caso concreto.
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Pandemia e complottismo: la zoonosi
di Alessandro Bartoloni
I commenti pubblicati su Sinistrainrete alla relazione del compagno Alessandro Pascale intitolata Le menzogne sulla pandemia COVID ben testimoniano lo stato dell’analisi da parte della cosiddetta sinistra. Per molti, troppi, compagni, pensare che il SARS-CoV-2 sia un prodotto artificiale è ancora sinonimo di complottismo e irrazionalismo antiscientifico. Un po’ perché a rilanciare per primi la tesi dell’origine artificiale del virus sono stati gli esponenti della peggior destra (ad es. Matteo Salvini), dimostrando con ciò che anche tra le nostre fila c’è chi guarda il dito e non la Luna. Un po’ perché la sinistra più o meno antagonista ha da tempo abbracciato il paradigma epistemico popperiano che contrappone la scienza ad una presunta “teoria cospiratoria della società”[1]. E poi perché, dettaglio non da poco, prove concrete dell’origine artificiale del virus non ne sono ancora emerse.Pertanto, la maggior parte delle voci critiche predilige la teoria che vuole il SARS-CoV-2 nato tra i pipistrelli e arrivato all’uomo attraverso il cosiddetto “salto di specie” (zoonosi o spillover, che dir si voglia), con la complicità di qualche pangolino e del mercato di Wuhan. In pratica, saremmo di fronte ad un fenomeno naturale la cui probabilità di accadimento è aumentata a causa delle attività umane. Una posizione apparentemente inoppugnabile e chiaramente espressa dagli specialisti. «Se il momento esatto e la natura della comparsa di una malattia non può essere previsto, è necessario considerare seriamente l’aumentata probabilità di rilevare e affrontare una precipitazione degli eventi fino all’emergenza a causa di ambienti antropizzati»[2]. Così alcuni ricercatori nel 2018 che hanno studiato proprio l’interazione tra pipistrelli, Coronavirus e deforestazione e per i quali «la probabilità di insorgenza del rischio di infezione è in aumento a causa dei cambiamenti ambientali e della maggiore pressione sull’ambiente».
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“Uneasy rider” di Valentina De Nevi
Una recensione e alcune considerazioni sul quadro attuale
di Mauro De Agostini
Valentina De Nevi, “Uneasy rider. La storia nascosta del food delivery,” Novalogos, 2022, 129 p., 14 euro
Il libro si propone di “indagare il mondo del food delivery in quanto contesto di oggettivazione delle dinamiche di quello che è stato definito ‘capitalismo delle piattaforme’” (p. 7), l’indagine si è svolta in pieno periodo pandemico (con tutte le difficoltà del caso) attraverso colloqui con esponenti delle Camere del lavoro autonomo e precario e della Rider Union di Bologna, interviste a rider, analisi dei siti e social e lo studio di un ricco apparato di studi preesistenti. Purtroppo, come precisa l’autrice, non è stato possibile includere tra gli intervistati lavoratori immigrati (ormai massicciamente presenti nel settore), questo sia a causa delle barriere linguistiche, sia dal fatto che, causa le limitazioni della pandemia, l’autrice ha dovuto svolgere buona parte della ricerca sul campo nel proprio luogo di residenza: una città medio-piccola del centro Italia. I rider intervistati lavoravano per Just Eat, Deliveroo e per una azienda locale, una rider è stata accompagnata nel corso di una settimana nel suo lavoro di consegna (p.15-19, 92).
Dalla ricerca emerge tra l’altro che le app di food delivery (consegna di cibo. Il lettore ci scuserà ma ormai sembra impossibile parlare di alcunché senza un profluvio di anglicismi) permettono di lucrare contemporaneamente sui ristoratori (che pagano per il servizio), sui lavoratori sui quali vengono scaricati i costi materiali e immateriali attraverso la pratica del cottimo che “riemerge da un passato che si pensava lontano ed esonda senza argini dallo spazio digitale al terreno sociale: lo sfruttamento è ‘arcaico’ ma il padrone è un algoritmo” (p. 8), ma anche (ben aldilà dell’ovvia commissione richiesta) sugli stessi clienti.
