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Il capitalismo entra nella sua fase senile

Ruben Ramboer intervista Samir Amin

"Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale". Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. "Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate"; "Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote". Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica

Il declino dellImperialismo Americano1Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l'economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all'inizio degli anni 1970. "All'epoca, economisti come Frank, Arrighi, Wallerstein, Magdoff, Sweezy ed io stesso, avevamo detto che la nuova grande crisi era cominciata. La grande. Non una piccola con le oscillazioni come ne avevamo avute tante prima, ricorda Samir Amin, professore onorario, direttore del forum del Terzo Mondo a Dakar ed autore di molti libri tradotti in tutto il mondo. "Siamo stati presi per matti. O per comunisti che desideravano quella realtà. Tutto andava bene, madama la marchesa… Ma la grande crisi è davvero cominciata a quel tempo e la sua prima fase è durata dal 1972-73 al 1980". Inoltre Samir Amin afferma recisamente: "essere marxista implica necessariamente essere comunista, perché Marx non dissociava la teoria dalla pratica: l'impegno nella lotta per l'emancipazione dei lavoratori e dei popoli".


P
arliamo per cominciare della crisi degli ultimi cinque anni. O piuttosto delle crisi: quella dei subprimes, quella del credito, del debito, della finanza, dell'euro… A che punto siamo?

Samir Amin. Quando tutto è esploso nel 2007 con la crisi dei subprimes, tutti hanno fatto finta di non vedere. Gli europei pensavano: "Questa crisi viene dagli Stati Uniti, la assorbiremo rapidamente". Ma, se la crisi non fosse venuta da là, sarebbe cominciata altrove. Il naufragio di questo sistema era scritto e lo era fin dagli anni 1970. Le condizioni oggettive di una crisi di sistema esistevano ovunque.

Le crisi sono inerenti al capitalismo, che le produce in modo ricorrente, ogni volta in modo più profondo. Non si possono comprendere le crisi separatamente, ma in modo globale. Prendete la crisi finanziaria. Se ci si limita a questa, si troveranno soltanto cause puramente finanziarie, come la deregolamentazione dei mercati. Inoltre, le banche e gli istituti finanziari sembrano essere i beneficiari principali di quest'espansione di capitale, cosa che rende più facile indicarli come unici responsabili. Ma occorre ricordare che non sono soltanto i giganti finanziari, ma anche le multinazionali in generale che hanno beneficiato dell'espansione dei mercati monetari. Il 40% dei loro profitti proviene da operazioni finanziarie.

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L’Euro non come moneta unica ma come moneta comune

Christian Marazzi

Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?

Interverrò brevemente e direttamente in merito di quanto Klaus Busch ha, secondo me, realisticamente posto come problema, come dilemma, diciamo, come un rompicapo e cioè il fatto che l’euro sin dalla sua nascita è stata una costruzione monetaria, come dire, acefala. E di fatto ha funzionato come un veicolo di approfondimento delle divergenze all’interno della zona dell’euro fra paesi, diciamo, votati all’esportazione e paesi specializzati soprattutto in settori non esportabili, servizi. E che però proprio nella misura in cui ha portato alla situazione che conosciamo, rende addirittura difficile l’ipotesi di un suo superamento, di una uscita da questa moneta, da questa pseudo moneta che tanti problemi complicati sta creando e che è destinata a creare nel prossimo futuro.

Allora io sono d’accordo sulle difficoltà politiche di mobilitazione su un terreno che sia anche minimamente riformista, insomma. Le difficoltà dell’euro si ripercuotono anche sul piano interno degli stati membri e quindi anche dei movimenti. Ci sarà un passaggio, che credo sia essenziale, a maggio a Francoforte, ad una dimensione, ad un livello transnazionale che mi sembra assolutamente corretto e indispensabile, ma allo stesso tempo difficile. Questo vale anche se vogliamo ragionare, per esempio, sui punti messi a programma da Busch, e cioè una spinta in direzione della crescita. L’idea di instaurare gli eurobonds, queste obbligazioni di mutualizzazione del debito, del finanziamento del debito, le politiche di coordinamento dei salari, della spesa pubblica.

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Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere

Riccardo Bellofiore

Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?

Come hanno detto i relatori che mi hanno preceduto, la situazione in cui viviamo è una situazione invernale, gelida. Penso che alcuni di voi, certamente i più anziani come me, abbiano visto il film Frankenstein Junior e quindi si ricorderanno la scena in cui il giovane Frankenstein e il gobbo Igor vanno a scavare in un cimitero per esumare il cadavere del mostro e Frankenstein jr dice “che lavoro schifoso” e Igor risponde “potrebbe andare peggio”. Frankenstein jr chiede “come?” e Igor risponde “potrebbe piovere”. Subito si sentono tuoni e inizia una pioggia violenta. Questa è la situazione in cui sono convinto da tempo che ci troviamo a vivere. E in effetti ho intitolato “Potrebbe piovere” uno scritto ormai di due dicembre fa firmato con Joseph Halevi.

