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Lezioni americane: Alexandria Ocasio-Cortez e il socialismo in USA

di Giacomo Marchetti

Il 26 giugno di quest’anno, Alexandria Ocasio-Cortez, vince le primarie del Partito Democratico nel 14° distretto di New York, sconfiggendo Joe Crowley, “Pezzo da Novanta” della macchina politica democratica.

Si candida così per elezioni del Congresso di questo novembre, in un contesto in cui: le primarie democratiche SONO le elezioni, specialmente a New York City, come ha dichiarato lei stessa dopo la vittoria in una intervista radiofonica a Daniel Denvir per la “Jacobin Radio”.

La sua vittoria è schiacciante: 57,5% contro il 42,5% del suo avversario, forse la tappa iniziale di una serie di possibili successi di candidati “radicali”: Ayanna Pressley nel Massachusetts, Cori Bush nel Missouri, o ancora Chardo Richardosn in Florida…

Alexandra ha 28 anni, è di origini portoricane – usa il termine “colonialismo” per definire la politica statunitense rispetto all’isola – , proviene orgogliosamente dalla working class del Bronx (ha lavorato tra l’altro come educatrice, oltre che cameriera e barista dopo la Laurea). Aveva partecipato alla campagna per le primarie di Bernie Sanders due anni prima, percependo allora che i tempi fossero maturi per “sfidare” tra la sua gente l’establishment del Partito Democratico con parole d’ordine, uno stile e un chiaro referente di classe che hanno poi caratterizzato la sua vincente iniziativa politica: una sfida alla Corporate America e a quell’ala del Partito che ne rappresenta più esplicitamente gli interessi.

Conseguentemente, Alexandra sta sostenendo le candidature di esponenti dei “socialisti” all’interno dei Dem in differenti elezioni sul piano nazionale, e la sua vittoria è coeva a quella di Ben Jealous, che sarà candidato per la carica di governatore del Maryland, grazie allo sforzo militante e grassroots degli attivisti di Baltimora (se volete farvi una idea della città, guardate quella che probabilmente è la migliore serie televisiva di tutti i tempi: The Wire).

Questo “terremoto” politico è una conseguenza, da un lato, della delegittimazione del ceto politico democratico a dieci anni dallo scoppio della crisi; dall’altro, dell’azione organizzata di un parte di attivisti di base che stanno sfidando apertamente la leadership del partito, impostando una campagna di strada che ha come risorsa le reti di base, l’autofinanziamento e sfrutta le potenzialità dei socials, bussando “porta a porta” e recuperando consenso tra le file di coloro che non vedevano nella “Politica” – tra questi, tanti attivisti di base – una chance di cambiamento per la loro condizione: il coinvolgimento diretto delle persone e la loro attivazione contro le risorse economiche immense, che sembrano però ora trasformarsi in grande boomerang…

We have a movement to build, ha ribadito all’interno della stessa intervista, chiarendo la natura della sua candidatura e le prospettive di crescita nell’indifferenza degli scontri di potere del Partito Democratico, ma che vuole marcare una decisa inversione di marcia che ne modifichi le modalità di funzionamento e l’agenda politica.

In una “tribuna politica” con il proprio sfidante, incalzata dal suo competitor che, dopo aver dichiarato che in caso di vittoria della A.O-C. l’avrebbe sostenuta alle elezioni domandandole se lei avrebbe fatto lo stesso, lei ha risposto che sarebbe dovuta andare dai suoi “sostenitori”, cioè chi ha concretamente organizzato la sua campagna, per porgli questa domanda: una “rottura” netta con una prassi che ha caratterizzato per certi versi anche la scelta di Sanders di “sostenere” Hillary Clinton alle ultime elezioni presidenziali…

Come ha detto Berny Sanders in una intervista a “Jacobin Radio”, a proposito dei contenuti del programma che i “democratici socialisti” stanno portando avanti – tra cui il raddoppio del salario minimo, cure mediche per tutti, istruzione universitaria gratuita, giustizia fiscale, parità di genere, riforma della legge sull’immigrazione e revisione del sistema penale in senso “progressista” – “puoi etichettare queste cose come vuoi, ma io le chiamo idee di base che riguardano la giustizia sociale, economica, razziale e ambientale. Le persone comuni in America sono con noi rispetto a queste idee”.

