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Le quattro vecchie fallacie della nuova Grande Depressione

di Robert Skidelsky

Il periodo iniziato nel 2008 ha prodotto un’abbondante raccolta di fallacie economiche riciclate, soprattutto sulle labbra dei leader politici. Ecco le mie quattro preferite. 


1) La casalinga sveva.
“Si dovrebbe semplicemente chiedere alla casalinga sveva”, ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel dopo il crollo di Lehman Brothers nel 2008. “Lei ci avrebbe detto che non si può vivere oltre i propri mezzi”

Questa logica apparentemente sensata è la base dell’austerità. Il problema è che ignora l’effetto della parsimonia della casalinga sulla domanda totale. Se tutte le famiglie frenano le loro spese, il consumo totale cade e lo stesso accade per la domanda di lavoro [da parte delle imprese, ndr]. Se il marito della casalinga perde il lavoro, la famiglia starà peggio di prima.

Il caso generale di questa fallacia è la “fallacia di composizione”: ciò che ha senso per ogni famiglia o impresa individuale non necessariamente è bene in aggregato.

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marx xxi

Lenin, Gerico e i Pink Floyd

di Roberto Sidoli

Il 9 novembre, presso il Centro culturale C. Marchesi di Milano, si è tenuta un'affollata e stimolante assemblea sul tema "Il marxismo del Ventunesimo secolo", anche in ricordo della Rivoluzione Socialista d'Ottobre e dei 130 anni trascorsi dalla morte di Karl Marx. Una delle relazioni è stata presentata da Roberto Sidoli. La proponiamo ai nostri lettori .

Fin dal luglio del 1917, durante il sesto congresso di quell’eccezionale partito bolscevico guidato da Lenin – un congresso decisivo, che preparò l’imminente ed epocale Rivoluzione Socialista d’Ottobre – venne sottolineata pubblicamente la distinzione profonda esistente tra il marxismo creativo e il marxismo dogmatico: il secondo anche teorizzato e difeso ad oltranza dalla successiva teoria dell’invarianza, secondo la quale il marxismo doveva assolutamente rimanere nel corso del tempo una sorta di dogma immutabile, al pari dei Veda indiani o del Talmud.

I relatori e l’organizzatore di quest’incontro, il Centro culturale Concetto Marchesi (che ringrazio anche a nome di Daniele Burgio e Massimo Leoni, coautori di questa relazione) hanno scelto la via difficile ma proficua del marxismo creativo, capace di avviare un processo di sviluppo e di arricchimento del suo già gigantesco bagaglio di conoscenze proprio confrontandosi con le novità esplosive offerte, dopo il 1883 e la morte del geniale Karl Marx, dalla dinamica storica su scala planetaria nei suoi diversi aspetti, a partire da quello tecnologico-scientifico, di importanza sempre crescente.

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In memoria di Preve

di Diego Fusaro

È scomparso il 23 novembre il filosofo Costanzo Preve. La sua notorietà era inversamente proporzionale alla sua statura intellettuale. Pochi (o comunque non abbastanza), anche tra gli addetti ai lavori, conoscevano il suo nome, il suo pensiero, le sue numerosissime opere. Dopo aver studiato in Francia sotto la guida di Hyppolite, Preve ha vissuto a Torino: città alle cui logiche si è sempre sentito estraneo, vivendo, di fatto, come uno straniero in patria.

La città, probabilmente, non tributerà il degno ricordo al filosofo. Ed è anche per questo che ho deciso di ricordarlo io in questa sede. È per me un dovere, anche se mi costa molta sofferenza. È un dovere perché Costanzo è stato il mio maestro a Torino e perché vi era una profonda amicizia che mi legava a lui fin dal 2007. Non è facile parlarne, come sempre accade quando scompare una persona a noi vicina, a cui volevamo autenticamente bene. Con Costanzo, se ne va anche un pezzo – e non secondario – della mia vita e del mio legame con la città di Torino.

Ricordo quando lo conobbi: in una gelida serata del gennaio del 2007, al bar Trianon, in piazza Vittorio. Si trattava di una serata filosofica dedicata alla presentazione del libro di Giuseppe Bailone, Viaggio nella filosofia europea. Conoscevo già Preve, sia pure indirettamente: avevo letto alcuni suoi lavori su Marx, l’autore a cui Preve ha dedicato la sua vita e di cui si può con diritto riconoscere tra i massimi esperti a livello internazionale.

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Spettri di Marx all’Hotel Bauen

Una lettera da lontano

Pubblichiamo qui una missiva inviataci da un nostro “corrispondente” all’estero.

