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Il vero Karma dell'Occidente

Chiara Valerio intervista Giorgio Agamben

Se, in questa vita, rispondiamo delle nostre azioni attraverso il sistema delle leggi, e nell'altra ne rispondiamo, secondo il buddismo, attraverso reincarnazioni successive, il motivo sta - scrive Giorgio Agamben nel saggio Karman - nel fatto che morale religiosa, diritto ed etica fondano sul principio per cui ogni azione è legata alle sue conseguenze, e noi, a tale principio, soggiaciamo.

Qualche anno fa Agamben ha diviso il mondo in due gruppi. Gli esseri viventi e l'insieme di istituzioni, saperi e pratiche che controllano e orientano i gesti e i pensieri degli esseri viventi: i dispositivi.

* * * *

Domanda: Professore, il diritto - le cui porte, se fosse un edificio sarebbero la causa e la colpa - è un dispositivo al quale sottrarsi?

Agamben: "Il diritto è una parte troppo essenziale della nostra cultura perché ci si possa semplicemente sottrarre a esso. Altrettanto vero è, però, che la nascita del cristianesimo coincide con una critica implacabile della Legge. È difficile immaginare una obiezione più radicale di quella contenuta nelle affermazioni di Paolo secondo cui senza la legge non ci sarebbe stato il peccato e il messia è la fine e il compimento (il telos) della legge. E, tuttavia, come lei sa, la Chiesa ha pazientemente ricostruito quell'edificio della legge che il cristianesimo primitivo intendeva mettere in questione, anche se puntualmente fenomeni come il francescanesimo hanno rivendicato ogni volta la possibilità di una vita al di fuori del diritto. Io penso che una società vivibile possa risultare solo dalla dialettica di due principi opposti e, in qualche modo, coordinati: il diritto e l'anomia, un polo istituzionale e uno non istituzionale o anarchico - o, per usare le sue espressioni, gli esseri viventi e i dispositivi storici. Ciò è evidente nel linguaggio: una lingua viva risulta dalla relazione armonica fra spontaneità (il "parlar materno" di Dante) e regola (la lingua "grammatica" di Dante). Mi sembra che oggi questa dialettica sia dovunque - nella lingua come nei rapporti sociali - distorta o spezzata".

 

Domanda: Lei scrive " la volontà agisce come un dispositivo il cui scopo è quello di rendere padroneggiabile ciò che l'uomo può fare". Anche la volontà è un dispositivo al quale sfuggire?

Agamben. "Nel libro ho cercato appunto di mostrare che il concetto di volontà (quasi sconosciuto al mondo antico) è il dispositivo attraverso il quale la teologia cristiana ha inteso fondare l'idea di un'azione libera e responsabile e quindi imputabile a un soggetto: è il "libero arbitrio", che definisce l'azione umana non meno di quella divina (il Dio cristiano non agisce per necessità, come il dio di Aristotele, ma per arbitrium voluntatis). La volontà è il mistero insondabile che sta alla base di quel concetto di azione legalmente sanzionabile (il crimen- karman) senza il quale l'etica e la politica moderna crollerebbero. Se l'uomo antico è un uomo che può, l'uomo moderno è invece un uomo che vuole. Nel mio libro la critica del primato del concetto di azione procede pertanto di pari passo a una critica del concetto di volontà. Mi ha sempre stupito che da Aristotele a Hannah Arendt l'idea di azione sia sempre rimasta immutabilmente al centro della tradizione dell'occidente.
Non so se ci sono riuscito, ma ho comunque provato a spostare altrove il luogo dell'etica e della politica".

 

Domanda: Restiamo sull'evoluzione de " l'uomo che può" ne " l'uomo che vuole". Marina Cvetaeva osservava "Non posso" è il superamento di tutti i miei "non voglio", il correttivo di tutti i miei voleri. Che rapporto dovrebbe esserci tra volontà e potenza, oggi?

Agamben: "Le rispondo con le parole di un'altra grande poetessa russa. Anna Achmatova racconta che mentre negli anni delle persecuzioni faceva da mesi la fila davanti alla prigione di Leningrado dove era recluso suo figlio, una donna un giorno la riconobbe e le chiese: "può dire questo"? La poetessa tacque per un istante e poi, senza sapere come e perché, sentì affiorarle alle labbra la risposta: "sì, io posso". Che cosa intendeva dire? Non certo che aveva un così grande talento o una così grande padronanza della lingua da poter dire tutto ciò che voleva dire. Quell'"io posso" non si riferiva ad alcuna certezza o abilità e tuttavia la impegnava e metteva integralmente in gioco. È qualcosa del genere che aveva in mente Spinoza quando definisce la letizia più grande accessibile a un uomo come la contemplazione di ciò che egli può fare. Per questo la trasformazione cristiana e moderna della potenza in volontà mi sembra deleteria".

 

Domanda: Landau. ne "La Fisica per tutti" osserva" Se all'improvviso il fermacarte fa un salto, penserete di avere le traveggole. Se si ripete, vi metterete di lena a cercare la causa che toglie questo corpo dallo stato di quiete. Perciò è naturale considerare razionale il punto di vista secondo cui i corpi in quiete non si spostano senza l'intervento di una forza". È razionale pensare che i corpi umani non si spostino, non compiano azioni, senza l'intervento di un fine?

