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Così una fake news della CNN su Wikileaks raggiunge milioni di persone
di Glenn Greenwald*
G. Greenwald: "I media Usa hanno subito la debacle più umiliante da anni. Ora rifiutano trasparenza su quello che è successo"
VENERDÌ è stato uno dei giorni più imbarazzanti per i media degli Stati Uniti da molto tempo a questa parte. L'orgia di umiliazione è stata avviata dalla CNN, con MSNBC e CBS subito dopo, oltre agli innumerevoli esperti, commentatori e operatori che si sono uniti alla festa per tutto il giorno. Alla fine della giornata, era chiaro che molti dei più grandi e influenti diffusori di notizie della nazione avessero dato una notizia esplosiva ma completamente falsa a milioni di persone, rifiutando poi di fornire alcuna spiegazione di come sia successo.
Lo spettacolo è iniziato venerdì mattina alle 11.00. EST, quando il nome più affidabile in News ™ ha trascorso 12 minuti in diretta pubblicizzando un rapporto bomba esclusivo che sarebbe stato la prova che Wikileaks, lo scorso settembre, avesse segretamente aiutato la campagna di Trump, dando a Donald Trump in persona, l'accesso speciale ai messaggi di posta elettronica del DNC prima che venissero pubblicati su internet.
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Perché la rivoluzione tech non spiega i bassi salari italiani
di Marta Fana e Davide Villani
Gli autori di questo post sono Marta Fana, dottore di ricerca in Economia e autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza 2017) e Davide Villani, dottorando di ricerca in Economia, Open University (Regno Unito)
All’interno del dibattito sulle attuali condizioni del mondo del lavoro italiano, si colloca la questione salariale. Secondo la teoria dominante, ripresa qui su Econopoly in un recente articolo firmato da Luca Foresti, i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. Allo stesso tempo, lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. Si consumerebbe così la polarizzazione (e di conseguenza aumento delle diseguaglianze interne), spinta(e) principalmente dalla tecnologia.
Come in ogni visione a tradizione marginalista, inoltre, spetta ai lavoratori, schiacciati dalla concorrenza di altri lavoratori nella fascia bassa delle retribuzioni, “prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati” e a quelli più produttivi reclamare la propria fetta, “meritata”, di valore aggiunto prodotto. All’interno di questo ragionamento, nessuno spazio è accordato, come ricorda Bogliacino (2014), al potere, o in termini classici ai rapporti di forza tra aziende e lavoratori.
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Il punto della concentrazione
di Il Pedante
In un precedente articolo si introduceva la pseudo-formula della concentrazione. L'idea tautologica di fondo è che all'accrescersi della concentrazione dei capitali e dei poteri di sorveglianza e di intervento decresca il grado di democrazia. Che cioè, in definizione, la democrazia ceda progressivamente terreno all'oligarchia e al totalitarismo:
Se la democrazia si realizza nella disseminazione non solo dei poteri decisionali ma anche del benessere, del risparmio e della proprietà (Cost. art. 47), non può stupire che il suo recente declino si sia accompagnato a innovazioni politiche, giuridiche ed economiche attivamente tese a promuovere un maggior grado di concentrazione. La tendenza riguarda tutti i settori, esprimendosi ad esempio in campo economico come concentrazione dei capitali, già caposaldo dell'analisi marxiana:
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Elezioni e “Potere al popolo”
di Michele Castaldo
Si avvicina la fine della legislatura e si avvicinano le nuove elezioni politiche, si scaldano i motori, c’è una sorta di fremito fra gli apparati dei partiti vecchi, nuovi, nuovissimi e qualcuno addirittura in via di formazione come quello che viene dagli ex occupanti dell’Opg (per qualche povero sprovveduto che capitasse per caso a leggere queste note: si tratta di giovani occupanti del vecchio manicomio giudiziario di Napoli).
Si scatena immediatamente il dibattito a “sinistra”, cioè di quei rimasugli del sessantottismo e settantasettismo che, nostalgici di un movimento che fu, rimbalzano tra parole d’ordine, programmi o astensionismo di principio senza cavare – come suol dirsi – un ragno dal buco. Tentativi su tentativi che si ripetono e puntualmente falliscono senza che ci si domandi perché. Pazienza.
Va detto – per onestà - che a monte di questi atteggiamenti c’è, da una parte, una profonda ignoranza sulla storia della lotta delle classi e, dall’altra parte, la voglia tutta soggettiva (istica) di voler “incidere” nei processi storici attraverso la propria azione, una sorta di coscienza esterna da immettere nelle masse.
