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1917, un anno da non dimenticare
di Sandro Moiso
China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00
Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.
Forse per questo motivo, il testo non è opera di uno storico tradizionale e non è figlio soltanto di un impegno militante, ma proviene dalla penna di uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi anni: China Miéville (Londra 1972). Vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premi Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), lo scrittore è stato e rimane però ancora militante della sinistra radicale inglese.
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La visibilità dell'invisibile
di Franco Senia
Anche Marx fa ricorso a Shakespeare per parlare dell'estraneità della lingua, della lingua come qualcosa che ossessiona, che non è mai del tutto integrata. Harald Weinrich lega insieme Shakespeare e Goethe nell'analogia del francese visto come lingua della menzogna. Derrida, da dentro tale lingua, in "Spettri di Marx" commenta "Il 18 brumaio" di Marx, soprattutto per quel che riguarda la parte in cui Viene detto che «indossa la maschera dell'apostolo Paolo», allo stesso modo in cui la Rivoluzione del 1789-1814 «ha indossato alternativamente come quelle della Repubblica romana e quella dell'Impero romano.»
Si può qui ricordare che nel suo saggio dedicato a Lutero, Aby Warburg affronta quella figura storica mettendo in evidenza la sua dimensione di traduttore e di mediatore culturale (allo stesso modo di Erasmo, Lutero è stato uno dei pochi a dominare il greco nel XVI secolo, traducendo, a partire dal 1921, il Nuovo Testamento in tedesco). Lutero, in quanto operatore della differenza sia linguistica che ideologica, opera sui passaggi, sulle contaminazioni: «Attraverso la mediazione fedele di quelle vie migratorie che portano l'ellenismo in Arabia, in Spagna, in Italia e in Germania», scrive Warburg, «gli dei planetari sono sopravvissuti nelle parole e nelle immagini come divinità viventi», e più avanti: «L'astrologo dell'epoca della Riforma attraversa questi due estremi opposti - l'astrazione matematica ed il vincolo culturale -, irreconciliabili per il naturalista di oggi giorno, come se fosse il punto di inversione di uno stato d'animo omogeneo e di un'ampia oscillazione» (Aby Warburg, Divinazione antica pagana in testi e immagini dell'età di Lutero).
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Cosa va a fare l’Italia in Niger?
di Redazione
Gentiloni ha annunciato alla vigilia del Natale, in sordina ed in mezzo alla distrazione dei regali natalizi, l'intervento in Niger. Ma la reazione politica al momento non è stata incisiva e si perde nella solita retorica dell'intervento umanitario per stabilizzare il paese. Ma la verità è un'altra
L’annuncio dell’intervento italiano in Niger, fatto da Gentiloni su una portaerei, ha colto di sorpresa solo gli osservatori più distratti. La scorsa estate, nel periodo del giro di vite Minniti sugli sbarchi dalla Libia, il governo del Niger era già stato accolto a palazzo Chigi. Motivo ufficiale: una serie di discussioni, e di richieste di finanziamento da parte del paese africano, legate alla questione del contenimento dei flussi migratori. Minniti infatti, all’epoca (e non solo), sosteneva che le frontiere della Ue coincidessero con la Libia e che, proprio per quello, rafforzare la vigilanza in Niger avrebbe significato un alleggerimento dei problemi alla frontiera libica.
Naturalmente l’ovvietà di un Niger devastato dalle crisi idriche (si veda qui) e quindi produttore di immigrazione di massa in fuga verso l’Europa, è ufficialmente negata. Perchè per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza. Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger vediamo che non comprende il solo paese in questione.
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La grande menzogna della globalizzazione
di Dani Rodrik (*)
Gli esponenti della sinistra della “Terza Via” hanno presentato la globalizzazione come inevitabile e vantaggiosa per tutti. In realtà, non è né l’uno né l’altro e l’ordine liberale ne sta pagando il prezzo
Non molto tempo fa, la discussione sulla globalizzazione era data per morta e sepolta – dai partiti di sinistra come per quelli di destra.
Nel 2005, il discorso di Tony Blair al congresso del Partito Laburista coglieva lo spirito del tempo: “Sento persone che dicono che dobbiamo fermarci e discutere della globalizzazione” – disse Blair al suo partito – “si potrebbe anche discutere se l’autunno debba seguire l’inverno”. Ci sarebbero stati imprevisti e disagi sul cammino; qualcuno sarebbe rimasto indietro, ma non importava: le persone dovevano andare avanti. Il nostro “mondo che cambia”, continuava Blair, “è pieno di opportunità, ma solo per quelli rapidi ad adattarsi e lenti a lamentarsi”.
