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sinistra

Le «Lettere dal carcere» di Gramsci e uno studente particolare

di Eros Barone

Le lettere che Antonio Gramsci inviò ai famigliari durante la detenzione cui fu sottoposto dal regime fascista fra il 1926 e il 1937, detenzione che lo condusse alla morte, sono un documento eccezionale di umanità e di cultura, senza precedenti nella storia letteraria del nostro secolo1. Esse, sia con i riferimenti alle condizioni psicofisiche di Gramsci sia nello stile che da ironico e discorsivo si fa sempre più cupo e tagliente, riflettono i diversi periodi della carcerazione. L’odissea carceraria del rivoluzionario sardo ha infatti il suo inizio quando Gramsci, con l’entrata in vigore delle “leggi eccezionali”, benché protetto dall’immunità parlamentare viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, nel più assoluto isolamento, e contemporaneamente tutti i parlamentari comunisti vengono dichiarati decaduti. Dopo quelli di Ustica (1926-’27) e di Milano (1927-’28), con l’arrivo al carcere di Turi ha inizio per Gramsci, prima del ricovero in clinica a causa del progressivo aggravamento delle sue condizioni di salute, il periodo più lungo della sua vita di detenuto (1928-’33), talché il problema di sopravvivere nelle condizioni in cui si trova acquista un posto centrale nella sua vita e diventa assillante.

Gramsci sa bene che il carcere, nelle intenzioni dei suoi carnefici, ha e vuole avere una funzione punitiva, deve distruggerlo come uomo e svilire la sua ricca umanità. Contro questo processo micidiale il comunista sardo, consapevole di essere un militante che non può attendersi alcuna clemenza da parte del nemico trionfante, lotta con tutte le forze della sua intelligenza e della sua volontà. Gramsci, per resistere, usa tutte le armi: lo studio, la riflessione, l’introspezione, la verifica continua del proprio comportamento, il trarre partito da ogni occasione che lo salvi dalla disperazione e dall’atrofia dell’intelletto e del sentimento. Gli stessi «Quaderni del carcere» sono, oltre che una grande avventura intellettuale, la risposta che egli dà all’affermazione pronunciata nel 1928 dal pubblico ministero Isgrò durante il processo che si concluse con la sua condanna: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare»2 . Recluso nel luogo «dove i morti che non sono morti, ma che non possono vivere, hanno stabilito la loro dimora»3 , Gramsci reagisce con tutte le sue forze all’oppressione che il carcere esercita su ogni detenuto. Nella condizione di carcerato in cui Gramsci è stato costretto si consuma perciò il dramma politico del combattente per una società e un mondo migliori «che non ha avuto fortuna nella lotta immediata»4 ; ma si esprime anche, manifestato quasi sempre con grande pudore e ritegno, il dramma più lacerante degli affetti familiari.

I rapporti con la famiglia (una famiglia mai goduta) costituiscono la nota più dolente delle lettere che egli scambiò con la moglie Giulia, la quale, soffrendo di disturbi nervosi e vivendo in Unione Sovietica, non fu mai in grado di recarsi a visitarlo. A questo riguardo, è da notare quanto sia acuto il contrasto fra il ritegno che Gramsci si impone per via della censura e il bisogno di effusione che egli sente. Un ritegno che egli vince nella lettera del 14 dicembre 1935, allorché scrive alla moglie queste parole: «Cara, io ti ho sempre aspettato, e tu sei stata sempre uno degli elementi essenziali della mia vita, anche quando non avevo nessuna tua notizia precisa o ricevevo da te lettere rare e senza sostanza vitale… Credo che sia giunto il momento di porre termine a questa condizione di cose e ciò può essere fatto se tu vieni da me, perché io non posso muovermi»5 .

Il 1933 è l’anno cruciale del ‘carcere’ di Gramsci (detenuto ormai da sette anni): l’anno in cui l’isolamento si fa più oppressivo, in cui le lettere cominciano a diradarsi. Se nell’aggravarsi delle circostanze (con la malattia e il crollo fisico dovuto alle tristi condizioni di vita della casa penale di Turi) Gramsci ancora non vuole lasciarsi trascinare dagli eventi, non accetta – le parole sono sue – di «sparire come un sasso nell’oceano»6 o di abbandonarsi, «come un cane morto, al filo della corrente»7 , ciò avviene per un ultimo disperato sforzo di volontà grazie al legame concreto con la famiglia e con il mondo, grazie, in particolare, alla costante presenza della cognata Tatiana. Soprattutto il pensiero dei figli lo tiene legato alla vita in questi ultimi anni. L’epistolario si chiude, infatti, con una serie di lettere ai figli, fra le quali è da ricordare quella a Delio, in cui Gramsci formula con semplicità e rigore il concetto della storia come storia contemporanea: «Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa».8 Sono, queste, le ultime lettere dell’epistolario gramsciano: le più umanamente commoventi e forse, in assoluto, le più belle.

Le «Lettere dal carcere» offrono anche l’opportunità di sottolineare il contributo di Gramsci alla battaglia antiretorica, intesa non solo come battaglia diretta ad affermare e diffondere nuovi contenuti, ma anche ad affermare e diffondere un nuovo modello di scrittura. Così questo grande intellettuale marxista annovera tra i «fini culturali da proporsi»  come scrive in una nota dei «Quaderni del carcere»  «la formazione di una prosa vivace ed espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata», perché  egli precisa  «insistere sulla ‘forma’ non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto»9 . Gramsci non è stato uno scrittore nel senso stretto del termine, è stato un dirigente rivoluzionario e un pensatore comunista  uno dei maggiori del Novecento . Le «Lettere dal carcere» sono tuttavia il libro di un grande scrittore, ma  ed è ciò che più conta ai nostri occhi  il libro di un grande scrittore che è anche, prima di tutto, un uomo: un uomo vero.