Ora, il voto rappresenta da sempre uno stato d’animo delle classi sociali a un certo stadio di sviluppo dei rapporti fra gli uomini. Esse vanno perciò distinte secondo tre fasi: un momento di stagnazione sociale, un movimento ascendente delle classi subordinate e un movimento in riflusso delle stesse.
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“Austerity vs Stimulus”
di Lucio Gobbi
Recensione a: Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli, Austerity vs Stimulus. The Political Future of Economic Recovery, Palgrave Macmillan, Londra 2017, pp. 183, 25 euro (scheda libro)
Il testo di Fraccaroli-Skidleski, Austerity vs Stimulus, è una raccolta di articoli che ha l’intento di presentare al lettore lo scontro intellettuale che si è combattuto, e che si combatte tutt’ora, rispetto all’importanza della politica fiscale in tempi di crisi. Si potrebbe dire che il testo è una rivisitazione moderna del dibattito Keynes-Hayek rispetto alle dinamiche del ciclo economico e alle politiche necessarie a contrastare i periodi di recessione.
Gli autori ci presentano un “saggio di montaggio” gradevole e che non cade mai in tecnicismi difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori. Terreno di battaglia è la grande crisi finanziaria del 2007 e gli avvenimenti che si sono susseguiti negli anni seguenti in Europa e negli Stati Uniti.
Il libro si articola in cinque sezioni dalle quali emergono tre posizioni di fondo: una pro-austerity, una anti-austerity e una intermedia tra le due.
I pro austerity
La sezione dei pro austerity è anticipata da un articolo di Hayek nel quale si sostiene un eccesso di indebitamento pubblico inevitabilmente conduce a una crescita del tasso di interesse e a uno spiazzamento degli investimenti. Con questo incipit gli autori ci presentano alcuni articoli di Alesina e Giavazzi, di Reinhart e Rogoff oltre che di Nial Ferguson e Basley sul dibattito inglese.
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Neoliberalismo, concorrenza, volti dell’insubordinazione
Una conversazione al bar
Matilde Ciolli intervista Christian Laval
MC: In La nuova ragione del mondo, riprendendo Foucault, lei e Dardot parlate del neoliberalismo come di una forma di potere senza volto: non c’è uno Stato maggiore che prende le decisioni. In Guerra alla democrazia avete invece cominciato ad attribuire un volto e un nome al neoliberismo parlando di «blocco oligarchico». Questo blocco si compone di uomini politici, banchieri, imprenditori, membri della finanza, delle istituzioni pubbliche, ma anche dei media e delle università. Si tratta di figure variegate, ma che compongono un’élite che detiene il potere e di fondo anche i mezzi di produzione. Perché, date queste premesse, non avete parlato di «classe»? Può spiegarmi meglio le ragioni dell’utilizzo del termine «blocco»?
CL: Siamo passati dal momento della governamentalità a un’analisi – in Guerra alla democrazia, 7/8 anni dopo ‒ che dà più importanza al sistema, alla cristallizzazione istituzionale del neoliberalismo come sistema mondiale di potere. Ciò che teniamo dell’analisi di Foucault è l’importanza che dà a tutto l’insieme normativo nella sua interpretazione del capitalismo, appoggiandosi, come fa sempre, sull’ordoliberalismo. Prendiamo sul serio l’ordoliberalismo, il quale insiste sul fatto che il mercato è un costrutto sociale e che le logiche di concorrenza si appoggiano su un costrutto. Il secondo cambiamento rispetto a La nuova ragione del mondo è il «volto».
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Mitologie criminali, distorsione della realtà e fascinazione mafiosa: Suburra (la serie)
di Militant
“Mafia capitale” ha recentemente prodotto le proprie sentenze di primo grado (qui un articolo, qui la sentenza completa): niente 416 bis, nessuna associazione mafiosa, “soltanto” un sistema ramificato di corruzione organizzato da due associazioni per delinquere collegate fisicamente dalla figura di Massimo Carminati. In compenso dal 2014, dall’inizio cioè dell’operazione denominata «Mondo di mezzo», si è prodotto una vasto e straniante universo narrativo fatto di film, libri, documentari, inchieste giornalistiche e, in questi ultimi mesi, di una serie Netflix dal grandissimo seguito mediatico: Suburra. La serie sfrutta moduli narrativi ormai standardizzati: da Romanzo criminale e Gomorra, passando per Narcos, si è imposto un format discorsivo che travalica i confini mediatici per divenire fatto culturale, immaginario sociale. La trasposizione seriale perde così i caratteri della finzione, di fiction, per sfumare indirettamente nell’inchiesta romanzata, alterando la percezione della realtà, creandone anzi una parallela. Una realtà alternativa che progressivamente acquista più legittimità delle versioni ufficiali, proprio perché presentata come il “non detto” delle sentenze e delle dichiarazioni politiche. La verità “della strada” contro quella “del palazzo”.