Oggi, nessun politico competente potrebbe esortare i suoi elettori a non lamentarsi in questo modo. Le élite di Davos, i Blair e i Clinton si stanno scervellando, domandandosi come un processo che pensavano fosse inesorabile possa essersi invertito. Il commercio internazionale ha smesso di crescere rispetto alla produzione, i flussi finanziari transnazionali non si sono ancora ripresi dalla crisi globale di un decennio fa, e dopo lunghi anni di stasi nei dibattiti sul commercio mondiale, un nazionalista americano ha cavalcato un’onda populista per andare alla casa Bianca, da dove sta scoraggiando ogni sforzo a favore del multilateralismo.
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Il governo dei non governativi
di Il Pedante
Fino a pochi anni fa la qualifica di ONG, introdotta en passant dall'art. 71 dello Statuto delle Nazioni Unite (1945), era certificata dal nostro Ministero degli esteri a valle di un giudizio di idoneità. Successivamente la legge 125/2014 ne ha resa la definizione più incerta e sostanzialmente desueta, sicché nel nostro ordinamento la sigla sopravvive per designare le associazioni già riconosciute come ONG in Italia o all'estero secondo i rispettivi ordinamenti, più in generale inquadrabili lato sensu nei criteri fondamentali della precedente norma, che cioè «abbiano come fine istituzionale quello di svolgere attività di cooperazione allo sviluppo in favore delle popolazioni del terzo mondo» e «non perseguano finalità di lucro» (legge 49/1987, art. 28).
Ma la caratteristica più importante delle ONG è che sono, appunto, «non governative», a sottolineare il fatto che si tratta di enti di diritto privato finanziati con fondi privati e indipendenti dagli apparati e dalle politiche degli Stati. Questi aspetti, così importanti da essere anticipati nel nome, risponderebbero all'intento di svolgere mansioni di assistenza alle popolazioni che i governi non possono o non vogliono assicurare. L'indipendenza svincolerebbe inoltre l'impegno umanitario dagli obiettivi politici del momento garantendone la neutralità e la continuità.
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Dopo il keynesismo: teorie economiche per una (non-) politica economica
di Alberto Russo
In questo articolo viene proposta una breve discussione sull’evoluzione della macroeconomia e della politica economica dopo Keynes. In particolare, viene descritta la diffusione di un nuovo standard di ricerca, dopo la «stagflazione» degli anni ‘70 del secolo scorso, che ripropone la fiducia (pre-keynesiana) nelle capacità di auto-regolazione dei mercati e considera la politica economica (anticiclica) come un possibile ostacolo al raggiungimento dell’equilibrio «naturale» del sistema economico. Infine, vengono discusse alcune prospettive per la macroeconomia dopo la Grande Recessione
1. Introduzione
Quando nel 1936 John Maynard Keynes pubblicò la sua Teoria Generale, i danni della Grande Depressione erano già evidenti. Con il suo contributo, Keynes individuò importanti misure di politica economica per superare la crisi attraverso l’intervento pubblico, in assenza di meccanismi di riequilibrio automatico del sistema economico. Il grande successo della Teoria Generale è dovuto proprio al bisogno di una nuova teoria macroeconomica in grado di comprendere cosa era andato storto e di indicare le soluzioni di politica economica per favorire una ripartenza dell’economia. La fiducia nell’intervento pubblico e nella politica economica continueranno a caratterizzare la teoria macroeconomica anche nel dopoguerra, fino agli anni ‘70 del secolo scorso, quando un nuovo cambiamento epocale viene accompagnato dall’aumento congiunto di inflazione e disoccupazione durante la crisi energetica.
La rivoluzione anti-keynesiana del monetarismo (di prima e seconda generazione) torna ad una impostazione (pre-keynesiana) contraddistinta dalla fiducia nelle capacità di auto-regolazione dell’economia di mercato, con il corollario che proprio le politiche economiche ostacolerebbero la tendenza del sistema verso il suo equilibrio naturale.
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Umberto Eco e il Pci
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Claudio e Giandomenico Crapis, Umberto Eco e il Pci. Arte, cultura di massa e strutturalismo in un saggio dimenticato del 1963, Imprimatur, 2017
Con lieve ritardo (il libro è uscito circa un anno fa), leggiamo questo saggio che in realtà introduce e commenta uno scambio intellettuale avvenuto tra Umberto Eco e Rossana Rossanda sulle colonne di Rinascita nell’autunno del 1963. Il riferimento temporale è decisivo per comprendere il contesto: siamo dentro l’esplosione delle neoavanguardie (Novissimi, Gruppo 63 e dintorni), sull’onda del loro eclettico rapporto con l’operaismo, e nel vortice della crescita elettorale del Pci. C’è fermento insomma, e il rapporto tra politica e cultura è posto all’ordine del giorno delle questioni dirimenti (bei tempi). Lo scambio tra Eco e la Rossanda è solo una tessera di un quadro più vasto, che proprio su Rinascita troverà uno dei luoghi di confronto. Grazie a Mario Spinella, Eco interviene in una discussione che procede già da qualche anno: il comunismo italiano da tempo si domanda del rapporto progressivamente meno organico con il mondo intellettuale. Dagli anni Sessanta queste domande non provengono più solo dall’interno del partito, né solo rinfacciate dalla cultura borghese: ad intervenire, sulla scorta delle trasformazioni sociali del paese, sono una congerie di scrittori, artisti, critici e militanti politici che compongono quella che viene denominata «cultura d’opposizione». Una cultura che utilizza il marxismo come «metodo di critica» ma non più come «concezione del mondo» autosufficiente. Umberto Eco s’incarica di gettare il classico sasso nello stagno, generando un fervido confronto che svela una certa dinamicità del dibattito marxista italiano sul piano culturale, anche dentro il Pci.
