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Bellofiore, considerazioni su crisi, Europa e… barbarie

di Alfonso Gianni

«Il primo dovere della sinistra è - puramente e semplicemente - il rigetto senza ambiguità delle politiche di austerità», afferma perentoriamente Riccardo Bellofiore in La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra (Trieste, Asterios, 2012, pp. 74, euro 7). Il libro, di poca mole ma di grande sostanza, (che reca in esergo un verso di Heinrich Heine, «Il posto è vacante! Le ferite aperte» dedicato alla memoria di Edoarda Masi e Lucio Magri) esce accompagnato dal suo gemello La crisi capitalistica, la barbarie che avanza (Trieste, Asterios, pp. 77, euro 7). L’argomento è la grande crisi economica mondiale, ma più esattamente si dovrebbe dire il marxismo e la crisi. Il nocciolo di entrambi i libri consiste, infatti, nella critica da un punto di vista marxista delle diverse letture della crisi e allo stesso tempo nella critica dei comportamenti della sinistra di fronte alla crisi.

Va da sé, infatti, che l’affermazione di cui sopra non sta avendo i successi desiderati. La sinistra moderata, quella che Bellofiore definisce social-liberista, non solo ai tempi di Toni Blair, ma nelle spire di una crisi che per l’Europa, con l’eccezione della Germania e del suo satellite, la Polonia, appare ancora più grave di quella che prese le mosse dal crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929, ha assunto pratiche e atteggiamenti anche più liberisti del neoliberismo, mettendo in mostra il tipico entusiasmo dei parvenu. Quando questa rivista uscirà dalla tipografia, sarà già stata modificata la nostra Costituzione, con l’introduzione nell’articolo 81 dell’obbligo del pareggio di bilancio, vero mantra del credo neoliberista.

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Alle radici della crisi

La caduta dei profitti e la finanziarizzazione dell'economia

di Fabio Damen

Sulle cause di questa crisi si è detto di tutto e di più, sia in campo borghese che in quello marxista. Nel secondo campo, quello che a noi più interessa, viene, tra le altre, riproposta la tesi ‘classica’ della sovrapproduzione o del sottoconsumo, con conseguente saturazione dei mercati, quale motore propulsivo della crisi. In questo caso non si prendono in considerazione gli aspetti peculiari che hanno caratterizzato la vita del capitalismo negli ultimi decenni e, quindi, le differenze – rispetto alle ‘normali’ recessioni – che sono all’origine del rigonfiamento e dello scoppio della bolla speculativa, dell’abnorme crescita del capitale fittizio e delle ricadute sull’economia reale, già ampiamente compromessa dalle sue insanabili contraddizioni.

Nell’approfondimento che qui andremo a sviluppare, prenderemo in considerazione gli aspetti generali e di metodo dell’analisi da sovrapproduzione per poi confrontarli e integrarli, sulla base dei dati empirici, con quella della caduta del saggio medio del profitto, affrontando la questione nel lungo periodo, e non soltanto relativamente agli anni immediatamente vicini al 2007, data di inizio della crisi. Un buon punto di partenza potrebbe essere l’enunciazione di Marx nel capitolo quindicesimo, del libro terzo, relativo allo sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge: “D’altro lato in quanto il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, è lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne costituiscono l’unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente a un eccesso di popolazione”.

È proprio la relazione tra la caduta del saggio del profitto, le crisi economiche e la sovrapproduzione di capitali – che non trovando ambiti sufficientemente remunerativi nella produzione vanno verso la speculazione, verso la creazione di capitale fittizio, contribuendo alla formazione di bolle speculative il cui unico approdo è l’esplosione del sistema finanziario con tutte le ricadute del caso sull’economia reale – che è stata la base di partenza.

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L'avanzata cinese, gli scenari di guerra e l'uscita politica dalla crisi

Stefano Galieni intervista Bruno Amoroso

Con questa lunga intervista, il professor Bruno Amoroso, a suo tempo allievo di Federico Caffè, definisce gli aspetti di storia economica e di mutamenti geopolitici che hanno attraversato il pianeta negli ultimi cinquanta anni.

Un testo ricco di spunti e di riflessioni che potrebbero innescare un interessante dibattito fra chi vuole guardare alla crisi attuale con una prospettiva di ampio respiro.

Il professor Bruno Amoroso è uno dei pochi intellettuali italiani che guarda alla crisi economica con lo sguardo ampio di chi è abituato ad osservare la complessità del pianeta. Sono passati tanti anni da quando preconizzava uno scontro politico ed economico fra le potenze tradizionali e quelle emergenti, uno scontro che potrebbe anche tradursi in conflitto militare.


«Per spiegarmi debbo partire da alcune riflessioni attorno alla crisi. Stanno cambiando velocemente i rapporti fra i diversi sistemi economici che ridefiniscono anche la geopolitica del mondo. Nasceranno nuovi equilibri e si tratta insomma di capire quello che sarà il futuro.

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Sfiga e rivoluzione

Crisi dell’euro e crisi di sovrapproduzione: la forma e la sostanza

di Mauro Vanetti (guest blogger)


Sarà mica che porto sfiga?

Nell’estate del 2007 mi trovavo in California; quello fu l’anno della crisi dei mutui subprime. Il nome è improprio, come tutti i nomi che vengono dati ai vari crack del capitalismo; i giornalisti amano etichettare le catastrofi economiche a seconda del casus belli, camuffandone in questo modo le cause profonde. Con questa nomenclatura, la Prima Guerra Mondiale dovrebbe chiamarsi la Guerra dell’Attentato di Sarajevo, mentre la Seconda potrebbe essere registrata nei libri di storia come la Guerra della Radiostazione di Gleiwitz. Ad ogni modo, l’esplosione della bolla immobiliare mise in luce la fragilità della crescita statunitense; si erano accumulate montagne di dollari vendendo case a prezzi sempre crescenti a famiglie senza soldi e ad imprese senza liquidità, e costruendo castelli di carta speculativi su previsioni irrealistiche di crescita eterna di questi prezzi. L’era Bush entrava in declino in un clima crepuscolare ben descritto da quelle scene di Capitalism, a Love Story di Michael Moore in cui si mostra come le banche abbiano imposto allo stesso Congresso il Grande Salvataggio (bail out) nell’autunno 2008, inducendo dozzine di parlamentari smidollati ad approvarlo dopo che il 29 settembre la Borsa era crollata perché i deputati avevano “votato sbagliato” in uno strano sussulto di democrazia. Il Bail Out era di 700 miliardi di dollari tondi; a chi chiese perché la cifra fosse proprio quella, si rispose con compiacimento che non c’erano motivi tecnici, doveva solo sembrare «bella grossa».