Carissimi,

forse avrete letto il breve servizio apparso qualche giorno fa sul sito del Corriere della Sera, a proposito dell’Hotel Bauen1, l’albergo a 4 stelle situato nel centro di Buenos Aires, che dal 2001 viene autogestito dagli ex-dipendenti. A questo proposito, vorrei condividere con voi qualche riflessione fatta a braccio, ed un po' di fantapolitica rivoluzionaria.

Innanzitutto, mi pare sintomatico che il Corriere e altri mezzi d’informazione (perfino Mediaset!), dopo aver taciuto per lungo tempo sull’argomento, tornino a parlarne proprio adesso. Con il catastrofico aggravarsi della crisi – che prevedibilmente subirà un'ulteriore accelerazione nel 2014-2015 (gli stessi analisti della Federal Reserve vedono già all'orizzonte una colossale bolla creditizia/immobiliare in arrivo dalla Cina) – forse l'inconscia speranza, da parte padronale, è che i proletari salvino il capitale rimettendolo in funzione per proprio conto, naturalmente senza rompere con lo scambio, il denaro, la merce, lo Stato etc. D’altra parte, stiamo parlando di un fenomeno che esiste realmente, e la cui dimensione non è trascurabile. Giusto per fornirvi alcuni dati che ho raccolto qua e là, in Argentina sarebbero oggi circa 10.000 coloro che lavorano nelle imprese “recuperate”; di queste se ne contano ufficialmente circa 320, ma sembra che in realtà siano molte di più.

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il rasoio di occam

Perché l’individualismo istituzionale non funziona

Ancora sul libro di E. Screpanti, “Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843)”

di Stefano Breda

Ernesto Screpanti sostiene che una teoria marxista della società, per dirsi scientifica, debba assumere l’individualismo istituzionale quale criterio metodologico. In questo modo si corre tuttavia il rischio di non riuscire a spiegare fenomeni complessi in società, come quelle capitalistiche, in cui la riproduzione della struttura sociale avviene attraverso meccanismi di dominio impersonale

Il 14 Ottobre è stata pubblicata su “Il rasoio di Occam” la recensione, scritta da Luca Basso, del libro di Ernesto Screpanti Marx dalla totalità alla moltitudine (1841-1843). Per un sunto delle tesi contenute nel libro rimando senz’altro all’ottima ed esauriente recensione. In questa sede vorrei proporre alcune riflessioni critiche a partire dall’analisi di Screpanti.

Il testo ruota intorno a categorie filosofiche e politiche di estrema attualità. Basti pensare ad alcune misure proposte dal giovane Marx per una riforma della democrazia rappresentativa: introduzione del vincolo di mandato; introduzione del diritto di revoca del mandato; abolizione del ceto politico quale classe professionale (cfr. pp. 73-117)[1]. Tali misure sono oggi al centro di un vivo dibattito in Italia, il quale si sviluppa per lo più sulla base di un diffuso discorso di stampo olistico, che, cancellando ogni contrapposizione di classe e ogni conflitto interno alla società, fa della “società civile” un corpo omogeneo, spesso caratterizzato come un soggetto agente. Il conflitto viene traslato verso un altro corpo sociale omogeneo, esterno alla società civile, la “casta”, ovvero il ceto politico, il quale persegue il proprio vantaggio a discapito dell’interesse generale. Le proposte del giovane Marx vengono in questo modo sussunte entro un ambito che politologicamente si definisce “populista”, “di destra”.

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filosofia e nuovi sentieri

La cultura delle destre 

Un contributo alla storia degli intellettuali

di Pietro Piro

«I politici devono farsi dire dove conduce la strada di cui non
conoscono il tracciato e la meta – e devono farselo dire da quelli
che a loro volta non lo sanno, e i cui interessi si orientano a ben
altre cose, che diventeranno in tal modo anch’esse realizzabili».
Ulrich Beck, La società del rischio.

«Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro
piagnisteo da eterni innocenti».
Antonio GramsciGli indifferenti.