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A cosa somiglia una rivoluzione
Lenin e la politica economica sovietica
Tiziano Annulli intervista Vladimiro Giacché
Pubblicato per Il Saggiatore lo scorso 29 Giugno, Economia della rivoluzione è un’antologia di scritti di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, ampiamente introdotta e commentata da Vladimiro Giacché, filosofo normalista, economista e presidente del Centro Europa Ricerche
Quelli raccolti in Economia della rivoluzione sono dei testi che Lenin dedicò alla politica economica sovietica a partire dall’ottobre 1917, anno della presa del potere da parte dei Soviet, fino al marzo 1923, momento in cui la malattia che lo aveva colpito gli impedì di proseguire il suo lavoro per condurlo, quasi un anno più tardi, alla morte. Articoli, saggi, abbozzi di risoluzioni politiche, resoconti stenografici di interventi pubblici, appunti, promemoria. Economia della rivoluzione è un insieme eterogeneo di scritti – già editi in Opere Complete, pubblicate prima da Editori Riuniti e poi, ampliate, da Edizioni Lotta Continua – organizzati da Giacché secondo una scansione temporale: I) la presa del potere e i primi mesi di governo; II) lo scoppio della guerra civile e il comunismo di guerra; III) la Nuova politica economica.
Tre grandi capitoli all’interno dei quali prende corpo e si evolve la riflessione di Lenin, una riflessione che, nell’affrontare il problema dello sviluppo economico, continuamente si confronta con il portato della filosofia marxista e la sua ortodossia, riflette sulla necessità e sulla possibilità della formazione di una classe dirigente in un contesto arretrato, tratteggia i confini di una strategia politica costretta fra la ricerca del consenso, la dialettica con il capitalismo, l’imperialismo, si cimenta con i temi dell’emancipazione femminile.
Oltre cinquecento pagine che tornano attuali sia perché portatrici di una riflessione radicalmente alternativa al modo di produzione capitalistico, sia come esempio di un pensiero temerario, al tempo stesso rigoroso e pragmatico.
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Le proposte sul reddito perpetuano l’esclusione sociale
Sergio Cararo intervista Giordano Sivini
Giordano Sivini* è stato docente di Sociologia alla facoltà di Economia dell’Università della Calabria. Recentemente, insieme a Giuliana Commisso, ha pubblicato il libro “Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?” per le edizioni Asterios. Del libro abbiamo già parlato sul nostro giornale.
Due settimane fa, anche l’Eurostat ha certificato che in Italia ci sono ormai 18 milioni di persone a rischio povertà, contemporaneamente il governo ha varato l’ennesimo, risibile, provvedimento contro la povertà con l’introduzione del Rei (Reddito di inclusione). Il M5S continua a parlare di Reddito di Cittadinanza ma i contorni di questa proposta sfumano sempre più al peggio dentro il processo di normalizzazione di questo movimento. Siamo tornati a parlarne con Giordano Sivini, per approfondire le questioni sollevate nel suo libro e soprattutto la loro relazione con una realtà dai costi sociali sempre più pesanti per milioni di persone a crescente rischio povertà ed esclusione sociale. Una spirale che va spezzata, con forza e con urgenza.
* * * *
Cominciamo da un giudizio sul Rei o Reddito di Inclusione entrato recentemente in vigore. Come giudichi questo provvedimento del governo?
Il Reddito di Inclusione (Rei) è innanzi tutto una misura elettorale, per l’accelerazione del suo avvio dopo la lunga gestazione accompagnata dai ripetuti mirabolanti annunci dell’ineffabile ministro Poletti.
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«Egregio signore e compagno!»1
Il carteggio tra Labriola ed Engels
di Eros Barone
Ho sempre per le mani molta carta
stampata; ma ho sempre studiato
pochi libri, per conservarmi sano il cervello.
Ed è così che negli ultimi anni mi sono
assimilati i vostri e gli scritti di Marx.