Sarà mica che porto sfiga?

Nel 2008 mi ero trasferito a Londra; quello fu l’anno della crisi bancaria britannica. Dopo che per qualche mese si erano combattuti su riviste e giornali gli “ottimisti” e i “pessimisti” rispetto alla possibilità che la crisi “immobiliare” statunitense potesse esondare oltre il settore immobiliare e al di là dell’Atlantico, i fatti hanno dato ragione a chi riteneva che la bolla immobiliare USA aveva coperto per anni, come le ghette da ricco di Zio Paperone, non solo i piedi d’argilla dell’economia degli Stati Uniti, ma quelli dell’intero capitalismo mondiale e in particolare europeo.

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La lunga storia di una crisi di sistema

Stefano Galieni intervista Luciano Vasapollo

Con questa lunga e articolata intervista il professor Luciano Vasapollo offre una propria ricostruzione della crisi che sta sconvolgendo il capitalismo mondiale. Una crisi politica da cui non si può uscire con ricette palliative ma solo con una proposta di alternativa radicale

 Guercino San Luca mostra un ritratto della vergineLa crisi attuale e le turbolenze in Europa di questi mesi vanno lette per Luciano Vasapollo, Professore di economia applicata all’Università La Sapienza e Direttore di Cestes – Proteo (Centro Studi dell’USB), all’interno di un processo storico-economico molto lungo di cui bisogna assolutamente tenere conto in maniera puntuale per capirne la reale entità.

«Quanto sta accadendo oggi è la conseguenza politico-economica di quanto avviene da molti anni e non è un dettaglio comprendere la tipologia, l’origine e gli effetti di questa crisi. Nel modo di produzione capitalista si possono, in termini marxiani definire e analizzare tre tipologie di crisi, quella a carattere congiunturale, quella strutturale e quella sistemica. Oggi tutti parlano di crisi sistemica ma pochi sanno veramente di cosa si tratta, ed inoltre quando noi analisti marxisti ne parlavamo in tempi non sospetti già negli anni novanta nessuno ci dava credito».


E quali sono le differenze sostanziali?


«La crisi congiunturale è da considerarsi “normale”, poiché non è vero che il modo di produzione capitalistico è in equilibrio o in costante crescita quantitativa. Aveva perfettamente ragione Marx quando individuava le crisi come fase interna del ciclo in un modello economico produttivo di disequilibrio, e quindi fasi di sovrapproduzione, situazione che obbliga alla conseguente irrinunciabile condizione di bruciare forze produttive, distruggendo cioè forza lavoro e capitali in eccesso, materiali, tecnologici e finanziari, per poter ricreare le condizioni di una crescita capace di realizzare masse e tassi di profitto reputati “soddisfacenti” e ottenuti attraverso gli investimenti di plusvalore in nuovi processi di accumulazione del capitale a maggiore profittabilità.

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marx xxi

Compagni, raccontiamola tutta la storia

di Pasquale Cicalese

“Contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto si verifica una diminuzione di valore del capitale esistente, che frena questa caduta e tende ad accelerare l’accumulazione del valore-capitale” K.Marx, Il capitale, Libro III

“Si osservi: per quanto le svalutazioni del capitale esistente che subentrano con le crisi possano anche colpire i singoli capitalisti, esse tuttavia, per la classe dei capitalisti, per il sistema capitalistico, sono una valvola di sicurezza, un mezzo per prolungare la durata di vita del sistema, per attenuare il pericolo che il meccanismo salti. Gli individui vengono perciò sacrificati nell’interesse della categoria”. H. Grossmann,
Il crollo del capitalismo.

Il là ha avuto inizio il 28 aprile scorso; in un’intervista al Corriere della Sera, Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, gruppo tra i più internazionalizzati a livello italiano e con un fatturato prossimo agli 8 miliardi di euro, si scaglia contro la dirigenza italiana, specie quella che parla e opera in campi che non le competono. Bersaglio, Perissinotto, ma si parla a nuora perché suocera intenda. E chi da un ventennio non fa più il suo ”mestiere” è ben altro, porta il nome di Berlusconi, la cui azienda sta subendo una poderosa distruzione di capitale.

Si scaglia poi contro i “banchieri” italiani, che si sono dimenticati che cosa significa allocare il risparmio, portando ad esempio il Credito Italiano, allora pubblico…, che accompagnava la sua azienda in giro per il mondo.

Due giorni dopo è la volta della conferenza stampa di Monti. Il messaggio è chiaro: il nirvana è finito…

Resta da capire chi da un ventennio, se non più, ha rincoglionito gli italiani con il nirvana. La risposta al lettore.

Mettiamola così: in questo Paese è in corso quella distruzione di capitale che si verificò nei maggiori paesi industrializzati del nord Europa a seguito della crisi del 1973; allora, questi dismisero capitale scadente per posizionarsi nella fascia alta del valore aggiunto. E chi prese questo capitale scadente? L’Egitto, la Tunisia, la Polonia? Nient’affatto, fu l’Italia.

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znet italy

Crisi: alla radice del problema c’è la politica

di Joseph Stiglitz

Le politiche d’austerità ci stanno spingendo verso una recessione a doppio minimo [double-dip], ammonisce l’economista statunitense Joseph Stiglitz. Egli si è seduto a un tavolo per discutere con Martin Eiermann del nuovo pensiero economico e dell’influenza del denaro sulla politica

The European: Quattro anni dopo l’inizio della crisi finanziaria, sei incoraggiato dai modi in cui gli economisti hanno cercato di comprenderla e dai modi in cui tali idee sono state raccolte da chi decide le politiche?