Ci sono due piani paralleli e al tempo stesso sovrapposti attraverso cui è possibile cogliere le tracce telluriche di queste operazioni di politica culturale: da una parte svelare un lessico narrativo che ha come obiettivo la costruzione di mitopoiesi artefatte, cioè che procedono dall’alto verso il basso mentre si presentano camuffate dal basso verso l’alto.
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Il nodo ecologico nel marxismo del XXI secolo
di Dante Lepore
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di Dante Lepore sulla “questione ecologica”, una delle grandi questioni mondiali del nostro tempo, largamente dimenticata nel dibattito in corso.
Certo, non mancano le grida di allarme. Di recente, ad esempio, G. Monbiot ha richiamato l’attenzione sull’Insectageddon – la catastrofica diminuzione degli insetti; altri scienziati hanno messo in primo piano il surriscaldamento globale; altre denunce ancora si concentrano sulla penuria (e lo spreco crescente) di acqua. Ma anche gli ecologisti più seri restano imprigionati in visioni parziali, che non arrivano ad afferrare la causa profonda, sistemica, delle minacce alla stessa sopravvivenza della specie, che è costituita dal modo di produzione capitalistico, e dalle sue implacabili, immodificabili, cieche leggi di movimento.
Il contributo di Dante Lepore va, invece, proprio in questa direzione e mette capo alla necessità di dare una risposta di lotta radicale e globale ai poteri globali che esercitano la distruttiva dittatura del capitale sulle nostre vite e sulla vita della natura.
* * * *
1. Marxismo e rapporto capitalistico uomo-natura: gli effetti contro l’uomo
Una delle conseguenze più deleterie scatenate dal capitalismo a danno della natura nel suo insieme animale e vegetale e della sua parte più evoluta e cosciente, l’uomo, sta nell’aver accelerato al massimo, nei ritmi e nel livello quantitativo, la scissione e il saccheggio di entrambi, con riflessi, da alcuni decenni, sull’intero ecosistema (dal greco, oikos significa ambiente), seminando ovunque dove prima c’era unità, comunità, uguaglianza, ogni genere di opposizione, differenza, dominio di alcuni su altri, diseguaglianza economica.
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Sulla Teoria delle Catastrofi
Ilaria Beretta intervista Antonio Caronia
L’ intervista è avvenuta il 20 giugno 2007 a Milano in seguito a una richiesta di Paolo Gallerani ad Antonio Caronia, anche come preparazione di una futura presentazione del tema nel Corso di Scultura dell’ Accademia di Brera (Al momento della registrazione la discussione era già in corso)
Si parla molto di “teoria delle catastrofi”, sia a livello di definizione, che di applicazione in tutti gli ambiti, dalla psicologia, all’arte, all’architettura. Partendo da Buckminster Fuller, si arriva alle tensostrutture e ai crolli che ci sono stati a causa del punto debole delle strutture, per esempio nell’ombelico parabolico. Come si può spiegare questa teoria?
È un argomento molto delicato, che richiede molta attenzione sia nei termini che nelle applicazioni. Intanto “teoria delle catastrofi” non vuol dire automaticamente teoria dei crolli, è una cosa diversa. Quando il matematico francese René Thom la formulò, questa teoria gli serviva per spiegare la nascita delle forme, e infatti il termine “morfogenesi” compare nei titoli di entrambi i suoi libri più importanti. Il termine “catastrofe”, che Thom naturalmente utilizza, indica semplicemente che nel processo che dà origine alle forme c’è un certo rapporto tra continuità e discontinuità, che ci sono dei momenti di rottura, che egli descrive appunto come le sette “catastrofi elementari”.