586px Ravenna battistero degli ariani prima metà del VI secolo1. Il mondo neutro degli indifferenti

Il libro dello storico Gabriele Turi, La Cultura delle destre [1] è un libro di parte. Indiscutibilmente. La sua colpa più grande è di proporre un’interpretazione che non sia asservita all’ordine del discorso imposto da una cultura che, oltre ad essere chiaramente dominante, non accetta e non tollera nessuna messa in discussione del proprio potere realizzato. Nulla di nuovo sotto il sole. Dove il potere si consolida, nessuna critica – per quanto profonda e argomentata – può essere accettata, discussa, dialettizzata.Quando ci si renderà conto che il padrone non ama essere criticato dal suo servo, forse s’imparerà a comprendere il senso profondo e demoniaco del potere. Turi, con questo libro partigiano, esce dalla folta e compatta schiera degli indifferenti, quella massa amorfa che costantemente abdica alla propria volontà e che «lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare» [2]. Che la ricerca storica sia uno dei luoghi in cui si combattono le battaglie più cruente [3], sembra essere un fatto del tutto estraneo ai critici di Turi che gli rimproverano una mancanza di «oggettività» [4] di cui – ovviamente – essi sarebbero i portatori. Polemica asfittica e insensata. Né Turi né i suoi critici possiedono «la ben rotonda verità» della Storia.

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Il surplus tedesco e gli squilibri europei

di Domenico Mario Nuti

I paesi debitori sono stati forzati ad adottare misure di austerità, mentre i surplus tedeschi hanno contribuito a tenere depressa l’economia mondiale

Il 30 ottobre l’Office of International Affairs del Tesoro statunitense ha pubblicato il suo solito semestrale Report to Congress on “International Economic and Exchange Rate Policies”, in consultazione con il Board of Governors della Fed e la direzione e funzionari dell’Imf. Di solito il Report è un’occasione per attaccare la Cina sulla sottovalutazione del renmimbi, e questa volta non fa eccezione: “Il RMB è andato apprezzandosi su una base ponderata con le quote commerciali [del 6,6% su base effettiva reale], ma non così rapidamente e così tanto come occorrerebbe [un 5-10% addizionale]”. Ma il Report contiene inoltre una critica vigorosa della Germania per il suo surplus commerciale a livelli record, che viene considerato un freno per la ripresa dei paesi dell’Eurozona che fronteggiano un corrispondente deficit commerciale, e per lo sviluppo mondiale.

Fra i Key Findings del Rapporto (p.3):

“Nell’ambito dell’Eurozona, paesi con surplus commerciali ampi e persistenti devono agire per stimolare lo sviluppo della domanda interna e ridurre i loro surplus. La Germania ha mantenuto un ampio surplus di conto corrente durante tutta la crisi finanziaria dell’area dell’euro, e nel 2012 il surplus nominale di conto corrente della Germania era maggiore di quello della Cina.

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L'alluvione sarda e i fantocci impiccati

di Pino Cabras

Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d'acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l'elenco di piaghe descritte nel Libro dell'Esodo, gli ha dato la definizione di "piena millenaria". La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d'acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.

I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l'Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e "prevalente" che sta a monte.

È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d'asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di "sviluppo" che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia.

Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova?

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Fra utopie letali e crisi reali

di Guglielmo Forges Davanzati

L'incapacità della sinistra di fornire una alternativa credibile all'odierna egemonia del paradigma neoliberista è anche dovuta all'energia dispersa per inseguire “obiettivi illusori e immaginari", come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste”. Nell'ultimo libro di Carlo Formenti una lettura della crisi a partire dalla dialettica fra “pensiero unico” e “pensiero critico”.

Utopie letali [qui la prefazione del libro] è il bel titolo dell’ultimo libro di Carlo Formenti[1]. E’ un titolo basato su un ossimoro, dal momento che al termine utopia si è soliti attribuire valenza positiva. Ma le utopie possono diventare letali quando “disperdono su obiettivi illusori e immaginari” le energie antagonistiche (p.8), ovvero – come nel caso delle ideologie postoperaiste, anarchiche, “benecomuniste” – quando utopie apparentemente antagonistiche si rivelano tutt’altro che antagonistiche, sia al sistema capitalistico, sia all’ideologia liberista che ne costituisce la legittimazione “scientifica”.

Utopie letali è un libro denso, estremamente documentato, nel quale si spazia dall’analisi delle politiche di austerità, ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, a temi più propriamente sociologico-politici. In relazione ai quali, Formenti assume una posizione netta, così riassumibile.

Tutte le ideologie antagonistiche fondate sulla convinzione che il capitalismo finanziarizzato e globalizzato possa essere superato “dal basso”, ovvero attraverso lo spontaneismo antigerarchico e antiautoritario dei “movimenti”, sono non solo destinate al fallimento

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Solo austerity?