Questa declinazione in senso progressista del “populismo”, rischia di attecchire anche tra i votanti repubblicani erodendo la base di consenso di Orange Man, Donald Trump.

Naturalmente l’establishment democratico, e gli organi di informazione che ne sono il megafono, hanno cercato di “depotenziare” il senso della vittoria della Cortez e relativizzarne l’importanza fuori dal perimetro del Bronx; gli stessi articoli ripresi in un maldestro copia-e-incolla dalla stampa nostrana, tranne rare eccezioni.

“Lasciamo che non imparino la lezione” – ha dichiarato Alexandria – “perché le persone, il movimento progressista, il movimento per le working families, il movimento per la giustizia economica, sociale e razziale, il movimento per rafforzare le persone della working class, il movimento per Puertorico, il movimento per Ferguson, il movimento per la riforma della giustizia penale – queste persone stanno ponendo attenzione, QUESTE persone stanno dicendo: Come ha fatto a vincere?”

Il suo significato è stato ben compreso da organi di informazione nord-americani indipendenti come la storica testata progressista: “The Nation”, l’importante canale di informazione “Democracy Now” o la rivista Jacobin Magazine che, per mano di un suo collaboratore – Branko Marcetic – ha “decostruito” pezzo per pezzo la narrazione che i media mainstream hanno dato della sua vittoria in Explaining Away Ocasio-Cortez’s Political Earthquake.

In sintesi, i corporate media che hanno volutamente ignorato la sfida della Cortez fino alla sua vittoria, nonostante alcuni commentatori politici fossero tra i suoi followers – 50.000 in totale su twitter, prima della vittoria – hanno attribuito il suo successo al dato “demografico”, hanno sostenuto la tesi che questo tipo di sfida non fosse esportabile in contesti differenti ed in altri stati, hanno ignorato il fatto che si trattasse di una esponente della corrente “socialista” dei democratici (DSA) dipingendola come una liberal di sinistra – nonostante questa corrente di pensiero sia stata la più feroce critica nei confronti del programma di Sanders – , ignorando la campagna di base che è riuscita ad articolare, i contenuti del suo programma e la censura mediatica a cui è stata sottoposta.

Secondo loro, sarebbe stato solo il suo “appeal”, in termini quasi telegenici, a far propendere per il voto ad Alexandra…

Ma uno degli ingredienti della sua vittoria è stato proprio il non comparire nei media mainstream e di non inseguire il suo avversario sul suo stesso terreno, rinunciando alla pubblicità elettorale in senso classico.

La rappresentazione plastica della sfida che ha visto opporsi un maschio bianco di una certa età, navigato politico democratico e una giovane donna latina della working class rende “esteticamente” il senso della contrapposizione tra due mondi sempre più polarizzati; ma l’empatiada sola non spiega quasi nulla e serve solo a rendere intellegibile la sua vittoria “tra la sua gente”, secondo la grammatica della comunicazione politica del circo mediatico, ora particolarmente orientata ad esecrare la sua posizione di condanna di Israele contro le conseguenze dell’occupazione della Palestina.

Se i fattori di classe, razza e genere hanno un senso, lo assumono però all’interno di una visione complessiva “intersezionale” più volte ribadita e rivendicata dalla candidata vincitrice, che esprime il profondo intreccio e l’inestricabilità delle contraddizioni del capitalismo americano, come ha più volte ribadito: “Non si dà questione economica e sociale che non abbia una estensione in termini razziali, così come non c’è questione razziale che non abbia una estensione in termini economici e sociali”.

Se non è prevedibile quale sarà il futuro di questa sfida, è chiaro però che ciò che sta succedendo risulta il sintomo di una chiara inversione di tendenza, non tanto dentro la configurazione politica del Partito Democratico, ma in parti rilevanti della società nord-americana, come del resto aveva rivelato il successo di Bernie Sanders, contro cui l’élite del suo partito aveva concentrato tutte le sue forze per impedirne l’ascesa.

Come avevamo rilevato in un precedente articolo, che commentava un “pezzo” di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera dal significativo titolo “Se Marx resuscita nella Silicon Valley”, la vecchia talpa sta scavando ed i contenuti di una politica “socialista” non sono più un tabù per una parte rilevante della popolazione statunitense. Un altro tabù infranto…

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