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Capitalismo woke
di Salvatore Bravo
Populismo aziendale
Il capitalismo woke è la nuova frontiera del capitale. Le metamorfosi sinuose del capitalismo sono in linea con il nichilismo che lo sostanzia. La capacità di sopravvivere del modo di produzione capitalistico ha la sua ragione profonda nel vuoto metafisico del capitale. L’economia si autofonda, non ha verità sul suo fondo, è causa sui. Tutto è solo valore di scambio: la vita e la morte valgono fin quando producono PIL. Solo in tal modo riusciamo a comprendere la via che sta battendo il capitale: dal 2024 sarà possibile in Canada per i malati psichici chiedere il diritto “alla dolce morte”. Non si investe per sanare gli effetti sulla psiche e sul corpo di un sistema che nega la natura umana e sociale, si incentiva l’autoeliminazione. Coloro che non sono resilienti possono chiedere il diritto alla morte. Nessuna indagine o analisi sulla causa del male di vivere, si procede per “la libera eliminazione degli ultimi”.
Il capitalismo è ateo, poiché non contempla la verità, ma la avversa. L’ateismo del capitalismo è libertà da ogni vincolo veritativo.
Tutto è spettacolo e tutto “deve fare PIL”.
Il capitalismo è assoluto, in quanto ab solutus, sciolto da ogni vincolo etico e da ogni progettualità politica. La comunità non è contemplata, essa è solo “mercato”.
L’ultima frontiera del capitale è Il capitalismo woke (progressista), è dunque la nuova metamorfosi, tale mutazione genetica non cambia la sostanza del capitalismo, anzi ne accentua la pericolosità.
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Patto di Abramo, BRI e IMEC: le caratteristiche economiche della questione palestinese
di Francesco Schettino
Introduzione
Gli eventi del 7 ottobre e quelli che sono avvenuti nelle settimane appena successive sono stati senza dubbio caratterizzati da un livello di violenza senza precedenti. Per quanto l’attacco palestinese sia stato sicuramente enfatizzato e strumentalmente caricato di brutalità con notizie che al momento non sono state in gran parte verificate (parliamo di stupri, decapitazioni di bambini israeliani ecc.)[1], di certo, per mano di Hamas, degli altri gruppi che hanno organizzato l’attacco e dello stesso esercito israeliano[2] che è intervenuto, molto sangue è stato sparso[3]. Nelle settimane immediatamente successive, la rappresaglia contro Gaza e Cisgiordania è stata estremamente violenta determinando una quantità di vittime che al 27.11.2023 è così contabilizzata secondo l’Osservatorio per i diritti umani Euro-Med: il 61% delle vittime non sono uomini adulti. 8.176 sono bambini e 4.112 donne. Peraltro, delle 20.000 morti accertate, il 92% sono civili e più dell’80% della popolazione di Gaza (circa 1,7 milioni di abitanti) è stata sfollata dalle proprie case e vive in luoghi non sicuri e pieni di enormi difficoltà, in primis il reperimento di cibo. In altri termini nei primi 50 giorni di aggressione israeliana quotidianamente, in media, sono stati uccisi 167 bambini e 377 civili. Si immagini che in una situazione per alcuni versi simile, quella del conflitto ucraino-russo, in meno di 2 anni di guerra sono stati uccisi meno di 10.000 civili.
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Rivoluzione tecnologica o rivoluzione sociale? Quale soluzione alla crisi ecologica
di Matteo Cini
Nella comunità scientifica si fa sempre più chiaro come la crisi climatica rischi di raggiungere un punto di non ritorno (‘tipping point’). Putroppo, scienziati ed economisti legati a chi detiene le leve dell’economia, della politica e dei media egemonizzano la ricerca e diffondono visioni tecno-ottimiste. Non sarà però una nuova tecnologia miracolosa a scongiurare il disastro ecologico, ma la saldatura tra prospettiva anticapitalista, classe lavoratrice e movimento ecologista. Un contributo di Matteo Cini, ricercatore in fisica dei cambiamenti climatici.