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Le passioni fra processi di soggettivazione e macchine
di Sandro Vero*
«Certo, il paradosso è che c’è stato bisogno di dimostrare che la passione, che fino a questo momento era ritenuto un giogo per l’uomo, poteva e doveva essere vista come ciò che l’avrebbe emancipato»
(P. Dardot e C. Lavalle, La nuova ragione del mondo, 2013
1. Un’antropologia delle passioni.
Il lettore attento scoprirà abbastanza presto come l’esergo tratto da Dardot e Lavalle sia un fruttuoso paradosso, rispetto alla tesi che questo scritto intende affermare. La passione, nella prospettiva antropologica che adotteremo, torna ad assumere le sembianze piene del giogo, ma lo fa seguendo delle linee “operative” piuttosto diverse rispetto a quelle previste dalla tradizione classica del pensiero: è giogo in quanto dispone il soggetto su un piano in cui la sua energia desiderante è captata e messa al servizio di obiettivi non suoi, senza che tuttavia occorra lungo il cammino alcuna “coercizione”.
Che possono mai avere in comune il tema del macchinico e quello dell’ingegneria delle passioni nel capitalismo contemporaneo? Peraltro, mentre il primo è stato pionieristicamente evidenziato dallo stesso Marx nell’ormai famoso Frammento sulle macchine (Marx, 1964) con annotazioni che rendono piena giustizia alla modernità del suo pensiero, sul secondo il marxismo tutto ha fatto calare una coltre assoluta di silenzio, disinteressandosi di fatto (ma anche di principio) della questione di come gli affetti lavorino spesso e (mal-)volentieri al servizio del capitale.
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Socialismo reale, Scuola di Francoforte, arte letteraria
Riflessioni per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre
di Sandro Dell’Orco
Costruiamo il pozzo di Babele
Kafka
1. La Rivoluzione d’Ottobre è accaduta. Questo nessuno lo potrà negare. C’è stata. Per un certo tempo, settantaquattro anni, superando condizioni di spaventosa arretratezza economica, continuo assedio e aggressione armata, ha mostrato agli uomini che può esistere un’altra forma di convivenza umana, non più basata sull’egoismo e sulla proprietà privata, bensì sulla solidarietà e comunanza dei beni. Naturalmente, che fosse possibile una organizzazione umana non basata sull’egoismo e la proprietà privata poteva e può ricavarsi dalla preistoria e dalla storia antica: parte del paleolitico, il neolitico e alcune grandi civiltà antiche, con i loro 200.000 anni di sviluppo (di cui gli ultimissimi millenni di dominio sociale non costituiscono che una frazione trascurabile), nonché molte società primitive studiate dall’antropologia, stanno lì a dimostrarlo; ma questi fatti inoppugnabili (insieme a quello, decisivo, che non esiste una natura umana determinata, ma che l’uomo possiede un’ampia apertura biologica e una quasi totale plasticità delle pulsioni) (1) non riescono a far breccia nella corazza dell’ideologia, della falsa coscienza socialmente necessaria che ci fa letteralmente percepire il non vero.
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L’origine della diseguaglianza. Da Rousseau al Paleolitico
di Cristina Cecchi
«Infatti è facile vedere come tra le differenze che distinguono gli uomini ve ne siano parecchie che passano per naturali, mentre sono solo il prodotto dell’abitudine e dei diversi generi di vita che gli uomini adottano in società.»
«Può esservi un uomo tanto depravato, pigro e feroce, da costringermi a provvedergli i mezzi di vita mentre se ne sta in ozio?»
«Ignorate che una moltitudine di vostri fratelli, muore, o soffre nel bisogno di ciò che voi avete di troppo, e che vi ci sarebbe voluto un consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano per poter prelevare sui mezzi di sussistenza comune tutto quel che andava al di là del vostro bisogno?»
«È contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, […] che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario.»
Jean-Jacques Rousseau
«Liberté, égalité, fraternité ou la mort». O, per dirla con Jeremy Corbyn, «For the many, not for the few». Dacché la modernità è nata, una porzione della specie umana non ha smesso di anelare all’eguaglianza, mentre un’altra, cospicua porzione ha continuato a brigare per la sua sussistenza, possibilmente a proprio favore.
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Amazon e il capitalismo senza profitti
di Maurizio Franzini
Maurizio Franzini prende spunto dalla recente notizia secondo cui Bezos, CEO di Amazon, ha superato Bill Gates come uomo più ricco del mondo per riflettere sulla causa principale di questo sorpasso: il vertiginoso aumento del valore di Amazon in Borsa. Franzini dopo aver ricordato che esso sii è verificato in corrispondenza di profitti persistentemente molto bassi, si chiede cosa abbia reso possibile questa apparente anomalia e ipotizza che dietro di essa possa celarsi una nuova varietà di capitalismo: il capitalismo senza profitti
“Il venerdi mattina le azioni di Amazon erano cresciute dell’8% rispetto alla sera precedente facendo aumentare la ricchezza di Bezos di 7 miliardi. Nel frattempo le azioni Microsoft hanno avuto un’impennata del 7% sicché quell’aumento non è stato sufficiente a Bezos per scalzare Gates… ma alle 10 e un quarto Amazon è cresciuta ancora del 2%, così la ricchezza di Bezos è salita a 90,6 miliardi di dollari superando finalmente quella di Gates che ammontava a 90,1 miliardi”.