Stiglitz: Consentimi di dividere la materia in un modo leggermente diverso. Gli economisti accademici hanno svolto un grande ruolo nel provocare la crisi. I loro modelli sono stati eccessivamente semplificati, distorti e hanno tralasciato gli aspetti più importanti.  Tali modelli carenti hanno poi incoraggiato chi decide le politiche a ritenere che i mercati avrebbero risolto tutti i problemi.  Prima della crisi, se fossi stato un economista di vedute ristrette, sarei stato molto lieto di costatare che gli accademici avevano un grande impatto sulla politica. Ma sfortunatamente ciò è stato un male per il mondo. Dopo la crisi si sarebbe sperato che la professione accademica fosse cambiata e che le decisioni politiche fossero cambiate con essa e fossero divenute più scettiche e prudenti.  Ci si sarebbe aspettati che, dopo tutte le previsioni sbagliate del passato, la politica avrebbe richiesto alle accademie un ripensamento delle loro teorie. Sono molto deluso, da ogni punto di vista.


The European: Gli economisti hanno costatato le carenze dei propri modelli ma non si sono dati da fare per scartarli o migliorarli?

Stiglitz: Nel mondo accademico quelli che credevano nel libero mercato prima della crisi, oggi continuano a farlo. Alcuni hanno operato una svolta e voglio riconoscere loro il merito di aver detto: “Abbiamo sbagliato. Abbiamo sottostimato questo o quell’aspetto dei nostri modelli.” Ma per la maggior parte la reazione è stata diversa.

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Capitalismo in decomposizione?

Marco Sacchi

Tutti i modi di produzione del passato hanno conosciuto un periodo di ascendenza e un periodo decadenza. Il primo periodo corrisponde a un pieno adeguamento dei rapporti di produzione dominanti con il livello di sviluppo delle forze produttive della società, nel secondo questi rapporti di produzione sono divenuti troppo stretti per contenere le forze produttive.

La decadenza di un modo di produzione si caratterizza per due aspetti, uno economico e l’altro sovrastrutturale.


L'aspetto economico del concetto di decadenza

Lo sviluppo delle forze produttive può presentarsi sotto due forme:

1° Con l’accrescimento del numero dei lavoratori incorporati nella produzione a un livello di produttività dato.
2° Con lo sviluppo della produttività del lavoro con numero dato di lavoratori.


Nella realtà di un sistema in piena espansione si costata la combinazione di due forme. Un sistema in crisi è un sistema che si trova limitato sui due piani allo stesso tempo.

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politicaecon

La crisi globale

di Sergio Cesaratto

Lunedì 23 aprile si è svolta a Roma 3 la presentazione dei volumi di Bellofiore e Giacché sulla crisi, Radio radicale l'ha registrata, qui c'è la mia relazione con alcuni postscriptum

Mi occupo solo di uno dei due libri di Bellofiore, La crisi globale, l’altro è più teorico. Devo avanzare una critica di fondo a Bellofiore: l’eccesso di distinguo dalle altrui posizioni attraverso sottigliezze che lasciano il lettore smarrito circa l’argomentazione di fondo [molti l’han notato anche nell’esposizione al dibattito; un esempio è quando Riccardo ha disquisito circa la data di inizio della crisi … il 2008 non gli andava bene, le cause sono anteriori, ma questo è ovvio e non aggiunge molto. Il lettore potrà farsi una propria opinione attraverso la registrazione di Radio Radicale, che ringraziamo]. Tutto questo con amicizia, ma anche con franchezza.

Parto dalle conclusioni. I due volumi convergono nell’idea che una rottura/fuoriuscita dall’UME è improponibile, tanto sarebbero importanti le conseguenze. Non è di questa opinione Paul Krugman:

“What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.”


Comunque, conclude Giacché, se continua così sarà l’Euro a rompersi. L’impegno dei paesi emergenti a sostenere l’intervento del FMI a sostegno dei paesi europei in difficoltà sembra però indicare che ci saranno degli sforzi ad impedirlo. Una lunga pena ci attende, più probabilmente. Ma può darsi che il redde rationem arrivi, ma siamo nel regno delle illazioni.

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nazione indiana

Titanic Europa

Helena Janeczek intervista Vladimiro Giacchè

Si chiama Titanic Europa (Aliberti, 14,00€), ma in circa 170 pagine contiene una nave e un iceberg ben più grandi: la crisi economica presa da molto prima del crack di Lehman Brothers, fino alla Grecia e l’Italia, perno del possibile naufragio, too big to fail ma troppo grande per essere salvata. L’ha scritto Vladimiro Giacché, dirigente della finanziaria Sator e, al contempo, marxista dichiarato. Nel saggio prevale lo sguardo dell’insider o la voce del militante? Entrambe, si direbbe, ma forse soprattutto qualcos’altro. Grande capacità di sintesi, chiarezza espositiva, scrittura agile. Si tratta per due terzi di un breviario utile a chiunque voglia integrare il costume di esprimersi come un allenatore con la più recente urgenza di dire qualcosa di sensato su spread e pareggi di bilancio.

Riconoscere le ragioni di una crisi di sistema e discernere le risposte affatto obbligatorie con cui si è reagito a essa, riduce il senso di impotenza di chi ne è investito quasi fosse un evento naturale. La grande bolla esplosa nel 2008 si stava preparando da decenni. Con la fine del boom industriale, la macchina del consumo e del profitto occidentale è stata alimentata togliendo ogni vincolo all’economia del credito e della finanza. Il suo rovescio è l’indebitamento, ma il conto della deflazione viene fatto pagare ai più deboli: negli Usa alle famiglie povere che avevano acceso un mutuo sulla casa, in Europa ai lavoratori costretti a rinunciare alle conquiste sociali. Il salvataggio delle banche, secondo un rapporto della Bank of England del 2009, è invece costato 14.000 miliardi di dollari, debito spaventoso assorbito a gratis dagli Stati che ora arrancano o si trovano nel occhio del ciclone. La cura non solo iniqua ma per giunta sbagliata – vedi i risultati in Grecia – dimostra, secondo Giacché, quanto un’ideologia possa resistere persino alla lezione della realtà.


