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teleborsa

Le Scintille e La Paura

di Guido Salerno Aletta

Berlino tace, mentre Parigi ed Ankara sono ai ferri corti

C'è tensione crescente tra Parigi ed Istanbul. Ma mentre la Francia ritira il proprio ambasciatore per via degli insulti rivolti al Presidente Emmanuel Macron da quello turco Recep Tayyip Erdogan, Berlino punta a smorzare i toni: è un atteggiamento di cautela che riflette le preoccupazioni che derivano dalla presenza in Germania di una comunità di origini turche che sfiora i tre milioni di persone, di cui la metà ha ancora la cittadinanza di origine.

Ci si sofferma sulle questioni religiose: dal punto di vista francese, prevalgono la libertà di manifestazione del pensiero ed il principio della laicità dello Stato da cui consegue il divieto di ostentare simboli religiosi in pubblico; dal punto di vista turco, si contesta il fatto che la prima si traduce nella licenza di oltraggiare la religione musulmana e che la seconda riflette una odiosa islamofobia. Purtroppo, e non da ora, la questione religiosa viene usata, sia da parte della Turchia che di alcuni Stati arabi, come strumento politico identitario e di proselitismo che consente una forte proiezione all'estero. E' una forma di neo-colonialismo, su base religiosa: in Francia, infatti, non si discute della libertà di religione musulmana di combattere il fenomeno del comunitarismo.

Celate dalla questione religiosa, le relazioni di Parigi e di Berlino nei confronti di Istanbul riflettono opzioni geopolitiche completamente diverse, che possono mettere in discussione anche la prospettiva di creare un esercito europeo, assai caldeggiata da Francia e Germania in una prospettiva post-Atlantica. Ancor più, occorre riflettere sulla compatibilità della strategia neo-ottomana della Turchia con la collocazione nell'ambito della Nato, e soprattutto sulla evoluzione di quest'ultima alleanza.

La questione turca, in questi venti anni del nuovo millennio, si è riaperta ben prima che le Primavere arabe facessero collassare l'Egitto, che era stato per oltre mezzo secolo il pilastro degli equilibri mediorientali. Rinasce per l'abbandono della prospettiva di una Unione Euro-Mediterranea, voluta congiuntamente nel 2008 dai Presidenti di Francia ed Egitto, Nicolas Sarkozy ed Hosni Mubarak: una iniziativa tanto silenziosamente quanto forsennatamente osteggiata sia da Bruxelles che da Berlino.

Il Mediterraneo sarebbe diventato un'area di pace, cooperazione e sviluppo: anche il Trattato di particolare amicizia con la Libia, che fu firmato in quel medesimo torno di tempo dall'Italia, dava seguito all'appeasement deciso dalla Amministrazione statunitense guidata da George Bush Jr.

Tutto si ribalta con la prima Presidenza di Barak Obama, con il ritiro dai teatri internazionali di conflitto dopo averne ben avvelenato i pozzi, per evitare che altre potenze potessero esercitare comodamente un ruolo egemonico. Alla guida del processo c'era Hillary Clinton: al Cairo, la pressione di piazza Tahir non condannò solo il Presidente Mubarak alle dimissioni, ma decretò soprattutto la fine del laicissimo Egitto, visto che la costituzione vietava sin dai tempi del generale Nasser la costituzione di partiti con vocazione religiosa. Il potere cadde nelle mani dei Fratelli musulmani, sostenuti da Ankara. Chissà se, in quelle circostanze, Washington da una parte e Berlino dall'altra non abbiano preferito affidare un maggior ruolo alla Turchia guidata da Erdogan, Paese membro della Nato e partner di eccezione della Germania, piuttosto che veder avanzare nel Mediterraneo il disegno egemonico franco-egiziano che avrebbe finito per pilotare i destini dell'intero Medio Oriente.

Che Parigi e Berlino avessero idee completamente diverse sulle relazioni con la Turchia, soprattutto in vista del completamento della procedura di adesione di questa alla Unione europea, lo si era capito già nel 2010, quando Sarkozy fece approvare la legge che vieta l'uso del burqa e del niqab in ogni spazio pubblico, incluse strade e piazze. Era una chiara provocazione, quella francese, lanciata contro Ankara. A nulla servì la reazione della Commissione europea, espressa da Viviane Reding, vicepresidente della Commissione con delega per la Giustizia dei Diritti umani, che annunciò l'avvio di una procedura di infrazione contro il governo francese per aver violato la Carta europea sui diritti fondamentali.

La procedura di ingresso della Turchia nell'Unione europea, iniziata nel 2005 ed entrata subito in stallo a causa del suo intervento militare a Cipro, fu bloccata definitivamente da Sarkozy nel 2011, quando affermò, nell'ambito di una intervista rilasciata al quotidiano turco Posta, nell'occasione del G20 organizzato ad Ankara, di "rimanere convinto del fatto che la Turchia e l'Ue devono intrattenere relazioni quanto più strette possibile, ma senza arrivare fino all'integrazione che non gioverebbe in realtà né alla Turchia né alla Unione europea". La reazione di Erdogan, furibondo per queste affermazioni, segnò la crisi dei rapporti con Parigi.