È da notare, infine, che le «Lettere dal carcere» si sono rivelate oggetto di studio e fonte di ispirazione non solo per quei detenuti politici che in esse, per differenza o analogia, hanno scelto di rispecchiare la propria vicenda personale, ma anche per un detenuto comune (e uno studente non comune) come Luigi Della Volpe. Questi è un ex camorrista che da 23 anni sconta la sua pena nella sezione di massima sicurezza del carcere di Spoleto e ha scelto l’epistolario gramsciano come argomento della sua dissertazione in scienze politiche e della comunicazione, conseguendo la laurea con il massimo dei voti e la lode: prestigioso punteggio che gli ha riconosciuto la commissione di docenti dell’università di Perugia al termine di un corso di studi triennale in cui Della Volpe ha allineato nel suo libretto universitario una serie ininterrotta di trenta e lode nei diversi esami, tutti da lui sostenuti in carcere, senza accesso alla Rete e senza telefono10 .

Che la figura e l’opera di Antonio Gramsci abbiano dunque costituito, oltre che un tema di indagine storico-politica, uno strumento di riscatto umano e culturale è la lezione mirabile che ci trasmette, insieme con i docenti universitari che lo hanno seguito e orientato e con l’amministrazione penitenziaria che gli ha accordato una possibilità così importante, il dottor Luigi Della Volpe, al quale, per conto nostro, auguriamo di portare a termine il suo progetto, che è poi quello di continuare gli studi universitari e di coronarli con il conseguimento della laurea quinquennale. Se l’articolo 27 della Costituzione repubblicana al terzo comma sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, dovrebbe essere evidente che la rieducazione del detenuto Della Volpe è un fatto virtualmente compiuto e che la giustizia non potrà non tenerne conto nello stabilire i tempi e i modi della sua pena.


Note

1 Le «Lettere dal carcere» di Antonio Gramsci vengono pubblicate per la prima volta da Einaudi nel 1947 e comprendono 218 testi. Si tratta di una raccolta incompleta («alcune non si sono potute recuperare») e selezionata («altre, che trattano argomenti di carattere strettamente familiare, non si è ritenuto opportuno pubblicarle», come avvertiva la nota anonima in apertura). Nel 1964 la casa editrice Il Saggiatore pubblicò, a cura di Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo, un’antologia con 77 lettere inedite e l’anno successivo uscì la nuova edizione einaudiana delle lettere, a cura di Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, che resterà per un trentennio la raccolta di maggior pregio, con la pubblicazione di 428 testi di cui 119 inediti. Si giunge così all’edizione della casa editrice “Sellerio” curata da Antonio A. Santucci e pubblicata nel 1996, che contiene tutte le lettere scritte da Gramsci nel periodo della detenzione: 478 testi, 50 in più di quelle della prima edizione einaudiana. Un anno dopo vede la luce presso la casa editrice Einaudi, realizzato con criteri filologici particolarmente rigorosi, il volume intitolato «Antonio Gramsci-Tatiana Schucht, Lettere 1926-1935», a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele. Le lettere hanno come destinatari due nuclei familiari. La famiglia d’origine, sarda: la madre, Peppina Marcias, le sorelle, Teresina e Grazietta, e il fratello Carlo che vive a Milano. E la famiglia acquisita, russa: la moglie Giulia Schucht, la cognata, Tatiana, i figli, Delio e Giuliano, e l’amico Piero Sraffa, professore di economia a Cambridge. Ma il rapporto epistolare più intenso riguarda il triangolo Antonio-Tatiana-Sraffa.

2 Cfr. “Cronologia della vita di Antonio Gramsci” in Id., Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprifoglio ed Elsa Fubini, Einaudi, Torino 1972³ (prima ed. 1965), p. XL.

3 Ho trovato questa espressione nel profilo di Gramsci tracciato da Sebastiano Vassalli (cfr. dello stesso, Maestri e no, Interlinea, Novara 2012, p. 71), il quale però non cita la fonte da cui l’ha tratta (presumibilmente l’epistolario gramsciano), né a me è riuscito, nonostante varie ricerche, di individuarla. La definizione, veramente icastica, descrive quella particolare condizione umana che è la condizione carceraria, ma si presta anche, invertendo i termini, a rappresentare come condizione ‘carceraria’ la condizione umana che si vive, con minore o maggiore coscienza, sotto il regime capitalistico.

4 Lettera alla madre del 24 agosto 1931 in Lettere, op. cit., p. 469. Merita di essere riportata anche la frase che segue: «…e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente».

5 Ibidem, Lettera a Giulia del 14 dicembre 1935, p. 847.

6 Ibidem, Lettera a Giulia del 13 gennaio 1931, p. 398.

7Ibidem, Lettera a Tatiana del 3 ottobre 1932, p. 682.

8 Ibidem, Lettera al figlio Delio, senza data, p. 895.

9 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. terzo, quaderno 14 (I), par. 72, p. 1739.

10 Per un’informativa sulla vicenda di Luigi Della Volpe si veda qui.

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