(Lettera a Engels del 13 giugno 1894)
I clowns politici hanno sempre di che divertirci,
in questo paese dove fiorisce la commedia da
piangere e la tragedia da ridere.
(Lettera a Engels del 5 novembre 1894)
1. Un carteggio intenso in un periodo storico cruciale
«La Germania ebbe Marx ed Engels, e il primo Kautsky; la Polonia, Rosa Luxemburg; la Russia, Plekhanov e Lenin; l’Italia, Labriola, che (quando da noi c’era Sorel!) era in corrispondenza da pari a pari con Engels, poi Gramsci». Così Louis Althusser, in quella raccolta di saggi, Pour Marx, che fra anni ’60 e anni ’70 dètte un contributo importante alla ripresa del dibattito marxista, registrava, denunciando nel contempo «l’assenza di una reale cultura teorica nella storia del movimento operaio francese»2 , l’esistenza, in Italia, di una grande tradizione teorica del marxismo, che era stata perfino in grado di dialogare, attraverso Labriola, con uno dei due fondatori del marxismo stesso, cioè con Engels.
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Dal neoliberismo progressista a Trump, e oltre
Nancy Fraser
Chiunque parli di “crisi”, oggi, rischia di essere liquidato come un parolaio, data la banalizzazione che il termine ha subito attraverso il suo uso continuo e superficiale. Ma c’è un senso preciso in cui noi oggi stiamo effettivamente affrontando una crisi. Se la caratterizziamo con precisione e identifichiamo le sue dinamiche distintive, possiamo determinare meglio cos’è necessario per risolverla. Su queste basi, inoltre, potremmo intravedere un sentiero che ci guidi oltre l’attuale impasse, attraverso il riallineamento politico e verso la trasformazione della società.
A prima vista, l’attuale crisi sembra essere politica. La sua espressione più spettacolare è proprio qui, negli Stati Uniti: Donald Trump – la sua elezione, la sua presidenza e i conflitti che la circondano. Ma non mancano i casi analoghi altrove: il disastro della Brexit nel Regno Unito; la crisi di legittimità dell’Unione Europea e la disintegrazione dei partiti socialdemocratici e di centro-destra che l’hanno sostenuta; le crescenti fortune dei partiti razzisti e anti-immigrati in tutta l’Europa settentrionale e centro-orientale; e l’esplosione di forze autoritarie, alcune qualificabili come proto-fasciste, in America Latina, in Asia e nel Pacifico. La nostra crisi politica, se è questo che è, non è solo americana, ma globale.
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Prima questione di geopolitica: la Russia è cattiva perché… russa!
di Uber Serra
1. Secondo lo schema geopolitico proposto dal geografo Alford John Mackinder in una celebre conferenza londinese davanti alla Royal Geographical Society la sera del 25 gennaio del 1904, l’insieme delle terre euroasiatiche (che costituiscono l’“isola del mondo” perché fisicamente compatte dall’Atlantico al Pacifico e dal Mar Glaciale Artico al deserto del Sahara) non è gerarchicamente uniforme, essendocene una porzione che rappresenta a suo dire il perno geografico della storia (come recita il sottotitolo della conferenza) ed il cui controllo politico potrebbe assicurare addirittura il governo del mondo. Su questa porzione di spazio euroasiatico, che Mackinder chiama Heartland ossia il “cuore della terra”, si incardinerebbero infatti le variabili di spazio geografico e di tempo storico che definiscono la nuova “scienza” della geopolitica. E siccome il “cuore della terra” è rappresentato dalla grande estensione delle steppe euroasiatiche che vanno dal fiume Don alla penisola di Kamciakta, esso finisce per coincidere di fatto con la Russia, così che (primo teorema geopolitico) chi la governa potrebbe essere in grado (il condizionale è d’obbligo) d’imporre la propria volontà al resto del pianeta.
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Capitalismo finanziario, diritti umani e conflitto sociale
di Alessandro Somma
Alain Touraine, il decano dei sociologi francesi a cui si deve l’espressione “società postindustriale”, ha dedicato i suoi ultimi libri alla disgregazione della società industriale e ai conflitti che caratterizzano quanto viene definita “epoca postsociale”: l’epoca non più governata dalla dimensione socio economica dei problemi, bensì da quella etico individuale. Ne “La fine delle società” ha analizzato il capitalismo finanziario e il suo ruolo nella crisi delle principali istituzioni politiche e sociali: dallo Stato alla famiglia, passando per i sindacati e i diversi sistemi di protezione e controllo sociale (La fin des sociétés, 2013). Con “Noi soggetti umani” ha sottolineato la necessità di riscoprire i diritti umani per contrastare il capitalismo finanziario attraverso un rigurgito etico individuale (Nous, sujets humains, 2015). Infine, ne “Il nuovo secolo politico” ha riflettuto sul modo di affrontare i grandi temi che monopolizzano il dibattito pubblico: dalla questione nazionale a quella religiosa, passando per la lotta al terrorismo e la sfida ambientale (Le nouveau siècle politique, 2016).