Lei mostra di trovarsi in buona compagnia. Sempre più economisti riconsiderano Marx e ripetono, con Keynes, che imporre l’austerity in tempi di recessione è un’idiozia suicida. Ormai lo dicono non solo i più liberal, ma un numero crescente di colleghi mainstream. Perché la politica UE è diventata più realista del re nel farsi volonterosa esecutrice di una supposta volontà dei mercati?

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La più Grande Depressione della storia?

Antonio Pagliarone

Noi sappiamo bene che occorrono condizioni assolutamente determinate
perché sia possibile l'abbattimento del capitale. La volontà del
proletariato non basta, giacché se non esistono queste condizioni
determinate tale volontà non può svilupparsi affatto (Paul Mattick
Crisi
Mondiale e Movimento Operaio
, 1933).

Vedrai, vedrai… vedrai che cambierà…forse non sarà
domani ma un bel giorno cambierà (Luigi Tenco 1965)

ecco il nostro modello tedescoGli economisti più disparati e gli osservatori di ogni genere insistono nel definire l’attuale corso economico come una delle tante recessioni che hanno caratterizzato l’ultimo secolo, ma ben pochi hanno il coraggio di descrivere quella che potremmo forse qualificare come la più grande Depressione della storia. Per poter sostenere tale affermazione occorre prendere in considerazione le stime relative alle diverse grandezze economiche utili per fotografare una sistema economico e sociale che non è più in grado di riprodursi, un organismo seriamente malato di fronte al quale non si riescono ad applicare le solite terapie che in passato lo hanno rigenerato. Un malato terminale in via di decomposizione.

Uno dei protagonisti sorti alla ribalta dell’economia moderna è l’indebitamento.

Il debito accumulato negli Stati Uniti nel 2011 ammontava a poco più di 15 trilioni di dollari superando di poco il PIL dello stesso anno mentre nel pieno della crisi finanziaria del 2008 era di 9,6 trilioni Il debito al consumo delle famiglie americane, pur essendo declinato dal 2008, che era pari a 14 trilioni, registra nel 2011 un ammontare di 11,66 trilioni. La Figura 1 riporta l’andamento del debito complessivo rispetto al PIL nel quale si nota che nel 2009 ha raggiunto il 369.7 % mentre il picco del 1933 era del 299,8%

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La crisi vista dal muro della City

di Claudio Gnesutta

Perché la Grande Recessione non ha prodotto il rigetto dell'ideologia e delle pratiche che l'hanno causata? Le riflessioni nell'e-book "The neoliberal crisis", di Stuard Hall, Michael Rustin, John Clarke e Doreen Massey

What is this crisis? è la questione posta dall’ebook The Neoliberal Crisis nel quale Stuard Hall, Michael Rustin, John Clarke e Doreen Massey, collaboratori della rivista Soundings, indagano il ruolo materiale e culturale svolto dalla neoliberal revolution nella trasformazione della società inglese e ricercano le cause dell’attuale crisi e le prospettive politiche che ne possono derivare. Per quanto l’attenzione sia rivolta alla realtà britannica, le loro riflessioni hanno un interesse più generale, tenuto conto dell’importanza che ha avuto il thatcherismo e il suo prolungamento nel blairismo e nell’attuale cameronismo nel pensiero e nell’azione politica dell’ultimo trentennio.

I singoli contributi si presentano come articolazioni di un’elaborazione comune piuttosto compatta che analizza la crisi con riferimento non solo alla dimensione economica, ma anche alle tensioni accumulatesi a livello sociale, politico e culturale. L’analisi è condotta attraverso la conjunctural analysis con l’obiettivo di accertare come l’interazione tra l’instabilità dei diversi fattori possa determinare la specificità del processo di trasformazione di un dato assetto sociale. La convinzione che la dinamica di ciascuna dimensione è, almeno in parte, autonoma da quella delle altre e possa quindi presentarsi con differenti gradi di criticità indica che per l’emergere di una crisi è necessario che si condensino in un sufficiente numero di contraddizioni. Poiché le diverse dimensioni sono molteplici, la crisi può manifestarsi per l’affermarsi di diverse combinazioni di instabilità permettendo alla congiuntural analysis di sostenere che le crisi siano strutturalmente “sovradeterminate” e che i gradi di libertà che esse presentano ammettono una pluralità dei modi (politici) di soluzione.

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"La recessione è globale"

Cinzia Gubbini intervista Joseph Halevi

Mercati a picco, lo spread italiano volta a 400 punti. Che cosa è accaduto? Non eravamo in una botte di ferro dopo le politiche di Monti? Lo chiediamo al'esperto del manifesto, Joseph Halevi. Via Skype

09 La danza Macabra[10/04/12 22:11:33] cinzia gubbini: Ciao Joseph, lo spread oggi vola di nuovo. Quota 400. Ma non era tutto apposto dopo le riforme di Monti? (ce la raccontano così...)

[10/04/12 22:13:34] joseph halevi: Veramente Monti c'entra poco, mentre Draghi c'entra moltissimo. Gli spread sono calati quando Draghi ha deciso di aprire i rubinetti della liquidità, ora anche questa droga si sta esaurendo.

cinziagubbini: Dunque il nostro paese più forte, più credibile, non ha alcun tipo di influenza sull'andamento dei mercati?
 
joseph halevi: Non é più forte, questa é una finzione mandata avanti dai politici e dai loro governanti tecnici. Non ha influenza, punto e basta.

cinziagubbini
:
Quindi lo spread si sta rialzando perché di nuovo c'è crisi di liquidità?

joseph halevi
:
Non penso che sia per questo. E' che le aspettative recessive stanno investendo tutta l'Europa malata e lambiscono la Germania, si cumulano con il fatto che la Cina non tira come dovrebbe sebbene questa era una chimera sin dall'inizio.

cinziagubbini
:
Dunque, una volta tanto, i mercati rispondono a una reale difficoltà economica?

joseph halevi: Da un po' di tempo i mercati hanno ragione, direi da circa un anno. Vi sono due aspetti: andamenti quotidiani in cui i mercati finanziari e le società hedge cercano di lucrare, poi vi sono le loro valutazioni, diciamo strutturali e il quadro é molto più realistico.