* * * *
I “social tipping points” rappresentano uno sviluppo della ricerca sui “tipping points climatologici”, o “tipping points” (“punti di non ritorno”) propriamente detti. Riprendiamo per punti essenziali il tema dei tipping points climatologici e vediamo di capire meglio questo concetto: i cambiamenti climatici non sono un processo di riscaldamento lineare e omogeneo condito da un aumento della frequenza e portata di eventi estremi (alluvioni, ondate di calore ecc ecc …). Questa visione è vera solo in prima approssimazione. Infatti, i cambiamenti climatici non sono fenomeni del tutto omogenei, basti pensare al fatto che l’anomalia termica registrata è diversa in diverse aree geografiche. Ma soprattutto, per quello che riguarda i tipping points, non sono fenomeni lineari, progressivi. Esistono infatti fenomeni di carattere repentino, che avvengono su scale temporali piccole rispetto alle scale temporali tipiche, e si caratterizzano per essere fenomeni di fatto irreversibili. Sono stati evidenziati almeno 9 sistemi climatologici (Tipping elements) che per effetto dei cambiamenti climatici potrebbero subire questo cambiamento brusco ed irreversibile (Tipping Point, TP). Tra questi c’è la perdita della foresta amazzonica, lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia, cambiamenti strutturali nei cicli monsonici.
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Tutti giù per terra
Salario minimo versus riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione
di Eugenio Donnici
Premessa
Di tanto in tanto, anzi molto sporadicamente e con scarsa visibilità, riappare il tema della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Il 24 settembre scorso, il Manifesto, con un titolo ad effetto, “Facciamola breve”, riporta il tentativo del sindacato Ig Metall di rimettere al centro il Kurzarbeit, il “lavoro breve”, cioè una settimana lavorativa di quattro giorni, senza decurtare il salario. In realtà, è stata ripresa la proposta di Hoffman, leader dell’Ig Metall, quando nel 2020, in piena pandemia, si accarezzò l’idea che per salvare migliaia di posti di lavoro nell’industria dell’auto, era necessario ridurre la settimana lavorativa. A distanza di tre anni, la potenza di quell’idea è scemata ed ha indossato le vesti, ha assunto la concezione, di un esperimento laboratoriale. Il management dell’azienda Intraprenör, con sede a Berlino, ha avviato il progetto pilota, godendo dell’appoggio del maggiore sindacato tedesco, che fa parte del Comitato consultivo, e dell’organizzazione internazionale Four Day Week Global. Quest’ultima organizzazione, come ci fa notare Lucia Conti, (1) mette in evidenza i successi derivanti da questo genere di sperimentazioni in Gran Bretagna, sottolineando non solo i benefici per i dipendenti (maggior tempo libero, riduzione dei problemi di salute e di stress), ma addirittura anche un aumento dei profitti, con valori che hanno raggiunto il 36%. (2)
Se è vero che in altri paesi europei ci troviamo di fronte a tentativi sperimentali (isolati) per affrontare il problema della riduzione dell’orario di lavoro, cosa accade in Italia?
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La violenza imperialista d’Israele, la sua crisi politica e morale e la lotta di Resistenza del popolo palestinese
di Massimiliano Calvo*
“La realtà ci dice che Israele si sta logorando, che è in atto un costante processo di deterioramento della connessione sociale, che lentamente ma inesorabilmente l’entità sionista occupante si sta disgregando. Hanno trovato sulla loro strada un popolo che è Resistente da sempre, da ancor prima della Nakba del 1948, da fine ‘800 con le occupazioni inglesi e francesi, dalle quali è derivata la mentalità coloniale dei sionisti”
Il 7 ottobre 2023 la Resistenza Palestinese, per la prima volta dalla Nakba del 1948, quando i 2/3 del popolo palestinese fu cacciato e deportato dalla sua terra, ha attaccato l’entità sionista occupante il territorio palestinese. Mai prima di allora i guerriglieri avevano agito se non in risposta ad azioni di uccisioni e repressioni del popolo effettuate dall’esercito occupante.
