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La crisi greca, ovvero il biopotere dei mercati finanziari

di Andrea Fumagalli

Circa un anno fa, il ministro Tremonti era impegnato in una frenetica attività  per garantire la solidità dei conti pubblici italiani e tranquillizzare i mercati finanziari. Due erano le ragioni che venivano adottate dal commercialista per dichiarare che mai l’Italia avrebbe potuto fare la fine della Grecia e dell’Irlanda: la solidità delle nostro sistema bancario, che solo tangenzialmente era stato toccato dalla crisi finanziaria, e il fatto che i conti pubblici erano sotto totale controllo grazie alle manovre di contenimento promulgate dal governo (?).

Oggi la situazione si presenta alquanto diversa.

Moody’s in questi giorni ha declassato a spazzatura (junk) i titoli di stato portoghesi. Si sta ripetendo la ”farsa” della Grecia. Nell’ultimo anno, come è noto, la Grecia ha adottato obtorto collo, dietro imposizione della troika: FMI, BCE, ECOFIN, misure draconiane di riduzione del deficit pubblico, già a partire dalla seconda metà del 2010: riduzione del 15% degli stipendi pubblici, blocco delle assunzioni, aumento dell’imposizione fiscale, in particolare dell’Iva, programma di privatizzazioni senza precedenti per un valore di circa 50 miliardi di euro.  Il risultato è al momento il seguente: secondo i dati Eurostat, resi noti nell’aprile scorso, a fine 2010, il rapporto deficit pubblico/Pil è aumentato sino al 10,5%, rispetto al valore di 9,4% previsto dal governo greco sulla base della manovra effettuata (contro il 32% dell’Irlanda, il 10,4 del Regno Unito, il 9,2% della Spagna e del Portogallo, il 7% della Francia).

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La crisi "robusta" del capitalismo tossico

di Marco Bertorello e Danilo Corradi*

Economia globale. Cos'è cambiato in due mesi

Lo scorso marzo il presidente della Bce Jean Claude Trichet definiva la ripresa economica globale «relativamente robusta», e sull'onda di commenti come questo si diffondeva il sentore che il peggio era ormai passato. Il ciclo avrebbe ripreso il suo corso, la crescita si affacciava non solo nei paesi emergenti, ma anche negli Usa e persino in Unione Europea. Il tutto senza che ci fosse stato un cambiamento concreto delle politiche che hanno coltivato questa crisi. La regolazione finanziaria invocata da tutti i governi non è mai stata attuata, l'attacco ai salari è continuato come la socializzazione delle perdite del capitale che ha condotto all'esplosione dei debiti pubblici dei paesi Ocse. "Robusta" diventa un termine taumaturgico, piuttosto che analitico, per scongiurare i pericoli di una lunga stagnazione o peggio di un ritorno della recessione, un termine che si aggrappa ad alcuni dati positivi che qua e là emergono, spesso in conseguenza di una sorta di rimbalzo dal precipizio in cui si era caduti nel biennio 2008-2009, ma che per lo più non vengono contestualizzati. I desideri dei vari establishment sulla situazione economica si confondono con la realtà.

Sono passati soltanto due mesi dalle dichiarazioni targate Bce e le coordinate del contesto in cui ci troviamo e delle sue emergenze sembrerebbero cambiate completamente. Eppure nel lasso di tempo intercorso non è intervenuto alcun elemento tale da invertire la rotta, fatta salva la catastrofe ambientale giapponese che, per quanto grave, non può essere addotta come causa di un'inversione di tendenza generale. Evidentemente molteplici fattori concorrono ad acuire un panorama fondamentalmente instabile a causa del fallimento del sistema di accumulazione definitosi negli ultimi 30 anni.

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Titanic Europa. Ormai è a rischio anche la moneta unica*

di Vladimiro Giacché

crisi lavoro 0BCE: un rialzo dei tassi pericoloso

Cominciamo con l’istituzione più importante di tutte: la Banca Centrale Europea. Come è noto, la filosofia economica (meglio: l’ideologia) su cui si fonda l’Unione Europea prevede che la formula magica per la crescita sia rappresentata da mercato + politica monetaria. In altri termini: per ottenere benessere e progresso economico è sufficiente che al libero dispiegarsi delle “forze di mercato” (ossia dei capitali in competizione) si unisca l’apporto delle politiche monetarie, che hanno il compito esclusivo di combattere il rischio di inflazione.