Cercherò di rispondere alle sollecitazioni avanzate da Raparelli e Casarini, oltre che dai relatori che mi hanno preceduto. Non è facile da farsi in così breve tempo. Cercherò sostanzialmente di svolgere tre argomenti, dandovi soltanto una sorta di schema di un ragionamento possibile. Primo: cercherò di chiedermi in che tipo di crisi del capitalismo globale ci troviamo, e su questo sarò veramente telegrafico. Dopo, cercherò di discutere dell’euro, dell’euro così come si è costruito nella realtà, non come spesso ce lo raccontiamo, e del tipo di crisi dell’euro e dell’Europa che viviamo adesso. In terzo luogo, cercherò di entrare nel terreno di discussione, complicato, delle possibili politiche economiche, e di qui svolgerò alcune considerazioni politiche. Sarò estremamente schematico. Chi fosse interessato trova lo sviluppo del ragionamento in due libretti che ho pubblicato recentemente [n.d.r. La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la sinistra, editi entrambi da Asterios, Trieste, nel 2012].

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La sinistra Keynesiana e il suo cocktail di desideri

di Claus Peter Ortlieb

In Germania, stavolta, saranno guai per i ricchi. La coalizione "Per una ripartizione equa" ha lanciato un'iniziativa, chiamando, non senza una certa audacia grammaticale, ad una giornata d'azione nazionale:

"C'è una via d'uscita alla crisi economica e finanziaria: redistribuzione! Noi non vogliamo più soffrire per la mancanza di prestazioni sociali e di servizi pubblici, e non vogliamo che la grande maggioranza della popolazione venga penalizzata. E' piuttosto la ricchezza eccessiva, e la speculazione finanziaria, che deve essere tassata. Non si tratta solo di denaro, ma anche di solidarietà concreta in questa nostra società."

In tal modo, la coalizione reclama un'imposta permanente sulle fortune eccessive dei contribuenti eccezionali, alfine di "finanziare in tutta equità la spesa pubblica e sociale indispensabile e ridurre il debito", senza dimenticare la "lotta costante contro l'evasione fiscale ed i paradisi fiscali, ed in favore della tassazione delle transazioni finanziarie, contro la speculazione e contro la povertà, dappertutto nel mondo".

Alcune frazioni dell'SPD e dei Verdi hanno accolto con favore la campagna e la sua concretizzazione, per mezzo dei loro rispettivi programmi, che dovrebbero in line adi principio aumentare il tasso più alto di imposizione fiscale, dal 42% al 49%. Deliberatamente, dimenticano di ricordarsi che, negli anni '90, loro stessi hanno abbassato tale tasso, che allora si attestava sul 53%.

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Mai più figli di troika*

di  Luciano Vasapollo

Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo, come il possibile  default di vari paesi europei, ma addirittura degli stessi USA, in realtà vede l’origine dal 1971  con la fine degli Accordi di  Bretton Woods. Da tale data gli Usa decidono in base al loro potere politico e militare di  imporre il proprio modello di sviluppo basato sull’import attraverso l’indebitamento, facendo così pagare il costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora mostrava alcuni caratteri tipici della crisi strutturale.

Già a partire dagli anni ‘80 si era verificato in Europa, anche se in maniera diversificata nei differenti paesi,  un vero e proprio intenso processo di privatizzazione, con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica nell’intero sistema produttivo. Le azioni dei Governi di questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche, con la motivazione ufficiale di risolvere i problemi produttivi ed economici.

A ciò hanno fatto eccezione alcuni paesi, ad esempio la Francia e in parte la Germania, che hanno difeso la presenza  pubblica nei settori strategici, strutturando in tal modo un modello produttivo più forte ed equilibrato nella competizione globale, più centrato sull’export.

Questo processo si è avviato in concomitanza alla costituzione del Mercato Unico Europeo (1992) e poi dell’Unione Europea con i pesanti sacrifici imposti al mondo del lavoro.

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Repressione finanziaria, potere monetario e cancellazione del debito

di Stefano D’Andrea

1. Repressione finanziaria come situazione e come regime giuridico.

Repressione finanziaria è espressione sconosciuta ai più.

Nell’uso volgare indica due diversi fenomeni: una situazione, creata da un’azione politica; e l’azione politica che la genera. Con la formula “azione politica” alludo all’emanazione e alla vigenza di un insieme di norme giuridiche volto a reprimere la redditività del capitale finanziario messo a rendita.

Repressione finanziaria è la situazione in cui il risparmio non genera rendite, o meglio genera rendite molto basse, inferiori al tasso d’inflazione. Nella situazione di repressione finanziaria, il tasso d’interesse reale  dei titoli del debito pubblico (reale vuol dire che è corretto dall’inflazione) è negativo.


2. Una lunga stagione di repressione finanziaria.

Un recente e approfondito studio, promosso dal FMI, ha constatato che tra il 1946 e il 1980 il tasso medio di interesse reale sui titoli di stato delle economie avanzate è stato negativo (-1,6%); negativo è stato anche il tasso reale di sconto (-1,1%) (1).

I tassi di interesse reali negativi comportano una diminuzione dello stock di debito, senza che, per estinguere il debito, sia necessario utilizzare enormi entrate fiscali o tagliare la spesa pubblica. Mantenendo i tassi nominali al di sotto dell’inflazione si riduce il valore (reale) del debito, spostando ricchezza dai creditori ai debitori.

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Terremoto nel mercato mondiale

Sulle cause profonde dell'attuale crisi finanziaria

Norbert Trenkle (gruppo Krisis)

false partite ivaNel 2008, a seguito della crisi economica mondiale scatenata dall'implosione dei cosiddetti mutui “subprime” negli Stati Uniti, esce, a cura di Norbert Trenkle del gruppo Krisis, il testo “Weltmartkbeben” (Terremoto nel mercato mondiale), qui tradotto.