La Lotta di Liberazione della Palestina prende forme finora sconosciute.
Si tratta di una novità assoluta che ha colto di sorpresa i soldati sionisti ed ha evidenziato alcuni fattori che smascherano la falsità dell’idea di invincibilità dell’esercito sionista, che evidenziano la sua vulnerabilità, che mostrano al mondo la codardia dei suoi soldati e che fotografano nitidamente la similitudine tra esercito sionista e nazisti ucraini quando, in risposta alle azioni di guerriglia della Resistenza Palestinese, assassina e massacra in maniera indiscriminata la popolazione civile, a Gaza come in Cisgiordania, nella totale e complice indifferenza dei governi degli stati dell’Occidente.
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Guerra “NATO” a Gaza: le reazioni di Russia, Cina, e Sud del mondo
di Roberto Iannuzzi
L’appoggio incondizionato a Israele da parte dell’Occidente, e lo schieramento di un’intera flotta nel Mediterraneo orientale, aggravano una polarizzazione internazionale già in atto
Il ministero delle finanze israeliano ha stimato che le operazioni belliche a Gaza hanno un costo di 270 milioni di dollari al giorno. Secondo altre valutazioni, ciò avrà un peso sulle casse dello stato ebraico pari a 48 miliardi nel 2023-2024.
Circa un terzo di questa somma sarà coperto dagli USA. Il presidente americano Biden ha promesso a Tel Aviv un pacchetto di 14,3 miliardi di dollari, che si aggiunge ai 3,8 miliardi che Washington elargisce annualmente a Israele sulla base di un accordo decennale.
Sebbene il pacchetto straordinario potrebbe non essere approvato prima della fine dell’anno a causa delle priorità del Congresso e della sua crescente disfunzionalità, gli Stati Uniti già ora inviano armi di ogni tipo ad Israele.
A differenza del flusso di armamenti USA verso l’Ucraina, quello diretto a Israele è avvolto nella quasi totale segretezza. Secondo alcune parziali rivelazioni, esso include decine di migliaia di proiettili d’artiglieria da 155 mm, migliaia di bombe ad alto potenziale e migliaia di missili Hellfire.
Biden è anche orientato a cancellare ogni restrizione al trasferimento di armi a Tel Aviv dall’arsenale USA presente sul territorio israeliano. Creato negli anni ’80 del secolo scorso per rifornire gli Stati Uniti nell’eventualità di una guerra regionale, il War Reserve Stockpile Allies-Israel (WRSA-I) è il più grande di una rete di depositi di armi che Washington ha disseminato nei paesi alleati in tutto il mondo.
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Le banche tra finanziamento e finanziarizzazione
di Stefano Figuera, Andrea Pacella
1. Introduzione
A quarant’anni dalla pubblicazione del saggio di Augusto Graziani “Moneta senza crisi” che costituì un passaggio fondamentale nell’elaborazione della teoria monetaria della produzione, il contributo teorico dell’economista napoletano continua ad essere un imprescindibile punto di riferimento per la comprensione del funzionamento dell’economia capitalistica in quanto economia monetaria. Di fronte ai rilevanti mutamenti registrati dalla struttura finanziaria, la teoria monetaria della produzione si conferma come un importante strumento di analisi.
Ponendosi in tale prospettiva, il presente contributo si propone di offrire elementi per una lettura dell’evoluzione del ruolo del sistema bancario. Preziosa è, a tal fine, la distinzione tra finanziamento della produzione, finanziamento degli investimenti e finanziamento dell’economia teorizzata da Graziani.
2. Una visione circuitista del finanziamento
Un passaggio nodale della teoria monetaria della produzione è rappresentato dalla separazione tra settore delle banche e settore delle imprese. Da esso deriva la centralità del finanziamento e l’origine endogena della quantità di moneta che circola nel sistema economico.