Le scelte compiute in questi mesi dalla Banca Centrale Europea sono coerenti con questi presupposti. E in effetti la BCE il 7 aprile scorso ha portato i tassi d’interesse nell’eurozona dall’1% all’1,25%, e nel mese di giugno ha confermato l’intenzione di inasprire ulteriormente la politica monetaria con un ulteriore rialzo. Non si può dire che questa politica rappresenti una sorpresa. Jean-Claude Trichet, il presidente della BCE, l’aveva annunciata già a marzo, motivandola con i rischi d’inflazione legati all’aumento del prezzo del petrolio. E, tanto per non lasciare dubbi su quale fosse la sua principale preoccupazione, aveva sottolineato che “quando c’è uno shock petrolifero” la responsabilità della BCE è quella di evitare “un effetto-travaso” sui salari, ossia un aumento di questi ultimi.

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L’origine sociale della crisi *

Antonio Lettieri **

Abstract

Vi sono due spiegazioni convenzionali sulla peggiore crisi finanziaria dopo la Grande Depressione dagli anni '30 del secolo scorso. Da un lato, il tracollo dei mutui subprime dall'altro, la mancanza di un’ adeguata regolamentazione finanziaria, ma entrambe queste spiegazioni sono poco convincenti. È necessario esplorare le radici sociali della crisi, a partire dalla imponente crescita dell'indebitamento delle famiglie. A causa della grande diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del reddito, l’enorme indebitamento è diventato negli ultimi decenni una condizione sociale ordinaria e, al tempo stesso, la condizione necessaria per la crescita dell'economia americana.

Tra le origini della grande diseguaglianza bisogna annoverare il verticale declino del potere dei sindacati e l’inadeguatezza delle politiche sociali. In questo quadro il sistema finanziario ha dato luogo a un mondo parallelo, virtuale, sempre più distante dall'economia reale. Il richiamo alle origini sociali della crisi permette di identificare due radici fortemente intrecciate: da un lato, l'impatto della crescente diseguaglianza all'interno della società americana e, dall'altra, l’inconsistenza ideologica dell' “efficienza del mercato”. Una diagnosi non convenzionale è necessaria per contrastare le illusorie politiche del dopo- crisi.


Il tema dell'origine sociale della crisi è in contrasto con la spiegazione convenzionale che la rappresenta come una crisi fondamentalmente finanziaria. Mettere l'accento sulle sue radici sociali non significa offuscare le sue componenti finanziarie. Non per caso il suo culmine è fatto coincidere col collasso nell'autunno del 2008 della Lehman Brothers, una delle maggiori e più antiche banche d'investimento americane, quando apparve chiaro che altre grandi banche e compagnie di assicurazione sarebbero andate incontro al fallimento senza un massiccio intervento del governo.

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L'eurozona si avvia al crollo*

di Nouriel Roubini**

L' approccio confusionario alla crisi dell'eurozona non è riuscito a risolvere i problemi fondamentali sulla divergenza economica e di competitività nell'Unione. Andando avanti così l'euro si muoverà attraverso disordinati tentaivi di soluzione, e alla fine arriverà a una spaccatura dell'unione monetaria stessa, con alcuni dei membri più deboli buttati fuori.

L'Unione Economica e Monetaria non ha mai pienamente soddisfatto le condizioni di un'area valutaria ottimale. I suoi dirigenti speravano che la loro mancanza di politica monetaria, fiscale e di di cambio, avrebbe provocato un'accelerazione delle riforme strutturali che, si sperava, avrebbero visto convergere la produttività e i tassi di crescita.

La realtà si è rivelata ben diversa. Paradossalmente, l'effetto alone della precoce convergenza dei tassi di interesse ha permesso una maggiore divergenza delle politiche di bilancio. Una spericolata mancanza di disciplina in paesi come la Grecia e il Portogallo è stata solo dalla formazione di bolle speculative in altri, come Spagna e Irlanda. Le riforme strutturali sono state ritardate, mentre la crescita delle retribuzioni divergeva rispetto alla crescita della produttività. Il risultato è stato una perdita di competitività nella periferia.

Tutte le unioni monetarie di successo sono state infine associate ad una unione politica e fiscale.

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Atene, l'euro e il consenso di Berlino

Vincenzo Comito

Le agenzie di rating imperversano. Hanno di nuovo bocciato la Grecia, spingendola alla ristrutturazione del debito. Dopo, però, chi comprerà le merci tedesche? 

