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La guerra e il suo spettacolo

Su Dunkirk di Christopher Nolan

di Mario Pezzella

Dunkirk di Christopher Nolan è film molto discusso. Sul nostro sito ne ha già parlato Nunzio La Fauci qualche giorno fa. Questo articolo di Mario Pezzella prosegue la discussione

Salvate il soldato Ryan (film di Spielberg del 1998) –sovrastando nel favore del pubblico il tentativo eccentrico de La sottile linea rossa, il film coevo di T. Malick- ha fissato con successo i codici aggiornati del film-spettacolo di guerra, la sua nuova retorica: la regola del genere che si è ora tenuti a osservare è l’inversione del negativo, l’assorbimento graduale della critica della guerra all’interno della sublimità celebrativa. Ormai nessun autore di un certo livello si sentirebbe di proporre un’apologia immediata dell’eroe, dell’onore, del coraggio, della maturazione soggettiva che avviene nell’esperienza bellica: per buona parte del film di Spielberg si vede piuttosto la sua crudeltà e mancanza di senso, che si riverbera sullo stile. Il montaggio organico narrativo salta per aria, diviene sincopato e spezzato, i punti di vista si alternano rapidamente e caoticamente per sottolineare l’impossibilità di una visione d’insieme di quanto sta accadendo sul campo, i corpi sono lacerati e smembrati.

La guerra moderna non richiede tanto iniziativa o spirito eroico, quanto l’adesione più fedele alla macchina astratta della tecnica: non la maturazione di una coscienza eroica distinta, quanto la maggiore assimilazione possibile alla funzionalità indisturbata del suo processo automatico. Le “prove” che vengono così superate guidano verso l’annientamento dell’identità, non verso la sua differenziazione. Quanto più la guerra moderna è una cieca mattanza operata dalle macchine, tanto più il war-film tradizionale forniva surrogati di senso, per renderla desiderabile o almeno sopportabile. Esso offriva così una giustificazione fantasmatica, estetizzante, della violenza, spostando il centro dell’attenzione dall’imponenza della tecnica distruttiva al “fattore umano”, in realtà sempre più trascurabile.

Spielberg ha compreso l’improponibilità di questo tipo di rappresentazione e ne ha raffinato la fattura. Dal cinema critico-espressivo viene ripresa la percezione che la guerra moderna è impersonale, senza onori ed eroi: l’astrattezza macchinica, la lontananza, l’irresponsabilità dei mezzi di distruzione rendono impronunciabili parole come coraggio o viltà e impossibile l’integrazione nell’esperienza personale dei traumi subiti.

Si procede così fin verso la metà del film.

Poi –da dentro l’inferno- emerge nonostante tutto l’eroe, i soldati lo seguono e intuiscono la prima confusa ragione di combattere, il familiari a casa partecipano di questa nuova comprensione, commossi al sacrificio del figlio, del marito, dell’amico. Non è che venga negato l’assurdo che ci è stato mostrato fino a poco prima, l’insensatezza, l’impersonalità: ma il nuovo eroe sa convivere con l’apparente mancanza di senso e infine ne avrà per compenso l’epifania di una entità mitica superiore: la Grande Nazione. Così dopo aver concesso il dovuto alla rappresentazione del negativo, il film può essere chiuso con la più genuina esaltazione patriottica, distese cimiteriali di eroi e sventolio di bandiere a stelle e strisce. L’eroico-umano sopravvive a qualsiasi abisso, così come Schindler sopravvive all’orrore dei campi di sterminio (nell’altro film di Spielberg, Schindler’s List del 1993).

Nuova morale della favola: sì, avete ragione la guerra è quella cosa disumana e terribile che dite voi, non sono più tempi da Sergente York (il film bellico di Hawks del 1941) e neanche da Berretti verdi (il film di J. Wayne sul conflitto in Vietnam, del 1968) eppure, ecco, noi siamo così forti, così straordinariamente americani, che siamo capaci di ritrovare il senso nella deriva dell’assurdo.

Ho parlato di Spielberg, in realtà volevo recensire l’ultimo film di C. Nolan, Dunkirk, che è la versione inglese e assai meno riuscita di Salvate il soldato Ryan. In effetti cosa aggiunge Nolan di originale allo schema filmico che abbiamo prima descritto? Poco o nulla, mi sembra: il regista si ferma doverosamente anche lui sul negativo, cioè sulla condizione terribile dei soldati inglesi sulla spiaggia di Dunkirk, sui tentativi disperati ed egoistici di salvarsi, su tutto il repertorio di spari che non si sa da dove provengano, nemico invisibile, lotta estrema per la sopravvivenza. Si lancia poi in spettacolari combattimenti aerei, dove l’esaltazione estetizzante fa già dimenticare completamente il vago intento critico con cui il film era iniziato. Non ci si fa mancare l’eroico vecchio ex-militare con figlio morto in guerra ed altro figlio minorenne che non vede l’ora di fare anche lui “la sua parte”; i quali si precipitano con la loro barchetta a salvare gli stanchi ed eroici commilitoni confinati a Dunkirk. Poi c’è un Branagh non molto shakespeariano, in versione ufficiale e gentiluomo, che dopo aver fatto imbarcare in rigorosa priorità i soldati inglesi, rimane sulla spiaggia con generosità sottolineata, che il regista ritiene evidentemente straordinaria, per salvare anche un po’ di francesi. Sublime vorrebbe essere il momento in cui la flottiglia dei civili si avvicina dal mare alla riva, tripudio di solidarietà e di fermezza nazionale, peccato che il Branagh ci faccia cascare le braccia, quando alla richiesta chi stia arrivando, cosa stia succedendo, risponde con sorriso un po’ ebete, quasi sorpreso di trovarsi in un film a dire proprio queste parole: “E’ la Patria!”.

Prima che cali il sipario, abbiamo ancora il tempo di farci ammannire l’intero nobile discorso di Churchill sulla resistenza ai Tedeschi e di vedere un intemerato pilota che, finita la benzina, incenerito un ultimo caccia tedesco, plana da solo ad atterrare sulla spiaggia deserta, inspiegabilmente risparmiato da contraaeree e cecchini.

Peccato. Nolan ci aveva abituato a film in cui le inflessioni spettacolari pur presenti erano sottoposte a spostamenti, deviazioni critiche, ambiguità inquiete. Anche l’intersezione dei piani temporali, i racconti multipli dello stesso evento, che in Memento o in Prestige ci comunicavano le vertigini della modernità e della sua incerta capacità di memoria, in Dunkirk si riducono a mero effetto tecnico, produttivo di choc visivi fini a se stessi, per sorprendere e intontire lo spettatore. Nel montaggio e nello script il film risolve ogni elemento critico nello sfolgorio di una rinnovata estetizzazione della guerra, seguendo la strada indicata da Spielberg; alla quale non aggiunge niente di rilevante, salvo forse rialzare il morale britannico dopo la Brexit, rievocando perduti fasti imperiali. In fondo era più decoroso e inquietante, sullo stesso argomento, il cinema de papa di Henri Verneuil, con un grande Belmondo, in Week-end à Zuydcoote (1964), dove si percepiva meno la gloria del salvataggio, che non l’amarezza e lo spaesamento di una disfatta, che avrebbe consegnato per anni l’Europa ai nazisti.

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