Il testo assume un'importanza particolare, nella misura in cui riassume le posizioni che questo gruppo porta avanti da anni e che in qualche modo hanno largamente anticipato la crisi e le sue ragioni. Esso prova a dare una lettura “inattuale” e fuori dal coro della crisi economica in corso, lettura che può aiutare ad impostare correttamente il problema e a cercare soluzioni più radicali e capaci di intaccarne i meccanismi di fondo.

Per un aiuto alla lettura, sinteticamente ecco i punti “forti” del testo:

    -la crisi economica mondiale era in corso da lungo tempo e la sua esplosione entro un periodo più o meno breve era ampiamente prevedibile

    -le cause di questa esplosione non sono da ricercarsi nella malvagità di un numero comunque limitato di avidi speculatori dediti alla finanza più cinica e spietata, ma nel meccanismo di fondo della riproduzione capitalistica stessa. La “rivoluzione microelettronica”, ovvero il passaggio da una produzione seriale meccanica fondata sul lavoro vivo ad una fondata sulla tecnologia microelettronica, ha destrutturato gli apparati produttivi, aumentando in modo esponenziale la produttività del lavoro e al tempo stesso espellendo lavoro vivo.

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Europa: menzogne sul debito pubblico

La costruzione di un nuovo modello di stato

di Giovanna Cracco

In merito alle cause e alle soluzioni della crisi economica che sta cambiando il volto delle architetture sociali dei Paesi europei, la propaganda del potere economico-politico ha raggiunto livelli orwelliani.

Una banda di plutocrati siede al Ministero della Verità e una nutrita schiera di giornalisti servili fa da megafono alle menzogne. La materia ben si presta, più di altre, alla manipolazione della realtà: l’economia e la finanza sono ambiti specialistici che le persone comuni poco conoscono. Diventa dunque facile creare una ‘verità’: si formula un postulato – un’affermazione che, pur non essendo né evidente né dimostrata, viene considerata vera e posta come fondamento di una teoria deduttiva che altrimenti risulterebbe incoerente – e tramite l’informazione di palazzo (in Italia tutta la grande informazione) lo si diffonde. Una volta che ha sedimentato nel cervello dei cittadini, la strada per delineare il quadro teorico è tutta discesa.

Un Paese con un elevato rapporto debito pubblico/Pil rischia il fallimento, questo è il postulato. Segue il quadro teorico: i tassi di interesse sui titoli pubblici crescono, perché per investire denaro in un Paese a rischio default il mercato pretende di essere ricompensato con profitti maggiori; dunque, l’unica soluzione per uscire dalla crisi è ridurre il debito pubblico e così riconquistare la fiducia dei mercati.

I dati reali sono, per qualsiasi propaganda, il colpo di vento che fa crollare il castello di carte.

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Hyman Minsky e la Crisi

di Alessandro Roncaglia

L’argomento del convegno, il pensiero di Hyman Minsky e gli insegnamenti che ne possiamo trarre per la crisi attuale, è in forte corrispondenza con gli obiettivi dell'associazione Economia civile, che ha organizzato questo incontro. I nostri riferimenti culturali indicano infatti chiaramente che per economia civile non intendiamo il settore non profit considerato come un terzo settore dell’economia in opposizione a Stato e mercato, come fa una vasta letteratura cattolica, ma una concezione dell’economia e della società tutta, che pur all’interno di un’economia sostanzialmente di mercato (per quanto coesistente con un ruolo rilevante del settore pubblico) pone a obiettivo centrale lo sviluppo civile della società nel suo complesso, tramite un insieme di regole e interventi pubblici ma anche tramite lo sviluppo e la difesa di una cultura civica, che nel nostro paese è ancora troppo poco diffusa. Credo di poter dire che Hyman sarebbe stato d’accordo con questa impostazione. Ad essa infatti ha fornito un importante contributo scientifico analizzando il modo di funzionare dell’economia capitalistica e mettendone in luce l’intrinseca instabilità e la propensione a cadere ripetutamente in situazioni di crisi. In questo modo Hyman poteva indicare a quali politiche ricorrere per rendere meno fragile l’economia e per sostenere l’occupazione, che costituiva per lui un obiettivo centrale. Anzi, proprio alla piena occupazione erano dirette le sue proposte di considerare il governo come datore di lavoro di ultima istanza, che affiancasse il ruolo comunemente attribuito alla banca centrale di prestatore di ultima istanza.

Provo a sintetizzare in tre punti il contributo di Hyman: incertezza, fragilità finanziaria, money manager capitalism.

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Trent'anni di sviluppo, e molti di crisi

Mario Cedrini

Non si trattava di una lettura da ombrellone, d'accordo. Ma l'estate critica che abbiamo appena vissuto, segnata appunto dalla crisi economica e da tristi presagi per l'autunno – nonostante le rassicurazioni montiane – forniva più di una ragione per rinunciare alla spensieratezza dei romanzi. Di qui la scelta d'inserire in lista – la lista dei partenti, e cioè dei libri che avrebbero accompagnato il viaggio verso l'ombrellone – un piccolo saggio, di economia, e in particolare di economia dello sviluppo, a cura poi di un'organizzazione di cooperazione internazionale, e per giunta in lingua inglese. Al peggio non v'è mai fine?