Per la Francia, accettare l'ingresso della Turchia nell'Unione europea avrebbe significato lasciar accrescere ulteriormente il peso della Germania: non solo in Europa, per via delle relazioni storicamente strettissime di Berlino nei confronti di Ankara sotto il profilo della proiezione strategica, dei rapporti commerciali e della presenza sul suolo tedesco della più rilevante componente di immigrati, ma a causa della proiezione neo-ottomana di Ankara nel Mediterraneo orientale, a discapito del ruolo che Parigi si è sempre ritagliata sin dai tempi dell'Accordo Sykes-Picot, come Potenza di riferimento in Siria ed in Libano.

A seguito della guerra civile scatenata in Siria, l'intervento turco nella fascia settentrionale è stato reso indispensabile per evitare che l'offensiva guidata dai Peshmerga, i Curdi irakeni armati dagli Usa, potesse preludere alla creazione di un Kurdistan autonomo che avrebbe a sua volta eroso la sovranità di Ankara nelle aree popolate dalla medesima minoranza etnica. A differenza della Turchia e della Russia, la Francia non è riuscita a mantenere un ruolo ufficiale nel conflitto in Siria, nonostante l'impegno profuso dal Presidente Francois Hollande tra il 2014 ed il 2015, per costituire una flotta di alleati che bombardasse le basi dell'Isis dal mare.

Neppure in Libia, la Francia è riuscita a riprendere l'iniziativa che aveva perso con l'aborto dell'Unione Euromediterranea: l'intervento congiunto con la Gran Bretagna è riuscito solo a portare il caos, estromettendo l'Italia dal suo ruolo di garante. Dopo la morte del Colonnello Gheddafi e la caduta del suo regime che comunque assicurava la pace tra le tribù ed una certa prosperità alla popolazione, Parigi ha parteggiato per il generale Kalifa Haftar, antagonista da Tobruk del precarissimo governo ufficiale di Tripoli, sostenuto dall'ONU con la partecipazione dell'Italia, presieduto da Fayez al Serraj.

Nonostante i ripetuti incontri a Parigi tra i due leader libici, tenutisi su invito del Presidente Macron, lo stallo è proseguito fino alla mossa a sorpresa di Erdogan, che in Libia ha fatto l'en plein: in cambio dell'appoggio militare immediatamente recato al governo di Tripoli, ha ottenuto la guida della Guardia costiera libica (che usa un naviglio che è stato fornito gratuitamente dall'Italia), la concessione del porto di Misurata e la promessa di creare una zona economica speciale contigua a quella già progettata dalla Turchia, che taglierebbe in due il Mediterraneo al fine di condizionare il passaggio di gasdotti che alimentino l'Europa partendo dai pozzi praticati in prossimità delle coste orientali, di Egitto ed Israele innanzitutto.

Come se non bastasse, c'è in corso da tempo un conflitto diplomatico e militare tra Turchia e Grecia per via delle risorse petrolifere di cui si suppone l'esistenza al largo di Cipro: Ankara contesta la legittimità della sterminata zona economica esclusiva che spetta alla Grecia per via delle isole che si trovano a meridione delle coste turche, in particolare quella che circonda Castelrosso. Mentre Ankara vuole, a tutti i costi, l'indipendenza energetica, Parigi si è schierata con determinazione a difesa della Grecia. E' da sola, ancora una volta, la Francia: la Germania, l'Unione europea e la stessa Italia traccheggiano, come è avvenuto dopo le iniziative di Erdogan in Libia.

Parigi mette le sue pedine sulla scacchiera, scommettendo sul collasso economico della Turchia e sulla insostenibilità della sua strategia geopolitica: Mosca e Washington, ma soprattutto Londra, hanno in mano le chiavi del Mediterraneo. C'è poi di mezzo Israele e gli Accordi che sta stipulando con una serie di Paesi arabi, rompendo un isolamento storico. Sullo sfondo, l'ombra del Dragone cinese: se Pechino intendesse infilare un'altra perla nella sua collana di alleanze dopo l'Iran, sostenendo finanziariamente la Turchia che boccheggia per la svalutazione della Lira, la scommessa neo-ottomana di Erdogan alzerebbe la posta ad un livello inaccettabile.

In fondo, una Turchia tentacolare nel Mediterraneo che fa da sponda a Pechino non serve a nessuno: alle grandi Potenze serve solo controllare i Dardanelli. Serve comunque un garante nei confronti della Russia, a Costantinopoli: Winston Churchill, che sperava di far collassare l'Impero Ottomano forzando gli Stretti per veder dilagare le truppe dello Zar, prese il più grosso abbaglio della sua vita. Come si legge negli Accordi di Yalta, degli esiti dei colloqui diplomatici tra Washington, Londra e Mosca sulla modifica del Trattato di Montreux, "il governo turco sarà informato a tempo debito".

Mentre Berlino nicchia, per timore di esporsi nei confronti della sua comunità turca, Parigi ha deciso: dopo averla pure giocata, spedendo Khomeini in Persia per evitare che la rivolta contro lo Scià basculasse verso l'URSS, e subendone ancora le conseguenze sociali nonostante sia passato oltre mezzo secolo dalla fine della guerra in Algeria, la carta dell'Islamismo va bandita dalla politica internazionale. Chi la usa, si brucia.

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