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Quale progetto persegue il capitalismo contemporaneo?

di Marco Bertorello e Danilo Corradi

La crisi economica e sociale sembra senza fine. Prima l’esplosione del sistema finanziario nel 2008, poi un breve periodo di ripresa, in seguito un ritorno tendenzialmente recessivo per l’Europa e di modestissima crescita per gli Usa. Persino il principale paese emergente, la Cina, ha registrato un rallentamento della sua pur poderosa crescita a fronte delle difficoltà incontrate nei principali mercati di sbocco. L’economia del pianeta appare sempre più concatenata, il circuito finanziario sempre più avvolgente, e nessuna prospettiva sistemica sembra emergere. È infatti incomprensibile il disegno con cui le classi dirigenti del capitalismo contemporaneo intendono procedere. Dopo l’esplosione negli Stati Uniti l’epicentro della crisi si è spostato verso l’Europa, innescandosi sulla fragilità dell’economia reale che già avvolgeva il vecchio continente. Qui la crisi finanziaria  pare «retroagire sulla dinamica mondiale», come sottolinea Riccardo Bellofiore. Benché con pesi specifici differenti da paese a paese, il lato finanziario e quello strettamente economico in questi anni hanno contribuito ad alimentare una impasse complessiva. La recente dinamica è costituita da un passaggio della crisi dall’economia privata a quella pubblica, in cui i bilanci statali, già messi a dura prova per l’intero ciclo neoliberista, diventano il problema.

Una precisazione si rende necessaria. La natura insostenibile dei debiti pubblici va compresa in una doppia traiettoria, una di ordine globale e l’altra europea. La prima fa sì che i debiti statali stiano diventando un problema per tutti in quanto vanno aggiunti a quelli privati, cresciuti anch’essi considerevolmente in questi anni per sorreggere artificialmente l’economia. La prima retrocessione significativa delle agenzie di rating è subita proprio dagli Usa all’inizio del 2011. A essa fa seguito nella seconda metà dell’anno un braccio di ferro tra democratici e repubblicani per la modifica costituzionale del tetto di spesa (conflitto che rende evidenti le difficoltà su questo versante di quella che rimane la principale potenza mondiale). Ma il problema dell’entità dei debiti pubblici assume un carattere ancor più grave su scala europea, in quanto l’Unione conferma sull’argomento il punto di vista del capitalismo centro-europeo, cioè quello a guida tedesca: sull’onda della crisi greca restringe requisiti e predispone sanzioni già previste da Maastricht, mettendo sempre più sotto osservazione oltre al deficit anche il debito. Da queste decisioni avvenute a marzo del 2011 esplode la successiva crisi del debito in Spagna e anche in Italia.

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Interpretazioni della crisi

Oggi la parola crisi è sulla bocca di tutti. Cercheremo tuttavia di non cadere in un inconsistente immediatismo, ma di cogliere la dinamica del processo di crisi. Il tentativo di questo articolo è di analizzare le dinamiche che ruotano attorno a due possibili interpretazioni della crisi: quella di una stagnazione/parassitismo e quella di una ristrutturazione nella ristrutturazione; e se esiste una relazione tra questi aspetti.

Abbiamo deciso di analizzare comunque soltanto gli approcci che si pongono sul terreno della critica dell’economia politica, in quanto inseriti in una visione dinamica dei processi del capitale, rifiutando l’approccio economico-politico, ossia quello “keynesiano” o “neokeynesiano” e quello liberale “neoclassico”. La “teoria del mercato”, come teoria dell’equilibrio (della mano invisibile) in cui l’offerta determina la domanda e viceversa, al di là dei diversi adeguamenti, rimane il mito teorico egemone. Ambedue (keynesiano e neoclassico), anche se in forme diverse, rimangono legate a una visione in cui la produzione è legata al consumo, con la conseguenza che domanda e offerta finiscono per eguagliarsi nel mercato.

Se la teoria neoclassica dell’utilità marginale si regge su fondamenti psicologici, quella keynesiana non fa che riprendere la vecchia teoria del mercato, con l’unica differenza di considerare inefficace l’azione d’equilibrio che agisce spontaneamente concependo invece un equilibrio stabilito consapevolmente allo scopo di dare soluzione alla crisi.

In questo senso sia la teoria neoclassica che quella keynesiana sono teorie statiche fondate su un immaginario meccanismo di equilibrio. Bisogna ricordare che i limiti di queste ipotesi si manifestarono dentro precisi contesti sociali legati alla crisi: l’abbandono delle teorie neoclassiche con il crollo del 1929 e la messa in discussione delle teorie keynesiane con la crisi, che si è verificata alla metà degli anni Settanta.

Dobbiamo comunque ringraziare una serie di autori e gruppi di cui siamo debitori (tra questi ad esempio ricordiamo per l’Italia la rivista Plusvalore uscita tra gli anni 80-90), che in questi anni – pur nella loro estrema solitudine e osteggiati dalla sinistra ufficiale e alternativa – hanno continuato ad analizzare la dinamica della crisi.

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Riformismo e anticapitalismo nel movimento no-debito

Giulio Palermo

La crisi del debito pubblico in Europa impone dure misure restrittive che si abbattono su una situazione economica già critica. Secondo le istituzioni internazionali e i governi nazionali non c’è altra via d’uscita: pagare il debito è l’unica cosa da fare. La gente protesterà, ma non si può vivere perennemente al di sopra dei propri mezzi.

Lo stato deve ora onorare i suoi debiti, anche a costo di adottare misure impopolari. Niente mostra meglio la distanza che esiste tra stato e popolo della rabbia sociale espressa fuori del Parlamento greco, mentre all’interno gli onorevoli onoravano i loro impegni con la comunità internazionale, approvando i provvedimenti indicati dalla Banca centrale europea, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, in difesa del potere bancario. Senza più alcuna mistificazione, lo stato schiaccia il proprio popolo, come misura necessaria a salvare il capitale internazionale.

In Italia, qualche ministro piange al pensiero che milioni di pensionati non arriveranno più a fine mese, ma non si dimette di certo: perché qualcuno il lavoro sporco dovrà pur farlo. “Misure impopolari, ma necessarie”, questo è il ritornello. Perché, appunto, la necessità è salvare le banche, anche a costo di sacrificare il popolo.