“Il settore bancario (banca centrale più banche di credito ordinario) produce moneta ma non la utilizza; il settore delle imprese utilizza moneta ma non la produce. Quando si afferma che l’impresa impiega denaro per ricavarne maggior denaro, si intende quindi che l’impresa impiega denaro a prestito dal settore bancario. Ecco perché il primo atto del processo economico è un atto di finanziamento, mediante il quale il sistema delle banche crea mezzi di pagamento (o crea credito, come avrebbero detto Wicksell e Schumpeter) e li dà a prestito al sistema delle imprese, il quale si impegna a restituirli con la maggiorazione dell’interesse pattuito”.
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La fine del Gabinetto di Guerra
Putin e Moltke spaccano gli Stati
di Big Serge
Il secolo che va dalla caduta di Napoleone nel 1815 all’inizio della Prima guerra mondiale nel 1914 è solitamente considerato una sorta di età dell’oro per il militarismo prussiano-tedesco. In questo periodo, l’establishment militare prussiano ottenne una serie di vittorie spettacolari su Austria e Francia, stabilendo un’aura di supremazia militare tedesca e realizzando il sogno di una Germania unificata attraverso la forza delle armi. La Prussia di quest’epoca ha anche prodotto tre delle personalità militari simbolo della storia: Carl von Clausewitz (un teorico), Helmuth von Moltke (un pratico) e Hans Delburk (uno storico).
Come si suol dire, questo secolo di vittorie e di eccellenza creò nell’establishment prussiano-tedesco un senso di arroganza e di militarismo che portò il Paese a marciare impetuosamente verso la guerra nell’agosto del 1914, per poi naufragare in una guerra terribile in cui le nuove tecnologie vanificarono il suo approccio idealizzato al warmaking. L’orgoglio, come si dice, precede la caduta.
Si tratta di una storia interessante e soddisfacente, che propone un ciclo di arroganza e caduta piuttosto tradizionale. A dire il vero, c’è un elemento di verità in questa storia, poiché molti elementi della leadership tedesca possedevano un grado di sicurezza eccessivo e indecoroso. Tuttavia, questa non era l’unica emozione. Ci furono anche molti pensatori tedeschi di spicco prima della guerra che professarono paura, ansia e timore assoluto. Avevano idee preziose da insegnare ai loro colleghi – e forse anche a noi.
Torniamo indietro, fino al 1870, alla guerra franco-prussiana.
Questo conflitto è generalmente considerato l’opera magna del titanico comandante prussiano, il feldmaresciallo Helmuth von Moltke.
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Le improbabili genealogie di uno sciopero
Lotte di classe dentro e contro il sindacato
di Felice Mometti
Dopo 46 giorni di sciopero, che nell’ultima fase ha coinvolto 45 mila lavoratori su 146 mila, alla Ford, General Motors e Stellantis – le cosiddette Big Three americane dell’automotive – sono stati rinnovati i contratti per i prossimi i 4 anni e 7 mesi. Se, di primo acchito, si facesse un confronto tra le rivendicazioni iniziali del sindacato United Auto Workers of America (UAW) e i risultati ottenuti, sarebbe a dir poco impietoso. Nella piattaforma sindacale, presentata un paio di mesi prima della scadenza contrattuale, c’erano cinque obiettivi definiti qualificanti e irrinunciabili: un aumento salariale del 40% in quattro anni, una riduzione a 32 ore settimanali pagate 40, l’abolizione dei due macro-livelli salariali e normativi introdotti dopo la crisi del 2008, l’abolizione del regime pensionistico a prestazione variabile in base all’andamento del mercato finanziario, la reintroduzione del Cost of Living Allowance (COLA) per recuperare completamente il potere d’acquisto che verrà eroso dalla futura inflazione.
Nelle 915 pagine del contratto Ford, nelle 458 del contratto General Motors e nelle 313 del contratto Stellantis non ci sono tracce dell’aumento del 40% del salario, della riduzione d’orario a 32 ore, dell’abolizione dei due macro-livelli salariali e normativi e delle pensioni variabili in base al mercato. Ci sono un aumento del salario del 25% in un contratto allungato di 7 mesi, quando l’inflazione negli ultimi 4 anni negli Stati Uniti è stata del 22% e le proposte delle Big Three oscillavano tra il 20-23% in quattro anni; un COLA, quantificato mediante astrusi calcoli, che recupera più o meno il 50% dell’inflazione futura con pagamenti posticipati di due mesi rispetto alla rilevazione statistica e la cancellazione dell’adeguamento, sebbene parziale, del salario negli ultimi sei mesi di valenza contrattuale; una riduzione da otto a tre anni per raggiungere il massimo salariale per i lavoratori del secondo macro-livello.
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Oppressione ed emancipazione della donna
di Alessandra Ciattini*
Il recente e tragico fatto di cronaca, che ha visto l’uccisione di un’altra giovane donna da parte del suo fidanzato, un giovane probabilmente depresso e fortemente disorientato – condizione assai diffusa nella società contemporanea –, ha fatto ritornare alla ribalta l’irrisolto problema dell’oppressione della donna e della sua emancipazione, ma a mio parere è stato mal posto e interpretato – come avviene da molto tempo – in maniera strumentale.
In primo luogo, stupiscono le espressioni del tipo: è possibile che nella modernità postindustriale accadano fatti di questo genere che fanno riaffiorare forme primitive di comportamento legate a un supposto mai scomparso patriarcato? Stupiscono perché non colgono che gli avanzamenti scientifici, tecnologici, sociali, politici avvenuti negli ultimi decenni sono stati dialetticamente accompagnati da forme di profondo imbarbarimento delle relazioni umane, legate soprattutto alla cancellazione di molti diritti conquistati in precedenza dai lavoratori, allo svuotamento dei cosiddetti valori democratici, al drammatico squilibrio tra le varie regioni del mondo, dalla costante violazione dei diritti più elementari, dalla formazione di un’oligarchia internazionale che ci governa e ci plasma a suo piacimento. Insomma da arretramenti sostanziali documentati per esempio dalla volgarità dei falsimedia, dalla perenne presenza della violenza sempre più spietata sia nei prodotti subculturali che nella vita reale, dalla continua riproposizione della mercificazione dell’essere umano e in particolare della donna (si veda l’uso della sessualità nella pubblicità), ai quali questa società offre due sole alternative tra loro collegate: vendere o comprare. E come si sa si vendono e si comprano solo oggetti.
Una prima osservazione: chiamare in causa il patriarcato, che rappresenta solo una forma storica di famiglia, vuol dire eternizzare qualcosa che eterno non è, è decontestualizzare e destorificare, evitando così di mettere in questione la struttura della società attuale.
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Terrorismo e terroristi: il punto
di Michele Castaldo
Articolo pubblicato nel gennaio del 2015 e che ripropongo
Dopo l’ubriacatura della retorica democratica contro il terrorismo cerchiamo di ragionare su quanto è accaduto e sulle prospettive del futuro.
Il mondo democratico inorridisce di fronte all’azione criminale del terrorismo islamista? Non esageriamo. I mezzi di informazione, che in Occidente assolvono al ruolo di strumenti di propaganda contro i popoli del sud del mondo e la loro povertà, gareggiano a chi la spara più grossa sull’episodio di Parigi, cioè sull’uccisione di alcuni giornalisti (satirici) da parte di alcuni militanti dell’estremismo islamico che intendevano in questo modo interpretare il senso di profonda offesa, e perciò di vendetta, della maggioranza degli islamici nei confronti di un giornale satirico di un paese imperialista con le sue vignette contro il loro credo religioso.
Diciamolo in maniera brutale: ma volete che su oltre un miliardo di uomini e donne che credono nell’Islam, in Allah, Maometto, il Corano e cosi via e che si sentono continuamente scherniti da alcuni giornalisti o scrittori occidentali non ne sorgano alcuni disposti al sacrificio pur di cancellare l’onta del continuo disprezzo e della presa in giro? E non vi pare di chiedere troppo alla …divina provvidenza? Si tratta di semplice buon senso che la stragrandissima maggioranza dei commentatori, in Italia e fuori, non ha. Se n’è accorto addirittura l’ex direttore del Financial Times che scrive:
« Anche se il magazine [Charlie Hebdo, ndr] si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione" [...] "Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, è solo per dire che sarebbe utile un po' di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocano i musulmani ».
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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