l’Europa senza principi e la politicizzazione della povertà

∫connessioni precarie

Ormai da diversi anni la parola povertà è rientrata nel gergo politico europeo. La porta d’ingresso principale sono state le rilevazioni statistiche. Queste ultime, tuttavia, non fanno altro che ridurre a questione tecnica la quota di popolazione che si colloca sotto a una certa soglia di reddito. La costruzione di nuovi indicatori e di nuovi modi di indagare e classificare i soggetti impoveriti ha mutato l’approccio scientifico ai problemi del «sociale». Dal punto di vista delle politiche dei governi europei parlare di povertà ha voluto dire registrare il mutamento delle funzioni governative al tempo della crisi. In questo senso, la parola d’ordine della lotta contro la povertà istituzionalizza l’impossibilità di considerare la questione sociale come questione politica e la sua traduzione all’interno di un governo tecnico delle scienze. La fine del lavoro come canale di accesso ai diritti e lo spostamento del baricentro delle politiche pubbliche sull’occupabilità sono altre due manifestazioni della stessa dinamica strutturale, che risponde con criteri tecnico-umanitari al problema chiamato povertà e di quella che in questi anni abbiamo chiamato precarizzazione del lavoro. Questo processo è stato seguito dalla politicizzazione crescente della povertà nei discorsi di movimento. Anche le analisi seguite alla manifestazione del 19 ottobre, un corteo che per la sua dimensione e la sua composizione ha in parte sorpreso anche chi più vi aveva creduto, manifestano questa tendenza a mettere al centro i bisogni primari dei soggetti impoveriti, come la casa e il reddito.

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Il sostegno agli investimenti in un’economia tecnologicamente in ritardo

Stefano Lucarelli, Daniela Palma, Roberto Romano

La crisi economica in corso è stata acuita dalle fragilità che caratterizzano il sistema istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. Le cattive teorie economiche su cui le politiche monetarie e fiscali europee sono disegnate hanno svolto un ruolo rilevante. Tuttavia, nel caso italiano, le criticità risultano accresciute da un sistema produttivo già caratterizzato da profonde difficoltà[1]. Queste sono legate principalmente alla crescente incapacità di sviluppare all’interno del sistema produttivo nazionale le innovazioni tecnologiche necessarie a mantenere una posizione di rilievo sui mercati internazionali. A partire dalla fine degli anni ’80 in poi l’incremento degli investimenti privati si è tradotto, nella maggior parte dei casi, in un incremento delle importazioni dall’estero che non si è accompagnata ad una ripresa delle esportazioni sufficiente ad evitare un incremento del disavanzo commerciale; in queste condizioni di ritardo tecnologico, laddove si potessero realizzare politiche espansive sul lato della domanda, queste non si tradurrebbero automaticamente in opportunità di crescita. In altri termini, l’aumento dei beni strumentali impiegati dalle imprese può costituire un vincolo estero e può innescare un processo di riduzione del reddito nazionale[2]. La quota degli investimenti in macchinari[3] sul PIL è una variabile che continua ad assumere un ruolo importante nella spiegazione dei tassi di crescita. Ma attenzione a proporre un generico aumento degli investimenti! Infatti l’evoluzione qualitativa dei beni di investimento – che si traduce in processi produttivi che necessitano di un minore impiego dei beni strumentali tradizionali – è diventata sempre più importante, è cioè cresciuta la rilevanza del progresso tecnico disembodied[4].

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La parabola di Vendola e la giusta misura dello sfruttamento

di Giso Amendola, Girolamo De Michele, Francesco Festa

Archinà e VendolaNo, non avevamo bisogno di origliare le intercettazioni diffuse dal “Fatto Quotidiano”. Il gioco del cosa c’è dietro, della spiata indiscreta, del “guarda cosa si dicono in privato” non è per niente attraente, e non solo per una nostra convinta e radicata repulsione per i metodi inquisitori e per le posture da pubblici ministeri. Né per una questione di stile (per quanto le questioni di stile non siano questioni da poco). Ma perché l’attenzione al nascosto, all’intimo, al chiacchiericcio è essa stessa un dispositivo, piuttosto potente, per neutralizzare i conflitti, per produrre opinione pubblica tanto risentita quanto impotente, piuttosto che movimenti capaci realmente di far male. Non ci sembra casuale che, potendo pescare nella scatola delle notizie precotte e surgelate, nessuno abbia speso due parole di approfondimento sulla figura dello scattante felino, ancorché factotum di padron Riva: che, oltre a consegnare buste contenenti, secondo gli inquirenti, mazzette, commissionava paginate di pubblicità ILVA “legali” su tutte le testate locali (ad eccezione di due, una cartacea e una on line) per condizionarne la linea editoriale; che qualche volta è intervenuto col nickname di Angelo Battista, senza che alcuno ne avesse sentore. Giusto per chiarire come funzionava il sistema-ILVA, fino a che punto arrivasse a condizionare lo spazio pubblico della discussione, e di cosa si facesse finta di nulla a qualsivoglia livello politico e sindacale.