Agamben: "Nel libro la critica del fine è inseparabile da quella dell'azione.  Uno dei presupposti che siamo abituati a dare per scontati è che ogni azione sia rivolta a un fine e che questo fine sia il bene che l'agente ogni volta necessariamente si propone. In questo modo, poiché il fine è concepito come qualcosa di trascendente o comunque di esterno, il bene viene separato dall'uomo. Come mi sembra più convincente l'idea epicurea secondo la quale nessun organo del corpo umano è stato creato in vista di un fine e ogni cosa che nasce genera nell'uso il suo bene! A furia di gesticolare, la mano trova la sua delizia e il suo uso, l'occhio a furia di guardare si innamora della visione e le gambe, piegandosi a tentoni, inventano la passeggiata. Del resto è quel che vediamo avvenire nei bambini ed è quello che ci suggeriscono le arti come la danza, che non hanno altro fine che la pura esibizione di un gesto, di ciò che un corpo può fare. Per questo ho cercato di sostituire al paradigma dell'azione rivolta a un fine quella del gesto sottratto a ogni finalità".

 

Domanda: Un filosofo ha detto che definire i termini è il momento poetico del pensiero. Come definirebbe il fine?

Agamben: "Le dò una risposta insieme stoica e zen: il fine è ciò che si raggiunge solo a condizione di non porselo mai".

 

Domanda: Se "agisce contro la legge, chi fa ciò che la legge proibisce" e se " non c'è pena senza colpa", cos'è nata prima, la colpa, la legge o la sanzione?

Agamben: "Come Paolo aveva capito ("la legge è venuta perché la colpa abbondasse"), ogni giurista intelligente sa che il principio secondo cui "non c'è pena senza colpa" va in realtà rovesciato in quello secondo cui "non c'è colpa senza pena". "Non c'è pena senza colpa" significa che la pena può essere inflitta solo in conseguenza di un certo atto, ma la colpa esiste solo in virtù della pena che la sancisce. La sanzione non è accessoria alla legge: la legge consiste essenzialmente nella sanzione".

 

Domanda: Ne "Il Nome della Rosa", Eco racconta che il volume riguardante la commedia di Aristotele non ci è mai giunto perché trattava del riso e il riso crea disordine. In "Karman", lei (come già Guglielmo da Baskerville) lo deduce dal volume sulla tragedia e ipotizza pure che Aristotele non lo abbia mai scritto per muovere una critica a Platone. Quale?

Agamben: "In Grecia il concetto di un'azione colpevole viene elaborato per la prima volta attraverso una riflessione sull'eroe tragico. È quello che fa Aristotele nella Poetica quando scrive che la felicità consiste nell'azione e che nella tragedia gli uomini non agiscono per imitare i caratteri, ma assumono liberamente il loro personaggio attraverso le azioni. Anche se Aristotele non ha completato la sua trattazione della commedia, possiamo dedurne che il personaggio comico agisce invece per imitare il suo carattere e che per questo le sue azioni non possono essergli mai imputate come una colpa. Platone, che teneva sotto il cuscino non le tragedie, ma i mimi di Sofrone, fa dire al suo eroe antitragico, Socrate, che "nessuno fa il male volontariamente", il che implica l'impossibilità della tragedia".

 

Domanda: La filosofia s'interessa prima di tutto dell'essere, ma l'essere appare subito con le sue "qualità": possibilità, contingenza e necessità. Lei osserva che è necessario riflettere sull'utilizzo che la filosofia fa dei verbi modali: " posso", " voglio", " devo". Mi segua in un passaggio di certo azzardato. La lingua della politica, aderendo (talvolta pure nei corpi) a quella televisiva, ha progressivamente abolito le subordinate, le " qualità" della frase: modali, temporali, causali. Senza queste "qualità" siamo costretti a un parlare ( e a un agire) privi di conseguenze. C'è modo di mantenere la complessità del linguaggio e non rimanere chiusi nel presente indicativo (e televisivo) dello stare al mondo?

Agamben: "Se la sua domanda è di ordine poetico-letterario, allora le rispondo con le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento (a volte, anche solo una particella: aber, che significa "ma"). Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase, ma al nome - anzi, forse in ultima analisi ogni poesia non è che una tensione verso il nome, che per definizione è sottratto a ogni articolazione modale. Se la sua domanda è di ordine etico-politico, le risponderei allora che si tratta di disfare il nesso perverso tra i tre verbi modali che Kant ha messo a fondamento della sua etica: "si deve poter volere". Questa frase mostruosa è il condensato parodico dei dispositivi che il mio libro cerca di disattivare".

 

Domanda: Sulla quarta di copertina si legge "Giorgio Agamben ha insegnato Filosofia teoretica... è stato visiting professor...". Se le chiedessi cenni biografici al tempo presente?

Agamben: "Le risponderei spinozianamente: "contempla ciò che può e ciò che non può fare". Ho sempre amato il motto meraviglioso di van Eyck: "Als ich kann", "come posso". Conoscere i propri limiti significa conoscere la misura della propria potenza e della propria impotenza".

- Intervista pubblicata su Repubblica del 27/8/2017 -

 
 

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