Le vicende caotiche e affannose degli ultimi mesi relative alle difficoltà finanziarie di alcuni paesi europei, dalla Grecia all’Irlanda, dal Portogallo alla Spagna, con sullo sfondo le minacce di destabilizzazione dell’euro, ci spingono a cercare di mettere, per quanto possibile, alcuni punti fermi sulle questioni in gioco, cosa peraltro abbastanza difficile. Nel testo faremo riferimento in particolare, tra l’altro, a quanto è sinora emerso in proposito sulla grande stampa internazionale, nonché a un pamphlet pubblicato di recente con la firma di un certo numero di economisti francesi, testo che peraltro metteremo presto a disposizione dei lettori del sito. Riprenderemo, inoltre, alcuni concetti già espressi in un articolo scritto per questo stesso sito circa un anno fa, in data 12 maggio 2010 e che ci sembra che restino ancora validi.


Analizziamo quindi brevemente i punti che ci sembrano rilevanti.

1) Come risposta alle grandi difficoltà in atto, la strategia portata avanti nell’eurozona tende a spingere tutti i paesi a tagliare pesantemente i deficit pubblici, mentre peraltro la crisi di alcuni paesi non è, o è dovuta solo in parte, a deficit di bilancio elevati. In certi casi, ad esempio per quanto riguarda la Spagna e l’Irlanda, e anche in parte il Portogallo, il problema è quello invece della crisi delle banche e del settore immobiliare. Così, si sta combattendo, almeno in parte, una battaglia sbagliata, come hanno sottolineato da tempo diversi commentatori;

2) per altro verso, le autorità di Bruxelles stanno trattando il caso greco come se esso si riducesse a una crisi di liquidità, di mancanza cioè solo temporanea di risorse finanziarie. Nella sostanza, invece, si tratta di una crisi di solvibilità, nonostante il diverso parere di qualche isolato esperto finanziario, come il nostro Bini Smaghi; in altri termini, il paese non possiede apparentemente attività sufficienti per ripagare tutti i debiti o, almeno, si trova in una situazione in cui sarebbe difficilissimo alienare in un tempo relativamente breve, come sarebbe necessario, tutte le attività.

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Alcune ipotesi contro-fattuali sulla presente crisi[1]

Luigi Pasinetti

Investimenti, profitti, crescita e distribuzione dei redditi

In un ormai famoso articolo nella «Review of Economic Studies» del 1956, Nicholas Kaldor aveva presentato una rassegna delle teorie della distribuzione del reddito.

Cominciava dai classici (Adam Smith e soprattutto David Ricardo), per poi proseguire con Marx, e quindi arrivare ai marginalisti neoclassici (con una lunga sintesi che includeva Walras/Wicksell/Mar-shall/Wicksteed). Ci si sarebbe aspettato che terminasse qui. Ma Kaldor aggiunse a questo punto anche una teoria kaleckiana basata sul grado di monopolio e soprattutto, a se stante e con inaspettata evidenza, una teoria «keynesiana» della distribuzione del reddito. Ciò destò sorpresa, perché nella Teoria Generale di Keynes (1936) non si trova alcuna esplicita formulazione di una teoria della distribuzione del reddito. In effetti, Kaldor aveva concepito una teoria di stampo keynesiano sì, ma nuova ed originale, che combinava e legava il concetto classico della «domanda effettiva», dovuta per la verità a Malthus più che a Ricardo, con le esigenze delle condizioni per il conseguimento della piena occupazione, cioè coi temi di cui si era essenzialmente occupato Keynes.

Il ragionamento di Kaldor era molto semplice, ma ricolmo di radicali conseguenze. Metteva in relazione la distribuzione del reddito tra profitti e salari con le esigenze della effettuazione di quegli investimenti che – incorporando il progresso tecnico e la disponibilità dell’aumento della popolazione lavoratrice – sono necessari per mantenere la piena occupazione in un processo di crescita economica: con questo, introduceva la distribuzione del reddito all’interno di un contesto teorico «keynesiano».

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Molto rigore per nulla

Vivere al di sotto delle proprie possibilità

Angelo Locatelli

“Primo saignare, deinde purgare, postea clysterium donare”. Così rispondeva sistematicamente l'austero Argante molièriano alla commissione esaminante.

Il paziente non dà a vedere alcun segnale di miglioramento? “Resaignare, repurgare, reclysterare!”.

La parola d'ordine che da qualche tempo a questa parte ha investito le economie dei Paesi avanzati, sia di qua che di là dall'Atlantico, come noto, è: “Austerità!”.

Un insieme di misure improntate a tutt'altro che immaginari sacrifici, anche parecchio invasivi, a cui i governanti di (quasi) tutti i Paesi stanno assoggettando tutti (o quasi) i connazionali (in particolare quelli appartenenti alle fasce meno abbienti). Il tutto finalizzato al ripristino di una maggior sostenibilità dei debiti pubblici e della correlata preservazione di un minimo grado di solvibilità dei sistemi finanziari.