Non esageriamo. Si tratta di un volumetto della serie Trade and Development Reports dell'Unctad, una delle poche agenzie specializzate delle Nazioni Unite degne di resistere al logorio del tempo storico: la United Nations Conference on Trade and Development nasceva nel lontano 1964 (con il meeting di Ginevra, e il grande economista argentino Raul Prebisch come primo segretario generale) con l'intento di affrontare quei problemi che l'ordine politico-economico internazionale scaturito dalla seconda guerra mondiale lasciava di fatto irrisolti, incapaci com'erano d'imporsi nel gioco degli interessi contrapposti della guerra fredda.

I problemi dello sviluppo, appunto, quelli di paesi che presentavano ritardi storici strutturali, in un contesto che obiettivamente li sfavoriva (premiando i manufatti del centro industriale del sistema-mondo e aggravando la situazione dei paesi esportatori di commodities). I problemi, in particolare, di quelle nazioni che pochi anni prima, nel 1955 (alla conferenza di Bandung), avevano dato vita alla più grande organizzazione internazionale dopo l'Assemblea generale dell'Onu, quella dei paesi non allineati.

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C’è molto altro oltre il mainstream

Alessio Mazzucco intervista Stefano Lucarelli

menta Cocito 2Prima Monti, poi la Fornero e Passera, si sono detti ottimisti sull’uscita prossima dalla crisi. Valori economici quali disoccupazione e produzione industriale paiono smentirli: qual è la sua opinione sulle loro dichiarazioni?

La mia prima reazione è stata di incredulità: gli ultimi dati ISTAT (Giugno 2012) infatti indicano che il numero dei disoccupati (2.792 mila) è cresciuto del 2,7% rispetto a Maggio e, soprattutto, registrano una crescita su base annua del 37,5% (761 mila unità). Gli indici ISTAT della produzione industriale corretti per gli effetti di calendario registrano, a Giugno 2012, variazioni tendenziali negative in tutti i comparti. La diminuzione più marcata riguarda il raggruppamento dei beni intermedi (-10,2%), ma cali significativi si registrano anche per i beni di consumo (-8,0%) e per i beni strumentali (-7,5%). Le diminuzioni più ampie si registrano per i settori delle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-14,6%), della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-13,1%) e della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi (-12,9%). Nella media dei primi sei mesi dell’anno la produzione è diminuita del 7,0% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quindi non sembrano esserci ragioni per essere ottimisti.

Giochiamo pure a fare l’avvocato del diavolo e ammettiamo che, nonostante il crollo innegabile della produzione industriale, gli investimenti privati in Italia potrebbero aumentare se l’incremento della disoccupazione si traducesse in un contenimento dei costi del lavoro e questi contribuissero a sostenere le esportazioni. Gli ultimi dati sul commercio estero rilevano in effetti un saldo commerciale positivo pari a 2,5 miliardi, con avanzi sia per i paesi extra Ue (+1,5 miliardi) sia per quelli Ue (+1,0 miliardi).

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Crisi, banche e saggio di profitto

di Luca Lombardi*

È comune defetto degli uomini, non fare conto, nella bonaccia, della tempesta.
N. Machiavelli
 1. Introduzione


La crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo le debolezze dello sviluppo del capitalismo negli ultimi decenni, dimostrando la natura propagandistica delle teorie economiche che ne magnificavano le sorti. Come ha osservato Paul Krugman: “la maggior parte della teoria macroeconomica degli ultimi 30 anni è stata, nel migliore dei casi, clamorosamente inutile, attivamente dannosa nei peggiori”. I governi sono stati costretti a intraprendere politiche ritenute fino a poco prima preistoriche dai fan del libero mercato arrivando alla nazionalizzazione delle banche. Si sono levati cori di critiche per le politiche economiche dominanti di questo ultimo quarto di secolo e sono partite molteplici iniziative di riforma del sistema finanziario. Non si tratta però di un cambio di rotta. Passata la tempesta, si tornerà indietro, perché le cause della crisi sono radicate nell’essenza del modello di accumulazione capitalistico.

Per anni, è sembrato che non ci fosse alternativa teoria e pratica alla globalizzazione capitalistica. La crisi ha dimostrato quanto invece sia necessario sviluppare o meglio riscoprire una teoria e una politica radicalmente differenti che possano fornire, tra l’altro, una spiegazione efficace delle ricorrenti crisi finanziarie. L’ampiezza e la pervasività della crisi sono tali da far spesso dimenticare che si tratta dell’ultima di una serie di crisi che hanno colpito i mercati finanziari negli ultimi decenni. Ad esempio, in un recente lavoro della Banca dei Regolamenti Internazionali, vengono identificate 40 crisi bancarie sistemiche solo negli ultimi 35 anni e gli autori devono concludere che: “le crisi finanziarie sono più frequenti di quanto si creda e portano a perdite che sono molto maggiori di quanto si spererebbe”1. Così come con l’esplosione della bolla dei subprime, dopo ogni crisi sono emerse riflessioni teoriche e politiche sulla fragilità dei mercati, sull’inadeguatezza delle regole, sull’eccesso di leva finanziaria delle banche. Queste riflessioni si sono rivelate effimere, poiché una nuova bolla finanziaria ha messo a tacere i malumori.

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A volte ritornano

Un anno vissuto pericolosamente

di Andrea Fumagalli

Un anno fa, a fine luglio 2011, l’asta dei titoli di stato decennali italiani fece registrare un forte incremento dei tassi d’interesse: iniziò ad aumentare il differenziale con i titoli di stato tedeschi (il famoso “spread”), che raggiunse quasi quota 600 a metà novembre. A fine giugno 2011 il Financial Time scopriva che Deutsche Bank aveva venduto circa 7 miliardi di Btp  italiani degli 8 che deteneva nel proprio portafoglio. Tale massiccia vendita produsse a partire dal maggio 2011 una riduzione del valore dei titoli future quotati a Londra (i derivati relativi alle aspettative sul valore futuro atteso dei titoli di stato) di oltre 10 punti percentuali. Tutto ciò mise in moto, da un lato,  aspettative pessimistiche sul valore futuro dei titoli italiani (comportando di conseguenza un aumento dei tassi d’interessi che aggravano il deficit pubblico), dall’altro, fecero incrementare il valore dei derivati CDS che assicurano contro il rischio di insolvenza o di perdita di valore dei titoli stessi. Chi detiene tali derivati nel proprio portafoglio può quindi lucrare laute plusvalenze e non sorprende affatto che i CDS siano concentrati per oltre il 90% in quelle stesse multinazionali della finanza (tra le quali Deutsche Bank) che hanno l’interesse di indurre aspettative negative sulla tenuta dei conti pubblici e creare il panico da default per quei paesi europei maggiormente esposti (i Piigs). Qui sta la fonte e il potere biopolitico  della speculazione finanziaria.

A un anno di distanza nulla è cambiato, anzi la situazione è peggiorata. E la peggior meschinità e falsità ideologica si è dipanata a diversi livelli.

A livello nazionale si sono imposti governi più o meno “tecnici” o si sono condizionati processi elettorali per rendere operative in breve tempo politiche emergenziali di austerity con l’ipocrita giustificazione di andare incontro alle esigenze dei “mercati” (leggi speculazione finanziaria), ma in realtà accelerando ulteriormente la tendenza alla concentrazione dei redditi,  affinando la governance della espropriazione dell’eccedenza sociale del lavoro e incrementando il processo di finanziarizzazione della vita.

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Stanno smantellando lo Stato di diritto con la scusa dello spread

Fabio Sebastiani intervista Luigi Cavallaro

Tutti che guardano allo spread, intanto questa crisi ha cambiato completamente i connotati ai fondamenti dello Stato di diritto…

Più esattamente, questa crisi sta cambiando i connotati a quella peculiare declinazione dello Stato di diritto che è lo Stato sociale, a cominciare dalla sua pretesa di governare i processi economici. Si tratta in effetti della maturazione di un trend che ormai data da lontano. Per capirci, quando i nostri costituenti vararono la Costituzione, inserirono nel terzo comma dell’articolo 41 il principio secondo cui lo Stato doveva indirizzare e coordinare sia l’economia pubblica sia quella privata. Lo Stato, ai loro occhi, non doveva essere solo il “regolatore” dell’iniziativa economica e nemmeno il produttore di beni e servizi da offrire in alternativa alle merci capitalisticamente prodotte: doveva porre sia l’iniziativa economica pubblica sia quella privata nell’ambito di un proprio disegno globale, che individuava priorità, strategie, mezzi. Un obiettivo del genere, sebbene fermamente voluto sia dai cattolici che dai comunisti, era particolarmente inviso ai liberali, che erano ben disposti a godere dei benefici della spesa pubblica, ma certo non volevano saperne di cedere allo Stato poteri di indirizzo e controllo sulla loro attività. Si optò allora per un compromesso che – grazie alla mediazione di Luigi Einaudi, capofila dei liberali tra i costituenti – prese la forma dell’art. 81 della Costituzione: ogni legge di spesa doveva indicare la corrispondente fonte di entrata. Era un modo per dire che nemmeno lo Stato poteva sottrarsi al principio del pareggio di bilancio, perché Einaudi sapeva bene che, se si fosse consentito allo Stato di indebitarsi (come invece predicavano i keynesiani ortodossi), l’economia pubblica, che già si trovava collocata su una posizione di primazia, avrebbe preso il sopravvento sull’economia privata.


Un compromesso per la proprietà e il capitale…

Sì, ma nel 1966 la Corte costituzionale lo fece saltare, perché in una sentenza stabilì che anche il debito costituiva una forma di entrata.

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Commento a "La crisi"

di Valerio Bertello

L’attuale crisi economica ha implicitamente attirato l’attenzione sulla questione di quale sia la forma attuale del capitale. Dato il carattere finanziario della crisi, viene dato per acquisito che la forma attuale del capitale sia quella del capitale finanziario. Forse è così, ma si può avanzare una obiezione dirimente a tale ipotesi. Cioè occorre rilevare che le contraddizioni di questa forma non portano ad un superamento del capitale, esattamente come nel medioevo il capitale usurario, in quanto elemento semplicemente parassitario della società, non poteva portare al di là del feudalesimo,. Allo stesso modo si può affermare che il capitale finanziario non è una forza storica progressiva. Lo stesso non si può dire per il capitale monopolistico. Qui le contraddizioni lasciano intravedere le forme del suo superamento. Questa è in sintesi la tesi sostenuta nelle note di lettura che seguono, che non intendono dimostrare nulla ma solo porsi come spunti di riflessione.

Per valutare correttamente l’attuale crisi economica occorre fare riferimento a due fatti fondamentali:

(1)    La legge della caduta del saggio del profitto si riferisce ad una tendenza. Infatti essendoci molti fattori che si oppongono a tale fenomeno, non si può parlare di questo come di un fatto inevitabile. Infatti il saggio del profitto dipende direttamente o indirettamente da molte variabili rispetto alle quali può essere funzione crescente o decrescente. Già Marx aveva rilevato questa circostanza elencando una serie di cause che “annullano” la legge “in modo da lasciare ad essa solamente il carattere di una tendenza” (Il Capitale, Roma, 1956, III, 1, p.316-17

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"Oltre l'austerità", un ebook gratuito per capire la crisi

di Sergio Cesaratto

Da oggi è scaricabile gratis sul sito di MicroMega l'ebook "Oltre l'austerità". Un contributo indispensabile per approfondire i temi della crisi economica e sociale che ha investito l'Europa e le prospettive per la sua soluzione. Con estremo rigore analitico, ma con un linguaggio accessibile anche per il lettore non specialista, gli autori del volume fanno giustizia di molti luoghi comuni, superficialità ed errori con i quali, anche sulla stampa italiana, è stata raccontata la crisi.
Più sotto l'indice. Buona lettura.

Indice
Introduzione 6
S. Cesaratto e M. Pivetti

1. Le politiche economiche dell’austerità

L’austerità, gli interessi nazionali e la rimozione dello Stato 11
M. Pivetti
Molto rigore per nulla 19
G. De Vivo

2. La crisi europea come crisi di bilancia dei pagamenti e il ruolo della Germania
Il vecchio e il nuovo della crisi europea 26
S. Cesaratto
Le aporie del più Europa 44
A. Bagnai
Deutschland, Deutschland…Über Alles 55
M. d’Angelillo e L. Paggi

3. Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici
Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico 71
R. Ciccone
La crisi dell’euro: invertire la rotta o abbandonare la nave? 89
G. Zezza
Oltre l’austerità 4 MicroMega
Le illusioni del Keynesismo antistatalista 104
A. Barba
La crisi economica e il ruolo della BCE 111
V. Maffeo

4. Austerità, salari e stato sociale

Quale spesa pubblica 122
A. Palumbo
Crescita e “riforma” del mercato del lavoro 133
A. Stirati
Politiche recessive e servizi universali: il caso della sanità 145
S. Gabriele
Spread: l’educazione dei greci 160
M. De Leo

5. Oltre l’euro dell’austerità

Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito 172
S. Levrero
Una breve nota sul programma di F. Hollande e la sinistra francese 185
M. Lucii e F. Roà

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Il crack finanziario del 2007 e la “sconfitta” del neoliberismo

Antiper1

Secondo la quasi totalità dei commentatori “anti-neo-liberisti” il crack finanziario del 2007 - quello, per intenderci, dei “mutui subprime” - costituirebbe un'evidente sconfitta storica e teorica del neo-liberismo dal momento che quella crisi avrebbe dimostrato inequivocabilmente come il sistema finanziario americano e internazionale siano potuti sopravvivere al proprio collasso solo grazie al massiccio intervento diretto degli Stati. E, quando lo Stato interviene – deducono gli anti-neo-liberisti - il neo-liberismo è fritto.

La prima proposta di intervento statale su vasta scala per sostenere Wall Street dopo il crack della banca di investimenti “Lehman Brothers”, nel settembre 2008, venne avanzata nei giorni immediatamente successivi e inizialmente respinta dal Congresso; fu poi approvata e perfezionata in una gigantesca operazione di “tamponamento falle” (il TARP [2]) che i giornali dell'establishment politico ed economico denunciarono come “statalista” e “socialista”. Come era prevedibile, Marx fu messo sulla copertina del Time, nonostante che egli fosse, più che un sostenitore dell'intervento in economia dello Stato borghese-capitalistico, piuttosto un sostenitore della distruzione di tale Stato. Ma tant'è...

***

Di recente [3], l'Economist ha parlato di “capitalismo di stato” e di “mano visibile” [4] (parafrasando ironicamente Adam Smith) in relazione, oltre che alla politica economica degli USA, a quella dei paesi emergenti (Cina, Russia, India...) mettendo a fuoco una parte del problema che abbiamo di fronte: Stato e mercato sono davvero antitetici come parrebbero suggerire le opposte ideologie del (neo) liberismo e dell'anti (neo) liberismo?

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Versailles

di Elisabetta Teghil

Il primo alleato della Francia socialdemocratica è l’Italia di Monti. L’avversaria dichiarata di entrambe, al di là delle manifestazioni di facciata, è la Germania di Merkel.

Forse, le chiavi di lettura che abbiamo utilizzato finora si rivelano inadeguate per capire quello che sta succedendo in Europa.

Se vogliamo leggere gli avvenimenti europei attuali, dovremmo cominciare da due punti fermi.

Uno ci riguarda da vicino. Monti, alla sua età, fa quello che sa fare e che ha fatto in tutta la sua vita, cioè il funzionario delle multinazionali anglo-americane e l’uomo di fiducia degli organismi sovranazionali che, delle prime, sono espressione ed emanazione.

L’altro è che è in atto una guerra per la ridefinizione dei rapporti di forza fra Stati e multinazionali che vede gli Stati Uniti e l’Inghilterra alleati all’offensiva.

Il motivo occasionale nell’immediato, è il profondo deficit statale e privato che gli Stati Uniti e l’Inghilterra hanno accumulato.

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consecutio temporum

La crisi secondo Riccardo Bellofiore

di Oscar Oddi

Recensione a “La crisi capitalistica, la barbarie che avanza”, Asterios, 2012; “La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra”, Asterios, 2012.

La crisi divampata (ma non improvvisa) nel 2007-2008, i cui terrificanti effetti sul tessuto economico, sociale e politico sono ora dispiegati in tutta la loro potenza distruttrice (si pensi alla Grecia, “modello” di azzeramento della sovranità e della democrazia reale, pronto ad essere esportato nel resto d’Europa) hanno colto la “sinistra” (in tutte le sue diramazione, compresa quel che resta di quella così detta ”radicale”) completamente spiazzata, impreparata, afona. Ridotta all’irrilevanza teorico-organizzativa, frutto di decenni di “sbornie” post-moderniste e moltitudinarie-imperiali, quando non addirittura fautrice (coscientemente o meno) dell’ideologia (neo)liberale, si trova oggi in una condizione di totale cecità rispetto alla genesi e agli sviluppi di tale crisi, e dunque sulle politiche da proporre per uscirne da una posizione di “classe”. In questo quadro sono i benvenuti questi due piccoli (come formato e pagine, non certo per la pregnante qualità di contenuto e significato) ma preziosi volumi di Riccardo Bellofiore, (“La crisi capitalistica, la barbarie che avanza”, Asterios, Trieste, 2012,  pp. 80, € 7,00, e “La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra”, Asterios, Trieste, 2012, pp. 80, € 7,00,) facente parte di quella schiera, ormai ridottissima, di autori che tentano di pensare ancora con gli strumenti forniti dal “cantiere” marxiano, e dunque, proprio per questo,  del tutto inascoltati.

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Un capitalismo in cerca di vie d'uscita

di Biagio Borretti

Il vicolo cieco e la crisi sistemica del capitale. Si è tenuta a Napoli, tra il 29 ed il 30 giugno scorsi, una due giorni di studi ed approfondimenti sullo stato attuale della crisi del capitalismo organizzato dalla Rete dei Comunisti.

Il convegno, svoltosi tra venerdi pomeriggio e sabato mattina , è stato suddiviso in tre sessioni di discussione: “Guerra delle monete e trappola della liquidità” (con relazioni di Luciano Vasapollo, Leonidas Vakiatokis, Franco Russo e Guglielmo Carchedi); “La divaricazione e la competizione tra Usa e Unione Europea” (relazioni di Sergio Cararo, Giorgio Gattei, e Francesco Piccioni); “L’alternativa può venire dai paesi emergenti?” (relazioni di Mauro Casadio, Vladimiro Giacchè, Ignacio Mendoza), il tutto introdotto e moderato da Michele Franco.

L’intervento di Luciano Vasapollo si è incentrato sull’analisi della moneta come “regolatore del ritmo di accumulazione del capitale” e sulla natura del denaro così come del credito, laddove il denaro di credito è prodotto dentro le leggi del mercato e quindi è anch’esso merce. Una merce particolare, però, che non ha valore: il suo prezzo è rendita e non profitto. Ne consegue una lettura della crisi come crisi di valorizzazione e non da insufficienza di domanda.

La parte finale della sua relazione si incentra, invece, sulla ricostruzione delle differenti reazioni dei poli imperialistici e del Comecon alla fine del sistema di Bretton Woods, sottolineando il particolare interesse che oggi potrebbe suscitare un rinnovato studio della organizzazione e della funzione dell’allora Banca internazionale di collaborazione economica interna al Comecon.

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A che punto è la notte

Francesco Ciafaloni intervista Luciano Gallino

Luciano Gallino, maestro di rigore in un’Italia che vive di menzogne e approssimazioni, ha pubblicato di recente da Laterza una lunga intervista sul nostro grigio presente (a cura di Paolo Borgna, La lotta di classe dopo la lotta di classe), recensito nello scorso numero da Costantino Cossu. Abbiamo chiesto al nostro collaboratore Francesco Ciafaloni di stimolare Gallino a parlarne ancora, nella convinzione che è di studiosi saggi come lui che noi tutti – oggi – abbiamo grandissimo bisogno.

La domanda è: com’è che ci siamo ridotti in queste condizioni? Le macrocause e qualche macrorimedio.

Stiamo attraversando, dal 2007 in poi, una crisi che è al tempo stesso una crisi finanziaria e una crisi dell’economia reale, che dal 2010 in poi è stata trasformata, se non deliberatamente camuffata, in crisi del debito pubblico. Alle origini della crisi, che sono abbastanza lontane nel tempo, vi sono non già l’eccessiva generosità dei bilanci pubblici, lo Stato sociale, ma due cause principali, delle quali l’una è oggetto di discussione ma non di azione, ed è la crisi del sistema finanziario, la sregolatezza della finanza; l’altra, di cui non si parla per niente, è il forte peggioramento della distribuzione del reddito a danno dei salariati in generale e di buona parte del ceto medio, da prima del 1980.

La crisi finanziaria ha anch’essa molte componenti, economiche in senso stretto, e politiche, che si intrecciano. La politica, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, con una forte partecipazione di politici e intellettuali europei, ha smantellato le regole che, dal 1933, imponevano alle banche commerciali di non giocare al casinò coi soldi dei clienti o con quelli propri. Sono state demolite le leggi che regolavano i derivati, col risultato che i derivati sono diventati più di 700 trilioni di dollari in giro per il mondo, senza alcun controllo per il 90% perché scambiati “al banco” come si dice tra privati. Sono state abolite le regole per la circolazione dei capitali e non si è affatto dato peso allo sviluppo della cosiddetta “finanza ombra”.

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Come uscire dalla crisi: Crescita e intervento pubblico*

Giorgio Lunghini

0.  È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi si tenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez faire.

1.
  Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale - per dirla con Marx - da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione  relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.

2.  Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco.

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znet italy

Le banche centrali si preparano alla crisi bancaria globale?

di Jack Rasmus

Quasi quattro anni dopo la crisi bancaria del 2008 e con più di 11 trilioni di iniezioni di liquidità negli USA e nell’Eurozona-Inghilterra-Giappone, il sistema bancario globale sta nuovamente mostrando chiari segni di crescente instabilità. Nonostante diverse sessioni di “stress test” bancari su entrambe le sponde dell’Atlantico a partire dal 2009, quella che è stata impropriamente definita una crisi del debito sovrano in Europa si sta rivelando, a ogni settimana che passa, anche una più fondamentale crisi bancaria.

La settimana scorsa ha registrato una serie di rapporti ed eventi che suggeriscono con forza che, sotto la superficie, il sistema bancario globale non è particolarmente in gran forma, e sta peggiorando. L’indicazione più recente è stata l’annuncio ieri, 21 giugno, dell’agenzia di classificazione Moody’s Inc. che ha retrocesso 15 banche di tutto il mondo.  Vi sono comprese due grandi banche statunitensi, Bank of America e Citigroup, che in effetti sono tecnicamente insolventi dal crollo bancario del 2008 ma che sono state tenute a galla mediante varie misure appoggiate dalla Federal Reserve USA. Sotto pressioni del governo statunitense entrambe sono andate vendendo i loro attivi migliori a prezzi quasi di svendita al fine di aumentare il capitale. Non molto meglio è andata la banca statunitense d’investimenti Morgan Stanley, che ha recentemente guidato l’iniziale pasticciato collocamento pubblico di Facebook.  Le banche francesi e inglesi, comunque, non se la sono passata meglio. HSBC, Royal Bank of Scotland, Societe General e persino la banca svizzera Credit Suisse, sono state tutte declassate. Questo genere di diffusa, globale retrocessione non ha luogo a caso. Riflette qualcosa che è sistematicamente all’opera per indebolire il sistema bancario globale.

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La crisi

le dinamiche e le passioni che agitano il presente… e il futuro…….

di redazione di Connessioni

“In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene emancipato prima di essersi assicurato un diritto di usucapione sulla terra. Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in proletario eslege, che per di più trova pronti i nuovi padroni nelle città, tramandate nella maggior parte fin dall’età romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale dopo la fine del secolo XV distrusse la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale, sorse un movimento in direzione opposta. Gli operai delle città furono spinti in massa nelle campagne e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola coltura, condotta sul tipo dell’orticoltura”. Karl Marx, Il Capitale

edipo rePartiamo con questa pedante citazione, perché riteniamo importante analizzare la crisi, rompendo fin da subito un tabù, che spesso aleggia nella sinistra rispetto ad un presunto ritardo nel modello di produzione capitalistico in Italia. Questo ha fatto si che ancora oggi  in Italia si analizzi la crisi considerando determinate organizzazioni sociali come retaggio del passato e non come elementi strutturali e integrati nell’economia politica presente. Pensiamo ad esempio alla valutazione dell’economia criminale (mafia, camorra, ‘ndrangheta), considerata elemento parassitario rispetto ad una economia produttiva sana, valutazione che non coglie il livello di integrazione tra questi elementi.

Ci interessa partire da questo punto perché c’è il tentativo di introdurre una simile apparente contraddizione tra finanza e produzione da parte dei paladini dell’economia politica di sinistra.

Nel dopo guerra il sistema industriale italiano trovò la sua linea di sviluppo nella produzione di beni di consumo durevole, in particolare automobili ed elettrodomestici a basso costo e beni di investimento per industria ed edilizia.

L'industria è stata largamente sostenuta da investimenti pubblici. Dopo gli anni 50 si è  assistito ad un boom delle esportazioni accelerato dalla costituzione dell’unione doganale con gli altri Paesi europei, il MCE (Mercato Comune Europeo),  e dall’espandersi  della domanda interna di quegli stessi beni.

Il processo di crisi, a partire dalla metà degli anni '70, portò all’interruzione di quel meccanismo di crescita avviato nel dopo guerra caratterizzato, nelle principali economie mondiali, dal meccanismo dell’economia mista.

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La partita della sinistra

Alberto Burgio

Il discorso sul capitalismo deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo


Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?

Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.

Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?

In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.