Il secondo volume, un libro a cui l’autore afferma di sentirsi “più vicino che a tutti gli altri”, è da poco uscito in traduzione italiana (Noi, soggetti umani, trad. M.M. Matteri, Il Saggiatore, 2017, pp. 308). Offre l’occasione per una sintesi del pensiero di Touraine sul modo di reagire ai guasti prodotti dalla globalizzazione, e per valutarlo alla luce delle dinamiche che caratterizzano la costruzione europea.
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Da Veblen a Keynes: tempo di lavoro e modello di sviluppo
di Enrico Cerrini e Giulio Di Donato
C’è un tema trascurato nel dibattito pubblico, ma che nel contesto attuale può assumere una centralità difficilmente eludibile. Si tratta della riduzione dell’orario di lavoro. Nel quadro attuale segnato dai cambiamenti nel mercato del lavoro conseguenti all’avanzamento tecnologico e alla globalizzazione (descritti anche in un articolo precedente), gli autori propongono in questo articolo una diversa lettura della tematica che riflette un punto di vista teorico che prende spunto dalle riflessioni dell’economista Thorstein Veblen, il cui pensiero è stato già affrontato nell’articolo L’economica tra istituzione ed evoluzionismo
L’economia neoclassica insegnata nei primi anni universitari presenta il tempo libero come uno dei due beni che determinano l’utilità individuale, sulla cui base calcolare l’offerta di lavoro operaia. Gli individui raggiungono maggiori livelli di utilità quanto più è alta la loro disponibilità di consumo e di tempo libero.
Tenendo conto della domanda di beni e della tecnologia utilizzata, ovvero il numero di operai necessari a ottenere la produzione richiesta dal mercato, il datore di lavoro richiede agli operai una quantità di lavoro che aumenta con il diminuire del livello salariale offerto dall’impresa. I lavoratori scelgono se accettare o meno la proposta dell’imprenditore sulla base della loro curva di offerta di lavoro, la quale aumenta con il crescere del salario offerto dall’impresa.
L’impostazione neoclassica prevede che un mercato del lavoro completamente libero stabilisca un salario in grado di equilibrare domanda e offerta di lavoro eliminando la disoccupazione involontaria. Quest’ultima può essere quindi generata solo dalla presenza di fattori che creano barriere al libero mercato. Tale teoria ha ricevuto numerose critiche perché non tiene conto né delle caratteristiche comportamentali analizzate, tra gli altri, dagli economisti keynesiani, né della contrattazione considerata dagli economisti classici come David Ricardo.
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Libia, flussi di guerra
I militari italiani, i migranti, gli “interessi nazionali”
di Valeria Poletti
In Libia l’esercito italiano è presente con forze speciali, addestra i militari legati ad una delle parti in conflitto, invia 300 parà della Folgore a protezione dell’ospedale militare allestito per assistere i feriti della milizia di Misurata, mantiene la copertura aerea attraverso la portaerei Garibaldi e i caccia dell'Aeronautica schierati nelle basi di Trapani, Gioia del Colle e Sigonella oltre ai droni dell'Aeronautica militare, monitora i confini sud dove intende impiantare una propria base militare, è presente con le sue navi dal 2015 per presidiare le installazioni ENI al largo di Mellitah.
Senza clamore, cioè senza che ne sia data informazione, la Brigata Sassari (precedentemente e attualmente operativa in Afghanistan e in Iraq) è ora sbarcata in Libia con il 3° Bersaglieri(1).
L’Italia ha codiretto, insieme a Francia ed Etiopia, la missione in appoggio alle forze del G5 Sahel( 2) (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania and Niger) che ha iniziato le operazioni “anti-terrorismo” alla fine di ottobre 2017(3) ed è finanziata dagli Stati Uniti con 60 milioni di dollari(4), ha firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger (accordo del quale, come riporta Analisi Difesa il 27 settembre, non sono stati resi noti i dettagli)(5).
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Il primo e il secondo Colletti: questioni aperte
di Franco Russo
Si riprenda l’intervista rilasciata a Giampiero Mughini per Mondoperaio del novembre 1977, in cui Lucio Colletti riconosce, con accenti seccamente autocritici, di aver visto per lungo tempo “il modello di libertà in Stato e rivoluzione di Lenin, nella Comune di Parigi, nell’autogoverno dei produttori, nella democrazia diretta roussoiana” (Tra marxismo e no, pp. 143-52). Purtroppo, conclude, gli esperimenti degli Stati del socialismo reale, avendo dato vita a dittature, hanno dimostrato che quel modello, cioè l’autogoverno dei produttori e la democrazia diretta, è impraticabile. Quest’autocritica sul credo politico è scandita insieme alla riaffermazione dei principi del materialismo, che per Colletti coincidono con quelli delle scienze naturali, mentre rispetto alla conoscenza del mondo sociale ha oscillato tra una visione positivista – essa deve adottare metodi scientifici (peraltro mai da lui definiti) ‒, e un velato scetticismo sostenendo che rimane una questione irrisolta.