Trattasi indubitabilmente di una sorta di indirizzo terapeutico che nell'immediato presenta evidenti spiacevoli inconvenienti collaterali di difficile accettazione (prova ne siano i tentativi di rigetto che si sono avuti dapprima in Grecia e quindi in Portogallo; o anche la indisponibilità dei contribuenti islandesi ad assumersi gli impegni risarcitori derivanti dal dissesto del loro sistema bancario).

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E' l'Italia, non la Spagna, il vero elefante nel salotto dell'economia europea?

di Edward Hugh

Michelangelo Buonarroti The Last Judgment Cappella SistinaSfogliando gli ultimi dati sul PIL dell'UE, una cosa è sempre più evidente: quando si parla di future decisioni di politica monetaria della BCE, ed esattamente a quanti altri aumenti dei tassi di interesse andremo incontro, allora le prestazioni dell' economia italiana si rivelano critiche. Il modello di crescita è ormai abbastanza chiaro: la Germania e la Francia crescono a un ritmo vivace, mentre le cosiddette economie"periferiche" (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) o ristagnano, o strizzano l'occhio alla recessione. Esse sono sottoposte all'azione combinata della loro mancanza di competitività internazionale, del loro sovraindebitamento e degli effetti di contrazione dei loro programmi di austerità. 

In questo senso, data la sua dimensione, l'Italia è in una posizione chiave per far pendere l'equilibrio tra centro e periferia in un modo o l'altro. E il fatto che la crescita dell'economia italiana sembra ancora una volta essere in blocco totale, non è una buona notizia in questo senso, con il tasso trimestrale di crescita in caduta, dallo 0,6% nel 2° trimestre 2010, allo 0,5% nel 3°, allo 0,1% nel 4° ° trimestre e ancora allo 0,1% nel 1° trimestre 2011.

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il grande bluff

USA: Ragionano come delle Lavatrici a 6 programmi...

Stefano Bassi

Negli USA il dibattito sulle origini della Grande Crisi ha raggiunto nuove e profonde svolte...
Gli economisti più in auge, Nobel-Krugman in testa (del quale ho sempre condiviso le diagnosi e MAI le terapie proposte...), sono arrivati alla conclusione che la Grande Crisi non sarebbe stato un problema al livello delle BANCHE quanto piuttosto al livello del DEBITO delle FAMIGLIE...
Ullalà!....

    ....So what’s holding back the recovery? Housing and household debt.
    And so the priority in financial policies should be helping to clear up the housing mess and helping arrange debt relief.
    This is not the time to worry a lot about the banks — and especially not to worry about what bankers say.

Ed alcuni trai più lucidi blogger-economy hanno subito cantilenato: "io l'avevo dettoooo...io l'avevo detto subito che era un problema di debito delle famiglie....Perchè questi premi nobel ci hanno messo 2 anni, FED inclusa?"
 
 
    ...2 years after the fact, prominent economists are finally pointing out that we have a household debt problem and not a banking problem...
    Meanwhile, the household sector remains the root cause of the current malaise and deeply troubled.
    Why was it so hard to see that the mortgage crisis did not start with the banks?


Io invece mi chiedo: ma come cazzo ragionano 'sti esperti economici americani?

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Crisi europea del debito. Paga l’Italia

Sergio Cesaratto, Lanfranco Turci

crisi debito europeaA tutti è chiaro che Grecia, Irlanda e forse il Portogallo (i PIG) dovranno fare default sul loro debito estero. La questione aperta non è se, ma quando, come e, soprattutto, chi paga. Com’è anche a tutti noto, il debito estero greco consiste sin dall’origine soprattutto di debito pubblico; quello irlandese è di origine privata, dovuto ai crediti esteri che hanno finanziato un boom edilizio, ma è divenuto pubblico dopo che lo stato ha garantito i debiti esteri contratti dalle banche locali; quello lusitano è una via di mezzo.

La scommessa apparentemente fatta sinora dai paesi europei che contano è che le rigide misure fiscali imposte a quei paesi in cambio del sostegno finanziario generino un surplus del bilancio pubblico, mentre al contempo la deflazione salariale determini una ripresa delle esportazioni che, con la caduta delle importazioni in seguito alla caduta dei livelli di attività interni, generi un parallelo avanzo commerciale e con esso la capacità di redimere il debito estero.