Gli stessi partiti di sinistra con ambizioni di governo faticano a dire qualcosa di sinistra perché la prima preoccupazione, per loro come per ogni partito borghese, non è il popolo che dovrebbero rappresentare, ma la stabilità del sistema, la solvibilità delle banche e la tenuta delle istituzioni finanziarie internazionali. Da questo punto di vista, ben vengano i governi tecnici: così sembra che le misure impopolari le prendano loro, senza che destra e sinistra se ne assumano direttamente la responsabilità politica (anche se, ovviamente, sono comunque parlamentari di destra e di sinistra che approvano le manovre dei governi tecnici).

In questo quadro, la nascita di un movimento che si oppone al pagamento del debito pubblico costituisce una novità politica significativa. Riconsiderare il debito, ed eventualmente ripudiarlo, per molti militanti significa rimettere in discussione i meccanismi che strangolano i debitori per il bene dei creditori, attaccare i principi sacri della proprietà privata, capovolgere l’assioma che antepone i profitti di banche e imprese ai bisogni di uomini e donne.

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utopiarossa2

La gestione politica postdemocratica della crisi economica

Riflessioni su postdemocrazia e statalizzazione dei partiti della sinistra, 1

di Michele Nobile

1. Un esempio del processo decisionale postdemocratico: la garanzia del governo irlandese sulle banche

Tra la sera del 29 e il primo mattino del 30 settembre 2008, giusto a due settimane dalla bancarotta della Lehman Brothers e dall’inizio del terremoto finanziario, il governo irlandese prese la decisione di offrire una garanzia pubblica su tutte le passività di tutte le banche del paese. L’urgenza era determinata dall’imminente tracollo della Anglo Irish Bank, che fu poi nazionalizzata a metà dicembre 2009.

Secondo il giornalista Simon Carswell che ne ha ricostruito la vicenda, quella fu «la più importante decisione politica presa da un governo irlandese» (1), tale da impegnarlo per l’equivalente di circa tre volte il prodotto interno e dieci volte il debito pubblico del momento. Iniziava così il processo di socializzazione dei costi del salvataggio del sistema finanziario privato dell’Irlanda, nonché dei creditori esteri, che ha ipotecato il futuro dell’intero paese, come sancito dall’accordo internazionale stipulato nel 2010. Più precisamente, ad essere ipotecati sono l’occupazione, i salari, le pensioni e i servizi pubblici dei comuni cittadini irlandesi, per molti anni a venire(2).

Nonostante la sua straordinaria importanza la decisione di garantire tutte le passività venne presa da un gruppo ristretto, in tutto una dozzina di persone: il primo ministro, il ministro delle finanze, l’attorney general, il governatore della banca centrale, alcuni alti funzionari; nelle stesse ore questo gruppo ebbe consultazioni con l’agenzia di rating Merrill Lynch e i massimi dirigenti (presidenti e Ceo) della Anglo Irish Bank e della Bank of Ireland. L’approvazione degli altri membri del governo venne ottenuta telefonicamente. Prima delle sei del mattino venivano informati il primo ministro del Lussemburgo, allora presidente del Eurogruppo, e il ministro delle finanze francese Christine Lagarde, a capo dell’Ecofin dell’Unione europea, ora direttore generale del Fmi. La decisione venne resa pubblica alle 6,45 e poi ratificata dal parlamento, con 124 voti a favore e 18 contrari: a favore votarono anche il principale partito d’opposizione, il Fine Gael, e il Sinn Féin, paladino dell’indipendenza irlandese.

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Sulla crisi

di Paul Mattick Jr.

Come descrivere gli eventi che hanno sconvolto l'economia globale negli ultimi tre anni?

La maggior parte dei commentatori economici concordano sul fatto sia stata una crisi finanziaria, a dare origine a una recessione, ma che una azione rapida del governo per salvare le società finanziarie e "stimolare" l'economia abbia scongiurato la minaccia di una vera e propria depressione. Alcuni economisti non si aspettano una ripresa economica prima di un anno o due, mentre quasi tutti sono d'accordo che anche se vi fosse un miglioramento dell'economia sarà una ripresa senza posti di lavoro, secondo l'opinione comune, almeno per il momento, è che il peggio è alle nostre spalle. Ma, con tutte le varianti, l'idea di base è che la causa principale dei problemi del mondo sia stato il crollo del settore finanziario americano, causato da una assunzione di rischi finanziari senza precedenti, stimolati dai fantastici profitti raggiunti da questo settore negli anni 90 e aiutati da una regolamentazione governativa lassista.

Mentre gli economisti “ufficiali”, dopo che per decenni avevano esultato per il sistema di autoregolazione del mercato, hanno avuto ben poco da dire sugli eventi attuali, con l’ eccezione importante di Paul  Krugman nel denunciare la sua professione come un fallimento di analisi, previsione, e spiegazione, i pensatori eterodossi hanno avuto tempi migliori. Ma anche la maggior parte di loro si è concentrata sulla crisi finanziaria come cuore della questione. Così diversi opinionisti come George Cooper, autore in campo finanziario, e l’economista marxista Fred Moseley – che da allora ha cambiato opinione - si sono avvicinati al Nation, di Robert Pollin che ha analizzato, aggiornandola, la caduta di Nixon attraverso Keynes, "Noi siamo tutti Minskyani adesso".

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Marx, la crisi e l’Europa: due libri per capire

di Vladimiro Giacché

La crisi capitalistica, l’Europa, l’euro, la Sinistra. Due saggi di Riccardo Bellofiore pubblicati da Asterios ci aiutano a far luce, da un punto di vista marxista, su alcuni dei nodi principali del dibattito politico attuale. Un utile antidoto al mix micidiale di austerità e liberismo oggi di moda nel vecchio continente.

Tutto quello che avreste voluto sapere sulla concezione marxista della crisi applicata alla crisi odierna e non siete mai riusciti a trovare in un solo libro. Ho immaginato questo sottotitolo per il libretto di Riccardo Bellofiore "La crisi capitalistica, la barbarie che avanza" (Trieste, Asterios, pp. 82, euro 7). Si tratta, molto semplicemente, di un testo indispensabile per chiunque voglia orientarsi tra i modi diversi di impiegare la teoria di Marx per capire la crisi (sto parlando degli utilizzi seri, non delle sciocchezze alla Tremonti).