E’ questo il resoconto, da me liberamente tradotto, che si può leggere sul sito di Forbes della mattina di fine ottobre in cui Bezos, CEO di Amazon, è diventato l’uomo più ricco del mondo. In realtà, non è la prima volta; il sorpasso c’era già stato a fine luglio ma nel volgere di una notte si era verificato il controsorpasso e Gates si era ripreso lo scettro che è stato nelle sue mani per moltissimi anni, con l’eccezione di due brevi intervalli in cui lo ha ceduto a Warren Buffett e Carlos Slim.
Non sappiamo per quanto tempo Bezos (il cui patrimonio – non molto diversamente da quello di Gates – equivale a circa 250.000 appartamenti di buona metratura nel centro di Roma) resterà al comando di questa speciale classifica, e di per sé la questione non è molto interessante.
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Elezioni, i cinque paradossi di una strana stagione politica
di Leonardo Mazzei
Premessa
Più le urne si avvicinano, più la confusione aumenta. Di tutto si discute fuorché di un banale dettaglio: il destino del Paese. Destino che rischia di decidersi a Bruxelles o, peggio ancora, a Berlino. Ma di questo — lo nota anche Federico Fubini sul Corsera — non c'è traccia nel cosiddetto «dibattito politico».
La cosa non è stupefacente, vista l'antica tradizione di parlar d'altro per schivare i problemi veri. Stavolta però il macigno è più grande del solito, perché alla fine l'Italia ne uscirà o come stato nuovamente sovrano, o come colonia definitivamente asservita all'Euro-Germania. Ma di tutto ciò parleremo in un prossimo articolo.
Qui ci limitiamo ad osservare l'impressionante accumulo di paradossi che si vanno producendo in vista delle imminenti elezioni politiche. Il fenomeno è interessante proprio perché, almeno a giudizio di chi scrive, esso discende largamente proprio dalla gigantesca fuga dalla realtà — di certo dalle responsabilità — di un'intera classe dirigente. E' questa una tendenza di lunga durata, ma certo un bilancio dei disastri prodotti dalla Seconda Repubblica non guasterebbe.
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Elezioni, conflitto sociale e sovranità nazionale
di Fabrizio Marchi
In queste settimane, in vista delle prossime elezioni politiche, sono in corso, in un’area variegata e che impropriamente potremmo definire di “movimento” e/o di “sinistra”, alcuni tentativi di dar vita a delle liste alternative ai partiti tradizionali. Questa esigenza, è importante sottolinearlo, è nata anche in seguito alla svolta centrista e moderata del M5S che, con la candidatura di Di Maio (che non ha mancato, come nella migliore tradizione di tutti i candidati premier, di mandare messaggi più che rassicuranti a Washington, Bruxelles, Londra e Berlino) ha virato decisamente verso destra. Il M5S, infatti, esattamente come tutti gli altri partiti, cerca ormai di accreditarsi come una forza politica in grado di garantire la famosa “governance”, cioè quella pace sociale dove i padroni del vapore possono continuare a fare quello che gli pare in totale assenza di conflitto sociale. Questo gli elettori pentastellati probabilmente non lo capiranno mai, non perché sono stupidi ma perché è assai difficile che il M5S possa andare al governo – con la inevitabile conseguenza di far esplodere le proprie contraddizioni – a meno di giravolte e tripli salti carpiati (leggi alleanze improbabili con altri partiti) che però gli sarebbe impossibile gestire di fronte al proprio elettorato. E’ da ricordare che il M5S negli anni scorsi è stato elettoralmente sostenuto, anche se non esplicitamente, anche da una buona fetta di elettorato di sinistra radicale e di “movimento”, sindacati di base, centri sociali, associazionismo vario ecc.
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La faglia destra-sinistra è morta in Italia
Vincent Dain intervista Samuele Mazzolini
Pubblichiamo la versione italiana dell’intervista realizzata da Vincent Dain a Samuele Mazzolini e pubblicata originalmente dal media francese Le Vent Se Lève il 4/12/2017
Le elezioni municipali di giugno 2017 sono state vinte in modo netto dai due principali partiti di destra: Forza Italia di Silvio Berlusconi e la Lega Nord di Matteo Salvini. Benché distanziate nei sondaggi nazionali dal Movimento 5 Stelle (M5S) e dal Partito Democratico (PD), le destre italiane sembrano avere il vento in poppa. Quali sono gli orientamenti e le strategie rispettive di queste due formazioni?
In effetti le destre italiane erano state date per morte troppo presto e le elezioni municipali di giugno 2017 l’hanno dimostrato, così come l’hanno fatto le recenti elezioni regionali in Sicilia. Con la caduta del governo di Berlusconi nel 2011 e una serie di scandali coevi che hanno interessato la Lega Nord, la destra ha vissuto certamente uno sconquasso, ma è riuscita a rientrare in carreggiata. Partiamo dalla Lega Nord che ha compiuto un vero e proprio exploit. Pochi giorni fa è stato definitivamente sancito che il suo nome sarà Lega e non più Lega Nord. Questa trasformazione nominalistica suggella un processo avviato dal segretario Matteo Salvini sin da quando ha preso le redini del partito nel 2013. In nuce, il progetto salviniano è quello di trasformare il proprio partito nel corrispettivo italiano del Front National di Marine Le Pen, con la quale – non a caso – ha mantenuto in questi anni una stretta vicinanza. Non più, quindi, un partito che si occupa di rivendicazioni regionaliste, a trazione settentrionale e con tinte secessioniste, bensì un partito nazionale che offre un discorso a uso e consumo di tutto il Paese.
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L’etica di Lenin (ed altre note sul ’17)
di Mimmo Porcaro
1914 – 1917
Una inesausta tradizione critica imputa alla Rivoluzione del 1917 l’ ingiustificabile, eccessiva violenza che essa avrebbe esercitato contro gli uomini e le cose, ma soprattutto contro le leggi dell’evoluzione economica e della dinamica storica. Lo si chiami blanquismo, lo si imputi a hybris, lo si veda come opera dei demoni dostoevskijani o come applicazione delle aride geometrie sociali di Cernisevskij, l’errore imperdonabile dei bolscevichi sarebbe sempre lo stesso: l’aver agito fuori tempo e fuori luogo, imponendo la rivoluzione ad un paese troppo arretrato e smorzando sul nascere le possibilità di lento ma sicuro progresso della democrazia, e poi del socialismo, aperte dalla fine dello zarismo. Basta però tornare di poco indietro nel tempo e questa critica mostra tutta la propria infondatezza. Nell’agosto del 1914 la socialdemocrazia tedesca, stupor mundi, vanto del movimento operaio internazionale, immensa e rodata macchina concepita proprio per accompagnare lo sviluppo del dinamico capitalismo germanico verso un esito socialista, vota i crediti di guerra, si allea strettamente con la burocrazia e con l’esercito (iniziando così a legittimare quelle stesse forze che vent’anni dopo avrebbero condotto al nazismo) e contribuisce in maniera decisiva allo scatenamento del primo macello mondiale.
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Il difetto fatale del neoliberismo: è un modello economico scadente
di Dani Rodrik
Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo. Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia
Il neoliberismo e le sue ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di fatto sono una distorsione della scienza economica tradizionale.
Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia.
Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista.
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Benvenuti nel Capitalocene!
D. G. Alì intervista Elmar Altvater
Come il capitalismo ha cambiato il rapporto uomo-natura: Antropocene, Capitalocene, Ecocapitalismo e Chthulucene
«Bisogna smetterla con questa costosissima cagata del riscaldamento globale».
(Donald J. Trump, Twitter, 1 gennaio 2014)
A 550 km dal circolo polare artico, sulle coste orientali della Groenlandia, si trova la Warming Island (‘l’isola del riscaldamento globale’), riconosciuta come tale nel 2005, quando il ghiacciaio che la univa alla terraferma, ritirandosi a causa dell’aumento della temperatura globale, ne provocò il definitivo distacco.
Quello del riscaldamento globale è uno dei fenomeni che appare oggi in cima alla lista delle principali emergenze ambientali del nostro pianeta. Il progressivo aumento della temperatura terrestre è dovuto all’emissione nell’atmosfera di crescenti quantità di gas serra, strettamente correlate ad attività umane industriali e a politiche economiche imperialiste. Tra gli altri fenomeni antropogenici di mutamento ambientale, la comunità scientifica annovera l’inquinamento (con l’immissione nell’atmosfera, nell’acqua e nel suolo di sostanze contaminanti), il buco dell’ozono, l’effetto serra, l’elettrosmog e l’estinzione di numerose specie naturali (con i suoi annessi fenomeni di deforestazione e desertificazione).
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La corsa alla produttività e la distruzione della produzione di valore
di Norbert Trenkle
«Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo» (Marx)
Ma questo obbligo ad ammassare quantità sempre maggiori di lavoro astratto tuttavia si oppone ad un'altra dinamica sistemica, quella che parallelamente appartiene all'essenza della logica capitalistica e che, in quanto tale, costituisce l'altro lato dell'autocontraddizione interna del capitalismo: se si è detto che il lavoro di ciascun individuo è socialmente valido solo in quanto "lavoro astratto", vale a dire come rappresentazione di un certo numero di unità di tempo astratto che sono state spese nella produzione di una qualsiasi merce, ciò include il fatto che la misura secondo cui ciascun lavoro viene valutato è allo stesso modo una categoria sociale che sfugge al controllo dell'individuo e della società nel suo insieme. La quantità di valore che rappresenta la realizzazione di un certo lavoro non si definisce a partire da quel lavoro, ma sempre in rapporto da uno standard sociale generale presupposto, che riflette il livello del progresso della produttività della società. In altre parole: il valore di una merce non è definito dal tempo di lavoro individuale che un individuo o una certa impresa impiega per la sua fabbricazione, ma dal tempo di lavoro che corrisponde al livello attuale della produttività della società Un lavoro è socialmente valido solo nella misura in cui viene utilizzato a tale livello.
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Sinistra ed elezioni, la traversata nel deserto è appena iniziata
di Militant
Ogni situazione concreta impone un ragionamento anch’esso il più possibile concreto. Le elezioni non sfuggono a questa semplice regola della politica, quella per cui non esistono schemi precostituiti. Ecco il motivo per cui le imminenti elezioni di marzo costringono la sinistra (quantomeno la sinistra credibile, ché quella incredibile già va indossando il costume double-face elettoralista/astensionista) ad una riflessione seria e originale. Il progetto di una lista di sinistra, Potere al popolo, in questi giorni ha contribuito a movimentare il dibattito elettorale, costretto fino a pochi giorni fa a barcamenarsi tra le pastoie liberali di Mdp-Si e il folklore opportunista del Brancaccio. Un dibattito che avremmo volentieri evitato, per due motivi: siamo, in fondo, un piccolo collettivo cittadino, incapace di spostare alcunché in termini politici ed elettorali nazionali; parliamo di una lista fatta in gran parte da compagni riconosciuti, dunque anche posizioni critiche esasperate avrebbero avuto poco senso. Lo scorso sabato però Eurostop, la piattaforma politica anti-europeista di cui facciamo parte, ha deciso di aderire al progetto della lista Potere al popolo. A questo punto ci è parso giusto dire la nostra in merito, perché è un evento che ci coinvolge direttamente.
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Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo italiano
Giacomo Gabbuti
Dall’Unità in poi l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale” ed è sempre cresciuta meno di quanto avrebbe potuto. Una recensione al volume curato da Vasta e Di Martino
Il volume curato da Di Martino e Vasta rappresenta probabilmente una svolta nella crescente pubblicistica storico-economica. Il lavoro, frutto di un collettivo di accademici (oltre agli autori, in ordine di apparizione, E. Felice, G. Cappelli, A. Nuvolari, A. Colli e A. Rinaldi), nasce da uno speciale di Enterprise & Society, intitolato Wealthy by accident? Il punto interrogativo era forse più in linea con l’interpretazione; ma più che in questa, la principale novità del volume sta nel modo in cui si concepisce il ruolo della disciplina nel più generale dibattito pubblico.
Nel 1990, Zamagni mandava alle stampe una delle più importanti e citate sintesi della storia economica d’Italia. Se, come scriveva Fenoaltea, il ruolo della disciplina (e delle scienze sociali) è quello di proiettare, come nelle leggende dei nostri antenati, l’immagine che abbiamo del nostro presente, è inevitabile che le interpretazioni riflettano i tempi in cui vengono scritte. Il titolo del volume – Dalla Periferia al Centro – rifletteva l’ottimismo e l’orgoglio di un Paese che, forse ancor più che dopo il Miracolo, sentiva di essere scampato per sempre dalla miseria. In un modo che colpisce chi quegli anni non li ha vissuti, e ne ha spesso letto descrizioni incentrate su inflazione e finanza pubblica fuori controllo, la pubblicistica dell’epoca sembra riflettere, forse per la prima volta, la voglia degli italiani di definirsi e raccontarsi in virtù della propria economia, atipica, ma di successo; calabroni industriosi e lavoratori, seppur allergici al fisco.
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L'economia della rivoluzione
di Ascanio Bernardeschi
Riflessioni a partire da un importante lavoro di Vladimiro Giacché
Antonio Gramsci definì l'Ottobre russo una rivoluzione contro il capitale, in quanto si discostava dalle previsioni marxiane secondo cui la rivoluzione sarebbe stata possibile in paesi ad avanzato sviluppo capitalistico e non nell'arretrata Russia. Probabilmente il grande dirigente politico e teorico italiano non poteva disporre di alcuni scritti dell'ultimo Marx proprio sulla Russia che non escludevano invece una possibilità di rottura rivoluzionaria in quel paese [1]. Ma a prescindere da ciò, Gramsci aveva ragione a respingere le posizioni dogmatiche che pretendevano un'applicazione senza mediazioni della teoria del Capitale a tutte le situazioni.
Questa teoria, che poi in realtà è un grande abbozzo incompiuto, è stata elaborata a un elevato livello di astrazione: parla del modo di produzione capitalistico, dei suoi caratteri generali, comuni a tutte le realtà economico-sociali in cui prevale tale modo di produzione.
Naturalmente essa è indispensabile per individuare, partendo da questi caratteri generali, le particolarità delle singole, diverse realtà. Ma andremmo fuori strada se pensassimo che basti usare questa teoria generale per giungere a corrette decisioni politiche contingenti.
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Ricominciare da Keynes?
di Massimo D’Angelillo
Domenica 26 Novembre 2017 presso il Coworking Moltivolti di Palermo la redazione di PalermoGrad ha incontrato in un forum di discussione l’economista Massimo D’Angelillo. Abbiamo chiesto a Massimo, traendo spunto dai contenuti di un memorabile libro pubblicato insieme a Leonardo Paggi per Einaudi nel 1986, I comunisti italiani e il riformismo, delle ragioni storiche che hanno determinato la tragica deriva della sinistra che ha finito per abbracciare, culturalmente oltre che politicamente, le parole d’ordine dell’austerità liberista. A partire da questa ricostruzione storica, l’autore di La Germania e la crisi europea (Ombre corte, 2016) e di un saggio all’interno del volume collettaneo Rottamare Maastricht (DeriveApprodi, 2016), si è soffermato sulle cause della crisi economica del 2008, sui vincoli della moneta unica e dell’egemonia tedesca, sul declino italiano e sulle drammatiche condizioni del Mezzogiorno. Nel ringraziare D’Angelillo, pubblichiamo un suo contributo e ci auguriamo di collaborare con lui anche in futuro.
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Gli ultimi anni si sono contraddistinti per una stagnazione economica decennale, e allo stesso tempo per una singolare incapacità di comprendere le origini della crisi italiana, soprattutto da parte dello schieramento culturale e politico che è sempre stato fonte di visioni alternative allo status quo: la sinistra.
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Quattro futuri, la vita dopo il capitalismo
di Peter Frase
Il testo che segue è l'introduzione al libro di Peter Frase, "Four Futures: Life After Capitalism", pubblicato nel 2016. Il testo è un'espansione delle idee contenute nell'articolo originale, del 2011, "Four Futures" [qui tradotto e pubblicato col titolo « E dopo? »]. Le idee sono fondamentalmente le stesse, ma il libro continua ed approfondisce diverse questioni che il testo originale toccava solamente, ed altre che non toccava nemmeno. Vale la pena leggerli entrambi
« Si è molto parlato degli impatti che avranno congiuntamente sul nostro futuro, la Crisi Climatica e le nuove tecnologie di Automazione dei posti di lavoro. Come si inseriscono in questo quadro le relazioni capitaliste di proprietà e la produzione, e la politica, specificamente per quanto attiene alla Lotta di Classe? Sarà sufficiente la possibilità di un'automazione quasi generalizzata per garantire che avvenga questa automazione? E quale sarà l'impatto che essa avrà sulle condizioni di vita delle persone? A partire dalla fine del capitalismo, sulla base di questi elementi, quale tipo di scenari ci possiamo aspettare? »
(da: Peter Frase, " Four Futures: Life After Capitalism" ["Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"].)
Nel XXI secolo due spettri si aggirano sulla Terra: lo spettro della catastrofe ecologica e quello dell'automazione.
Nel 2013, un osservatorio del governo degli Stati Uniti ha registrato, per la prima volta nel registro storico, che la concentrazione atmosferica globale di anidride carbonica aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm).
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