La ripresa delle esportazioni modererebbe la caduta dei livelli di attività e, conseguentemente, delle entrate fiscali. La scommessa è chiaramente persa poiché attuazione ed effetti di una selvaggia deflazione salariale sulla competitività, in particolare di Grecia e Portogallo, sono incerti e differiti nel tempo. Così i livelli del debito pubblico rispetto al Pil in questi paesi sono destinati nei prossimi anni a crescere inesorabilmente (di circa un terzo in pochi anni). Ciò in seguito alla caduta del loro Pil e delle relative entrate fiscali, dovuta alle selvagge misure di rigore loro imposte, alla abnorme spesa per interessi (inclusi quelli usurai pagati sui prestiti europei), alla “necessità” che il settore pubblico assorba parte dei debiti del sistema bancario.

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Capitalismo 2010: un morto che cammina

Antonio Carlo

1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica; 2) Gli USA. Un’economia sulla sedia a rotelle che produce disoccupati e debiti; 3) L’Europa in panne. L’agonia di UE ed euro; 4) L’Italia: galleggiare in attesa di S. Gennaro; 5) La Cina. Il miracolo straccione appassisce; 6) Crisi dell’economia reale e follia dell’economia politica; 7) Crisi strutturale ed esplosioni sociali

 

1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica.

Nei libri di economia si legge che “ripresa c’è quando risale il PIL” e siccome il PIL è cresciuto nel 2010 del 4,8% dovremmo essere in piena ripresa, anche se si sprecano gli aggettivi per dequalificare la ripresa stessa, che sarebbe incerta, fragile, inadeguata, etc. etc.

In realtà la ripresa sembra essere una cosa da paesi sottosviluppati come si evince dalla tabella che segue1.

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Pubblichiamo contestualmente un commento di Guido Montani all’articolo “E noi faremo come Schroeder”
di Sergio Cesaratto ed una replica di quest’ultimo.

La Germania, l’Italia e l’Europa

Guido Montani*

L’articolo di Sergio Cesaratto “E noi faremo come Schroeder” solleva importanti problemi per tutte le forze progressiste, non solo in Italia. Cesaratto sostiene che la crisi italiana è grave, che va collocata nella più generale crisi europea e che esistono tre exit strategies alternative: a) rompere l’euro; b) fare come la Germania; c) costruire l’Europa.


Della prima strategia Cesaratto non parla. Suppongo che la ritenga errata e, in questo caso, sono d’accordo con lui. Per quanto riguarda la seconda e la terza alternativa, non penso che debbano essere messe in contrapposizione, perché in un’Europa unita deve scomparire la distinzione tra paesi forti e deboli. Oggi, non è così. Se volessimo ricostruire le misure adottate dal Consiglio europeo in risposta alla crisi finanziaria che, nel 2008, si è estesa all’Europa potremmo dimostrare che le maggiori decisioni sono state prese in un prima fase dal direttorio franco-tedesco e, negli ultimi tempi, praticamente solo dalla Germania.

Ora sembra che la Sig.ra Merkel, in cambio dell’aiuto tedesco all’EFSF, chieda che i paesi dell’UE includano il vincolo del bilancio in pareggio nelle loro costituzioni e che anche l’età pensionabile debba essere portata ovunque a 67 anni, come in Germania. La giustificazione è che i cittadini tedeschi non vogliono pagare per i paesi più spendaccioni, come la Grecia. Di fatto, il governo tedesco sta diventando il governo dell’UE. Se in futuro si procederà in questa direzione si costruirà un’Europa tedesca. Ma questa non è una buona soluzione per i cittadini europei.

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fatto quotidiano

Perché tocca a Obama gestire il declino degli Usa

di Vladimiro Giacché

Sul ruolo della finanza nella genesi della crisi attuale si sono versati fiumi d’inchiostro. Purtroppo, però, ai molti facili anatemi nei confronti di banchieri e “speculatori” si sono accompagnate poche analisi serie del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia. Che non data da pochi anni, ma abbraccia gli ultimi decenni: una ricerca della McKinsey di qualche anno fa vedeva il rapporto tra il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale e il prodotto interno lordo mondiale in crescita dal 100% del 1980 al 356% di fine 2007. Non si è insomma trattato di un fenomeno contingente, ma strutturale - e che quindi richiede di essere spiegato in quanto tale. C’è poi un secondo aspetto che merita attenzione: l’espansione dell’attività finanziaria non è affatto un fenomeno storicamente nuovo.