È lo stesso autore, nelle prime pagine del libro, a offrirci la traccia del suo percorso: 1) una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, 2) tentativo di integrare i diversi spunti marxiani sulla crisi all’interno di una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto, 3) quadro storico delle crisi capitalistiche dalla Grande Depressione di fine Ottocento sino agli anni Sessanta-Settanta, 4) ultimi decenni del Novecento e primo decennio del nuovo secolo.

Si tratta di un itinerario caratterizzato da un estremo rigore terminologico, ma anche da grande chiarezza. Certo, si tratta di pagine che vanno lette (direi assaporate) con attenzione e con calma, ma si è ampiamente ripagati di questo sforzo. Anche perché gli strumenti concettuali che vengono esposti nella prima parte di questo volumetto si aprono poi ad una spiegazione, incalzante e convincente, della parabola economica di questi ultimi decenni: fino alla crisi esplosa nel 2007 e ben lontana dal chiudersi.

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La luna di miele di Monti

di Nicola Casale

La cura “salva Italia” del medico Monti ha somministrato il suo primo ciclo di farmaci. Come era preannunciato l’impatto è stato pesante, e pesantemente a senso unico: tutti coloro che, per vivere, possono contare solo sul proprio lavoro hanno subìto decurtazioni ai redditi, con l’aumento generalizzato delle imposizioni indirette e i tagli al welfare, ed esproprio ulteriore di una vecchiaia di riposo, con il peggioramento delle condizioni per la pensione e dei relativi assegni.

Il secondo ciclo è già delineato nei suoi tratti essenziali: liberalizzazioni, privatizzazioni, e, soprattutto, demolizione dei residui diritti e garanzie dei lavoratori.

Gli obiettivi sono: risanare le finanze pubbliche e rilanciare l’economia. Il quadro complessivo al cui interno si collocano è complicato. Bisogna fare i conti con una crisi generale che non accenna a concludersi e con il fatto che, nel suo ambito, cresce lo scontro su chi debba farsi carico dei costi maggiori. Il conflitto dollaro-euro fa parte di questa partita, nella quale entrano una serie di varianti con altri soggetti, a loro volta, costretti a ri-posizionarsi a causa degli sconvolgimenti che la crisi ha portato con sé.

Il “primo tempo” di Monti ha tolto da salari, stipendi e redditi da lavoro autonomo soldi veri e li ha dirottati al pagamento degli interessi sul debito pubblico. Nella speranza di placare la speculazione e dare certezze a chi presta soldi allo stato e dovrà continuare a prestarne. La speculazione ha apprezzato, e … ha elevato la posta, con i quanto mai tempestivi giudizi delle agenzie di rating. La certezza che la finanza anglo-americana continuerà a sparare bordate per evitare la stabilizzazione della zona-euro rende il compito del “primo tempo” ulteriormente gravoso.

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marx xxi

The Draghi Put

di Pasquale Cicalese

Greenspan Put: così è stata qualificata l’asset inflation statunitense negli ultimi decenni. A partire dal crack borsistico di Wall Street del 1987, l’espansione illimitata di moneta da parte della Federal Reserve garantiva spettacolari aumenti di azioni (in tal modo le pensioni americane, legate ai corsi azionari, venivano corrisposte), obbligazioni e delle materie prime. Essendo il dollaro moneta internazionale, l’inondazione di liquidità monetaria provocava aumenti dell’inflazione mondiale. Del resto la Greenspan Put era in voga già negli anni sessanta, a tal punto che il Generale De Gaulle si batté per ripristinare il gold standard alternativo al gold exchange standard, basato sulla convertibilità del dollaro in oro.

Ad ogni sintomo di recessione americana o di sgonfiamento di bolle azionarie, Greenspan rispondeva con l’abbattimento dei tassi di interesse e dando liquidità illimitata alle investment-banks di Wall Street.

L’inflazione era contenuta principalmente grazie ad una trentennale gelata dei salari reali, mitigata con il keynesismo finanziario analizzato accuratamente da Riccardo Bellofiore, a cui si aggiungeva il keynesismo militare (guerre imperialiste). Insomma, burro e cannoni.

La Greenspan Put ha provocato, oltre che un aumento dell’asset inflation, l’esplosione di bolle speculative succedutesi negli ultimi venti anni: bolla dell’high tech, bolla immobiliare (mutui subprime), bolla obbligazionaria.

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Ma cos'è questa crisi?*

di Dante Lepore

Faccio riferimento ai testi qui di seguito per cercare di sbrogliare una matassa che si fa sempre più intricata.

- (1) Antonio Carlo, Capitalismo 2011: decomposizione in atto, 3 gennaio 2012
- (2) Antonio Pagliarone, Il Capitalismo come corpo marcescente, Milano 3 Gennaio 2012
- (3) Paolo Giussani, La crisi e il saggio di profitto, Domenica, 22 gennaio 2012
- (4) Marco Sacchi, Dalla decadenza alla decomposizione del capitalismo?, marzo 2011.
- (5) Marcos61: Dalla decadenza alla decomposizione del modo di produzione capitalistico (settembre 2011).
- (6) Marco Sacchi, Lotte operaie nella decomposizione del capitalismo, verso la fine del 2011 (?)
- (7) De Bellis-Fragnito, Una risposta a Carlo Sacchi e Pagliarone sulla decomposizione del capitalismo, Connessioni
- (8) Piero Favetta, Alcune note sul documento di Gianni De Bellis e Mario Fragnito.
- (9) Dino Erba, Perché tante chiacchiere? In margine alle tesi di De Bellis-Fragnito.
- (10) De Bellis-Fragnito, Una risposta a Giussani, 3 febbraio 2012
- (11) Michele Castaldo, Capitalismo, crisi, crollo, rivoluzione, 17 Gennaio 2012.