1. Contraddizioni dialettiche e opposizioni reali
Di un giudizio Colletti è rimasto sempre assolutamente convinto, che la ‘dialettica’ – elaborata da Hegel – fosse antiscientifica e si risolvesse in un’escatologia ‒ la storia del mondo è la “realizzazione dello spirito”, si legge nelle pagini finali del quarto volume delle Lezioni sulla filosofia della storia. Nel corso delle sue ricerche Colletti si accorse, tanto da restarne stordito, di non aver capito che Il Capitale di Marx, per lui esempio di indagine scientifica, fosse intriso di dialettica a cominciare dalle famose pagine del primo volume dedicate all’analisi del feticismo delle merci.
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Pechino verso un nuovo “soft power”?
di Diego Angelo Bertozzi
La Cina “globale” ha prestato sempre più attenzione alla sua immagine, alla diffusione e alla promozione della propria cultura, ben consapevole del fatto che sul “soft power” i passi da compiere sono ancora molti. Ma anche sotto l’aspetto del cosiddetto “potere morbido” occorre ormai sganciarsi da una definizione consolidata – quella che notoriamente fa capo allo studioso statunitense Joseph Nye - perché rischia di “universalizzare” un caso di studio particolare – gli Stati Uniti appunto – per elevarlo a metro di giudizio globale in base al quale la Cina è sistematicamente condannata come Paese privo di particolare fascino e per questo impossibilitata a mettere realmente in discussione l’egemonia dell’american way of life. Mai infatti come in questi tempi di crescente impatto cinese sugli affari internazionali, si è ricorsi a questo tipo di ragionamento, quasi si volesse riaffermare quotidianamente – possiamo chiamarla “ridotta del soft power” - ad una centralità che nei fatti è sempre più in discussione.
Il fatto è che – ed in parte già lo abbiamo visto – che quando si parla di “Beijing consensus” e di capacità attrattiva esercitata dalla Cina popolare il riferimento va fatto ai successi ottenuti sul piano economico e sociale che hanno portato un ex Paese coloniale alla condizione di potenza economica nell’epoca della globalizzazione.
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Residui, persistenze e illusioni: il fallimento politico del globalismo
di Geminello Preterossi
A partire da un’analisi del rapporto tra diritto, territorio e il cosiddetto “spazio globale”, il saggio esamina e discute la crisi “spaziale” dell’età dei diritti, a fronte di una specificità urbana dello spazio europeo e di una persistenza degli Stati come attori politici principali, in rapporto funzionale o di tensione con i poteri indiretti del capitalismo finanziario. In particolare, l’autore mette in questione l’esistenza di un’alternativa credibile agli universali politici concreti. Contro uno spazio che rischia di caratterizzarsi come postdemocratico e decostituzionalizzato, l’autore propone un’analisi tesa a mostrare la necessità di recuperare il precipitato politico del costituzionalismo sociale e democratico rilanciandone il portato emancipativo e l’attualità, consapevole del rischio di muoversi tra residui (novecenteschi), persistenze concettuali (moderne) e illusioni (globaliste)
1. Diritto senza territorio?
In questi ultimi decenni, segnati dal cosiddetto «globalismo giuridico»1, abbiamo assistito a un progressivo divorzio tra diritto e territorio2 e all’affermazione di uno spazio giuridico deterritorializzato, egemonizzato dai flussi finanziari. Depositatasi la polvere della retorica, della giustizia globale e della religione dei diritti umani quali fondamenti di un nuovo ordine mondiale, è rimasto ben poco. Mentre campeggiano i poteri economici transnazionali, che non avendo problemi di legittimazione politica, possono permettersi di ignorare gli effetti sui territori - cioè sui concreti legami sociali -dell’estrazione sistematica di valore in basso e della sua sussunzione in alto, nello spazio gassoso dei “flussi”.
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“La scomparsa della Sinistra in Europa”
Intervista a Aldo Barba e Massimo Pivetti (con una domanda)
Aldo Barba e Massimo Pivetti,i “La scomparsa della Sinistra in Europa” (Imprimatur, 2016)
Dal Collettivo Aristoteles, un gruppo di giovani torinesi che si occupano di tematiche economiche e politiche, abbiamo ricevuto questa intervista, da loro realizzata, agli autori del testo “La scomparsa della sinistra in Europa”, e diamo corso volentieri alla pubblicazione. Gli autori denunciano il suicidio politico della sinistra, che aderendo al progetto mondialista di libera circolazione di merci, persone e capitali, con ciò stesso si è posta nell’impossibilità di promuovere le politiche economiche espansive di piena occupazione a tutela del lavoro, a causa del potente “vincolo esterno” della bilancia dei pagamenti. Così facendo, la sinistra è venuta meno alla sua funzione e di conseguenza sta scomparendo dal panorama politico. Gli autori indicano una via e affermano con coraggio che un paese potrebbe “andare anche da solo” nella direzione delle politiche espansive, a patto di attuare un opportuno regime di controlli delle transazioni con l’estero, e sottolineano anche l’effetto domino che si produrrebbe verso gli altri partner, capace di innescare un circolo virtuoso di coordinamento espansivo. L’analisi prosegue poi con riguardo al problema della immigrazione, considerato anch’esso centrale nella perdita di consensi della sinistra.
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Il populismo russo: percorsi carsici
di Pier Paolo Poggio
Nel lessico politico della sinistra populismo è parola bollata negativamente, su ciò concordano le due principali correnti intellettuali e di pensiero politico dell’Otto e del Novecento, quella liberale e quella marxista. Anche in un contesto profondamente diverso dal nostro, quale quello americano, le cose non cambiano: i liberali e i progressisti individuano nel populismo il loro peggiore nemico; rimando in proposito al libro fondamentale, anche se discutibile, di Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Populista è stato considerato il fascismo, così come il nazismo, nonché il comunismo sovietico, ovviamente il peronismo, le dittature sudamericane, ma anche Bossi e Berlusconi sono etichettati come populisti (io stesso ho curato una raccolta di saggi intitolata Dal leghismo al neopopulismo).
Secondo Lasch sono le ideologie del progresso che individuano nel populismo l’avversario da sconfiggere; la posta in gioco riguarderebbe la modernizzazione, con il libero dispiegarsi della lotta di classe, la differenziazione del popolo in classi e lo sviluppo di una produzione ideologica e anche letteraria, capace di rappresentare il pieno avvento della modernità, la sconfitta dei provincialismi, dei regionalismi, di ogni forma di localismo. Forse qualcuno ricorderà il libro di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965).
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Libia, come si saccheggia una nazione
di Giacomo Gabellini
La storia non raccontata di una Libia divenuta un pericolo per il processo di globalizzazione e che doveva essere ricondotta all’ordine
La Libia è oramai una mera espressione geografica, per usare un’espressione del principe Von Metternich. Dall’intervento occidentale contro Muhammar Gheddafi, il Paese – le regioni del Sahel con cui confina – è infatti sprofondata nel caos, con un nugolo di fazioni autofinanziate mediante quella che si configura in tutta evidenza come una moderna tratta degli schiavi e armate di fucili, lanciarazzi, pistole, ecc. sottratti dagli arsenali della Jamahiriya ormai distrutta che si contendono il territorio. Una situazione da cui le grandi imprese sperano di trarre ottimi profitti, attraverso l’applicazione di disegni egemonici studiati a tavolino quali quello spiegato al «Corriere della Sera» da Paolo Scaroni, l’ex amministratore delegato dell’Eni riciclatosi come vice-presidente della Banca Rothschild (la stessa in cui si è formato Emmanuel Macron). A detta di Scaroni, «occorre finirla con la finzione della Libia, Paese inventato» dal colonialismo italiano. È necessario «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», cosa che spingerebbe inevitabilmente Cirenaica e Fezzan a dotarsi di propri governi regionali con lo scopo di amministrare in autonomia le proprie ricchezze.
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La rivoluzione la faranno i robot
di Maria Rosaria Nappa e Antonio Noviello
Dalla rivista D-M-D' n°11
“In altri termini: ciò deriva dal fatto che le forze produttive generate dal modo di produzione capitalista moderno, al pari del sistema di ripartizione di beni che esso ha creato, sono entrati in contraddizione flagrante con questo stesso modo di produzione, e ciò a un grado tale che diviene necessario un rovesciamento del modo di produzione e di ripartizione eliminando tutte le differenze di classe, se non si vuole vedere perire tutta la società.” [Engels, Anti-Duhring]
Nel 2099, i centri di produzione mondiali contavano solo poche unità umane, le quali dietro a spessi vetri e davanti a grandi monitor controllavano sterminate distese di robot superintelligenti. Questi non erano i robot impacciati del 2016, quando occorrevano algoritmi da milioni di linee di codice per simulare un piccolo movimento del braccio; ora i robot erano in grado di auto-apprendere e di trasformare in azione, all’istante, un comando che arrivava dal loro centro di controllo, ed erano in grado di impartire lo stesso ordine anche ai colleghi di lavoro.
All’interno di queste “cittadelle produttive” erano pochi gli uomini che avevano ancora un lavoro.
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Votare non è più democratico?
di Damiano Palano
Le elezioni e la "sindrome da stanchezza democratica". Una critica a David Van Reybrouck dalla rivista Spazio filosofico
1. Introduzione
Rileggendo oggi Solar Lottery di Philip K. Dick, è quasi scontato riconoscere come già in quel primo romanzo fossero presenti molti dei motivi che avrebbero in seguito contrassegnato la produzione dello scrittore americano. Risulta in effetti evidente sin dalle prime pagine come la sua idea della science-fiction tendesse a fuoriuscire dal perimetro di una letteratura di genere destinata allora prevalentemente a un pubblico di giovani (e giovanissimi) lettori, e come la sua raffigurazione di un remoto futuro fosse in realtà una critica della società americana degli anni Cinquanta. Ma più di sessant’anni dopo la sua pubblicazione, si può forse intravedere in Solar Lottery anche una sorprendente prefigurazione delle società dell’inizio del XXI secolo e dei processi che investono le democrazie occidentali. In quel vecchio romanzo Dick immaginava infatti che le società occidentali avessero adottato il sistema della lotteria non solo per distribuire le merci ma anche per assegnare il potere politico. I governanti non erano dunque scelti dagli elettori e le procedure di voto erano state sostituite dall’estrazione a sorte di un Quizmaster, al quale era affidato un potere sostanzialmente assoluto1. E proprio per questo, se certo la distopia di Dick prefigurava la nascita dell’“azzardo di massa”2, lo scenario allestito nel romanzo può essere letto anche come l’anticipazione – certo estrema – di un ripensamento del ruolo che il momento della scelta elettorale ricopre nelle democrazie contemporanee.
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Ripensare l’Intelligenza Artificiale
di Nicola Nosengo*
Algoritmi come cervelli umani: promesse e illusioni del deep learning, la tecnica che ha rivoluzionato il campo
Come l’inverno dello scontento di cui parla Riccardo III nell’omonimo dramma shakespeariano, anche l’inverno dell’intelligenza artificiale si è oramai trasformato in una gloriosa estate. È stato un inverno freddo e lungo. Magari non trent’anni, come la guerra delle Due Rose a cui allude Riccardo, ma a chi lavora in quel settore sembrava comunque non finire mai. La metafora non ce la siamo inventata, nell’ambiente si dice proprio così: “AI winter”, il periodo in cui gli investimenti sull’intelligenza artificiale erano ai minimi storici, il pubblico si era stufato di promesse strombazzate e non mantenute, e molti tra gli stessi ricercatori dubitavano che il loro lavoro andasse mai da qualche parte. Per la precisione di inverni ce ne sono stati due, uno alla fine degli anni Settanta e un altro, il più rigido, tra la fine degli Ottanta e la prima metà dei Novanta. Ma le temperature sono rimaste bassine anche dopo, se è vero che ancora nel 2012 il fisico David Deutsch scriveva, nei primi paragrafi di un suo saggio pubblicato su Aeon, che “il tentativo di ottenere un’intelligenza artificiale generale non ha fatto alcun progresso durante sei decenni di esistenza”.
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Violenti desideri
di Tommaso Baris
Forse sono un po’ svanito/ma il domani non esiste
e quest’oggi io non voglio essere triste
Gianfranco Manfredi, Ma non è una malattia, 1976
Il volume di Alessio Gagliardi (Il 77 tra storia e memoria, Manifestolibri, Roma, 2017, p. 122, euro 12) torna a ragionare sul ’77, ponendosi alcuni obiettivi precisi. Il primo è fuoriuscire dalla memoria e dalla rievocazione individuale come chiave di lettura di quel periodo. È un approccio, nota l’autore, che oscillando tra silenzio e ostentata rivendicazione “ha steso sul ’77 una coltre di reticenze, omissioni, distorsioni, prese di distanza, o al contrario, strumentalizzazioni celebrative” (p. 10). Il secondo è ridiscutere l’interpretazione oggi diventata senso comune e riproposta con forza dai principali media che hanno ridotto un complesso ed articolato movimento sociale “all’aspetto della violenza, che pure fu uno degli elementi distintivi”, identificando con essa l’intera esperienza del ’77, mentre sono stati lasciati fuori da ogni attenzione “altri elementi non meno rilevanti” (p.11). Il terzo è ripensare l’immagine, trasversalmente diffusa, del ’77 come “sintomo, spia, epitome di un momento di transizione” (p. 12) dell’Italia, dal fordismo al post-fordismo, dalla fabbriche al terziario avanzato, dai grandi partiti di massa e movimenti collettivi ai partiti personali e alla politica della società liquida; insomma il ’77 letto come anticipazione della modernizzazione degli anni Ottanta caratterizzata infine dalla crisi della politica e dal ritorno al privato.
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