Proprio “la scoperta della finanziarizzazione come modello ricorrente nel capitalismo storico” rappresenta uno dei principali fili conduttori della ricerca di Giovanni Arrighi. Poco noto nel nostro paese e scomparso nel 2009, Arrighi è stato tra i maggiori studiosi delle dinamiche dell’economia internazionale. Una raccolta di suoi scritti appena pubblicata, Capitalismo e (dis)ordine mondiale (Roma, manifestolibri, pp. 232), rende facilmente accessibili al lettore italiano, anche grazie all’eccellente introduzione di Giorgio Cesarale, le linee fondamentali della sua ricerca.

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Irlanda ed Eurolandia, a saltare è il mercato

Domenico Moro*

La difficile situazione dell’euro, con l’estensione della crisi del debito sovrano all’Irlanda e potenzialmente a Portogallo e Spagna, è il prodotto di varie contraddizioni, che si approfondiscono, intrecciandosi tra loro. In primo luogo, il debito sovrano è figlio del modo in cui si è tentato dei risolvere la crisi del 2001, con il sostegno artificiale alla domanda. Il costo del denaro è stato ridotto quasi a zero, inondando di liquidità i mercati finanziari[1] e spingendo le banche a concedere mutui immobiliari con grande disinvoltura. I prezzi delle case sono lievitati, creando una bolla e permettendo alle famiglie, grazie ai rifinanziamenti dei mutui, di acquistare a credito e sostenere la crescita dell’economia in primo luogo degli Usa e poi di Regno Unito, Spagna, Portogallo e Irlanda, e indirettamente dei grandi paesi esportatori[2]. Quando la bolla immobiliare è scoppiata e i prezzi delle case sono crollati al di sotto dei mutui, le famiglie sono diventate insolventi e le banche hanno accumulato perdite enormi. Per scongiurare una catena di fallimenti bancari sono intervenuti gli Stati, i cui debiti sono cresciuti repentinamente. In Irlanda, il debito pubblico netto, che nel 2007 era il 12% del Pil, è schizzato in alto quando lo Stato è intervenuto a garantire obbligazioni bancarie pari al 30% del Pil[3]. Dunque, a saltare in Irlanda, come altrove, non è stato il pubblico, ma il privato, cioè il tanto decantato mercato.

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L'Euro: da alternativa al dollaro a businnes della povertà

di Comidad

Il ministro dell'Economia Tremonti ha rilanciato i facili entusiasmi dei suoi supporter della "destra antagonista" ripresentando alla Germania la proposta degli "Eurobond", cioè di titoli emessi allo scopo di sostenere l'euro attraverso un impegno dell'Unione Europea nel suo complesso. La proposta si è qualificata da sé come un nonsenso, dato che è apparsa come andare da uno che ti abbia appena rifiutato di garantirti una cambiale per chiedergli di garantirti addirittura un mutuo.

Il governo tedesco ha avuto infatti facile gioco ad obiettare che il peso della responsabilità di garantire l'affidabilità di questi titoli europei ricadrebbe sui Paesi ad economia forte, come appunto la Germania; Paesi che adesso rivendicano nei media il rango di "virtuosi", dato che la potenza si ammanta di virtù, mentre i Paesi ad economia debole, in base a questo lessico moralistico, vengono etichettati con l'acronimo sprezzante di "P.I.G.S.", poiché la debolezza va considerata come una colpa.

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Il mercato alla base della crisi irlandese

di Domenico Moro

La difficile situazione dell’eurozona, con l’estensione della crisi del debito sovrano all’Irlanda e potenzialmente a Portogallo e Spagna, è il prodotto di quattro tipi di contraddizioni, che si approfondiscono e si intrecciano tra loro.

La prima è interna ai rapporti di mercato. Il debito sovrano è figlio del modo in cui si è tentato dei risolvere la crisi del 2001, attraverso il sostegno artificiale alla domanda. Il costo del denaro, a partire dagli Usa, è stato ridotto quasi a zero, inondando di liquidità i mercati finanziari [1] e spingendo le banche a concedere mutui immobiliari con grande facilità. Il mercato e i prezzi delle case sono lievitati, creando una bolla e permettendo alle famiglie, grazie ai rifinanziamenti dei mutui, di acquistare a credito. In questo modo, si è sostenuta artificialmente la crescita dell’economia di Usa, Spagna, Portogallo e Irlanda, e indirettamente dei grandi paesi esportatori. Con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha fatto crollare i prezzi delle case al di sotto dell’indebitamento, le famiglie sono diventate insolventi e, di conseguenza, le banche hanno accusato perdite enormi. Per scongiurare una possibile catena di fallimenti bancari è intervenuto lo Stato, il cui debito è cresciuto repentinamente.

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Gli scenari del teatrino europeo

Sergio Cesaratto

Il 16-17 dicembre si riunisce in Belgio il Consiglio dei leader europei. Quali sono gli scenari che l’Europa ha di fronte?


Alla irrisolta crisi di solvibilità della Grecia si è in questo autunno aggiunta quella dell’Irlanda e a ruota il contagio, che si manifesta con un aumento dei tassi di interesse sui titoli pubblici, è arrivato anche all’Italia via Portogallo e Spagna e ora persino alla Germania. Quali sono le prospettive? Abbiamo di fronte tre scenari: 1) tamponare con un po’ di liquidità la situazione dei paesi periferici chiedendo loro di “aggiustare i propri conti” con “sacrifici” interni;. 2) anticipare la rottura e gestirla evitandone gli aspetti più dolorosi, per quello che si può; 3) attaccare i problemi alla radice nella direzione di costruire una unione politica ed economica funzionante.

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Chi ha ucciso l’euro?

Matías Vernengo*

Prima della Grande Recessione era diffusa l’opinione che il ruolo di riserva internazionale del dollaro fosse a rischio, e che una crisi avrebbe potuto generare una fuga dal dollaro. Invece, inaspettatamente, la vittima della crisi è stato l’euro. Se per caso era rimasto qualche dubbio circa la morte dell’euro dopo la crisi greca, questo è stato eliminato dalla successiva crisi irlandese.


Chi l’ha ucciso? Non c’è bisogno della polizia scientifica per cercare le prove, il colpevole ha lasciato tracce ovunque… no, non è stato il maggiordomo, ma la Banca Centrale Europea.

Negli Stati Uniti la crisi ha fatto sì che la Federal Reserve si impegnasse a mantenere bassi i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico a lungo termine, utilizzando la controversa politica di espansione della quantità di moneta. Continuando a comprare grandi quantità di titoli pubblici, la Fed non solo mantiene bassi i tassi di interesse, ma fornisce la garanzia che questi titoli sono assolutamente sicuri.

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moneta e credito

Le origini culturali della crisi

Alessandro Roncaglia*

Negli ultimi mesi abbiamo sentito ripetere infinite volte che gli economisti non hanno previsto la crisi finanziaria ed economica che ci ha travolto. Perfino la regina d’Inghilterra se ne è lamentata. Di fronte a queste critiche, la nostra professione deve porsi con urgenza almeno tre domande. Primo, a nostra parziale discolpa: cosa significa, nel nostro caso, prevedere un evento? Secondo, a parziale critica della superficialità dei mezzi di informazione: è vero che gli economisti non hanno previsto la crisi? Terzo, e più importante: se, come vedremo, alcuni l’hanno prevista e altri no, da cosa è dipesa la relativa preveggenza degli uni e la relativa cecità degli altri?

La terza domanda ci porterà a una questione fondamentale, che merita certo una trattazione più approfondita di quella possibile in un breve intervento come il mio: la responsabilità di un orientamento culturale tuttora prevalente tra gli economisti – che può essere indicato, sempre in modo necessariamente vago, mainstream, o Washington consensus, o fondamentalismo liberista – nel favorire il formarsi della situazione di cui la crisi sarebbe divenuta uno sbocco inevitabile.

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Dentro la crisi

Emilio Quadrelli

L'irrompere di quella che, a rigore di logica, sembra essere la più grave crisi strutturale del capitalismo, di ben lunga più acuta e catastrofica di quella del 1929 le cui ricadute, com'è noto, hanno finito con l'innescare il secondo conflitto mondiale, ha reso nuovamente attuale Marx e la sua analisi del capitalismo. Per anni Das Kapital era caduto nel dimenticatoio della storia mentre il marxismo, e ancor più il richiamarsi a questo, era diventato oggetto di derisioni che finivano con l'accomunare il ceto politico e intellettuale schierato apertamente e senza remore con l'imperialismo e l'intellighenzia cosiddetta critica. Per entrambi il richiamo a Marx e al marxismo non mostrava altro che la palese esemplificazione dell’incapacità a comprendere a fondo le "novità" che il mondo postmoderno, postmateriale, postclassi e così via poneva sotto gli occhi di tutti[1].

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La prossima crisi: ecco come il businnes sfrenato ci ucciderà

Nafeez Mosaddeq Ahmed

Il 2008 è stato l’anno della convergenza delle crisi. Gli aumenti del prezzo del petrolio così come degli alimenti principali, entrambi prodotti dalla combinazione di problemi nella produzione e nel rifornimento, dalla domanda salita alle stelle con il conseguente incremento del commercio di merci nel mercato dei futures. Allora le banche hanno collassato, i governi le hanno salvate con interventi mirati a puntellare un sistema finanziario che crollava.

Come ho già sostenuto in un precedente articolo (trad italiana) su Ceasefire, questa convergenza di crisi energetica, alimentare ed economica non è stata un incidente, ma il risultato inevitabile del modello di business sfrenato adottato da un sistema politico-economico mondiale che ora ha raggiunto i propri limiti interni, oltre ad aver superato quelli dell’ambiente.

Nonostante le rassicurazioni ufficiali secondo le quali il peggio è passato e le economie si stanno riprendendo e sono tornate a crescere, la tendenza attuale ci indica che il peggio deve ancora venire, e che i politici non hanno idea di quali siano le cause strutturali della convergenza di queste crisi.

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Con amici come questi… Lo smembramento dell 'economia irlandese

Michael Burke

La discussione mainstream in Gran Bretagna sulla crisi economica e finanziaria che ha travolto l'Irlanda è dominata dalla questione se i contribuenti britannici dovrebbero partecipare a un salvataggio degli 'irlandesi'. Il Cancelliere George Osborne afferma che 8 miliardi di sterline saranno resi disponibili come parte del pacchetto di salvataggio in quanto 'aiutare un amico in difficoltà' è l'interesse nazionale della Gran Bretagna mentre l’estrema destra del partito Tory obietta che vengono fatti tagli in Gran Bretagna mentre ' il paese paga 'per aiutare un membro della zona euro.

L'incapacità dell’ establishment britannico di discutere su cosa fare per l'Irlanda senza tirare fuori una serie di pregiudizi è ben noto – e ci sorprende ancor di più l'incapacità di distinguere tra un finanziamento fruttifero e un bel regalo. In realtà al prestito di 8 miliardi di sterline sarà sicuramente applicato dalla Gran Bretagna il tasso di interesse più elevato (5% o più) mentre essa stessa sta pagando il 3% o meno, rendendo di conseguenza il “regalo” un ritorno vantaggioso.

Ma lo Scacchiere britannico non è entrato nel business finanziario e nemmeno un centesimo degli 8 miliardi di sterline saranno utilizzati per mantenere l’occupazione di un lavoratore irlandese, o per evitare che una scuola o un ospedale vengano chiusi.

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Emergenza permanente

Slavoj Žižek

Durante le proteste scoppiate quest’anno contro le misure di austerità nella zona euro (in Grecia e, in misura minore, in Irlanda, Italia e Spagna), abbiamo visto imporsi due versioni. Quella dell’establishment propone una visione “naturale” e depoliticizzata della crisi.

Le misure di regolamentazione sono presentate non come decisioni fondate su scelte politiche, ma come imperativi dettati da una logica finanziaria neutra: se vogliamo stabilizzare le nostre economie, dobbiamo ingoiare il boccone amaro.

L’altra versione – quella dei lavoratori, degli studenti e dei pensionati – presenta le misure di austerità come l’ennesimo tentativo da parte del capitale finanziario internazionale di smantellare ciò che resta dello stato sociale. Per i primi, il Fondo monetario internazionale è un custode neutrale della disciplina e dell’ordine; per gli altri, è l’oppressivo agente del capitale globale.

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fatto quotidiano

Perché la Germania salva l’Irlanda

di Vladimiro Giacchè

1. Salvataggio, ma di chi? Siamo al secondo salvataggio in Europa. Al secondo salvataggio delle banche tedesche. Come già nel caso della Grecia, chi sicuramente guadagna dalla soluzione della crisi irlandese, infatti, sono i creditori. Che vedono scongiurato il rischio di non riavere indietro i soldi incautamente prestati alle banche e allo Stato irlandese. E anche adesso, come nel caso della Grecia, tra i primi creditori ci sono le banche tedesche: allora in compagnia delle banche francesi, adesso assieme alle banche inglesi. Tra parentesi, è questo il motivo per cui in questo caso anche la Gran Bretagna si è detta disponibile a partecipare al salvataggio. Considerando che l’esposizione del Regno Unito sull’Irlanda è di 188 miliardi di euro (quello tedesco “appena” di 184), il meno che si possa dire è che si tratta di un aiuto interessato.

2. I cittadini pagano la crisi delle banche.
Nel caso del paziente irlandese, quello che è avvenuto è chiarissimo: 1) lo Stato ha salvato le due maggiori banche del Paese, travolte dalla crisi immobiliare, con iniezioni di capitale per decine di miliardi di euro; 2) questo ha fatto esplodere il deficit pubblico, che è schizzato al 32% su base annua (il limite di Maastricht è al 3%), imprimendo una tremenda accelerazione al debito pubblico;