La discussione ha preso il volo nella stratosfera della teoria (o della «chiacchiera da bar», secondo Dino Erba (9)) sostanzialmente con due pagine di A. Pagliarone (2), che attribuiscono al lungo saggio di A. Carlo (1) il «riferimento ad una sorta di cupola o un grande fratello costituita dalle grandi imprese multinazionali associate alla Finanza (non si capisce come sia materializzata) che condizionerebbe in maniera asfissiante i governi dei paesi più industrializzati che ormai nei loro simposi dei G20 non fanno altro che blaterare di intenti, qua e là rispettati, senza peraltro riuscire a risolvere alcunché». Pagliarone afferma che «ciò è vero» ma che…«non ha senso», perché… non spiegherebbe la «causa» di questa crisi.

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marx xxi

L'apocalisse della democrazia*

Dal debito sovrano allo stato d'emergenza

di Domenico Moro**

La nomina del governo Monti e, più in generale, il modo in cui l’Europa sta affrontando la crisi del debito rappresenta un passo avanti nella conclusione del tipo di governo affermatosi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Più correttamente, si potrebbe dire che la crisi del debito solleva il velo sulla natura reale della democrazia borghese, attiva le potenzialità negative insite nel nostro sistema istituzionale, e conduce agli estremi quelle tendenze autoritarie che sono presenti da molto tempo in Italia, nel resto d’Europa e nel cosiddetto Occidente.

 
1. Capitalismo finanziario, di stato e multinazionale

Lo stato non è mai neutrale, è sempre lo stato della classe economicamente dominante. Questo principio è solo un punto di partenza, non potendo prescindere dall’individuazione del modo in cui lo Stato esercita la sua funzione né dalla forma che assume in un certo periodo e in un certo luogo. Forma e modo di funzionamento sono strettamente collegati al tipo di rapporti - di scambio e di forza (a tutti i livelli) tra le classi. Non potremmo, però, capire molto né di questi né dell’evoluzione dello Stato se non capissimo l’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Sebbene ci sia abbondanza di analisi ed interpretazioni della crisi in atto e soprattutto sulla crisi dell’euro, più rare sono le riflessioni sul collegamento tra questa crisi e le modificazioni di lungo periodo attraversate dal capitale. Di conseguenza, spesso le misure proposte – dall’acquisto diretto da parte della Bce di titoli statali europei, alla modifica del ruolo di quest’ultima in prestatore diretto di ultima istanza (sul modello Usa), alla definizione di bilanci e fiscalità veramente comuni fino al ripudio del debito – al di là della validità o meno di questa o quella per tamponare la crisi e stante la giustezza di far pagare il debito ai ricchi e al grande capitale, rimangono legate ad una prospettiva, seppure necessaria, però ancora limitata, difensivista. Soprattutto, sia rispetto all’imperialismo che allo Stato, a me sembra che, in linea di massima, continuiamo a ragionare e a comportarci sul piano politico come se fossimo sostanzialmente in fasi storiche precedenti a quella attuale.

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Breve storia della crisi

di Andrea Baranes

Questo testo è contenuto in appendice al saggio «Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi» (pubblicato da Sbilanciamoci! e da minimum fax, 2012), un libro importante perché smentisce alcune false certezze sulla crisi economica che stiamo attraversano e fornisce delle misure alternative per fronteggiarla. Questa breve storia della crisi curata da Andrea Baranes ne è un assaggio.


forconi sicilia protestaTroppo debito?

Nella prima metà degli anni Novanta il governo Berlusconi annunciava un nuovo miracolo italiano fondato sulla crescita e lo sviluppo, prometteva tagli delle tasse per cittadini e imprese, investimenti pubblici per trasformare il paese. A novembre 2011 il governo si dimette sotto il peso degli interessi da pagare, tra conti pubblici che non quadrano e nubi sempre più minacciose di possibili default. La pressione fiscale aumenta, a partire dall’Iva, assistiamo a tagli generalizzati di tutte le spese pubbliche mentre i soldi per gli investimenti e lo «sviluppo» sono un miraggio sempre più distante. Il nostro paese è uno dei principali problemi dell’Unione Europea.

Cos’è successo allora in questi diciotto anni? Perché nel 1994 l’Italia era sì un paese con un forte debito e diversi problemi, ma, così ci veniva raccontato, con ottime prospettive, mentre ci ritroviamo nel 2011 con l’acqua alla gola e in balia delle tempeste finanziarie? L’argomento che ci viene ripetuto è che l’Italia del 2011 è schiacciata da un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sfiora il 120% e sta strangolando la nostra economia. Bene. Qual era allora la situazione nella prima metà degli anni Novanta? Tra il 1993 e il 1995 il rapporto tra debito e Pil in Italia superava il 120%.

Occorre quindi analizzare meglio le cause politiche, sociali, industriali ed economiche che contribuiscono all’attuale rapido declino del nostro paese.

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politica e classe

La grande crisi dei debiti sovrani (2011-2012)

Giorgio Gattei

1.Tutti i debiti del mondo.

C’era un tempo in cui si teorizzava (sto esagerando, ma non di molto) che con il salario i lavoratori dovevano alimentare i consumi, i capitalisti volgere tutto il profitto a risparmio per l’investimento, le banche essere appena intermediarie tra l’investimento e il risparmio e lo Stato intervenire al minimo (al limite zero) negli affari economici, così che per:

(reddito) Y = W (salari) + Sc (risparmio dei capitalisti)
W = C (consumi)
Sc = I (investimento)
(spesa pubblica) G = 0

Nel Novecento questa rappresentazione ideale è stata sconvolta dall’avvento del credito bancario quale elemento nuovo di finanziamento delle imprese, così che nell’ipotesi estrema che tutto l’investimento venisse assicurato dalle banche, il profitto risparmiato poteva essere intercettato dallo Stato per finanziare la spesa pubblica con un proprio debito sovrano:

I = Fi (finanziamento alle imprese)
Sc = Ds (debito sovrano)
Ds = G > 0

A fronte dei due nuovi “motori” della produzione del reddito: l’indebitamento delle imprese verso le banche e l’indebitamento dello Stato verso i capitalisti, nella seconda metà del secolo è venuta a mutare anche la posizione finanziaria dei lavoratori perchè da un lato gli alti salari della produzione “fordista” hanno permesso di renderli anch’essi risparmiatori facendoli partecipare all’indebitamento dello Stato: