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Capitalismo 2010: un morto che cammina

Antonio Carlo

1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica; 2) Gli USA. Un’economia sulla sedia a rotelle che produce disoccupati e debiti; 3) L’Europa in panne. L’agonia di UE ed euro; 4) L’Italia: galleggiare in attesa di S. Gennaro; 5) La Cina. Il miracolo straccione appassisce; 6) Crisi dell’economia reale e follia dell’economia politica; 7) Crisi strutturale ed esplosioni sociali

 

1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica.

Nei libri di economia si legge che “ripresa c’è quando risale il PIL” e siccome il PIL è cresciuto nel 2010 del 4,8% dovremmo essere in piena ripresa, anche se si sprecano gli aggettivi per dequalificare la ripresa stessa, che sarebbe incerta, fragile, inadeguata, etc. etc.

In realtà la ripresa sembra essere una cosa da paesi sottosviluppati come si evince dalla tabella che segue1.

 

Tabella n. 1  
 

Paesi

Anno 2009

2010

2011

2012

2013

Brasile

- 0,1%

7,5%

4,1%

4,1%

4%

Cina

9%

10,4%

9,5%

9,4%

9,4%

Francia

- 2,5%

1,5%

1,6%

1,8%

1,9%

Germania

- 4,7%

3,6%

2%

2%

1,8%

Italia

- 5%

1%

1%

1,4%

1,3%

Giappone

- 5,2%

2,8%

1,5%

2%

1,8%

UK

- 4,8%

1,7%

2%

2,2%

2,4%

USA

- 2,6%

2,9%

2,3%

3%

2,9%

 

Ripresa a due velocità come si è osservato: gli USA recuperano lo scivolone del 2009 non così gl’altri paesi avanzati, mentre anche il colosso cinese è in netto rallentamento, il suo sviluppo ormai è ad una cifra, la media ipotizzata per il quinquennio 2009/2010 è vicina alla media del trentennio 1980/2013 (9,42%) lontanissima dai picchi del periodo (14,2%) o anche dalla media 2003/2008 (10,9%). Inoltre se si considerano settori chiave come la casa e l’auto è sin troppo evidente che i picchi del passato saranno raggiungibili solo in un futuro biblico2.

Ancora paesi come Spagna e Grecia sono in recessione a fine 2010 e per il Portogallo si prevede una ricaduta nel 2011, anche l’Inghilterra nell’ultimo trimestre del 2010 ricade in terreno negativo (- 0,5%).

La parte più avanzata del capitalismo (UE, Nord America, Giappone) annaspa penosamente ed il capitalismo straccione e “dinamico” (Cina e in particolar modo) rallenta in modo chiaro (lo stesso può dirsi per il Brasile). Ci avevano insegnato all’Università che le riprese sono impetuose, al picco negativo corrisponde un picco positivo decisamente forte, ed è questa forza che qui non si vede, anche sulla base dei dati grezzi sulla crescita del PIL, dati che molti contestano come elementi di per sé solo esplicativi del binomio recessione-ripresa.

A) I limiti del criterio del PIL.

In passato il premio Nobel Sen ha evidenziato come un criterio fondato sul solo PIL sia inadeguato; io stesso ho sostenuto che è molto più importante, anzi decisivo, un criterio fondato su tasso reale di disoccupazione (diverso da quello statistico assai sottostimato), ciò perché un’economia con bassa occupazione (un disoccupato ogni sette lavoratori almeno) è un’economia con un basso monte salari, una crescita dei consumi inadeguata che si riflette su una bassa dinamica della produzione, la quale a sua volta incentiva ulteriori risparmi dei costi (innanzitutto di lavoro) e quindi determina altra disoccupazione, in un circolo vizioso che si autoalimenta3.

In un mondo in cui i consumi delle famiglie erano, nel 2008, il 61% del PIL mondiale, per produrre devi vendere e se l’occupazione e i salari sono depressi non vendi, o vendi poco, o vendi a credito, fenomeno che nel capitalismo è esploso negli ultimi decenni quando il debito del consumatore ha raggiunto livelli eccezionali (100% nell’eurozona, 130% in USA e Giappone, 140% in Canada, 180% in Gran Bretagna, etc.)4, che ti espongono alla lunga a rischio di bancarotta.

Ma ci sono altre critiche da fare al mero criterio del PIL: quando una casa è ridotta entra a far parte del PIL anche se rimane invenduta, quando un impianto è costruito entra a far parte del PIL anche se viene sottoutilizzato: ad esempio nel 1923 gli impianti industriali USA erano utilizzati al 94% (cifra elevatissima) che diventa l’88% nel triennio 1924/26 e cala all’82,7% nel triennio 1927/295, un netto calo che evidenziava le tendenze sottoconsumistiche allora in atto, che esploderanno a fine 19296. Ora in USA, all’inizio del 2010, quando l’economia americana sembra accelerare, il tasso di utilizzo arriva al 74,7% sopra il 68,5% del 2009 ma sotto di 5,9 punti alla media del periodo 1972/2009 che fu dell’80,6%7, ma in seguito la ripresa americana si è afflosciata. Anche in Europa la BCE segnala, nel suo bollettino di maggio 2010, la bassa utilizzazione delle capacità produttive, e questo significa che gli impianti lavorano relativamente poco; se si considerano normale un tasso di inutilizzo del 10/12% quando si supera tale livello è evidente che una quota della ricchezza investita rimane improduttiva, è contabilizzata nel PIL ma non serve a nulla, è ricchezza sprecata.

Ma non è tutto il dato sul PIL è quantitativo e nulla ci dice sulla qualità della produzione. A suo tempo questo argomento venne usato contro l’URSS, all’epoca della grande sfida per il dominio del mondo con l’occidente: i nostri economisti eccepivano che l’URSS cresceva a ritmi elevatissimi ma produceva scarti. Verissimo, epperò non si capisce perché questo argomento non lo si usi oggi davanti all’evidente perdita di qualità della produzione capitalistica (o di larga parte di essa): è questo un evidente caso di “bispensiero” (Erich Fromm) per cui un argomento va bene contro l’avversario ma non si applica a te.

A tal proposito si è rilevato che in Italia dal 2004 sono quadruplicati i sequestri di articoli difettosi, ma lo stesso avviene in Europa dove 2000 articoli sono stati ritirati dal commercio (60% cinesi) perché difettosi o pericolosi, anche la Toyota, simbolo della efficienza quantitativa e qualitativa del capitalismo, ritira 8 milioni di auto dal mercato, perché difettose, mentre McDonalds ritira milioni di bicchieri dai suoi fast food perché cancerogeni8. Ancora l’industria del falso e della contraffazione, che esplode e arriverebbe a coprire il 10% del PIL mondiale, dato questo senza precedenti, la Cina è la capitale della contraffazione ma non l’unico paese in cui si pratichi9, le dogane UE hanno fermato nel 2009 molti prodotti al confine europeo perché falsi, il 64% era cinese10.

Ancora l’industria petrolifera, la più capital intensive dell’occidente: quando nel 2010 ci fu il famoso disastro della BP nel golfo del Messico si scoprì, dalle e-mail degli ingegneri che lavoravano sulla piattaforma, che la situazione era da incubo: il cemento armato usato era schifoso e non c’era stato collaudo11. In sintesi l’ossessione di accelerare i tempi e di ridurre i costi ti porta a produrre quote crescenti di beni difettosi, falsi, di bassa qualità e pericolosi. Qualcuno potrebbe dire: “E’ la concorrenza in funzione del profitto, bellezza!”, epperò se questo è vero è anche vero che le conseguenze di un simile tipo di concorrenza sono devastanti.

Ciò che comunque balza agli occhi è come ormai i paesi di capitalismo straccione vedano crescere la quota del PIL che loro compete. Non credo possibile in alcun modo un sorpasso reale di questi paesi in confronto delle aree ricche12, ma è indubbio che essi contino un po’ di più in termini di contabilità mondiale: in Cina nel 2010 si sono vendute 18 milioni di macchine (13 nel 2009) quasi tutte di produzione cinese, cifra enorme soprattutto se si rapporta all’occidente dove l’auto annaspa, ma il fatto è che le auto cinesi sono un’imitazione di quelle occidentali, impresentabili sui nostri mercati ed inaccettabili per il nostro consumatore.

Come dicevamo si producono sempre più scarti e di questo il dato sul solo PIL non dà conto alcuno.

B) La frana del debito pubblico (e privato) mondiale.

Il nostro Ministro dell’Economia Tremonti ha detto, nel corso del 2010, che la nostra economia correva il rischio di produrre più debiti che ricchezza. Questo, come vedremo, non è un rischio ma è una realtà e lo è per tutto il mondo capitalistico nel suo complesso. Il FMI ci fa sapere che nel 2001 i debiti sovrani erano il 58% del PIL e nel 2009 eravamo al 120%13, nel corso di otto anni il debito pubblico è cresciuto molto più del PIL mondiale. La rivista “Fortune” pubblica nel 2010 l’elenco delle dieci entità statali a rischio default e tra esse, assieme all’Iraq e Portogallo, ci sono due grandi Stati della federazione americana: California ed Illinois, ma, come vedremo, molti altri Stati della federazione sono in crisi fiscale e primo tra tutti lo stesso Stato federale USA14. In Europa la situazione si fa vieppiù pesante15 e per il Giappone si parla nel 2010 di un rapporto debito/PIL al 225%16.

Tuttavia il debito pubblico è solo una parte del debito globale interno di un paese, che comprende il debito statale, quello delle entità pubbliche diverse dallo Stato centrale, quello delle famiglie e quello delle imprese. In USA a fine 2009 il debito interno complessivo era 380% del PIL e nel 2010 la BCE ha calcolato che il debito medio dei paesi europei fosse pari a 3,5 volte il PIL17.

La tabella che segue illustra bene la tendenza di lungo periodo in atto18.

 Tabella n. 2
 

 

 

Paesi

 

Anno 1990

Rapporto debito globale-PIL

 

2000

 

2009

 

Paesi Anglosas-soni (USA, UK, Canada)

 

207%

 

237%

 

304%

Europa Continentale (Germania, Francia, Italia, Spagna)

 

 

182%

 

 

243%

 

 

315%

Occidente esteso (paesi citati + Giappone e Corea del Sud)

 

 

236%

 

 

280%

 

 

333%

 

Il trend è chiarissimo e non meno chiaro è l’andamento del risparmio che si contrae lentamente nelle tre subaree considerate, passando, per ciò che attiene al dato complessivo, dal 21% del PIL nel 1990 al 20% nel 2000 e al 15% nel 200919.

Ma non è tutto. Nel 2010 il FMI ci fornisce anche un dato sul valore dei titoli derivati che non sono compresi nella tabella che precede, i derivati, il cui mercato si è sviluppato impetuosamente dopo il 2000, sarebbero 600 mila miliardi di dollari, quasi dieci volte il PIL mondiale20. L’anno scorso avevo fornito valutazioni simili, ma opera di studiosi o istituzioni particolari21, adesso però abbiamo la valutazione di una istituzione mondiale che “monitora” normalmente l’economia globale: è un dato da brividi che giustifica in pieno la definizione che dà dei derivati un grande finanziere come Warren Buffet: “Un’arma di distruzione di massa” .

Ora considerando il solo debito interno siamo ad una cifra pari a tre volte o quasi il PIL mondiale, cui andrebbe aggiunto il debito estero, che per molti paesi è pesantissimo, nonché i 600 trilioni di derivati, il che significa una cifra totale di 800 trilioni più o meno. Una voragine o una valanga (a scelta). Considerando solo i 200 trilioni circa di debiti esclusi i derivati abbiamo che, con un tasso d’interesse assai moderato del 3%, bisognerebbe pagare ogni anno 6 trilioni di interessi quanto basterebbe ad assorbire 2-3 anni di crescita del PIL. Ma sarebbe questa una valutazione ottimistica perché il servizio del debito richiede anche il pagamento di rate del debito pregresso: qualche anno fa ho valutato che i paesi del terzo mondo, con un debito estero pari al 30% del PIL, dovevano fronteggiare un costo del servizio del debito (interessi + rate) pari al 7,4% del loro PIL22, per cui appare evidente come, con un debito pari a tre volte il PIL mondiale, il servizio del debito assuma proporzioni assolutamente insostenibili. Questa ormai è un’economia che produce una massa di debiti enormemente superiore alla crescita del PIL, il che richiede la necessità di fare altri debiti per pagare i vecchi debiti in un circolo vizioso che cresce su se stesso autoalimentandosi.

La situazione è drammatica ed in sede FMI ci si è posti il problema di come aggredire questa montagna che sta franando. Cotarelli, responsabile del Dipartimento fiscale FMI, ha proposto una ricetta terribile, che definire lacrime e sangue sarebbe un eufemismo. Bisognerebbe ridurre la quota del debito pubblico eccedente il 60% (rapporto debito-PIL) del 5% l’anno per soli 20 anni consecutivi, in modo da essere a posto per il 203023. Concretamente un paese come l’Italia che ha un rapporto debito-PIL al 120% circa, dovrebbe fare una manovra del 2,9% l’anno (sempre per 20 anni) e cioè 44/45 miliardi l’anno in aggiunta, si badi, a quella per ridurre il rapporto deficit-PIL, che l’anno scorso ci è costata 24/25 miliardi solo per ridurre quel rapporto in modo limitatissimo: invece che 24/25 miliardi l’anno quasi 70 miliardi l’anno per 20 anni. Come ottenere questi risultati? Non solo tagliando le spese, perché questo è necessario ma non basta, ma anche aumentando le tasse quindi estendere l’IVA ai paesi in cui questa tassa non esiste (USA), nuove tasse sui consumi (alcol e tabacchi ad esempio), tassa sulla casa etc.

Ora una simile manovra, applicata agli USA, implicherebbe, con la sola estensione dell’IVA, un prelievo del 19% o più sui consumi e cioè una tassa di 2000 miliardi, con un’IVA dimezzata saremmo appena a mille miliardi: per un paese in cui i consumi sono alla canna dell’ossigeno24 sarebbe come sostituire l’ossigeno con il monossido di carbonio. Aumentare le tasse significa tagliare i consumi e lo sviluppo economico, costringere le imprese a recuperare licenziando e così via, una politica di questo genere avrebbe cioè un chiaro impatto recessivo, prolungarla per venti anni significa un impatto letale.

L’unico modo per uscire dalla spirale del debito è quello di pagare i debiti e per farlo occorre lo sviluppo come ha detto di recente il Governatore Draghi: con lo sviluppo hai le risorse per pagare i debiti, con la recessione l’economia si contrae e con essa si contraggono anche le entrate fiscali ed i buchi del bilancio si riaprono25 dalla parte delle entrate invece che delle uscite.

La riprova storica di quanto sosteniamo è data dalle vicende dell’economia USA, che esce dalla guerra con un rapporto debito-PIL al 120% e più e poi, grazie allo sviluppo, che è ripreso proprio durante la guerra e continuerà dopo, vedrà calare drasticamente questo rapporto fino al 32,54% del 1980. Poi arrivano i tempi dei tagli di Reagan e della Thatcher, i tempi in cui lo Stato non si fa più garante del pieno impiego, del welfare che deve dimagrire etc. , e così lo sviluppo rallenta ed il deficit ed il debito si impennano di nuovo26.

La verità è che lo Stato ha tagliato alcune spese (quelle sociali), ma la spesa e l’indebitamento globale non sono diminuiti. Le tasse sul capitale sono enormemente diminuite ma la pressione fiscale si è scaricata sul lavoro (qualcuno dovrà pure pagarle le tasse!)27 ed i lavoratori hanno dovuto enormemente indebitarsi senza poter mantenere la vecchia dinamica dei consumi degli anni ’50 e ’60. Oggi i nodi sono venuti al pettine: il lavoratore-consumatore oberato di debiti e di tasse non può più sostenere l’economia come in passato: a forza di mettergli carichi sulle spalle le spalle si sono rotte ed aumentare i carichi, come propone Cotarelli, è una proposta da sadici impazziti. E’ sintomatico che qualche mese dopo lo stesso Cotarelli abbia invitato il Ministro Tremonti a non eccedere nella manovra correttiva di maggio 2010, una manovra di appena 24/25 miliardi a cui secondo Cotarelli ne andavano aggiunti altri 44/45 (per venti anni), evidentemente il timore delle conseguenze disastrose cui potrebbe portare una simile proposta, finisce col coinvolgere lo stesso autore della proposta28.

C) Un vicolo cieco, il problema della disoccupazione.

Nel corso del 2009 l’OIL (o ILO o BIT che dir si voglia) comunica che a causa della crisi sono andati persi 30 milioni di posti di lavoro ed i disoccupati sono arrivati ad essere 210 milioni a livello mondiale29. Le cifre sono molto elevate ma sono solo la punta dell’iceberg : già nel 2005 le persone che, secondo l’ILO, non hanno a decent work erano il 49,7% della forza lavoro mondiale che diventava il 58,7% nelle aree povere, il fenomeno con la crisi si accresce di altri 200 milioni30. Si tratta di una marea di persone sottoccupate che guadagno 1/2 dollari al giorno, per cui nei paesi poveri il vero problema non è tanto la disoccupazione ma la sottoccupazione, fenomeno la cui gravità è sottolineato dall’ILO fin dal rapporto del 1976 quando la sottoccupazione era stimata nelle aree povere al 36% della forza lavoro31. Quanto poi ai paesi ricchi i tassi di inattività sono elevatissimi: in USA le persone in età da lavoro occupate sono meno del 60% in Europa siamo al 64,5% (Germania 70,9%)32, i senza lavoro, cioè, sono molto più numerosi delle persone formalmente disoccupate, e cioè iscritte alle liste di disoccupazione, molti non fanno neanche questo il che significa che non avranno rapporti con il mercato regolare del lavoro per tutta la vita o per buona parte di essa. Naturalmente c’è il mercato nero della forza lavoro, che è drammaticamente fiorente anche nel mondo ricco, ed è alimentato dall’emigrazione clandestina dalle aree povere (ad es. ispanici in USA) ed in cui si possono trovare una parte degli inattivi, ma bisogna ricordare che il lavoro nero è un sottolavoro sottopagato (il c.d. lavoro-spazzatura) al limite della schiavitù, rimane dunque il fatto che una consistentissima quota della forza lavoro è estranea al rapporto di lavoro regolare anche nei paesi ricchi. Inoltre in questi paesi una quota crescente di lavoratori regolari lavora a tempo parziario o con contratti di lavoro precario, che ormai sono l’unico settore dinamico del mercato lavoro33. In sintesi nelle aree ricche i lavoratori sono perlopiù inattivi (o disoccupati), sottoccupati, o clandestini, mentre nelle aree povere c’è una sottoccupazione oceanica a livelli da fame.

I tassi ufficiali della disoccupazione, che comprendono solo i lavoratori che hanno perso il lavoro e lo cercano, sono sfacciatamente sottostimati: in tutto il mondo ormai quelli che hanno un lavoro regolare, stabile e a tempo pieno sono una minoranza che si restringe sempre più, sia nelle aree ricche che in quelle povere (molto di più).

Qualche decennio fa ho spiegato il fenomeno, che già si delineava negli anni ’80 del secolo scorso, rilevando che nel capitalismo si creava disoccupazione (e/o sottoccupazione) sia quando si utilizzavano tecniche capital intensive sia quando si utilizzavano tecniche labour intesive, il che è una contraddizione ma non di chi scrive ma del capitalismo34.

Infatti quando si utilizzano tecniche ad alta intensità di capitale si producono pochi posti di lavoro ad elevata produttività, produci di più, con pochi addetti; quando poi usi tecniche ad alta intensità di lavoro produci relativamente poco con molti addetti, il che significa bassa produttività e salari, bassi profitti ed imprese fragili che sopravvivono qualche anno ai margini del mercato (il ricambio delle PMI che hanno una vita media assai breve è cosa notissima)35.

Nei paesi poveri poi questo fenomeno è aggravato dal problema del boom demografico, che produce una forza lavoro eccedente rispetto alla logica del capitalismo, dove devi produrre di più con meno addetti perché ciò significa maggiori profitti. Emblematico è il caso della Cina: negli ultimi anni la disoccupazione ufficiale oscilla tra il 4/4,2%, ma in realtà è molto di più, 20 milioni di lavoratori scompaiono dalle statistiche cinesi dopo la crisi del 2008 per un motivo assai semplice (ammesso dagli stessi economisti cinesi): l’indennità di disoccupazione è limitatissima e la si ottiene per via traverse (corruzione), sicchè la maggior parte dei cinesi che hanno perso il lavoro durante la crisi del 2008 non si iscrive alle liste di disoccupazione perché è tempo perso36. Eppure nel 1999 la disoccupazione era al 3,1% e la media del periodo 1990/98 era al 2,7% (fonte “Economist”) in pochi anni la disoccupazione ufficiale è cresciuta di 1,4-1,5% il che significa in cifra assoluta 10/11 milioni di nuovi disoccupati malgrado i tassi di sviluppo “miracolosi”.

Perché?

La risposta non è difficile: se in un paese povero con 1,3 miliardi di abitanti che in realtà sono quasi 1,6 miliardi37, inneschi uno sviluppo economico con le tecniche capital intensive del secolo scorso, che oggi per noi sono da archeologia industriale, fai un disastro in termini occupazionali. Anche col cotton gin o con la spoletta di Kay puoi fare il vuoto in aree dove fino a ieri si usava la pala, il martello e lo scalpello. Nell’agricoltura cinese si lavora in modo manuale: ho calcolato qualche anno fa che la produttività di un contadino italiano equivaleva a quella di 40 contadini cinesi38, il che significa che se applichi alle campagne cinesi i livelli di meccanizzazione italiana del 1950/60 (che oggi ci sembrano preistorici) fai un disastro in termini occupazionali.

In questo quadro il FMI afferma (novembre 2010), lo dichiara Strauss Khan stesso, che occorreranno nei prossimi anni 400 milioni di posti di lavoro per fronteggiare il problema della disoccupazione mondiale. Il guaio è che nel 2010 con una crescita del 4,8% non si è creato nessun nuovo posto di lavoro e nel 2011 con un tasso previsto del 4,2% (di recente alzato al 4,4%) si pensa che si potrà appena ridurre la disoccupazione. L’ILO, infatti, prevede che nel 2011 i disoccupati scenderanno a 203 milioni (dagli attuali 210 milioni) il 6,1% della forza lavoro mondiale con una limatura dello 0,2% del tasso attuale di disoccupazione; in altre parole il tasso di sviluppo dell’occupazione è 1/26 o 1/27 del tasso di sviluppo del PIL, un livello di tipo giapponese39, con cui è utopico pensare di risolvere il problema occupazionale, anche perché se col 4-5% non cambia sostanzialmente nulla in positivo, è chiaro che non appena si scende al di sotto di quei livelli arriva la tempesta; tutto ciò nel lungo periodo è devastante.

Davanti ad una situazione così desolante il FMI ha inviato un rapporto al G20 di Seul invitando i governi a fare una politica positiva del lavoro riducendo le spese di assunzione dei nuovi lavoratori con la leva fiscale. Una simile richiesta non fa altro che riproporre politiche fallite in passato, ad esempio le leggi sull’occupazione giovanile (Italia e Belgio), oppure le leggi tentate in varie parti del mondo per favorire lo sviluppo delle aree arretrate. I motivi del fallimento di simili iniziative sono assai semplici da comprendere: se riduci il costo del lavoro di un terzo avrai che 3 lavoratori nuovi assunti costeranno per due, ma il fatto è che nel capitalismo lo sviluppo della tecnologia ti permette di aumentare la produzione senza aumentare l’occupazione se non in maniera occasionale ed eventuale. Per il capitale pagare due lavoratori per tre assunti non ha senso se si può risparmiare grazie alla tecnologia qualunque tipo di assunzione, o comunque ridurle al minimo: il problema è sempre lo stesso questo è un sistema in cui ormai si può produrre senza nuova occupazione, il che pone problemi semplicemente drammatici. È evidente, ed è comunemente accettato, che l’agricoltura e l’industria non producano più posti di lavoro per cui la valvola di sfogo è il terziario sia pubblico che privato40. Ora però nel terziario pubblico la crisi fiscale dello Stato gli impedisce di creare posti di lavoro come è stato fatto fino alla crisi del ‘73/’75 compresa41; quanto al terziario privato già dagli anni ‘80 si nota il fenomeno rilevato da un sociologo americano della “industrializzazione dei servizi”, che è l’opposto della teoria della terziarizzazione della società42; in altre parole le tecniche labour saving dell’industria vengono copiate nel settore terziario dove dominano grandi imprese che operano con la logica del profitto, per cui si hanno le stesse conseguenze dell’industria, si produce di più con meno addetti.

Davanti ad un quadro così desolante il mondo degli economisti, della politica e del potere balbetta parole senza senso cui si attribuisce un potere taumaturgico: a) flessibilità, b) competitività, c) liberalizzazione.

Sulla flessibilità c’è da dire che i sostenitori di questo “mantra”43 sembrano nati ieri: il lavoro infatti diventa flessibile dagli anni ’70, prima il lavoro parziario era un’eccezione, da allora esplode pur essendo sgradito e involontario, non è conveniente lavorare 20 ore pagate 1544, ma se il mercato del lavoro passa questo lo si subisce e le conseguenze si vedono: la quota del reddito dei lavoratori cala nell’ambito della ricchezza globale in modo nettissimo45 e, ci dice l’OCSE nel 2004, non c’è alcuna evidenza statistica che la flessibilità abbia creato un solo posto di lavoro; anche in Olanda l’aumento c’è stato per i posti ma non per le ore lavorate (più posti ma ad orario ridotto)46. Non solo ma l’era della flessibilità coincide con il decollo di disoccupazione e sottoccupazione, ancorché mascherata con parole pudiche (operai scoraggiati, inattivi, etc.) e con statistiche da struzzi in cui i lavoratori a tempo pieno sono equiparati a quelli a tempo parziario in nettissima crescita dagli anni ’70 in poi47.

Competitività.

È il chiodo fisso del dott. Marchionne: la FIAT produce poco, solo 29,4 auto ad addetto in Italia, contro le 70 e più o le 100 degli stabilimenti polacco e brasiliano48. E senza dubbio la produttività della FIAT è anche inferiore a quella della Toyota del 1972 (51 auto per addetto)49, come è indubbio che se non sei competitivo fallisci, ma è poi vero che se sei competitivo produci occupazione?

La FIAT nel 1968, al culmine del suo splendore, aveva 158.455 dipendenti (diecimila in più del 1967), che producevano 1.452.000 veicoli, uno ogni nove addetti circa, l’indotto dava lavoro a 2,3 milioni di persone (secondo la FIAT)50; oggi la FIAT ha solo qualche decina di migliaia di dipendenti in Italia, cui vanno aggiunti gli impianti esteri in cui i dipendenti si contano a migliaia per impianto e non più a decine di migliaia. Il mostro occupazionale del 1968 è un ricordo e tutto questo è stato ottenuto con un aumento della produttività di circa il 2,7% l’anno51 e con il decentramento di una parte della produzione all’estero, dove però lavorano relativamente pochi operai rispetto al livello del 1968; sui milioni dell’indotto stendiamo un velo pietoso, adesso si parla di 70-80 mila posti di lavoro a rischio.

Con un incremento moderato della produttività nel capitalismo puoi fare un deserto occupazionale, figurarsi se la produttività della FIAT fosse stata doppia o tripla in Italia. La produttività nel capitalismo è fatta per creare disoccupati e non occupati.

Ancora. Nel 2010, quando la BP inonda di petrolio il Golfo del Messico, scopriamo, attraverso i media, che il colosso inglese ha poco più di 80 mila dipendenti e circa 400 miliardi di dollari di fatturato: se in Italia avessimo questo rapporto occupati-PIL basterebbero 500 mila persone circa a produrre la nostra ricchezza annua, e gli altri 22,5 milioni che fine farebbero?

Anche qui risulta evidente che occorrono spugne o valvole di sfogo per assorbire la disoccupazione tecnologica, se i contrappesi non ci sono (ormai il terziario è esaurito) salta per aria tutto.

Un terzo caso: il Giappone del faraonico piano ventennale 1966-1985, che prevedeva due alternative: nella prima il PIL cresceva del 500% in venti anni e l’occupazione ad un ritmo di 1/27 del PIL, il che significava 108% di incremento del PIL e 4% di crescita dell’occupazione; la seconda alternativa, che subentrò alla prima perché troppo pessimistica, prevedeva un incremento del PIL del 900% ed una crescita dell’occupazione di 1/35 e cioè 105% in più di PIL per 3% in più di occupazione52; nella seconda variante il PIL cresceva dell’11,6% all’anno, partendo però da una base già sviluppata industrialmente e tecnologicamente (non cinese cioè). Per difendere il pieno impiego realizzato dallo sviluppo precedente, occorreva un incremento del PIL impensabile per il resto del mondo, e dopo 7/8 anni di crescita spettacolare il Giappone abbandonò il piano ventennale travolto dalla recessione mondiale 1973/197553. Si noti poi che lo stesso miracolo occupazionale giapponese conteneva, ancora nel periodo analizzato, vaste zone di sottoccupazione54, e che il Giappone di quegli anni era entrato nell’era dei computers (di cui era un alfiere), ma non in quella di internet che nasce solo dopo il 1980 e che determina un’ulteriore frustata tecnologica.

La competitività significa produrre un mare di tecnologia e di investimenti ed una pozzanghera di occupazione, in un mondo popolato da 7 miliardi di individui, che dovrebbero diventare 9 nel 205055, non sembra proprio la strada per produrre occupazione, se generalizzi competitività e tecnologia (come è avvenuto con l’industrializzazione del terziario) produci disoccupazione e non occupazione.

Le liberalizzazioni.

Più o meno tutti i sostenitori di teorie monetariste e liberiste affermano che le liberalizzazioni creano posti di lavoro. Ora, però, dal punto di vista storico c’è un periodo in cui il capitalismo è andato vicino al pieno impiego nei paesi avanzati, ed è il periodo che va dal dopoguerra alla crisi del 1973, quelli furono gli anni d’oro del capitalismo anche dal punto di vista occupazionale. Furono quelli anni di liberismo?

Assolutamente no.

Furono gli anni di Keynes e del dirigismo statale, dello Stato garante del pieno impiego (Il Full employment act del 1946), della PA usata come spugna della disoccupazione etc. In Germania c’è la variante Roepke dell’economia sociale di mercato, in cui il mercato viene utilizzato per ottenere ai fini sociali ed in cui lo Stato può intervenire ogni volta che il funzionamento del mercato risulti inadeguato alla realizzazione dei fini sociali56, la nostra stessa carta costituzionale all’art. 41 stabiliva che l’attività economica non poteva svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Quanto al Giappone, spesso indicato come esempio di liberismo anche in quegli anni, varava un piano ventennale che era indicativo ma era una indicazione forte ed onnicomprensiva, sostenuta da strumenti di intervento massicci come il binomio protezionismo all’interno e libero scambio all’esterno, o l’uso della sottovalutazione dello yen per favorire le esportazioni (manovra poi copiata dai cinesi con lo yuan)57; inoltre quando vi fu la crisi-riconversione dell’industria carbonifera (1962/70) il recupero degli oltre 180 mila posti di lavoro minacciati fu ottenuto con il sostegno e l’intervento statale e non col liberismo58.

Sempre in Giappone il pieno impiego ebbe come pilastro l’assunzione a vita per un terzo della forza lavoro giapponese (PA e grande industria), strumento eccezionale di cui nessuno osò proporre l’imitazione nell’industria italiana, malgrado che gli ammiratori del modello giapponese allora si sprecassero tra coloro che poi saranno gli alfieri dello slogan “liberiamo l’impresa da lacci e laccioli”: l’assunzione a vita era un bel laccio da questo punto di vista .

Ancora, lo Stato di quegli anni era, in occidente, uno Stato molto fiscale: nel 1957 l’aliquota massima per l’imposta sul reddito in USA era il 91% (sic), non che mancasse l’evasione fiscale, ma lo Stato provava a far pagare le tasse anche a “lorsignori”, dopo le aliquote sono crollate, le esenzioni sfacciatamente aumentate, le evasione fiscale tollerata o peggio sostenuta, sicché il bilancio statale è saltato e con essa la funzione di spugna delle assunzioni nella PA59.

Inoltre esisteva anche un’altra barriera (o laccio) al potere del capitale che era la forza dei sindacati in USA, Canada, Inghilterra, Germania e Nord Europa60.

In sintesi in quegli anni uno Stato interventista e fiscale, spesso alleato dei sindacati fu il garante del primo impiego, che non piovve dal cielo del libero mercato ma fu il risultato di questa politica, che rendeva l’uso della forza lavoro piuttosto rigido. Poi vennero gli anni dello Stato “deregolatore”, detassatore (solo per il capitale), che combatte i sindacati, appoggia la flessibilità, tollera ristrutturazioni selvagge, contrae i posti nella PA. Le conseguenze sono evidenti per chi voglia vederle, il deserto occupazionale che è davanti ai nostri occhi, masse enormi di disoccupati, sottoccupati, inattivi dagli USA all’India.

Un problema che spaventa lo stesso potere, perché è chiaro che se non ripartono occupazione e consumi saremo sempre più col didietro su un vulcano che può esplodere in ogni momento, determinando eruzioni e terremoti a catena.

Di qui il riproporsi di continuo di parole vuote e prive di senso: competitività, flessibilità, liberalizzazioni, un modo per esorcizzare un problema enorme che nessuno sa come affrontare, anche se lo vorrebbe.

La verità è che una crescita tra il 4 e il 5% del PIL produce poca o nessuna occupazione e questo non è un fatto nuovo poiché il fenomeno si verificò durante la ripresa del 1976/79, posteriore alla crisi del 1973/75, quando per la prima volta un incremento del PIL nei paesi OCSE del 4,3% l’anno fece aumentare la disoccupazione61. Da allora la situazione si è solo incancrenita.

D) La crisi bancaria. Una crisi nascosta sotto il tappeto.

Gli Stati hanno compiuto, a partire dal 2008, uno sforzo enorme per salvare le banche62, con cifre che rasentano l’incredibile e che rappresentano il più grande salvataggio della storia del capitalismo, per cui è lecito chiedersi se, almeno la crisi bancaria, sia superata. La risposta purtroppo è negativa: ad inizio 2010 il FMI stima in 2300 miliardi di dollari le perdite per quell’anno che subiranno le banche, ed in 5000 miliardi le somme necessarie a ricapitalizzare il settore63, nel 2009 le stime erano state di perdite per 1750 miliardi da raddoppiare, però, per le perdite nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ora nel corso del 2010 le perdite occulte continuano ad esservi: il SEC stima, ad inizio 2010, che le ultime 30 trimestrali presentate dalle 18 più grandi banche operanti in USA, occultano il 41% delle perdite64, continuano inoltre, per tutto il 2010, fallimenti e crisi bancarie in USA a ritmo elevato65, mentre in Europa gli “stress test” fatti per accertare la solidità delle banche europee danno risultati positivi, ma vengono subito smentiti dai fatti e naufragano nel ridicolo66.

La verità peraltro è molto semplice, per chi voglia vederla: l’economia di carta si regge su quella reale, se l’economia vera (la produzione) non tira le banche normalmente annaspano: una ricchezza che si sviluppa a passo di lumaca e a prezzo di un indebitamento crescente, significa che occupazione, consumi, famiglie ed imprese (oltre che i bilanci pubblici) sono con l’acqua alla gola, il risparmio si ridurrà ed i debiti in sofferenza cresceranno. Le banche non vivono sulla luna ma in questo mondo, e se la produzione che regge questo mondo va a rotoli, andranno a rotoli anche le banche.

E) Il ritorno di fiamma dei Paperoni.

L’anno scorso avevo evidenziato come la crisi avesse colpito anche i redditi dei Paperoni nel corso del 200867, ma nel 2009 si verifica un’inversione di tendenza: nel corso di quest’anno i 400 super-ricchi USA (oltre un miliardo a testa di patrimonio) hanno visto crescere la loro ricchezza dell’8% fino a 1370 miliardi di dollari, più dell’economia USA o di quella mondiale. Al primo posto c’è Bill Gates, ma il record di incremento va a Mark Zuckenberg (35° posto) creatore di Facebook, con il 245%68. In Asia (dato comprensivo anche di Giappone e Corea del Sud) nel corso del 2009 il numero dei super-ricchi cresce del 17% e del 19% il loro patrimonio69. Il ritorno di fiamma dei Paperoni non ha nulla di strano: se fai una politica di salvataggio delle banche e di Wall Street salvi i capitali che le banche contengono e manovrano e così salvi i Paperoni; se poi le banche pagano poco o nulla per il loro salvataggio ed il costo dello stesso ricade sui lavoratori-consumatori, e cioè sui contribuenti che non evadono il fisco, accadrà necessariamente che si allargherà il divario tra i ricchi salvati a costo zero (per loro) e la grande massa dei cittadini che dovrà pagare per il loro salvataggio, sia avrà, cioè, un trasferimento di ricchezza dalla grande massa dei lavoratori- consumatori al capitale e quindi la forbice delle disuguaglianze sociali crescerà.

Inoltre si allargherà la forbice tra capacità di consumo che si ridurranno e capacità di investimento che cresceranno, siccome però l’inadeguata dinamica della produzione non permette l’assorbimento del capitale in attività produttive si avrà una crescita delle attività e degli investimenti speculativi. Si arriva all’assurdo, alla fine del 2010, che le transazioni di carattere monetario che avvengono sui mercati finanziari assorbano 4000 miliardi di dollari al giorno70 e cioè oltre un quadrilione (un milione di miliardi di dollari l’anno) più di 15 volte il PIL mondiale, senza che questo abbia nulla a che vedere con le esigenze del commercio estero che sono infinitamente al di sotto di simili cifre.

F) La perdurante farsa dei G (8 e 20).

Il prof. Tito Boeri, economista da cui non potrei essere più lontano, ha rilevato di recente che i G8 e G20 costano molto, per cui tanto varrebbe, in tempi di crisi, risparmiare i loro costi poiché non servono a nulla. Atteggiamento questo molto diffuso in occidente, anche sulla stampa ufficiale e benpensante che ne tratta come di un rito che si ripete da lustri e che non ha previsto o prevenuto alcuna crisi né, a crisi scoppiata, ha proposto alcunché per fronteggiarla.

Nel corso del 2010 abbiamo avuto il G8 (e il G20) di Toronto a metà anno, ed il G20 di Seul a fine anno, e, come al solito, nulla di fatto ma solo una parata di leaders dal sorriso inossidabile e plastificato (ma di che sorridono?) che vogliono dare la sensazione ai loro popoli che ci sono e battono un colpo.

Ma elenchiamo in dettaglio tutto quello che (non) è stato fatto.

  1. Politica del lavoro e dell’occupazione.

Assolutamente nulla, come l’anno scorso non si è riusciti neanche a coordinare le diversissime politiche degli ammortizzatori sociali, anzi non si è fatto nessun tentativo in tal senso.

  1. Contenimento del deficit statale.

Non si va al di là di generici inviti a coniugare austerità e sviluppo. Come farlo non è detto e ognuno va per la sua strada decidendo quello che ritiene più opportuno, così USA e Giappone si indebitano alla grande mentre l’Europa vara misure lacrime e sangue, fallimentari ma di senso opposto a quelle americane.

  1. La guerra tra monete.

La guerra tra monete è una riedizione della guerra fredda che le somiglia per molti versi. Le monete si combattono ma ogni contendente teme di spingere troppo oltre il conflitto commerciale facendolo diventare uno scontro frontale (non militare ma economico), che potrebbe avere esiti disastrosi per tutti, ognuno odia l’avversario ma ne ha bisogno.

La pretesa americana di limitare al 4% del PIL gli attivi delle bilance commerciali (richiesta volta a frenare gli attivi di Germania, Cina e Giappone) non passa ma il problema resta e con esso le spinte protezionistiche emerse l’anno scorso71. Il congresso americano vara una legge (seconda metà dell’anno) che autorizza Obama ad emanare dazi di rappresaglia contro i paesi che svalutano artificiosamente la loro moneta (Cina e Giappone) ma le prime a protestare sono le filiali delle IM americane in Cina che sarebbero danneggiate72.

D’altro canto i cinesi acquistano i bonds americani (ne hanno in portafoglio 900 miliardi di dollari)73 e sostengono così l’economia USA che assorbe da tempo 1/5 (più o meno) delle loro esportazioni, e cioè 7-8 punti del PIL cinese; per questi motivi i cinesi temono una politica di spesa eccessiva americana che svaluti il dollaro e i propri investimenti in bonds, se però l’America tagliasse il bilancio l’economia USA, come vedremo, crollerebbe sulla testa dei cinesi, che vedrebbero calare nettamente le loro esportazioni ed il loro PIL, che è in fase di rallentamento. In sintesi i cinesi avrebbero bisogno contemporaneamente di un dollaro forte (difesa dei loro investimenti) e di un dollaro debole perché senza l’ossigeno del deficit l’America tirerebbe le cuoia con buona pace delle esportazioni cinesi.

Lo stesso può dirsi degli USA che si lamentano per lo yuan debole che favorisce le esportazioni cinesi in USA, ma permette gli avanzi della bilancia commerciale e dei pagamenti cinese74 che la Cina investe in bonds americani. Senza quegli avanzi le aste dei bonds USA correrebbe il rischio di andare deserte (almeno in parte), rischio che l’America non può correre; la politica cinese, dunque, aiuta gli USA proprio mentre li danneggia. Ognuno dei contendenti avrebbe bisogno di tutto e del suo contrario: botte piena, moglie ubriaca ed uva nella vigna.

Se vi fosse una possibile politica di sviluppo mondiale, questi conflitti potrebbero essere governati: un dollaro forte, espressione di una economia espansiva, potrebbe assorbire le esportazioni cinesi e garantirebbe i loro investimenti in USA, quanto agli americani con un’economia espansiva (che producesse più ricchezza che debiti) non si preoccuperebbero più di tanto di un modesto eccesso di esportazioni cinesi, dovuto ad una sottovalutazione dello yuan. Lo scenario sarebbe governabile ma non lo è nella situazione sopradescritta, in cui manca una politica mondiale di sviluppo, perché i problemi sul tappeto sono insolubili, ed allora si procede con continui conflitti e mediazioni faticose: i cinesi maledicono la politica di spesa del governo USA, ma devono comprare i suoi bonds e sostenerne il debito, pena un crollo che ricadrebbe sulle loro teste; gli americani maledicono le esportazioni cinesi ma non osano colpirle fino in fondo poiché della Cina e dei suoi avanzi commerciali hanno bisogno, e si continua così in uno scenario di guerra strisciante, in cui si alternano sorrisi e calci negli stinchi.

Che fanno in tutto questo i vari G?

Assolutamente nulla: dovrebbero punire i paesi che praticano misure parziali (ma consistenti) di protezionismo e non lo fanno perché dovrebbero punire tutti o quasi a cominciare da America e Cina; dovrebbero, inoltre, trovare una soluzione al problema del dollaro, moneta di riferimento negli scambi internazionali che non è più in grado di svolgere la propria funzione, con quotazioni che oscillano e sbandano continuamente. Il guaio è che se il dollaro è inadeguato nessuno è in grado di sostituirlo: non lo yuan, moneta di un colosso straccione, tecnologicamente arretrato e che non accetta di sottoporsi alle fluttuazioni del mercato, non l’euro moneta senza uno Stato e quindi debolissima, non la sterlina perché l’Inghilterra del 2010 non è quella del 1910, non lo yen giapponese moneta di un’economia in ristagno da una ventina d’anni con uno Stato che è il più indebitato del mondo avanzato.

La situazione è esattamente quella che ho descritto l’anno scorso e non è cambiata in nulla: il problema è insolubile e i G non fanno niente.

  1. Lotta alla fame nel mondo.

Nel corso del 2010 il numero degli affamati a livello mondiale è leggermente diminuito, scendendo appena al di sotto della soglia del miliardo, epperò questo miracolo è dovuto solo al calo dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli dopo il boom del 2008, non certo alla generosità e all’azione del governo dei paesi ricchi che è stata quanto mai carente. Avevano promesso, infatti, di destinare lo 0,7% del loro PIL alla lotta alla fame nel mondo, e in realtà solo lo 0,31% è stato destinato a tal fine; l’Italia tra i G 20 è al penultimo posto con lo 0,11%, peggio di noi solo la Corea del Sud75, ovviamente il G20 (o il G8) latita.

  1. Tassa sulle banche, Tobin tax, paradisi fiscali.

Di una tassa sulle banche volta ad ottenere che esse rimborsino agli Stati (almeno in parte) quanto hanno avuto per i loro salvataggi faraonici, si parla da oltre due anni, ma in sede internazionale (i G appunto) non si fa nulla, il fatto è che il costo di salvataggio è stato enorme per cui il principio too big to fail (troppo grandi per fallire) si converte in too big to refund (troppo grande da restituire). Se le banche dovessero farlo rischierebbero di nuovo di fallire e saremmo punto e a capo, per cui i G glissano.

Per la Tobin tax il discorso è diverso si tratterebbe di imporre una tenue tassa (0,1% della cifra investita) sulle transazioni monetarie e finanziarie che ogni giorno avvengono sui mercati internazionali, una simile tassa potrebbe rendere 1200 miliardi di dollari l’anno, una cifra sufficiente a garantire la lotta alla fame e alla povertà nel mondo oltrechè il riassetto dell’ambiente, ma non se ne fa nulla. Il perché è stato rilevato: la grande finanza non la vuole in quanto sarebbe necessario, per applicare la tassa, rendere trasparenti le manovre finanziarie che avvengono tramite le cd. società-schermo, di cui non si conoscono i veri proprietari76, se qualcuno dei componenti del G 20 volesse imporla correrebbe il rischio di vedere i propri mercati disertati dai capitali in fuga verso lidi più ospitali77. Per varare la tassa bisogna essere tutti d’accordo, ma, nel momento in cui molti Stati tra cui i più ricchi hanno bilanci a limite della bancarotta, ed hanno bisogno dei capitali della finanza internazionale, ciò appare utopico: la durezza di una crisi estrema ed insolubile, rende la posizione degli Stati debolissima, non puoi sparare contro coloro presso cui mendichi le sottoscrizioni dei tuoi bonds.

Quanto ai c.d. paradisi fiscali (termine assai riduttivo)78 accade che, proprio in concomitanza dei G di Toronto, Hervé Falciani, dirigente bancario svizzero pentito, rilevi come, davanti ai trasferimenti di capitale (decine di milioni di operazioni al giorno) che emigrano da un angolo all’altro del globo con un semplice click, non ci sia nulla da fare: solo se già sai dove cercare (ad esempio per la soffiata di un pentito come Falciani o Elmer) puoi fare qualcosa, altrimenti anneghi in questo mare magnum di trasferimenti79.

E in verità il 2010 non è stato come il 2009, quando ci furono clamori di tromba contro i paradisi fiscali culminati nell’iniziativa di Obama contro la Svizzera, una iniziativa non alternativa ma concorrenziale rispetto alla Svizzera stessa80; quest’anno neanche più i clamori di tromba (senza seguito) anche qui i governi sembrano intenzionati a non disturbare finanza internazionale ed evasori (due facce di una stessa realtà), cui devono chiedere soldi con il cappello in mano.

  1. Il grande bluff di Basilea 3.

Tuttavia i G servono a qualcosa, si potrebbe dire, poiché a Seul passa la proposta di Basilea 3 fatta dal gruppo di banchieri guidato da Draghi, che mira a ridurre l’esposizione (e i rischi) speculativa delle banche ed ad aumentare il capitale di garanzia81. Un’iniziativa che, però, si comincerà ad attuare dal 2013 e sarà a regime nel 2018: tutti dicono, dal 2008, che ci vogliono misure urgenti, un poliziotto mondiale per i mercati in fibrillazione, e quando si elabora una proposta moderatissima si decide di rinviare l’attuazione della stessa ad otto anni data, per un’epoca piena di tensioni e di lacerazioni è un tempo biblico.

Sembra quasi che i governanti dei venti paesi vogliano lasciare la patata bollente ai propri successori. Ma non è tutto. Lo stesso Draghi osserva che il lavoro è fatto solo a metà perché ora occorre che i venti paesi varino le leggi necessarie ad attuare Basilea 382, e poi le applichino ognuno per sé secondo i propri tempi, i propri interessi e la propria interpretazione, ciò perché mancando una politica generale di sviluppo a livello mondiale, è chiaro che ognuno procederà secondo le proprie valutazioni di opportunità. È facile prevedere, dunque, che avremo, se le avremo, leggi diverse e diversamente applicate, né sono previste sanzioni per i paesi devianti, non essendovi nessun potere mondiale in grado di applicare tali sanzioni.

Infine Basilea 3 riguarda le banche e non i movimenti di capitali che avvengono attraverso la finanza ombra ed i paradisi fiscali83, eludendo i canali bancari; peraltro le stesse banche che volessero fare manovre speculative vietate potrebbero farle attraverso società – schermo, di cui sono ignoti i veri azionisti (che potrebbero essere le banche stesse) e che siano situate in paradisi fiscali.

Ciò premesso Basilea 3 è solo un flop annunciato.

  1. Il problema dell’inflazione che rialza la testa.

A fine anno la FAO rileva che il prezzo dei prodotti alimentari è cresciuto, su base mensile del 4,2%, non è la situazione speculativa del 2008, ma è comunque allarmante, il petrolio a sua volta supera i 90 dollari a barile. Su base annua a dicembre 2010 i prezzi crescono dell’1,5% in USA (più del previsto), del 2,2% nell’eurozona, del 2,6% in UE e dell’8,4% in India84; in Cina a novembre su base annua siamo al 5,1% dato che preoccupa non poco la Banca di Cina85. Non appena si delinea una tenuissima e formale ripresina, tra un mare di debiti e disoccupati, la speculazione ritorna e infiamma i prezzi deprimendo i consumi già bassi e rendendo difficile perseguire una politica di bassi tassi di interesse, senza la quale sarebbe la bancarotta (più di quanto non sia ora).

Cosa fanno i G davanti al problema? Dormono.

Questo è il quadro dell’economia mondiale nel 2010, che ci sia una qualche ripresa può essere solo una battuta di umorismo nero.

  

2) Gli USA. Un’economia sulla sedia a rotelle che produce disoccupati e debiti

A) L’andamento dell’economia americana nel 2010.

Come dicevamo nel corso del 2010 l’economia americana è cresciuta del 2,9%, recuperando lo scivolone dell’anno precedente, questo significa una crescita di circa 400 miliardi di PIL contro un volume di deficit federale di poco inferiore ai 1600 miliardi, come per l’economia mondiale l’America produce molti più debiti che ricchezza. Il paese galleggia per ora sulla crisi in una situazione in cui tutti hanno bisogno di sostegni: emblematico è quello che avviene sul mercato edilizio, settore vitale per ogni economia, sia perché è il termometro del benessere, sia perché l’attività edilizia assorbe una quota consistente di forza lavoro. Dopo marzo, finiti gli incentivi fiscali per l’acquisto delle case, il mercato tracolla, i cali si susseguono e a luglio, su base annua, il calo delle vendite è del 27,2%, ai minimi storici dal 1963 anno in cui ha inizio la serie statistica, ciò che comporta una perdita di 6000 miliardi di dollari del valore degli immobili (crollo dei prezzi)86.

Eppure esistono ancora in quel campo dei sostegni che operano attivamente: i due colossi semipubblici Fanny Mae e Freddie Mac) passano dal 50 al 90% e più del mercato dei mutui, sostituendo la finanza privata che abbandona il settore, in cui il tasso di insolenza dei mutui è cresciuto di poco meno di tre volte (dal 3,3% del 2008 al 9,4% del 2010)87, ciò avviene perché lo Stato ha rifinanziato le perdite dei due colossi sborsando 150 miliardi e si è impegnato ad acquistare 100 miliardi l’anno (per dieci anni) dei loro titoli88. Senza questo ulteriore sostegno il mercato e l’attività edilizia avrebbero chiuso con le conseguenze immaginabili.

Lo stesso si può dire dell’industria dell’auto che è risanata ma a spese dei lavoratori, con tagli dei costi del lavoro oscillanti da 7000 a 30.000 dollari a testa, il che ha fatto scendere i costi del lavoro al di sotto di quelli giapponesi89. Epperò i livelli produttivi sono di gran lunga inferiori ai livelli pre-crisi: in USA si vendono nel 2010 appena 8.045.263 auto nuove, cifra sottomarina per gli USA, in rialzo del 10% sul 2009 ma il rialzo c’è solo perché l’anno di riferimento è bassissimo. Un raffronto chiarirà ciò che voglio dire: in Italia nel 2010 si immatricolano circa 1.950.000 auto -9,2% sul 2009, un’auto ogni 31 abitanti circa, in USA, con un rialzo del 10% si immatricola un’auto ogni 39 abitanti circa: una ripresa che somiglia ad un disastro.

Quanto detto per l’auto vale anche per i consumi: in genere durante l’anno si realizzano alcune oscillazioni modeste e a fine anno i consumi sono cresciuti di qualche punto sul 2009 ma, ancora una volta, l’anno di riferimento è quantomai depresso e il risultato è ottenuto con sostegni e stampelle, quelle che concernano il mercato edilizio sono solo un esempio, ma come vedremo l’azione di sostegno è enorme.

Il numero dei poveri tuttavia cresce: nel 2010 sono 43 milioni (4 in più del 2008) un americano su 7 è povero (il 14,3%) e le persone prive di copertura assicurativa, per malattia o incidenti, sono pari a 50,7 milioni contro i 46 milioni del 200890, tra le due date (2008/2010) c’è la riforma sanitaria di Obama, che avrebbe dovuto aumentare il numero degli assicurati …

Eppure lo sforzo è stato enorme il WSJ del 7/9/10, titola pesantemente: “Migliaia di miliardi spesi, 1,7% di sviluppo”. Forse il titolo è anche troppo moderato, nel senso che la cifra globale erogata in aiuti e salvataggi si deve calcolare non in trilioni ma in decine di trilioni: a ottobre, infatti, Obama, in base ad una legge da lui stesso voluta, deve rivelare il costo complessivo dei salvataggi, 3.300 miliardi di dollari cui vanno aggiunti altri 9.000 miliardi di prestiti erogati dalla Fed91 e, aggiungiamo noi, i 1700 miliardi più 600 di Treasury bonds che la Fed ha acquistato per sostenere il bilancio federale ed immettere liquidità nel sistema92; l’acquisto dei bonds del tesoro ha però un ulteriore funzione, oltre all’immissione di liquidità, e cioè quella di acquistare i titoli che il mercato potrebbe non sottoscrivere. Il pericolo è reale poiché mentre nel 2008 i bonds in mano a compratori stranieri erano il 55% del totale, nel 2010 la percentuale cala al 50%93, inoltre nei prossimi anni il 43% dei bonds americani dovrebbe essere piazzato sul mercato internazionale94, per cui occorre che le emissioni siano sottoscritte altrimenti le aste potrebbero andare deserte. Il fenomeno è già accaduto per i bonds emessi da un importante Stato della federazione, il New Jersey, che ha dovuto tagliare del 40% l’ultima emissione a causa della carenza di compratori95. Se un fenomeno simile accadesse per i bonds federali si dovrebbero aumentare i tassi di interesse col rischio di strangolare un’economia che danza sull’orlo dell’abisso, la Fed, perciò, deve necessariamente sottoscrivere i titoli di Stato.

Tiriamo ora le somme: 3.300 miliardi di salvataggi, 9000 di prestiti Fed, 2300 di bonds sottoscritti o da sottoscrivere, in totale 14.600 miliardi quasi 15 trilioni in due anni e l’economia è sostanzialmente ferma. A tal proposito non puoi ignorarsi il commento sconsolato dell’ufficio studi della più grande banca tedesca, la DB che afferma: “Così come il mercato immobiliare americano è appeso al sostegno statale, il sistema bancario europeo dipende dagli aiuti della BCE.

È ancora capitalismo questo?”96.

Domanda amara (anche per l’Europa la situazione è simile)97: un capitalismo che ha bisogno di una sedia a rotelle di 15 trilioni di dollari, più o meno, per rimanere pressoché immobile, è un capitalismo alla frutta.

B) Crisi della finanza federale e crisi bancaria.

A fine 2010 il debito federale rasenta i 14 mila miliardi, a marzo prossimo raggiungerà il limite massimo previsto dalla legge e cioè 14.300 miliardi: di qui a poche settimane tale limite dovrà essere aumentato oppure sarà la bancarotta, o alternativamente una politica di tagli (imposta da un congresso pesantemente condizionato dai repubblicani dopo le elezioni di mezzo termine) che saranno delle vere e propri amputazioni, togliere le stampelle all’economia USA non è possibile: sostenere il mercato edilizio fermo non è un lusso ma una necessità, come lo è pagare gli stipendi ai pubblici dipendenti o concedere sgravi fiscali per sostenere i consumi che anche così sono la canna dell’ossigeno.

Il presidente Obama per prevenire l’opposizione repubblicana ha proposto un menu piuttosto duro: eliminare gli sgravi fiscali (1000 miliardi) a sostegno dei consumi, ridurre di 200 mila dipendenti civili l’apparto statale nei prossimi anni, blocco degli stipendi pubblici, elevazione dell’età della pensione a 69 anni98.

Una cura da cavallo che dovrebbe portare il rapporto deficit-PIL al 2,3% nel 2015 e il rapporto debito-PIL al 40% nel 2035, più di quanto ipotizzato da Cotarelli. Il guaio è che se togli i sostegni ai consumi in vario modo (eliminazione sgravi, blocco assunzioni e stipendi nella PA) accadrà che i consumi, già stagnanti, crolleranno e con essi cederà anche l’economia, ed in un’economia calante calano anche le entrate fiscali ed il deficit si ripropone dalla parte delle entrate invece che da quello delle uscite.

Certo il rilancio dell’economia è fallito e non puoi continuare a spendere con i risultati irrisori messi in luce dal WSJ, epperò tagliare tutto il tagliabile è una soluzione peggiore del male; amputare entrambe le gambe può essere necessario ma non servirà mai a farti camminare, in altre parole il capitalismo USA è in culo di sacco.

Inoltre non è solo il bilancio federale a piangere: i singoli Stati delle federazione sono in una situazione assai prossima al default, il loro debito vale altri 2900 miliardi e la situazione di California ed Illinois, di cui si è detto in precedenza è di moltissimi altri Stati, considerando solo i grandi Stati abbiamo: California 364,3 miliardi (di debiti), Illinois 141,6, New York 291,7, Texas 257,5, Florida 160,4 Pennsylvania 137,399.

Lo stesso governo Obama, peraltro, non sembra molto convinto dell’efficacia della sua cura: secondo le previsioni che vengono fatte, nei prossimi tre anni (2011/2013) si produrranno altri 1267, 828 e 727 miliardi di deficit e cioè oltre 2700 miliardi in tre anni100, molto più della crescita del PIL, l’America nei prossimi anni continuerà a produrre molti più debiti che ricchezza e questo è paralizzante: oltre 15 anni fa il prof. Rifkin rilevò che la spesa per interessi sul debito pubblico assorbiva il 20% del bilancio federale quando il volume del debito era di soli 4000 miliardi101, adesso siamo a 14 000 che dovrebbero diventare circa 17000 nel 2013: tolto il peso degli interessi e quello delle spese fisse (difesa stipendi del personale) il margine di manovra di politica economica è ridottissimo, la crescita anche solo di uno 0,5% dei tassi di interesse sarebbe insostenibile.

Non meno grave è la situazione delle banche: a inizio 2010 775 banche sono in difficoltà102, a fine anno 100 di esse stanno per fallire a causa dei crediti in sofferenza103, nel corso dell’anno si rileva che dal 2008 fino agli ultimi mesi del 2010 sono fallite 279 banche contro le 40 dei sei anni precedenti e che questi fallimenti hanno causato la perdita dell’8,5% dei posti di lavoro del settore (188 mila in cifra assoluta)104; inoltre a fine anno le banche in difficoltà (ancorché non sull’orlo del fallimento) sono 829105, delle perdite occultate dalle grandi banche operanti in USA si è già detto.

Ancora una volta non c’è nulla di strano in tutto ciò: se l’economia reale è bloccata, anche le banche devono soffrirne e si arriva all’assurdo di fine anno quando si rileva che le banche hanno 1900 miliardi di liquidità congelata che non sanno a chi dare, mancando clienti solvibili106, un caso tipico di sovrapproduzione di capitale.

C) La disoccupazione male incurabile.

Nel corso del 2010 la disoccupazione in USA ha oscillato tra il 9,4 e il 9,9% della forza lavoro, a novembre è al 9,8% e il mese dopo cala al 9,4%, parrebbe un bel risultato con un simile trend tra due anni saremmo al pieno impiego. Epperò nessuno, a cominciare da Bernanke, sembra entusiasmarsi: il fatto è che la PA ha distrutto 10 mila posti di lavoro (dato ormai normale nel senso che sia il governo federale che quelli locali licenziano o bloccano il turn over)107, mentre nel settore privato sono stati creati 113 mila posti di lavoro con un saldo netto di 103 mila nuovi posti, ciò che avrebbe fatto calare la disoccupazione dello 0,4%. Assurdo poiché con una forza lavoro ufficiale e sottostimata di circa 150 milioni di unità, per ottenere un simile calo occorrevano 600 mila nuovi posti di lavoro. Il miracolo, però, si spiega con i missing men, gli uomini che scompaiono dalle statistiche del lavoro perché sono così scoraggiati che non si iscrivono più alle liste di disoccupazione. Qualcosa di simile era già avvenuto a metà anno: calo formale del tasso di disoccupazione ma solo perché 652 mila lavoratori scomparivano dalle liste perché scoraggiati e non perché ci fosse la pesta nera, sicché si calcola che con essi che il tasso di disoccupazione reale in USA è del 16,5%108. Un tasso da anni ’30 che sta a significare che i disoccupati non sono 15 milioni ma 25109. C’è poi da considerare l’esplosione del lavoro parziario che ormai concerne quasi i 2/5 dei lavoratori occupati110 ed il basso tasso di attività della forza lavoro USA, meno del 60%, un tasso inferiore a quello europeo o tedesco e simile a quello italiano (57,5% nel 2009). Da noi, come è noto, l’alto tasso di inattività è dovuto alla inattività femminile111, che in USA fortunatamente manca, ma ci sono altri fattori specifici di inattività, tra questi, assolutamente abnorme, il sistema carcerario-repressivo USA, paese di democrazia “carceraria” più che liberale. Una recente inchiesta (2010) fatta dall’“Economist” ha evidenziato che quasi 3 milioni di americani (un cittadino su 100 all’incirca) sono in galera, il più alto tasso di popolazione carceraria del mondo (da noi siamo ad 1 su 850 circa e le nostre carceri ci sembrano affollate); inoltre circa 10 milioni di americani (1 su 31), sono sottoposti a misure limitative della libertà, tutto ciò avviene per il carattere ultrarepressivo del sistema USA in cui al terzo reato (anche il furto di una vecchia bicicletta) hai dai 25 anni all’ergastolo. Si è tentato di fare un censimento delle norme penali americane, numerose e cervellotiche e chi ha tentato di censirle ha dovuto buttare la spugna, il lavoro era impossibile112. Il risultato di questo modello, che non è il caso di imitare, è che le carceri USA rigurgitano di persone in età di lavoro, ma impedite di entrare nel mercato del lavoro, mentre i 10 milioni di “vigilati”, che vivono con braccialetti e cavigliere elettroniche, hanno difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro perché per entrarvi devi essere mobile e con braccialetti e cavigliere sei notoriamente poco mobile, né i datori di lavoro sono propensi a dare lavoro ad “avanzi di galera” in un momento in cui la forza lavoro è sovrabbondante.

La forza lavoro americana è, dunque, per la maggior parte formata da inattivi, disoccupati, scoraggiati o sottoccupati (lavoratori parziari o precari),cui va aggiunta la grande massa di immigrati clandestini, che sono sottoccupati e sottopagati spesso al limite della schiavitù. Come uscire da questo culo di sacco nessuno lo sa. Sostenere le PMI significa sostenere attività marginali a bassa produttività e fragili113, sostenere la ricerca significa, nel capitalismo, sostenere il carattere labour saving e capital intensive delle grandi imprese, in termini occupazionali un disastro. Qualificare i lavoratori è una finzione: questo sistema richiede meno lavoro a tutti i livelli (qualificato, dequalificato e semiqualificato); chi è laureato (anche in campo scientifico), soffre la disoccupazione o la sottoccupazione non meno del manovale o dell’operaio semiqualificato, questo perché l’high tech di posti di lavoro ne crea pochissimi e nella maggior parte dei casi non sono di alta qualifica114.

D) Le riforme di Obama. La storia che diventa un flop.

All’attivo di Obama due riforme presentate come “storiche” quella sanitaria e quella del sistema bancario-finanziario.

Della prima ho già accennato al fatto che non ha incrementato ma ridotto il numero degli assicurati, per contro la prima trimestrale presentata dopo la riforma dalle case farmaceutiche segna un chiaro aumento dei loro profitti115, meno assistiti e più guadagni, quasi uno slogan da destra repubblicana. A fine anno si tirano le somme e si scopre che la parte della riforma concernente i non assistiti già malati (al momento della riforma stessa) è stata un flop si attendevano 375.000 iscrizioni all’apposito piano e ne sono arrivate solo 8.000 poco più del 2%116.

Quanto alla riforma di Wall Street ricordo che è stata largamente edulcorata per non urtare i signori della finanza: così l’obbligo delle banche di conferire le attività speculative ad alto rischio ad una distinta società non riguarderà il 93% dei titoli altamente rischiosi, ed i limiti quantitativi di impegno in quel settore sono diventati molto generosi117; tuttavia è appena il caso di notare (come per Basilea 3) che è possibile aggirarli ricorrendo a società-schermo dietro cui si nascondono azionisti che potrebbero benissimo essere le banche interessate alla speculazione, né occorrerà, per fare questo, andare all’estero, un prestigioso paradiso fiscale come il Delaware (Stato della federazione USA) offre tutte le garanzia in tal senso.

Quando poi la riforma vedrà luce, si scoprirà che è un trattato di 2300 pagine, che detta 539 nuove regole tutte o quasi in bianco118 da riempire ed interpretare, per cui si prevedono anni o decenni di controversie legali, come avvenuto per una mini-riforma del 2002 che ha impegnato fino al 2010 le corti americane fino alla Corte Suprema119; data l’estensione e la complessità enorme della nuova riforma si possono prevedere decenni di cause, che avranno un sicuro vincitore: il sistema dei grandi studi legali USA a carattere industriale, che farà affari d’oro.

Ma mentre i giuristi lotteranno (ed emetteranno parcelle) non è da credere che Wall Street verrà in qualche modo controllata. A fine 2010 il dott. Gary Glanzer, preposto ad una delle autorità che dovrebbero controllare Wall Street (in particolare nel delicatissimo e sconfinato mercato dei futures) si lascia sfuggire che lui non può nulla contro il fatto che 9 grandi banchieri (i signori di Wall Street) si riuniscano periodicamente e decidano l’andamento del mercato; il Dipartimento della Giustizia vorrebbe aprire un’inchiesta ma provare le pratiche collusive è praticamente impossibile120. Verissimo: può sostenersi che se il mercato segue certi orientamenti sarà perché le pratiche ed i prezzi sono razionali economicamente ed in linea con le attese del mercato e non sono il prodotto di pratiche collusive.

Ciliegina sulla torta a fine anno Obama nomina il signor Daley, fratello del boss e sindaco democratico di Chicago, a capo dello staff della Casa Bianca, Daley è un banchiere che viene dalle file della J. P. Morgan121; è evidente che Obama vuole buoni rapporti con Wall Street, a cui chiederà anche nei prossimi anni oltre 2700 miliardi di dollari (se tutto va bene) per i suoi buchi di bilancio: il momento non è il più adatto per fare la faccia feroce e presumibilmente i lamenti del dott. Glanzer rimarranno inascoltati.

E) La politica estera USA. Il Nobel per la pace va alla guerra e gli va male.

Quando si parla di politica estera USA si parla in genere di due paesi: Iraq ed Afghanistan.

Nel 2010 gli USA abbandonano l’Iraq anche se rimarranno 50.000 consiglieri militari, ma la guerra non è per nulla vinta122, il paese è quasi nel caos con attentati e lotte intestine ed il tentativo di emarginare lo sciita Al Maliki, a vantaggio di un filo americano, fallisce dopo un braccio di ferro post-elettorale durato sei mesi. Anzi a fine anno rientra dall’Iran, dopo tre anni di esilio, il leader sciita radicale Al Sadr che controlla 39 deputati del parlamento e 7 ministri del nuovo governo Maliki123 e che, davanti ad una folla in delirio, lancia la parola d’ordine della cacciata degli americani dall’Iraq (i pochi rimasti beninteso).

Eppure alla vigilia della partenza “senza gloria né vittoria” il vecchio Tarek Aziz, Ministro degli Esteri di Sadam invita gli USA a non andarsene, egli che è stato un nemico degli americani e che ora è in galera con la pena di morte sospesa sul capo. Il perché è chiaro: se ve ne andate “ci lasciate in mano ai lupi”, gli sciiti legati all’Iran124.

Previsione facile e rapidamente verificata: al governo tornano Maliki e gli sciiti più radicali, nelle piazze Al Sadr e i suoi che tuonano, non a torto, contro l’America e i suoi crimini che Wikileaks rende pubblici tirando fuori 92 mila documenti segreti, che illustrano canagliate e crimini vari commessi dagli USA in difesa, ovviamente, della democrazia.

Il baricentro dell’area si sposta verso l’Iran e l’America non sa fare altro che andarsene, salvando appena la faccia: non ha perso sul campo ma ha perso politicamente (come in Vietnam del resto), non può difendere oltre un ridotto indifendibile.

Ciò non avviene certo per il numero dei morti: in America ogni anno sulle strade muoiono molte più persone che non in Iraq, ma il problema, lo rilevo da anni, è economico: nel 2010 Obama ha dovuto tagliare 100 miliardi di spese militari, il paese è sull’orlo della bancarotta e, come qualcuno ha detto: “Niente soldi, niente potenza”125 .

Crudo realismo da bottegai forse, ma pur sempre realismo: un paese sull’orlo del default (e l’America è questo) non può permettersi avventure costose, e così si scappa via dall’Iraq, consolandosi col fatto che sul campo non si è perso, ciò che è irrilevante126.

Ci si concentra, dunque, con le residue forze in Afghanistan dove sul terreno la guerra è persa127 e dove esplode il conflitto tra il generale McChrystal e il governo. Pietra dello scandalo un’intervista al periodico “Rolling Stone”, in cui il generale in questione non manca di trattare con supponenza e disprezzo i politici, ma il vero nodo del dissenso è un altro: il generale, che non è un angelo ma un tipo alquanto tosto, osserva che per vincere non bastano bombe e soldati, ma occorre il consenso politico della popolazione, per cui è necessario creare un movimento di massa anti-talebano, la c.d. controguerriglia a carattere popolare. Il vecchio Nixon soleva dire che “se hai in mano le loro palle, non serve avere il loro cuore”128, per McChrystal il cuore non è meno importante delle palle, devi cioè produrre consenso e quindi creare scuole e ospedali, affrontare e risolvere i problemi elementari del popolo, per cui occorrono molte più risorse da utilizzare sia in campo civile, sia in campo militare, infatti dopo aver costruito una scuola ed un ospedale non puoi andartene altrimenti i Talebani tornano e li distruggono. Come si vede si ripropone il problema di sempre: i soldi che non ci sono. E poi c’è il problema delle alleanze politiche: è difficile fare una politica volta ad ottenere il consenso quando il tuo alleato è Karzai che vince le elezioni, convocate in condizioni assurde, facendo una montagna di brogli elettorali129 e che è indicato a fine anno, in un dispaccio inviato dall’Ambasciata americana di Kabul al governo, come un signore in combutta con criminali e mercanti di droga, messaggio ancora una volta reso pubblico dai simpatici ragazzi di Wikileaks130. La strategia del generale incontra ostacoli politici ed economici enormi, sicchè McChrystal viene messo da parte per il più docile Petreus e l’America rimane in Afghanistan ad occupare strisce di territorio, in cui è assediata e dalle quali non sa come uscire né militarmente né politicamente131, sta lì perché non sa che altro fare.

Alcuni (Kissinger) ormai parlano di un altro Vietnam, ma il giudizio è ottimistico (per gli USA): in Vietnam si temeva l’effetto domino, caduto il paese gli altri avrebbero seguito a catena. Ma non andò così perché il contagio postula l’esistenza di canali di trasmissione: nella specie un movimento comunista armato e organizzato che trasferisse ed esportasse l’esperienza del Vietnam, ed un tale movimento c’era solo in Laos e Cambogia.

Adesso la situazione è ben diversa: i Talebani sono presenti e attivi (per conto proprio o con movimenti alleati) in Pakistan, dove gli attentati ai convogli che portano rifornimenti in Afghanistan si fanno anche alla periferia di Islamabad132 e dove gli americani sono odiatissimi; in Thailandia e nelle Filippine sono presenti movimenti armati di separatisti islamici, esplosioni pericolose di terrorismo islamico in Indonesia ed India, dove esiste una piccola minoranza musulmana di 150 milioni di persone (sembra), movimenti islamici in Tagikistan per non parlare degli Uiguri ai ferri corti con il governo di Pechino.

Una disfatta ed una fuga (tipo Iraq) degli USA dall’Afghanistan potrebbe avere contraccolpi estesi e devastanti. In tutto questo l’America è paralizzata: non sa andare avanti, non sa tornare indietro e non può restare ferma.

 

3) L’Europa in panne. L’agonia di UE ed euro.

A) La situazione generale dell’economia europea nel 2010.

Anche l’Europa soffre dei medesimi mali del mondo. A giugno la BCE dirama le previsioni per il 2010 ed il 2011: nel 2010 la crescita dovrebbe oscillare tra lo 0,2 e 1,2%, nel 2011 le previsioni sono tra lo 0,7 e l’1,3%, dati questi assai modesti dopo lo scivolone del 2009 e soprattutto con una banda di variabilità estremamente alta.

La tabella n. 1 esposta in precedenza evidenzia come tra i grandi di Europa solo la Germania abbia una performance superiore al rapporto deficit-PIL (3,6%), in Italia siamo all’1% contro il 5%, in Francia siamo su posizioni intermedie, in Spagna e Grecia cresce il deficit ed il PIL è a livelli negativi, l’Inghilterra a fine anno rientra di nuovo in terreno negativo (- 0,5% il PIL dell’ultimo trimestre).

Tuttavia anche nella Germania del “miracolo” le cose non vanno come sostengono gli inventori di miracoli inesistenti : la Germania, lo si è visto, non recupero neanche la scivolata del 2009 ed in quell’anno il rapporto debito-PIL si impenna al 73,4%, ad ottobre 2008 prima che esplodessero i costi dei salvataggi bancari la Germania navigava ancora vicino ai livelli previsti da Maastricht, ormai anche la Germania produce più debiti che ricchezza. Inoltre nel settore simbolo dell’auto tedesca siamo in piena crisi: si immatricolano, nel 2010, 2.916.628 auto con un calo del 23,4% rispetto al 2008, segno che il “miracolo” è solo un rimbalzino ricco di pesanti elementi negativi.

Ma è dall’andamento degli ultimi anni che risulta con estrema evidenza come l’economia europea sia in fase di netto rallentamento: se si considerano i 5 grandi (Italia, Francia, Germania, UK, Spagna) solo la Spagna nel decennio 2001/2010 ha un aumento del 27%, tenendo conto della matematica composta siamo a poco più del 2% l’anno, una crescita modesta ridimensionata dalla base di partenza più bassa: ancora nel 2010 il PIL spagnolo è 2/3 circa di quello italiano. L’Italia, con qualche oscillazione, è al palo, Inghilterra e Francia crescono del 10-12% nel decennio e la Germania tra il 5-10% nello stesso periodo133. Un decennio sprecato o quasi, al più grigio e modesto; indicativi sono i dati disaggregati della Germania, numero uno d’Europa: nel decennio due anni negativi (- 0,2% nel 2003 e – 4,7% nel 2009), un anno di ristagno netto (0% nel 2002), 4 anni di quasi ristagno con tassi dello 0,8%, 1% e 1,2% (2005, 2008 e 2001/04) e solo 3 anni di crescita accettabile (2006, 2007, 2010) in cui l’ultimo è il recupero parziale di uno scivolone.

Ormai si cresce poco ed in modo affannoso, piccole impennate, cali, ripresine, anni grigi di quasi ristagno o ristagno. La disoccupazione nell’eurozona non si schioda dal 10%, qualche decimale in meno nella UE, mentre il tasso di attività come si diceva è basso e larga parte della popolazione lavora come tutti i paesi avanzati, con lavori parziari, precari, atipici134; a livello giovanile la disoccupazione (dicembre 2010 Eurostat), è al 20,4% nell’eurozona e al 21% in UE.

Sintomatico è, a tal proposito, il piano presentato dai commissari Tajani e Quinn in sede europea: di qui al 2025, con la ricerca, si creeranno 3,7 milioni di posti di lavoro investendo il 3% del PIL europeo ogni anno, e cioè circa 250 mila posti di lavoro l’anno in cambio del 3% del PIL135, un oceano di investimenti e una pozzanghera di occupazione, come abbiamo detto più volte non è questa la via per risolvere il problema.

Sempre in sede europea si elaborano scenari sullo sviluppo del debito pubblico nei prossimi decenni: lo scenario più favorevole prevede l’azzeramento del deficit annuo nel 2018 e la riduzione del rapporto debito-PIL al 60% nel 2030, lo scenario peggiore prevede un rapporto debito-PIL al 120% nel 2020, e cioè una generalizzazione del dato greco136. Ma in realtà queste sono solo esercitazioni statistiche: per ottenere nel 2030 l’obiettivo “ottimale” ci vorrebbe una cura ventennale alla Cotarelli, che abbiamo criticato in precedenza, visto che il vero problema è il rilancio dello sviluppo e cioè più produzione, più occupazione, più consumi.

Il discorso cambierebbe in parte se la politica di austerità non colpisse salari e consumi ma evasione fiscale, privilegi, corruzione etc. Allora l’austerità sarebbe un’austerità popolare e libererebbe risorse per sostenere salari, consumi ed occupazione; il fatto è però che di lotta all’evasione fiscale ed alla corruzione nessuno parla in sede europea, come ho già detto dopo gli squilli di tromba del 2009 l’argomento è passato di moda, quasi che il problema fosse stato risolto ed invece non lo è per nulla. Il fatto è, però, che in USA come in Europa se devi chiedere soldi ai mercati finanziari ed a chi li manovra, non puoi lottare contro l’evasione fiscale, perché è la grande finanza ed il grande capitale che evade il fisco non il disoccupato o il cassintegrato137.

Emblematico è quello che è avvenuto in occasione della crisi irlandese: davanti ad un governo che lascia invariata la tassa sui profitti al 12,5% e colpisce redditi da lavoro e consumi, il premio Nobel Spence (economista ultraconservatore) dice che è giusto agire così perché sono le imprese che reggono l’economia138.

Sarà anche vero (ma io ritengo che sia il lavoro a reggere imprese ed economia) tuttavia è indubbio che anche i consumi reggano l’economia, ed il cavallo dei consumi deve bere non meno di quello degli investimenti, perché se i consumi sono bloccati non si investe: che senso avrebbe produrre case e auto che nessuno compra o installare impianti che rimangono fermi? Bloccare i consumi già depressi significa uccidere l’economia.

Bisogna rilanciare lo sviluppo restituendo ai lavoratori i 7-10 punti di PIL persi negli ultimi trent’anni (come rivelano OCSE, FMI, e BRI) e questo richiederebbe decisioni rapide e giacobine, perché se il cavallo non beve muore, e quindi lotta feroce all’evasione fiscale, taglio drastico delle aliquote di imposta sul lavoro, elevare la tassazione delle rendite, consolidare il debito pubblico, alzare l’importo delle pensioni (restaurando il retributivo), vietare forme di lavoro precario e parziario, riattivare la scala mobile e il recupero del fiscal drag, etc.

Massimalismo? Assolutamente sì. Ma se hai il cancro non puoi pensare di usare l’aspirina, ci vuole la chirurgia e la chemioterapia in forme drastiche, quello che qualche anno fa ho definito un “rooseveltismo da bombardamento atomico”, certo chi, davanti ad una situazione incancrenita come la nostra, vuole fare il moderato corre il rischio di fare la figura del medico che vuole curare il cancro al cervello con l’aspirina, e cioè la figura di un ben riuscito incrocio di un imbecille e di un assassino.

Io sono il primo ad ammettere che se si fa una simile politica, drastica quanto necessaria, con ogni probabilità il sistema crolla dalla parte degli investimenti, perché si azzererebbero i profitti; tuttavia se non si prova questa ipotesi di soluzione continuerà il crollo del sistema, che a mio avviso è già iniziato, dalla parte dei consumi, in altre parole il capitalismo si trova tra Scilla e Cariddi qualunque via scelga crollerà e non sono stato certo io a spingerlo davanti ad un simile dilemma cornuto, in cui la libertà di scelta consiste nello scegliere se farti trafiggere dal corno destro o dal corno sinistro del dilemma. Chi per decenni ha creduto, con omerica stupidità, che il mercato e il sistema risolvessero automaticamente i problemi che creavano, non può lamentarsi adesso se si trova in culo di sacco e se la situazione è diventata ingovernabile.

Non dubito peraltro che una classe dirigente mediocre e priva di idee sceglierà la strada più ovvia: quella della subalternità al grande capitale e dei sacrifici che continueranno ad essere posti sulle spalle dei soliti noti, sono decenni che ci si muove in questa direzione ed è evidente che questa classe dirigente allo sbando non sa che ripetere i propri errori avvitandosi in essi.

B) La crisi bancaria.

Il 12 ottobre 2008 a Parigi i capi dei governi europei mettono sul tavolo 1800 miliardi di euro per salvare le banche, di cui si era asserita la solidità sino al giorno prima139 solo l’Italia attraverso il Ministro Tremonti non assumerà impegni precisi, si interverrà, se è necessario, ma le nostre banche, dice Tremonti, sono solide. Qui il nostro Ministro dell’Economia ha compiuto un capolavoro degno del cardinale Richelieu: le nostre banche, infatti, sono anch’esse in serie difficoltà, ma ovviamente non possono ammetterlo, e così Tremonti terrà stretti i cordoni della borsa140.

Non così invece per gli altri governi europei, ma quei 1800 miliardi sono stati solo un acconto: di recente sono circolate cifre da 5000 miliardi di dollari come costo dei salvataggi bancari, ma a fine anno la Commissione europea fornisce le cifre ufficiali fino ad ottobre 2010 compreso: costo dei salvataggi 4500 miliardi di euro (al cambio più o meno 6000 miliardi di dollari)141. Una cifra da brividi davanti alla quale sorge spontanea una domanda: potranno mai le banche restituire una cifra simile? Ne dubito moltissimo, se le banche dovessero restituire tale somma sarebbero di nuovo decotte e bisognose di essere salvate dagli Stati; si parla da più parti su una tassa sulle banche come contributo ai costi del loro salvataggio, ma sinora solo il governo inglese ha varato una proposta in tal senso che frutterebbe all’erario una cifra annua di 2 miliardi di sterline142, cifra irrisoria se si pensa che il 12 ottobre 2008 le banche inglesi hanno avuto come acconto 500 miliardi di euro143, per cui 2 miliardi l’anno basterebbero a pagare un interesse del 5% annuo nella misura di 1/12 (e neanche)144.

Ma la cosa più grave in queste vicende è quello che Penati chiama “il gioco delle tre tavolette” che noi a Napoli chiamiamo “gioco delle tre carte”. Le banche si fanno salvare dagli Stati e poi gli prestano i soldi del salvataggio145, lucrando interessi notevoli, infatti mentre l’esposizione delle banche verso famiglie e imprese è aumentata del 7%, quella verso gli Stati è salita del 24%146. Le banche hanno dal 5 al 15% dei bonds europei in portafoglio147 e non disdegnano neanche di compiere speculazione a ribasso sui titoli europei (ciò che, come è noto, fa arrabbiare la signora Merkel), né di investire nei titoli dei c.d. Pigs (i quattro paesi a rischio, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) in tal modo lucrano interessi molto alti ed in caso di crisi sanno che gli altri Stati interverranno per salvare chi sta affogando, ciò perché chi va a fondo trascinerebbe con sé gl’altri; così scopriamo che le banche europee hanno in portafoglio 1000 miliardi di euro (secondo alcuni 2000) di titoli Pigs148 che dovrebbero essere titoli spazzatura, poco ambiti ma diventano ambiti perché si sa che alle strette si vareranno manovre lacrime e sangue pagate dai consumatori e dai lavoratori dei paesi interessati, per cui le banche sono al sicuro: in altre parole interessi elevati e rischio zero (per le banche).

Una situazione ideale per i nostri banchieri, una vera terra di Bengodi, che avrebbe potuto essere evitata in modo assai semplice applicando un istituto che esiste in tutti i codici civili: la compensazione. Se A è debitore di B e gli dà dei soldi, che non sono una donazione graziosa, le somme erogate da A vanno a scomputo dei suoi debiti verso B, il che significa che le banche avrebbero dovuto annullare i bonds statali detenuti in portafoglio per una cifra corrispondente agli aiuti ricevuti. Nulla di tutto questo è avvenuto: le banche anzi hanno prestato agli Stati gli aiuti ricevuti dagli Stati stessi, ed hanno continuato a tenere in portafoglio i loro bonds continuando a lucrare i relativi interessi: un incredibile gioco delle tre carte a danno dei lavoratori e dei consumatori europei, un’autentica truffa legittimata dal contegno degli Stati europei, ovviamente con una tale politica il debito pubblico dei paesi europei non poteva che impennarsi149.

Dire che le banche europee ricordino Shylock e Al Capone sarebbe offensivo, per Shylock e Al Capone beninteso.

Ciò premesso si potrebbe pensare che le banche europee grazie ai generosi aiuti ricevuti, siano riuscite almeno a risanare la propria posizione e difatti nel corso del 2010 vengono varati, in sede europea, i c.d. “stress test” per saggiare la solidità delle banche che, in effetti, vengono promosse a pieni voti. Molti però storcono il naso su questi “test” che sembrano chiaramente addomesticati150, poco dopo, infatti, apprendiamo che gli aiuti alle banche continueranno fino al 2011 compreso151, evidentemente 6000 miliardi di dollari non sono bastati al risanamento, ma è la crisi irlandese che fa naufragare nel ridicolo i test in questione: le banche irlandesi erano state promosse a pieni voti e a novembre sono sul punto di fallire; anche le banche spagnole promosse (come tutte) sono, a fine anno, con l’acqua alla gola152, i test ricordano le assicurazioni di una celebre agenzia di rating sulla solidità della Lehman qualche giorno prima che la banca fallisse.

Si parla a fine anno di nuovi test più credibili, ma è auspicabile che non si facciano: una farsa basta e avanza.

La verità è che le banche, come ho detto più volte, vivono in connessione con l’economia reale, se questa va male è logico che, normalmente almeno, anche le banche se la passino male. Inoltre il salvataggio costato 6000 miliardi di dollari (e non ancora finito) non potrà dirsi coronato da successo se non quando le banche potranno restituire con gli interessi quanto hanno avuto, ciò che non può avvenire altrimenti le banche fallirebbero di nuovo.

C) La crisi greca (e irlandese) all’origine dell’agonia dell’euro.

Il deteriorarsi della situazione finanziaria dei paesi dell’area euro (ma anche dell’UE) è evidente nel corso del 2009, della Germania si è detto ma la tendenza è generale. L’Eurostat dirama i dati sul rapporto deficit-PIL e debito-PIL relativi al 2009. Nel primo caso siamo al 6,3% (media eurozona) e al 6,8% (media UE), nel secondo caso siamo rispettivamente al 79,2% e al 74%.

I parametri di Maastricht (3% deficit-PIL, 60% debito-PIL) sono solo un ricordo. Ovviamente questa situazione pesantissima, colpisce l’euro, una moneta che ha alle spalle 17 Stati dalle finanze dissestate, e che può essere oggetto di attacchi speculativi al ribasso. Ciò è tanto più vero perché nel 2010 la situazione si deteriora, l’Inghilterra naviga verso uno sbilancio deficit-PIL del 12,6% (il FMI a inizio anno prevedeva il 13,5%), l’Irlanda arriverà ad uno sbilancio annuo del 32% (previsione FMI di inizio anno “solo” il 12,2%), ma al di là dei casi singoli i bilanci pubblici, quasi dappertutto, sono tesi fino a spezzarsi.

A maggio esplode la crisi greca, paese con un rapporto debito-PIL che è al 120% e si prevede possa rapidamente arrivare al 150%, per cui la speculazione inizia ad attaccare l’euro, di cui la Grecia fa parte. Alcuni sostengono che la vicenda è inventata dalla speculazione stessa153, ed in parte è vero perché è nella natura della speculazione enfatizzare il positivo (rialzo) ed amplificare il negativo (ribasso); per guadagnare molto in poco tempo occorre che le variazioni di prezzo siano rapide e consistenti per cui è logico enfatizzare sia i dati positivi che quelli negativi. La speculazione al ribasso, però, morde con efficacia dove i problemi esistono e i problemi per la Grecia ci sono, e più in generale per i paesi europei, la cui situazione finanziaria presenta i caratteri di un bel rosso vivo.

A questo punto intervengono alcuni fatti nuovi di notevole importanza: in una drammatica nottata di inizio maggio salta l’art. 123 del trattato di Maastricht, che vietava alla BCE di acquistare i bonds dei paesi dell’eurogruppo. Per qualche ora si cerca di salvare la faccia dicendo che la BCE non acquisterà in prima persona i titoli ma attraverso le banche nazionali, ma dopo qualche ora Trichet getterà la maschera ed ammetterà che la BCE compra i bonds dell’eurogruppo, saranno 40,5 miliardi nel corso della crisi154, ma continuerà in seguito e a fine anno ne acquista a ritmo di 600 – 1100 milioni a settimana155.

È una rivoluzione. Innanzitutto perché, come ogni rivoluzione, è illegale: la BCE deve applicare il trattato non modificarlo, cosa che è compito dei singoli paesi con le loro procedure costituzionali. In secondo luogo perché si riconosce che certi vincoli o parametri stabiliti a suo tempo con rigore aprioristico prescindendo dalla situazione reale (dogmatismo monetarista) sono idioti, come ebbe a dire il Premier italiano Prodi a suo tempo, il che non gli impedì di aderire in seguito ad un trattato dai vincoli “idioti”.

Se la casa brucia e la speculazione impazza, devi sostenere i paesi che affogano, altrimenti se questi vanno giù si tirano indietro gli altri; i tedeschi possono bene incavolarsi perché così si sostengono i corsi dei bonds degli altri paesi, che sui mercati si presentano in concorrenza con i loro, ma il fatto è che i 17 componenti dell’euro nuotano incatenati l’uno all’altro: se uno affoga, affogano tutti.

La BCE, dunque, manda in soffitta il dogmatismo liberista e monetarista e si allinea alla Fed (ed anche alla Boj giapponese)156, che acquista i bonds del proprio paese.

L’altra conseguenza di grande rilievo della crisi greca, è la nascita di un fondo salva-Stati, che farà il suo esordio con la crisi irlandese di fine anno: il fondo è costituito da 440 miliardi forniti dal fondo stesso, 60 dalla Commissione europea e 250 dal FMI157. E’ evidente che l’Europa non può affrontare da sola l’emergenza, un terzo delle disponibilità verrebbe dal FMI e non è poco, inoltre per ora non si tratta di soldi veri ma di un impegno per il futuro158, quando si verificherà l’emergenza il fondo, la Commissione europea e la FMI, emetteranno dei bonds, inoltre il fondo è un istituzione tappabuchi che interviene sugli effetti e non sulle cause159. Ancora: si continua ad affrontare il problema del debito facendo altri debiti e sperando nella generosità altrui che non è disinteressata ma, soprattutto, non è un pozzo senza fondo: Cina e Giappone sosterranno il fondo, ma fino a quando potranno farlo?

Inoltre il fondo è una realtà molto più modesta di quanto dica la cifra di 750 miliardi: la somma veramente disponibile per salvare gli Stati è solo di 250 miliardi, perché i 2/3 del fondo stesso devono essere vincolati a garantire il rimborso dei bonds emessi, per cui si pagheranno interessi su 750 miliardi ma se ne potranno utilizzare solo 250: una soluzione fallimentare che la dice lunga su come sia disastrata la situazione delle finanze europee.

A fine anno, perciò, il governo belga chiede di aumentare l’importo del fondo a 1500 miliardi, mentre alcuni economisti parlano di una grandezza necessaria di 2000 miliardi160, una enorme mole di debiti per i 2/3 congelati ma produttivi di interessi. Le proposte sinora fatte di aumento non sono passate ma, ove mai passassero, sarebbero estremamente onerose per quanto detto, e soprattutto riguarderebbero un’iniziativa tappabuchi che interviene sugli effetti e non sulle cause.

La terza conseguenza della crisi greca è una catena di interventi “lacrime e sangue” decisi dai vari governi compreso il nostro161; non le analizzeremo in dettaglio162, ma ci limiteremo ad evidenziare i contenuti di quella inglese che è veramente emblematica: riduzione drastica dei dipendenti della PA, (500 mila in meno nei prossimi anni tra cui anche 11.500 poliziotti), taglio medio delle spese dei ministeri del 19% (solo 8% Difesa, ma 25% Interni), tagli al welfare per 7 miliardi di sterline (oltre gli 11 già decisi), in pensione a 66 anni nel 2020, IVA dal 17,50 al 20%, tasse universitarie triplicate su una base già elevata: in totale si intendono recuperare 83 miliardi di sterline in un paese in cui gli interessi del debito pubblico assommano a 43 miliardi l’anno163.

Spaventoso, più o meno quattro volte l’importo della nostra manovra di maggio 2010 che, pure, non è stata una pioggia di primavera, come vedremo tra breve. Ma perché si è arrivati a questo? Nel bailamme di analisi spesso penose, spicca per chiarezza la posizione del Governatore Draghi, che è uno strano Governatore che, almeno negli ultimi tempi ha preso l’abitudine di parlare chiaro e duro a differenza di molti suoi predecessori, infatti: “Se è stato illusorio pensare che la moneta unica potesse fare l’Europa, oggi l’unica via è quella di rafforzare la costruzione europea della politica con un governo dell’unione”164.

In altre parole da Maastricht in poi si è pensato che la moneta europea potesse produrre lo Stato e questa era un’illusione (monetarista), per cui dovremmo sanare l’errore fatto creando lo Stato. In sintesi abbiamo costruito un attico senza fondamenta (una moneta senza Stato), oggi dobbiamo costruire le fondamenta. Si è fatto un errore colossale ed occorre rimediare. L’errore, però, non era imprevedibile, dieci anni orsono dissi e scrissi che fare una moneta senza Stato era forse originale ma era anche folle165; la moneta implica una politica monetaria che è parte di una politica economica, industriale, commerciale e fiscale complessiva, il che implica un ministero dell’economia e quindi un governo ed uno Stato; si è prodotta, dunque, una costruzione fragile che al primo venticello di crisi ha sbandato paurosamente, ed oggi non siamo nel mezzo di un venticello ma di una tempesta. Si faccia lo Stato, dunque, sostiene Draghi, e gl’altri gli fanno eco166, ma è possibile? Nel 1992 si varò il progetto di una moneta senza Stato perché fare lo Stato non era possibile allora e c’è da chiedersi che cosa sia cambiato da allora ad oggi nel senso di rendere possibile quello che prima era impossibile.

A mio avviso assolutamente nulla, anzi se qualcosa è cambiata lo è in peggio: la crisi, infatti, acuisce i conflitti tra Stati, come ho evidenziato parlando della paralisi dei G e questo avviene ovviamente anche in Europa, i cui più grandi paesi fanno parte dei G. Più precisamente la Germania opera il suo rimbalzino nel 2010 esportando di più grazie alla sua elevata tecnologia, il che significa che rastrella una parte delle residue capacità di consumo dei propri partners europei, cosa che a questi ultimi non fa piacere, per contro il sostengo che la BCE dà ai paesi in difficoltà violando l’art. 123 di cui si è parlato, fa imbestialire i tedeschi che vedono in questo una concorrenza sleale nei confronti dei proprio bonds per giunta pagata con i loro soldi (il 18,6% della BCE è tedesco); quanto poi ai paesi che non hanno aderito all’euro sono ben lieti di non averlo fatto (e chi può dar loro torto?) e sono assai poco propensi a pagare i costi del salvataggio dell’euro. Ma, più in generale, per l’Europa come per il G 20, il problema è che nessuno è in grado di proporre una politica di uscita dalla crisi per un motivo molto semplice: non c’è. Così dall’Europa, come dai G, escono fuori documenti vacui, in cui si dice che bisogna rilanciare ricerca, competitività, produttività e ovviamente l’occupazione, occorre flessibilizzare la forza lavoro, stabilizzare il debito e azzerare il deficit167, dimenticando quello che abbiamo evidenziato e cioè che la competitività, la produttività e la ricerca applicate ad una economia capitalistica servono a produrre disoccupati e non occupati; quanto alla flessibilità produce solo sottoccupazione e sottosalario, come si è visto, un veleno per lo sviluppo almeno ai livelli di occupazione e sottoccupazione esistenti e patologici, si confonde il veleno con la medicina.

Senza una politica comune di uscita dalla crisi non è possibile nessuno Stato europeo; se per assurdo lo si facesse sarebbe la somma di fallimenti e di impotenze nazionali e cioè un fallimento allargato. In questa situazione l’unica possibile politica comune è quella negativa dei salvataggi: tappare i buchi quando si manifestano (crisi greca o irlandese) così come a livello extra-europeo la Cina sottoscrive i bonds americani per impedire il crollo di quella economia che le cadrebbe sulla testa, ma al di là di questo (la collaborazione al momento in cui si manifesta la falla) non si può andare, per andare oltre ci vorrebbe, lo ripeto ancora una volta, una politica che risolvesse in positivo i problemi enormi che sono sul tappeto e che sono incancreniti.

Un ulteriore riprova di quanto sosteniamo è ricavabile dalle vicende del c.d. patto di stabilità, che avrebbe dovuto regolare da Maastricht in poi le finanze degli Stati europei: non oltre il 60% nel rapporto debito-PIL, non oltre il 3% per deficit annuale, pena severe sanzioni, sanzioni poco o nulla applicate; si può dire, anzi, che fin dall’inizio, al momento dell’adesione dei singoli paesi, i limiti rigorosi e ottusi del trattato vennero “interpretati” ed aggirati: così quando il premier italiano Prodi fece notare che un’Italia estranea alla moneta unica poteva fare una politica di svalutazione aggressiva della lira, mettendo in difficoltà le industrie tedesche e francesi (cosa già avvenuta con la crisi della lira all’inizio degli anni ’90) si scoprì che il limite del 60% era un obiettivo cui tendere, ma non un vincolo tale da negare l’entrata nella moneta unica.

E su quella strada si è continuato: di recente Ciampi ha notato che esistono Stati-canaglia che falsificano i bilanci per non incappare nelle sanzioni del patto di stabilità168, tuttavia l’Eurostat ratifica i falsi e poco tempo fa ha promesso che sarà più severa per il futuro169 .

Buoni propositi che però non spiegano il lassismo precedente e continuato, ed a mio avviso la spiegazione è semplice: se applichi le sanzioni previste ad uno Stato in difficoltà (multe, sospensione dei fondi europei, etc.) gli dai il colpo definitivo alla nuca, lo spingi a fondo e quest’ultimo annegando trascina con sé gl’altri. Questa mia “maligna” interpretazione è confermata dalle vicende della revisione del patto stesso ratificata in sede UE negli ultimi mesi del 2010. L’asprezza della crisi greca aveva posto l’esigenza di un patto più rigido e severo che prevenisse altri default, ovviamente la Germania è in prima linea nel chiedere severità, dopo la sconfitta subita con l’accantonamento dell’art. 123 di cui abbiamo parlato.

Il nuovo patto viene varato con l’impegno di combattere non solo sul fronte del deficit ma anche su quello del debito, che deve gradualmente calare; questo per un paese come l’Italia, dice il Commissario tedesco Rehn, può significare un’ulteriore manovra annua di 45 miliardi fino al raggiungimento del livello del 60% debito-PIL (tra una ventina di anni se Allah vuole), ma Juncker, presidente dell’eurogruppo e Tremonti lo smentiscono seccamente: non è vero perché non bisogna tener conto del debito pubblico ma anche di altri parametri come il debito privato, che avvantaggia l’Italia, e poi le sanzioni non sono mai automatiche ma decise caso per caso170.

Nella versione definitiva del nuovo patto prevarrà la linea Juncker – Tremonti (sui tedeschi) e ciò farà arrabbiare il dott. Stark, membro tedesco dell’esecutivo della BCE, che in un’intervista al giornale della Confindustria criticherà aspramente il nuovo patto, seguito a ruota da Trichet171, che dopo aver ceduto sull’articolo 123 non ha inteso spingere oltre la propria arrendevolezza ai “lassisti”. In sostanza il nuovo patto è una gruviera piena di buchi e di scappatoie: nessun automatismo e se non si riducono deficit o debito ci si può sempre appellare agli altri parametri che giustificano le scelte fatte, l’Italia ha sempre sostenuto che, essendo meno indebitata a livello privato, ha diritto ad una maggiore benevolenza per il suo debito pubblico, né il suo debito globale è molto diverso da quello della Germania.

La sconfitta della Germania e dei “rigoristi” si spiega ancora una volta in un modo assai semplice: nessuno può spingere a fondo sul terreno della severità e del rigore perché, se ad un paese che si sta svenando e non riesce a tenere i conti in ordine, applichi anche delle sanzioni aggiuntive lo fai affondare e gli altri affonderanno con lui, data la connessione che esiste tra bilanci ed economie europee. La severità del nuovo patto di stabilità, come di quello vecchio, ricorda da vicino le grida di manzoniana memoria. Del resto anche la potente e ricca Germania malgrado il risibile miracolino del 2010 non riesce ad essere in linea con i parametri del 3% e del 60% per cui avrebbe qualche difficoltà a fare la voce grossa.

La situazione inoltre è così pesante che trapelano voci di uscita dall’euro, ovviamente subito smentite come è d’obbligo: se queste voci fossero ufficiali l’euro crollerebbe e le aste dei bonds dei vari paesi andrebbero deserte. Tuttavia le ipotesi cominciano a circolare, il Nobel Stiglitz ipotizza (anche se non è entusiasta) la possibilità di due euro, uno dei paesi mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) e uno dei paesi più forti (Germania, Austria, Benelux e forse Francia)172, ma è appena il caso di notare che così si creerebbe una guerra commerciale e monetaria tra un euro debole che si svaluta ed uno forte che si rivaluta, le tensioni, ora in parte compresse, esploderebbero in modo selvaggio. Ancora peggio se si ritornasse alle monete nazionali: si avrebbe un balletto di svalutazioni e rivalutazioni solo che alla guerra per gruppi, che è sottesa dall’ipotesi dei due euro, si sostituirebbe la guerra di tutti contro tutti.

Gli “eurofanatici” che circa venti anni orsono pensavano di aver fatto la Storia ponendo in essere una moneta senza Stato, ora sono condannati a gestire le conseguenze della cavolata gigante che hanno posto in essere, creando una situazione in cui, tanto per cambiare, non puoi andare avanti, non puoi tornare indietro e non puoi restare fermo.

D) Le riforme europee del 2010. Un meccanismo farraginoso ed inutile.

Il quadro prima tracciato è fallimentare, ma qualcuno potrebbe sostenere che l’Europa esiste e batte un colpo con la riforma dei mercati finanziari e delle banche varata a fine 2010. Con questa riforma si sono create varie istituzioni: l’EBRA (sede a Londra) per vigilare sulle banche, l’ESNA (sede a Parigi) per vigilare sui mercati finanziari, l’EOPA per pensioni ed assicurazioni ed il CERS per il controllo dei rischi sistemici173. Ognuna di queste agenzie avrà da 70 a 100 addetti a regime, in totale non più di 400 persone che dovrebbero svolgere un lavoro di sorveglianza enorme e qui mi viene il dubbio che si dovrebbero ingaggiare dei Superman al cubo per svolgere una tale mole di attività, ma al di là delle facili battute mi sembra che esista una sproporzione enorme tra i fini faraonici del progetto e la modestia delle risorse messe in campo. Quanto poi ai poteri di queste istituzioni esse potrebbero, ma solo in “casi estremi”, vietare l’uso di strumenti di carattere altamente speculativo: si badi non quando ciò è utile ed opportuno, ma in “casi estremi” e cioè del tutto eccezionali, la paura di toccare i mercati e di urtarne la suscettibilità, nel momento in cui al mercato (ed ai mercanti) si devono chiedere i soldi dei bonds, mi pare evidente.

Inoltre mai le autorità in questione possono imporre ad uno dei 27 paesi UE un esborso di denaro pubblico, ogni paese ha il diritto di veto in sede di Consiglio europeo; ancora, i poteri delle quattro autorità coesisteranno accavallandosi con quelle dei 27 paesi, ed infine ogni tre anni il meccanismo potrà essere rivisto. Se un codice o una costituzione fossero fatti con una simile clausola di revisione ravvicinata e ripetuta, tutti penseremmo che il primo a dubitare della sua creatura è il legislatore stesso. Giustamente osserva Marco Onado, che la riforma consiste in: “… un faticoso compromesso in una governance complessa di nuovi organismi ed in poteri ancora limitati”174.

Cosa possono fare i nuovi organismi contro la finanza ombra ed i paradisi fiscali non è dato sapere: se un’operazione speculativa al ribasso (contro i bonds tedeschi ad esempio) viene vietata perché è “un caso estremo”, sarà possibile farla attraverso società-schermo ad Hong Kong, a Zurigo ed anche a Wall Street.

Quanto poi all’agenzia per la prevenzione dei rischi sistemici (il CERS) si rasenta il ridicolo: non ha senso tentare di prevenire i rischi di incendio se non hai un corpo dei vigili del fuoco. In altre parole i rischi sistemici sono le crisi e se non hai una politica anticrisi da proporre (e lo ripeto nessuno la propone perché non esiste) lanciare allarmi potrebbe solo creare il panico: se dici che è in arrivo una crisi finanziaria e non proponi nulla di concreto per fermarla, l’indomani folle di risparmiatori ritireranno i soldi dalle banche con le conseguenze immaginabili.

E) L’Europa è finita, ma è mai cominciata?

Nel 1976 uscì a Parigi un libro dal titolo secco e duro “L’Europa è finita”175, la prima frase suonava così: “L’Europa è finita ma bisogna chiedersi se è mai cominciata”. Ho ripreso e sviluppato le tesi di quel saggio in un lavoro del 1976 in cui dicevo (come l’autore francese) che l’Europa stava fallendo e finendo e che essa non corrispondeva per nulla alle speranze e alle esigenze dei popoli, era una Europa squallida, di mercanti, finanzieri e speculatori176.

Da quel lontano saggio del 1976 sono stati fatti vari tentativi per creare un collegamento tra monete (i c.d. serpenti monetari) tutti falliti, per cui si è tentata la fuga in avanti: fare una moneta senza Stato, cosa originale quanto folle, un illusione come ammetterà lo stesso Draghi.

Tutti vogliono uno Stato ed una governance (è più vago ed è anche più chic) ma nessuno dice come farlo e quello che si fa, dai nuovi patti di stabilità alle riforme finanziarie è semplicemente vomitevole, come si è visto.

Finanche uno studioso come Lucio Caracciolo non sospettabile di marxismo si lascia sfuggire che l’Europa è finita, anzi non è mai cominciata177. Sono oltre 35 anni che sostengo queste tesi e sono 10 anni che osservo che l’euro è stata una follia ingiustificabile, naturalmente le mie posizioni sono quelle di un vecchio massimalista in grugnito i realisti sono quelli che ci (s)governano e che senza dubbio alcuno troveranno la soluzione di questi problemi, per quanto sinora non siano riusciti a cavare un ragno dal buco.

La verità è che l’Europa è in agonia e con essa l’euro, e questa agonia è un momento dell’agonia globale del capitalismo.

  

4) L’Italia. Galleggiare in attesa di S. Gennaro.

Anche l’Italia produce ormai sempre più debiti che ricchezza: nel 2010 + 1% di PIL e 5% rapporto deficit-PIL, con questo ritmo di sviluppo (si fa per dire) non si sa quando ritorneremo ai picchi piuttosto bassi pre-crisi. La disoccupazione a novembre è all’8,7%, quella giovanile al 28,9% e l’ISTAT ci fa sapere che il 21,2% dei giovani (oltre due milioni) non studia, non lavora e non cerca lavoro, più che inattivi sono totalmente passivi. A fine 2009 il tasso di attività era del 57,5% contro una media europea più alta di 7 punti, e nel 2010 non vi sono sostanziali variazioni. Gravissima l’inattività tra le donne, secondo l’OCSE (dati di metà 2010) da noi lavora il 46,4% delle donne, tra i G20 peggio di noi solo la Turchia; a dicembre 2010 l’ISTAT ci fornisce un dato simile (46,5% le donne occupate), dato comunque sottomarino e peggio di noi in Europa soltanto Malta178. Inoltre i lavoratori parziari e precari erano da noi 5-6 milioni prima della crisi179, a crisi scoppiata questo settore è l’unico che tiri, anche se il lavoro parziario-precario è “involontario” subito e non voluto180. Considerando i disoccupati, inattivi e sottoccupati appare evidente che ormai i lavoratori a tempo pieno e indeterminato sono una minoranza della forza lavoro anche in Italia (intorno ai 17 milioni), ma anche tra di essi vi sono molti lavoratori autonomi che gestiscono piccole imprese ai limiti del mercato con scarso volume di affari in cui la forza lavoro impiegata è sottoutilizzata.

La situazione dei pensionati è drammatica, il 45% guadagna meno di 500 €, il 73,3% meno di 1000 €, e un altro 13% si situa nella fascia 1000-1500 €181, la stessa Banca d’Italia, un tempo sostenitrice del passaggio dal retributivo al contributivo, che ha tagliato le pensioni, sembra preoccupata per il taglio al tenore di vita che questi dati stanno a significare182 un taglio che implica riduzione dei consumi e della dinamica dell’economia; amara considerazione cosa si aspettava la Banca d’Italia dopo il passaggio al contributivo, che salissero pensioni e consumi? È sin troppo evidente che se fai una politica deflattiva hai delle conseguenze deflattive, sperare nel contrario è veramente assurdo.

Quanto a lavoratori ed impiegati hanno perso 5.500 euro di potere d’acquisto negli ultimi dieci anni183, per cui cresce l’indebitamento delle famiglie, necessario a mantenere costumi stagnanti, anche se non siamo ai livelli americani e giapponesi ci avviciniamo ad essi184; inoltre due famiglie su tre non riescono a risparmiare185 e una su tre non riesce ad affrontare una spesa straordinaria di 750 euro186; secondo l’ISTAT, infine, il livello del risparmio passa dal 18 al 12% nell’arco del decennio e i consumi sono a livello del 1999187.

Al sud la situazione è anche peggiore. Secondo l’ultimo rapporto Svimez il 20% delle famiglie meridionali non può pagare il medico, il 30% non compra abiti nuovi, il 16,7% paga le bollette in ritardo e il 21% non può pagare il riscaldamento188. Secondo il prof. De Rita, direttore del Censis, ciò avviene perché abbiamo tutto, ma ciò andrebbe detto alle famiglie che tirano la cinghia o i pensionati con meno di mille euro al mese, tuttavia a fine intervista il prof. De Rita deve ammettere che siamo costretti a consumi più oculati perché i soldi in tasca sono pochi189.

Quanto alle banche italiane che, secondo la vulgata, sarebbero solide, Standard & Poor’s rileva che tra il 2009 e il 2011 perderanno 59 miliardi di euro190, ma è assai indicativo il fatto che i titoli in sofferenza denunciati alla Banca d’Italia nel 2010 siano 70 miliardi, 4-5 punti del PIL italiano e il 40% in più dell’anno prima191, e si noti che le banche denunciano le sofferenze (ne sono obbligate per legge) solo quando non possono farne a meno, sicché c’è il sospetto che 70 miliardi (cifra molto consistente) siano solo la punta dell’iceberg192. Quanto alle imprese il loro indebitamento, nell’arco del decennio, passa da 482 a 933 miliardi193, e ciliegina sulla torta, l’inflazione balza all’1,9% a dicembre 2010 quasi il doppio della crescita del PIL.

Nel frattempo il vecchio ammortizzatore sociale dell’occupazione nella PA è ormai un lontanissimo ricordo: grazie al blocco del tourn over nel 2013 avremo 300 mila dipendenti pubblici in meno rispetto al 2008, ma già nel 2008-2009 c’è stato un calo di 72 mila occupati (dati forniti dal Ministro Brunetta)194. Questi tagli vengono in genere presentati come razionalizzazione della spesa e riduzione degli sprechi: in realtà se esistono le classi-pollaio di 35-37 studenti (contro cui è intervenuto di recente il TAR) è perché si contrae anche l’occupazione utile, i professori che rimangono sono sottoposti a un superlavoro che fa sì che essi lavorino male per cui si paga meno ma per un servizio scadente, che questo sia un guadagno è molto dubbio, è semplicemente un modo di far cassa deprimendo il livello del servizio pubblico.

Davanti a questo quadro c’è chi dice che in noi reggiamo la crisi meglio degli altri.

Chi l’avrebbe mai detto?

B) La manovra di maggio.

Nel mese di maggio, sulla scia della crisi greca, il governo anticipa la manovra del 2011 con un decreto legge che prevede il blocco degli stipendi pubblici per il triennio 2011/13 (senza alcuna possibilità di recupero), il blocco del turn over (già in atto come si è visto), la rateizzazione delle liquidazioni dei pubblici dipendenti superiori a € 90 mila, il taglio lineare delle spese degli enti locali e dei ministeri ed infine per chi ci creda, il recupero di 6-7 miliardi nella lotta all’evasione fiscale.

In questa manovra non c’è nulla per lo sviluppo e la spiegazione è la stessa da quando nell’estate del 1970 venne varato il primo DL di austerità, che venne chiamato allora il “decretone”; da allora decreti, decretoni, stangate e stangatine, manovre correttive e razionalizzazioni della spesa (sic) si susseguono da oltre quarant’anni, sono diventati ormai un elemento stabile del nostro panorama e il pretesto è sempre lo stesso, prima si mettono in sicurezza i conti e poi si penserà allo sviluppo. Il guaio è che da allora lo sviluppo rallenta, poi diventa un passo di lumaca e negli ultimi dieci anni siamo rimasti praticamente fermi: la verità è austerità prima e sviluppo mai.

Ma al di là delle facili battute è evidente che una politica di austerità, che voglia aprire la strada allo sviluppo, deve essere funzionale ad esso: se blocchi i salari dei pubblici dipendenti, tagli le pensioni, tagli i consumi, aumenti le tasse è chiaro che compi una manovra che deprime l’economia ed è quindi un ostacolo allo sviluppo. Chi ragiona in questo modo si comporta come un chirurgo che dica: prima ti taglio un piede e poi ti faccio correre. Inoltre è volgare demagogia dire che i dipendenti della PA sono fannulloni per cui conta poco tagliare il loro numero o bloccarne gli stipendi: il clientelismo esiste nella PA perché è il potere politico a produrlo ed a tollerarlo, chi governa non può eccepire come scusante una propria responsabilità, se la PA funziona male la responsabilità è evidentemente del governo di cui la PA è uno strumento operativo. Se ci sono dei fannulloni si fanno lavorare o si licenziano, assumendo lavoratori veri, poiché la domanda dei servizi sociali in questo paese, come in altri, non è assolutamente diminuita; se per contro si fa una politica di tagli lineari volta a ridurre le spese utilizzando l’accetta, il risultato sono le classi-pollaio di cui si parlava prima oppure le proteste dei rappresentanti dei sindacati di polizia davanti alla villa di Arcore perché non hanno i mezzi minimi necessari per compiere il loro lavoro195.

Si noti, inoltre, che in occasione del DL in questione le regioni e gli enti locali avevano chiesto, molto ragionevolmente al governo, un tavolo comune per individuare gli sprechi e tagliarli usando il bisturi e non l’accetta; il governo ha risposto picche perché una politica seria di razionalizzazione degli sprechi richiede un’indagine conoscitiva e del tempo, ciò che evidentemente era in contrasto con la necessità di far cassa subito e senza andare per il sottile. Il tal modo c’è il rischio che si taglino spese utili, come abbiamo visto, e che col resto delle cifre spese dalla PA, che sono comunque una cifra consistente, si continui a fare clientelismo alla vecchia maniera, col beneplacito del governo in carica.

La verità è che una politica organica contro gli sprechi non sono molti a volerla veramente, perché con gli sprechi e il clientelismo politico si produce consenso: così nella seconda metà dell’anno apprendiamo che la giunta capitolina (maggioranza omogenea con quella al governo) è in difficoltà perché sono venute fuori delle assunzioni molto discutibili nelle aziende municipalizzate, sicché il sindaco ha dovuto nominare una giunta interamente nuova.

Ma almeno questa manovra ragionieristica ha messo i conti in sicurezza?

Assolutamente no. Bankitalia fa sapere che a novembre 2010, su base annua il debito pubblico è cresciuto di 83 miliardi (quasi 7 al mese) raggiungendo una cifra che sfiora i 1870 miliardi, 31.165 euro a persona e 89.044 euro a famiglia secondo calcoli delle associazioni dei consumatori. Il rapporto deficit-PIL è calato dal 5,5 al 5%, ma per ottenere questo risultato modestissimo è stata necessaria una manovra di 24-25 miliardi (1,6% del PIL) , mentre le entrate fiscali sono diminuite, nei primi 11 mesi dell’anno, dell’1,07%, malgrado l’aumento dei prezzi e il modesto rimbalzino del PIL, in termini reali, dunque, il decremento è anche maggiore e non lascia prevedere nulla di buono per il futuro, del resto se fai una manovra deflattiva la conseguenza più naturale è al contrazione delle entrate fiscali.

Tutto ciò è stato presentato come una messa in sicurezza dei conti196.

C) Un macigno sempre più grande: l’evasione fiscale.

Il fisco italiano è tra i più esosi che vi siano: secondo l’OCSE il cuneo fiscale (differenza tra salario netto e lordo) è 10 punti in più della media OCSE, il nostro fisco è al sesto posto su trenta per peso sui salari che, a loro volta, sono solo al 23° posto197. Il vecchio Pietro Nenni, avrebbe detto “forte con i deboli, e debole con i forti”. Una pressione assurda che sta a significare come lavoratori dipendenti e pensionati paghino le tasse anche per gli evasori, che evadono moltissimo.

Quanto? Di recente anche Berlusconi ha ammesso che le tasse evase sono 120 miliardi, l’8% del PIL, il che fa presumere un imponibile nascosto pari al 22% del PIL198. Cifre enormi ma sottostimate poiché, come ho rilevato l’anno scorso, esistono un libro bianco del Ministero delle Finanze (anni ’70) ed una celebre ricerca della CGIA di Mestre (1996) che attestano essere l’evasione ad 1/3 del PIL, e le tasse evase sarebbero vicine al 15% del PIL stesso199. Siccome nessuno ha provato l’infondatezza di quelle analisi (la prima ufficiale), e da allora nulla di serio si è fatto contro l’evasione fiscale, mi pare giusto ritenere che quelle cifre siano ancora valide200.

Dirò di più che una recente ricerca di Bankitalia sulla stratificazione del reddito e dei patrimoni201 ha portato alla luce un dato la cui importanza è stata sottolineata dal prof. Sarcinelli: nei paesi ricchi la forbice tra reddito annuo e patrimoni è di 1 a 5, da noi è di 1 a 9, il che fa presumere un reddito sommerso (a fini evasivi) quasi doppio che altrove, dove pure l’evasione è elevatissima202.

Ma prendiamo pure per buone le cifre ufficiali, un costo di 120 miliardi, cui va aggiunto il costo della corruzione, valutato in 60 miliardi dalla Corte dei Conti nel corso del 2009203 porta ad un totale di 180 miliardi l’anno204, cifra astronomica in cui i due dati (120 miliardi + 60) sono strettamente connessi poiché nessuno può scrivere in una dichiarazione dei redditi che il reddito x deriva da bustarelle illecitamente ricevute.

Poi c’è l’enorme mare delle esenzioni, che sono spesso evasione legalizzata, secondo Tremonti 240 casi che significano un mancato introito di 140 miliardi205. Non tutte le esenzioni sono ingiuste, (ad esempio quelle sui redditi bassi) ma molte le sono come le esenzione ICI sugli immobili della Chiesa ad uso economico, 2 miliardi l’anno, per cui siamo sotto accusa in sede UE206, per non parlare del mare di esenzioni concesse alle imprese sia confindustriali che cooperative, giustificate col fatto che le imprese sostengono l’economia, argomento già contestato in questo lavoro; qui mi limiterò a considerare che premiare imprese che non producono nuova occupazione o ne producono solo di parziaria, precaria o sottopagata, significa sovvenzionare chi strangola l’economia con la logica devastante di produrre di più con meno addetti, il che peraltro ha conseguenze disastrose sulle entrate fiscali perché si riducono i contribuenti stabili e sicuri. Il paradosso è che lo Stato sostiene chi lo affonda (le imprese che evadono il fisco e contraggono l’occupazione) e affonda chi lo sostiene (i lavoratori dipendenti).

Tra evasione, corruzioni ed esenzioni fiscali ingiustificati c’è uno spazio enorme non inferiore ai 250 miliardi l’anno per manovrare e compiere una poderosa redistribuzione del reddito in funzione dello sviluppo. Se anche avessimo recuperato solo un terzo del peso dell’evasione e della corruzione (60 miliardi l’anno) nell’arco degli ultimi 18 anni avremmo recuperato 1080 miliardi di euro il che avrebbe reso superflue la manovre lacrime e sangue fatte in questo periodo e avrebbe permesso una politica di sostegno allo sviluppo. Lo stesso governatore Draghi lo ha rilevato di recente affermando che l’evasione ha reso necessaria la macelleria sociale207. Se aggiungiamo a questa cifra una rimodulazione delle esenzioni, concedendole alle sole imprese che facessero nuove assunzioni di lavoratori a tempo pieno e indeterminato e non avessero grane col fisco, si potrebbe fare una notevole politica di sviluppo in Italia. Può sembrare questa una asserzione in contrasto con la tesi più volte esposta, anche in questa sede, che contro l’evasione fiscale delle IM che trasferiscono i loro capitali da un capo all’altro del mondo con un semplice click, non c’è nulla da fare; epperò non sono solo le IM che evadono il fisco, il fenomeno è generalizzato anche tra PMI, lavoratori autonomi, professionisti etc. Le evasioni dell’IVA tipiche di queste categorie sono stimate in 30 miliardi l’anno208; di recente l’FMI ha stimato che fatta base 100 l’efficacia nella lotta all’evasione IVA, l’Italia è a 39, peggio di noi solo Turchia e Messico nell’ambito del G20.

Se si scorre il Televideo Rai è una valanga di informazioni su quello che scopre la GdF: benzinai che occultano 1,2 milioni di reddito, odontotecnici che occultano 2 milioni, imprese emiliane che fatturano complessivamente 1 miliardo di euro travestite da imprese sammarinesi, consorzi tra centinai di PMI per scaricarsi reciprocamente fatture false etc. etc.

A Napoli il Comune ha scoperto che 35 mila napoletani che operano e vivono in città ma hanno residenza all’estero ovviamente in paradisi fiscali209. In una città che non è certo la capitale economica del paese, quasi ogni bottegaio o professionista risiede all’estero.

Estremamente indicative poi, sono le cifre fornite nel 2010 dall’Agenzia delle Entrate sulle dichiarazioni dei redditi dell’anno precedente, raggruppate per categorie professionali e medie di reddito dichiarato: discoteche 5800 euro, antiquari 10.100, ristoranti 16.300, bar 18.000, consulenti fiscali 28.100, centri benessere 37.000, macellai 14.300, gioiellieri 14.500, etc. Il libero professionista o il bottegaio che guadagna come un operaio, un modesto pensionato o un cassintegrato sembrano essere la regola e sono cifre che danno ampiamente ragione ai rilievi del prof. Sarcinelli prima citato.

Davanti a questo quadro il dott. Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate e responsabile alla lotta dell’evasione fiscale, lamenta che non si tiene conto dei risultati ottenuti dalla sua istituzione nel campo del contrasto al fenomeno evasivo. Nel corso del 2010 Befera vanta un risultato di 7,3 miliardi recuperati che a fine anno diventeranno 8,1 miliardi, qualche tempo dopo si correggerà: a fine anno recuperati 15 miliardi, di cui però 5 sono dovuti a compensazioni errate e 10 ad evasione vera e propria210. Dieci miliardi, dunque, non contesto il dato (non ne ho bisogno), cifra miseranda che non è un deterrente contro l’evasione fiscale ma uno spot in suo favore. Gli evasori, infatti, sono persone che sanno fare di conto e possono calcolare che 10 miliardi su 120 (cifra ufficiale e sottostimata) sono poco più dell’8%, a fronte di una possibilità di farla franca del 92% circa, un autentico invito all’evasione fiscale211.

Ma non basta, chi evade sa che l’Italia è il paese dei condoni (o degli scudi), se ti beccano arriva prima o poi il condono che ti salva, e anche nel condono puoi tirare sul prezzo. L’ultimo condono, quello del 2004, (poi dopo è venuto lo scudo, che è sempre un condono ma con un altro nome) avrebbe dovuto dare 26 miliardi di gettito ma siamo fermi a 21, perché le norme de quo prevedevano che, pagata la prima rata, scattava l’improcedibilità in sede penale, per cui è accaduto che molti condonati, pagata la prima rata, sono diventati uccelli di bosco212 .

E non basta ancora perché può sempre arrivare un’altra legge come la legge “ad aziendam” del maggio 2010 che stabilisce come, nel caso un’azienda abbia vinto i primi gradi di giudizio tributario e si sia davanti alla Cassazione (dove ci sono giudici di carriera) per il terzo grado, si possa chiudere tutto pagando il 5% di quanto chiedano gli uffici tributari; il caso volle che quando la legge fu varata (con il voto di coloro che di lì a poco fonderanno “Futuro e Libertà”) c’era in corso una vertenza che riguardava la Mondadori cui gli uffici tributari chiedevano oltre 170 milioni di tasse213, che la società editrice del presidente Berlusconi potè concludere pagando una cifra di 7-8 milioni. Il guaio è, che questa non è una legge “ad aziendam” fatta solo per una società del Presidente del Consiglio, ma si può applicare a tutte le imprese che si trovino in una simile situazione, tutte le grandi imprese di elevata consistenza economica e che abbiamo uffici legali agguerriti, potranno servirsene, con conseguenze non proprio positive per gli uffici tributari.

Ancora, la disciplina della prescrizione, che in sede fiscale opera dopo poco più di 4 anni (il quarto anno dopo quello in cui è stata presentata la dichiarazione dei redditi) e indipendentemente dal fatto che l’Amministrazione tributaria abbia conoscenza dell’infrazione operata. Non così nel campo del diritto civile dove la prescrizione opera dopo 10 anni e richiede, da parte di chi dovrebbe agire, la conoscenza, quanto meno, del diritto per cui si potrebbe agire.

Questo significa che passati poco più di 4 anni se sei stato abile a nascondere l’imbroglio hai come premio la prescrizione e nessuno potrà mai toccarti.

Tutto è predisposto per sostenere e favorire l’evasione e la cosa è così assurda che a metà anno lo stesso ufficio studi della Confindustria denuncia l’abnormità del fenomeno e la Sig.ra Marcegaglia esprime pubblicamente il proprio scandalo. Epperò l’anno prima un esponente della Confindustria, il sig. Vascellari da Belluno, aveva detto che occorreva finirla con questa lotta all’evasione contraria allo “spirito dei tempi”214, e nessuno in sede confindustriale aveva reagito, se non altro per dirgli che la lotta all’evasione fiscale non poteva finire perché non era mai cominciata.

Nel campo dei rapporti con la mafia, sia pure con molto ritardo, la Confindustria ha varato la regola che chi collude o si sottomette alla mafia viene espulso. Meglio tardi che ma si dirà, epperò non ci risulta che provvedimenti analoghi siano in cantiere per gli evasori. L’evasione ormai è cosa che non può difendersi, quando lo stesso governatore Draghi la addita come la vera responsabile della macelleria sociale, ma tra la condanna e l’azione reale di contrasto corre l’oceano.

Ma perché tutto questo?

Vari anni orsono, l’on. Formica Ministro delle Finanze socialista della prima e unica Repubblica, ebbe a dire che tra Stato ed evasori c’era un patto di scambio: tolleranza contro appoggio politico.

Ora le opinioni di Formica non sono il Vangelo (peraltro chi scrive è quantomai laico) ma i fatti si svolgono proprio come se concretamente questo patto esistesse, ed è quello che conta in questa sede.

E, a ben vedere, non si tratta di un patto scellerato come direbbe un moralista, ma di un patto di classe tra lo Stato borghese e la sua classe di riferimento215, chi non paga le tasse (o le paga in misura irrisoria o apparente in rapporto ai suoi redditi)216 è la classe dominante.

Il nostro fisco non è immorale ma è solo classista e lo è in tutti i paesi capitalistici, da noi, forse, lo è due volte.

Voilà tout.

 

5) La Cina. Il miracolo straccione appassisce.

A) L’economia cinese nel 2010.

Nel corso del 2010 arrivano dalla Cina notizie, che sembrano dare ragione agli estimatori del miracolo cinese217, così apprendiamo che alla fine del 2009 i consumi globali di energia cinesi hanno superato del 4% quelli americani, anche se il consumo pro-capite è ancora 1/5 di quello USA218. In realtà questo dato sta a significare quanto sia arretrata l’economia cinese: infatti il PIL cinese a fine 2010 sarà solo poco più di 1/3 di quello americano, il che significa che i consumi cinesi per unità di prodotto sono quasi tre volte quelli USA, in altre parole l’economia cinese spreca energia ed ha elevati costi di produzione (bilanciati da salari da fame), ciò sta a significare la bassa tecnologia di cui dispone la Cina. Inoltre questo spreco di energia si traduce in emissioni di gas, che producono il famoso effetto serra e la desertificazione crescente di vaste zone del paese: di recente uno studio dell’accademia delle scienze cinese ha denunciato come dal 2005 sia andato perso il 12% delle terre coltivabili del paese219. Questo in un paese in cui la superficie coltivata è il 10% del totale e che ha un’agricoltura da medioevo; ciò spiega le tensioni inflazionistiche che si notano in Cina a fine 2010: la domanda di beni agricoli è elevata, ma l’agricoltura locale non può soddisfarla , né è facile ricorrere ai mercati internazionali per il cambio dello yuan governato per favorire le esportazioni.

Lo stesso discorso vale per le auto: il boom della produzione cinese è un boom di prodotti che, sul mercato occidentale, sarebbero scarti invendibili, come ho già detto; del resto la stessa Cina lo ammette, quando cerca di imporre alle società occidentali o giapponesi che producono auto, la compartecipazione alla loro tecnologia, pena l’esclusione dal mercato cinese220, quando non cerca di procurarsela per via traverse come lo spionaggio industriale221.

Quanto poi agli alti tassi di sviluppo cinese (nel 2010 si superano sia pure di poco le due cifre) è appena il caso di ricordare che, per i cinesi stessi, un tasso del 7% è da recessione222 e non solo per loro: il superindice OCSE di agosto, in cui lo spartiacque tra recessione e sviluppo è fissato a quota 100, vede il Brasile a 99,3, l’India a 100,4, la Cina a 101,3, gli USA a 102,3223. Il superindice, che non tiene conto solo della crescita del PIL ma anche di altri dati economici, mette il Brasile e l’India attorno a livello dello spartiacque, mentre la Cina, col suo 10% e più di crescita del PIL, si pone un punto al di sotto degli USA col suo sviluppo inferiore al 3%: il megasviluppo cinese vale molto meno del rimbalzino americano, almeno al cambio OCSE.

Non meno criticabile è l’esaltazione del sorpasso cinese sul Giappone, che pare sia confermato dai primi dati di gennaio 2011, ma è appena il caso di ricordare che il PIL cinese pro-capite rimane attorno ai 3600 dollari contro i 46.000 degli USA224; le nostre aree sottosviluppate del sud mettono in campo un PIL pro-capite 6-7 volte quello cinese.

La verità è che la Cina (dati “Economist”) non compare tra i primi 23 paesi del mondo (nel 2009 ) per indice di capacità tecnologia; è al 23° posto (2007) per la quota di PIL destinato alla ricerca (1,49% di PIL contro il 3% della Corea del Sud e 48,8 miliardi di dollari in cifra assoluta contro i 368,8 miliardi degli USA)225; compare al 5° posto (2005/07) per brevetti concessi ai residenti (25.909 contro i 127.644 del Giappone) ma per i brevetti in vigore ogni 100.000 abitanti il Lussemburgo è in testa (5605) e all’ultimo posto della classifica (il 21°) compare la Slovenia (353 brevetti), assente la Cina.

Ovviamente non neghiamo che vi possano essere limitati settori ad elevato sviluppo tecnologico in Cina, ma questo accade anche in paesi poverissimi: di recente uno scienziato USA ha visitato le centrali nucleare della Corea del Nord attestandone il carattere avanzatissimo in un paese estremamente povero226, e ciò avviene anche in Pakistan paese che ha l’atomica come del resto l’India che ha da poco superato il livello di 1000 dollari per il PIL pro-capite, e che oltre ad atomica e centrali nucleari dispone di un polo informatico di altissimo livello, che produce per l’esportazione, essendo la presenza dei computer nel paese bassissima (3,3 per cento abitanti nel 2008 contro i 5,7 per cento della Cina anch’essa a livelli “preistorici). In altre parole è il livello generale di diffusione della tecnologia che ci dice se un paese è avanzato o meno e non le isole o le “cattedrali nel deserto” come si diceva una volta.

Da questo punto di vista la Cina, come gli altri paesi sottosviluppati, si trova in presenza di un dilemma insolubile: se non si procura (col commercio o con l’uso di vie traverse come lo spionaggio) la tecnologia, rimane un paese sottosviluppato, se, in qualche modo, riesce a procurarsela si trova davanti al problema che ho già segnalato l’anno scorso: l’uso della tecnologia nel capitalismo rende “esuberante” la forza lavoro, con una produttività italiana la Cina produrrebbe il suo PIL con 57-58 milioni di addetti e si troverebbe con 700 milioni di esuberi, a parte la popolazione nascosta, contando la quale arriveremmo a 800-850 milioni, un “problemino” di non facile soluzione.

Ma a parte queste considerazioni è evidente, ormai, che la Cina è in netto rallentamento: la tabella n. 1 mostra un paese che ormai sta per abbandonare la crescita a due cifre e si attesta vicino ai livelli medi del periodo 1980-2010 e cioè il 9,42%227 lontanissimo dal picco del 14,2 (1994) o anche dai livelli immediatamente precedenti la crisi mondiale: 2003 – 2008 10,9%. Il miracolo appassisce (come fa capire anche l’OCSE) ed i motivi sono comprensibilissimi: la dinamica di un paese è data dalla somma dei consumi interni e dell’export, che traina l’economia. Ora il modello cinese è estremamente avaro con i consumi delle famiglie che sono attorno al 34% del PIL contro una media mondiale del 61% nel 2008, quando le esportazioni erano il 37% del PIL, nel 1980 i consumi delle famiglie erano al 50%.

Il modello cinese è un modello export-led, in cui per esportare si tira la cinghia: negli ultimi anni i redditi medi delle famiglie sono cresciuti del 2-3% l’anno228 molto meno del PIL mentre la corsa dei salari è al ribasso229, il salario di un operaio è di 90 dollari al mese, pochissimo, ma molto di più dei redditi da fame delle campagne, la cui situazione è aggravata dalla popolazione nascosta. Certo ci sono 250 milioni di cinesi che guadagnano 10.000 euro l’anno (per noi un reddito modesto per la Cina media borghesia agiata) ed alcune decine di milioni che guadagnano anche 3000 euro al mese, ma si tratta di una minoranza che non può alzare il livello medio assai depresso dei consumi privati cinesi230. A questo punto il governo cinese, preoccupato per la crisi mondiale, che poteva frenare l’export, ha cercato di puntare sui consumi interni, non elevando i salari o concedendo le libertà sindacali, ciò che avrebbe messo in crisi un modello economico fondato sulla competitività salariale231, ma puntando sulla dilatazione del credito, una sorta di imitazione del modello USA ed occidentale (o giapponese) fondato sul consumo in debito. Così le banche hanno concesso crediti per 926,9 miliardi di euro nel 2010232, ciò che ha permesso al 35% delle famiglie cinesi di contrarre un mutuo per la casa, mentre si è diffuso l’uso delle carte di credito233. Poi, nell’estate 2010, la banca centrale alza dello 0,25% il tasso di sconto e misure analoghe, caute e graduali, sono previste per il 2011.

La spiegazione addotta è che l’economia cinese è surriscaldata e le bolle (quella immobiliare innanzitutto) possono scoppiare234. Il pregio di queste spiegazioni è che non spiegano proprio nulla, il problema è capire perché un’economia è surriscaldata e perché le bolle speculative possono scoppiare: in passato l’economia cinese ha avuto tassi di sviluppo anche superiori perché ora, non appena si supera la soglia delle due cifre, occorre frenare?

La risposta, a mio avviso sta nella struttura estremamente disegualitaria della società cinese, quel 5% (sembra) di cinesi che guadagna 3.000 euro al mese può essere considerato a livello di un nababbo in Cina, mentre la massa degli operai e dei contadini che vivono con 20, 60 o 90 dollari al mese oscillano tra la povertà e la fame, per non parlare della popolazione nascosta e inesistente per lo Stato. In un paese simile l’indebitamento di massa all’americana è pericolosissimo e può tradursi in insolvenza di massa, di qui la necessità di frenare non appena l’economia accelera.

La Cina, dunque, è stretta in una tenaglia: la crisi delle economie ricche riduce in prospettiva le possibilità di export, mentre la povertà di larghissimi strati della popolazione impedisce di dilatare troppo i consumi attraverso il debito. I problemi sul tappeto sono questi e sono insolubili: la ripresa mondiale non c’è e non ci sarà e per aumentare sul serio e stabilmente i consumi interni cinesi, e anche la capacità di indebitamento delle famiglie, occorre un forte trasferimento di ricchezza dai profitti ai salari, ciò che farebbe saltare la competitività cinese che non si fonda su un’elevata produttività e tecnologia ma sui salari da fame.

Il miracolo cinese è al capolinea, ormai, e il conflitto, in un paese in cui per la stessa dirigenza cinese, c’erano nel 2005, 85 mila rivolte contro le 8.500 di 12 anni prima235, sta riprendendo con notevole forza236. Le tensioni sociali, inoltre, che possono esplodere sono enormi: una recente ricerca pubblicata dal “China Daily” pone in luce come il 92% dei cinesi è infelice, il 70% è spaventato dal futuro, 300 mila operai l’anno muoiono per eccesso di lavoro mentre ogni anno 3,5 milioni di cinesi tentano il suicidio di cui 300 mila con successo237.

La Cina è una polveriera che si avvia ad esplodere, quando ciò avverrà i fatti di Tien An Men sembreranno una piccola e modestissima avvisaglia.

Un ultima considerazione intendo fare nel campo dei paesi sottosviluppati, che, secondo molti, sorpasseranno, come quota del PIL mondiale, i paesi ricchi nel 2030. Il ragionamento è una mera estrapolazione statistica, se i ricchi continuano a muoversi a passo di lumaca ed i poveri a correre nel 2030 il sorpasso è cosa fatta. Il guaio è che se i paesi ricchi crollano o rallentano drasticamente, anche i poveri rallenteranno, lo si è visto per la Cina e ciò vale anche per gli altri: i poveri trovano nei mercati dei paesi avanzati uno sbocco fondamentale per i beni che producono (materie prime o beni a bassa tecnologia). Ipotizzare che noi si stia fermi e loro corrano è fuori dalla realtà. Ancora, la dimensione del distacco è enorme: nel 2008 su un PIL mondiale di 60.600 miliardi di dollari i ricchi (USA, Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, zona euro) controllavano il 62,3% di quella cifra con una popolazione che era il 13% del totale238, il che significa che considerando il PIL pro-capite il distacco è abissale.

A tal proposito l’edizione tedesca del “National Geografic”, pubblica, a fine 2010, le previsioni per lo sviluppo della popolazione mondiale: nel 2011 raggiungeremo i 7 miliardi, 9 miliardi nel 2050, l’India sarà a 1,6 miliardi nel 2030, il 95% di questo incremento si avrà nei paesi poveri239, il che significa che buona parte dell’incremento del PIL, se vi sarà, verrà mangiato dall’incremento della popolazione, anche qui se dividi la ricchezza per testa ottiene i risultati desolanti.

 

 

6) Crisi dell’economia reale e follia dell’economia politica.

La depressione economica senza via d’uscita che viviamo sta producendo ricadute anche a livello di economica politica teorica, una (falsa) scienza al limite della follia davanti alla realtà che non sa e non vuole affrontare e davanti alla quale propone ricette assurde, illogiche e stantie.

Gli economisti sogliono ammantare di neutrale scientificità le loro posizioni fondate su complesse equazioni matematiche, come dire che, se per uscire dalla crisi occorre che lavoratori e pensionati sudino lacrime e sangue, non è perché siamo cattivi o servi dei padroni ma perché lo dice la matematica.

In realtà, però, la matematica altro non è che la formalizzazione di dati materiali e se nel processo matematico metti i dati scadenti o, peggio, addomesticati il risultato è un bel modello in apparenza scientifico ma in realtà ingannevole o truffaldino. La storia del dott. Perkins, economista pentito di una grande IM, che ha raccontato come manipolasse dati statistici e calcoli al servizio del suo padrone, è emblematica: si è pentito ed ha raccontato cosa avesse fatto in un libro intitolato “Confessioni di un sicario dell’economica”240. Qualcosa di simile ha fatto quel noto presentatore TV americano, protagonista di spettacoli di successo, che ha raccontato in un libro (da cui poi è stato tratto un film) cosa faceva dietro le quinte: l’agente-killer della CIA per cui ha ucciso decine di persone.

Ma il caso più clamoroso che evidenzia quanta pessima ideologia si mascheri dietro complessi modelli matematici, è dato ancora una volta dal faraonico piano giapponese 1966/85, di cui fu principale artefice il prof. Shimomura con un complesso di calcoli tradotti in una cinquantina di tavole in cui era previsto tutto241. Ma non il contrario di tutto, che si verificò a fine 1973 con l’esplosione dei prezzi del petrolio, che confinò il piano ed il miracolo giapponese nel museo della storia. Shimomura aveva previsto, anzi postulato, che l’andamento dei prezzi delle materie prime (punto debole dell’economica giapponese che è importatrice delle materie prime) sarebbe rimasto come nei decenni precedenti, stabile con tendenza al ribasso.

Così si trasformava un desiderio in una comoda speranza e addirittura la speranza diventava un postulato su cui edificare. Un postulato, però, è una realtà indiscutibile del tipo “un triangolo ha tre lati” (postulato di uno dei teoremi di Euclide), ma se trasformi una gradita ipotesi in un postulato stai barando al gioco e stai scommettendo ad una corsa di cavalli, la scienza e la matematica sono ben altra cosa. Ciò vale per qualunque calcolo economico in un mondo dove corso dei cambi, prezzo delle materie prime, esplosioni sociali sono mutevoli e imprevedibili: puoi ipotizzare che aumentando l’IVA aumenteranno le entrate dello Stato e puoi fare i tuoi calcoli in proposito, ma può accadere che il popolo scenda in piazza inferocito e ti costringa a revocare gli aumenti, o, peggio, a dartela a gambe242.

In un mondo dominato da tensioni sociali e contraddizioni strutturali ed esplosive i calcoli non possono prevedere tutto e il contrario di tutto, né puoi prepararti a tutto e al suo contrario: col barile di petrolio a 150 dollari poteva (forse) essere economico costruire centrali atomiche, idea che io avverso fermamente, ma ammetto che a quel livello di prezzi il problema poteva porsi (anche se altre soluzioni sarebbero possibili e preferibili anche in quel caso). Ebbene, se ti impegni in un programma di centrali nucleari che può essere economico al livello di prezzi di 150 dollari a barile e poi ti trovi, a programma iniziato, con un barile a 50 dollari, è chiaro che avrei buttato solo risorse dalla finestra, anche se l’economicità della tua scelta è stata garantita da calcoli complessi posti in essere da intere bande di Shimomura.

Ancor più evidente diventa il deficit di credibilità dell’economia politica allorché ci confrontiamo con i problemi attualmente sul tappeto. Davanti alla crisi gli economisti ufficiali si dividono in due categorie: i conservatori (marginalisti e monetaristi) come Spence e Prescott, ed i liberals neo-keynesiani (Krugman e Stiglitz ad esempio); i primi propongono ricette lacrime e sangue, tagli della spesa e tasse per far quadrare i conti, premessa e base di ogni ripresa (dicono), mentre per i liberals bisognerebbe spendere anche di più. Tra i primi il caso forse più estremo è quello del dott. Munchau, vicedirettore del “Financial Times” per cui occorreva abbandonare le banche al loro destino, poiché la bancarotta non è una parola oscena, le bancarotte avvengono e poi l’economia si riprende243.

Tesi come queste mi ricordano la posizione caustica della signora Robinson, economista molto critica della sua scienza, quando diceva che l’economia è una scienza al confine della Teologia. Il capitale è Dio, che non si discute, come non si discute la sua capacità di risorgere anche dopo la crocifissione: “fallite, fallite, e poi risorgerete”. Questo liberismo fideista è ancor più assurdo se si considera la storia dove, da una parte lo Stato è sempre intervenuto in economia244, dall’altra l’unica volta, forse, in cui non l’ha fatto è stato un disastro: alludo all’amministrazione Hoover durante la grande crisi 1929/32. A quel tempo Hoover si limitò ad invitare alla Casa Bianca, con notevole frequenza, squadre di economisti e finanzieri che immancabilmente garantivano che la ripresa era imminente e, immancabilmente, erano smentiti a stretto giro di posta dai nuovi dati della crisi. Galbraith qualche decennio dopo ha messo in berlina questa incredibile politica anti-crisi245 che al tempo di Hoover gli fruttò la fama di un terribile menagramo (a Napoli si dice schiattamorto) tanto è vero che di lui si disse: “Mettetegli una rosa in mano dopo dieci minuti la vedrete appassire”.

Ma al di là delle battute feroci che si possono fare su una politica alla Hoover, ciò che conta sono i dati del debito federale USA che era di 16.487 milioni nel 1929 divenuti 16.801 nel 1931 per salire poi a 19.487 nel 1932, anno di elezioni in cui anche i presidenti conservatori spendono. Da queste cifre si evince che, a parte l’anno elettorale, Hoover si limitò a tirare i cordoni dalla borsa davanti alla crisi, il debito pubblico crebbe in percentuale del PIL, ma solo perché il PIL era crollato; ben diverso fu l’atteggiamento di Roosevelt con cui siamo a 40.439 milioni di debito federale nel 1939 il 43,86% di un PIL in netta ripresa (dai 58,7 miliardi del ‘32 ai 92,2 miliardi del ’39), il cambio di rotta è evidente. La cura di Hoover di tenere chiusi i cordoni della borsa dette i risultati ben noti: un PIL che quasi si dimezzò e la disoccupazione al 25%.

Sperare che oggi le cose possano andare diversamente è un atto di fede ma non è una previsione scientifica: lasciare a se stesse le banche (farle fallire cioè) significava distruggere il sistema bancario ed il risparmio in esse contenuto, e cioè fare il deserto e dal deserto è difficile ripartire. Si noti che anche la seconda guerra mondiale con le sue devastazioni indubbie, terminò con un paese, gli USA che valeva allora la metà dell’economia mondiale, il cui meccanismo di accumulazione, grazie alla spesa militare (quasi il 45% del PIL nel 1943/44) aveva superato la grande crisi ed era in forte espansione, per cui poteva trainare gl’altri; non così oggi quando il crollo dei paesi avanzati coinvolgerebbe tutti gl’altri, che dipendono dalla domanda dei ricchi (Cina in testa), per cui distrutto il meccanismo di accumulazione nelle aree avanzate ci si troverebbe nel deserto. Ne si obietti che il capitalismo nel passato si è ripreso dalle varie crisi, perché questo non è una normale crisi ciclica, ma una depressione gravissima che pone problemi non solo drammatici ma anche insolubili, come si è detto più volte; per uscirne bisognerebbe chiarire come i nodi sul tappeto possano essere sciolti, come possono crescere l’occupazione, i consumi e l’economia, come si paga il debito senza fare altri debiti, come si governa un’economia mondiale che è globalizzata ma è nel caos etc. Chi si limita a dire che l’economia da sé riprenderà farebbe meglio a fare un viaggio a Lourdes.

Non meno desolanti le posizioni dei liberals secondo cui si è speso poco e non molto246. Osservazione che contrasta con le cifre prima fornite cui possono aggiungersi le cifre (rivalutate ai dollari correnti) delle spese compiute dall’America nelle principali guerre combattute negli ultimi decenni: seconda guerra mondiale 4100 miliardi, Iraq 784 miliardi, Vietnam 738 miliardi, Corea 341 miliardi, Afghanistan 321 miliardi247, in totale poco più di 6000 miliardi in guerre che, sommate, sono durate alcuni decenni, per contro abbiamo visto che in due anni o poco più gli USA hanno dovuto sborsare circa 15 trilioni di dollari per sostenere l’economia e l’Europa 6 trilioni per salvare le banche. Il problema dunque non è la quantità della spesa, che veramente non ha precedenti, ma è la qualità o se si preferisce l’efficacia della stessa: puoi anche spendere il doppio di quanto si è speso, ma se la spesa mira, ad esempio, a potenziare la ricerca, il suo risultato, nel quadro del capitalismo, sarà quello di spingere ancor più a produrre con meno addetti, con le conseguenze immaginabili e devastanti.

Un ulteriore riprova della disperazione dei liberals è data da un recente articolo di Krugman in cui egli propone alcune soluzioni di cui nessuno può dire se funzioneranno ma – dice Krugman – al punto in cui siamo tanto vale provare; una premessa alquanto sconsolata che si articola poi in tre proposte: a) rastrellare (da parte dello Stato) i titoli del debito privato a lunga scadenza; b) far calare i tassi di interesse nel lungo periodo; c) alzare l’inflazione in modo da indurre le imprese ad investire la liquidità accantonata248.

Proposte figlie della disperazione: rastrellare i bonds privati a lunga scadenza significa arricchire il portafoglio della Fed di titoli di imprese in difficoltà, curare un effetto e non la causa col rischio che la Fed si trovi sommersa da titoli spazzatura e possa essere considerata fallita di fatto. Ridurre i tassi a lungo termine sarebbe positivo se fosse possibile, ma già ora la Fed compra titoli di Stato che il mercato evidentemente non gradisce perché i tassi di interesse sono troppo bassi, dovrebbe farlo in misura maggiore anche per i titoli pubblici col rischio, anche qui, di trovarsi in portafoglio una massa di titoli che nessuno vuole, con le conseguenze inimmaginabili; inoltre è problematico tenere i tassi bassi se l’inflazione cresce, la seconda proposta fa a pugni con la terza. Quest’ultima, poi, è minata da un’altra contraddizione: se l’inflazione sale in un momento in cui i consumi americani boccheggiano, è chiaro che questi ultimi caleranno e con consumi sempre più inadeguati a sostenere la dinamica dell’economia sarebbe un po’ difficile che le imprese investano i loro accantonamenti, molto più probabile sarebbe un’emigrazione della liquidità delle imprese verso attività speculative, che già adesso assorbono enormi capitali e creano problemi ingovernabili sui mercati finanziari mondiali con cui i G8 e 20 fingono di misurarsi senza risultato alcuno249.

L’ultimo canto dei liberals (o l’ultima trovata) è l’idea del capitalismo solidale che non è una battuta di umorismo nero, ma vorrebbe essere una proposta di cui da oltre 15 anni è alfiere il prof. Rifkin, per cui il futuro del capitalismo è nel famoso terzo settore e il c.d. settore “non profit250,”. Intendiamoci quando si dice non profit non si allude al fatto che queste imprese non debbano perseguire il profitto, ma semplicemente al fatto che il profitto sarebbe un mezzo e non un fine. Ora, però, è facile osservare che se il mezzo è vitale per l’impresa, per il suo sviluppo e la sua sopravvivenza, diventa un fine o un mezzo-fine comunque essenziale ed imprescindibile per l’impresa stessa. In Italia, paese che ha avuto un movimento operaio tra i più forti del mondo occidentale abbiamo avuto le cooperative che sono cresciute, e non poco, ma che, per sopravvivere in un mondo capitalistico e concorrenziale, hanno finito per comportarsi come imprese capitalistiche. Molto prima dello scandalo Unipol, i difensori del modello cooperativo non negavano che quelle imprese agivano con la stessa logica di imprese capitalistiche trattando i propri dipendenti come una controparte contrattuale come le imprese aderenti alla Confindustria251.

Non diversamente per le PP.SS. che sono state un’esperienza italiana studiata in tutto il mondo, in base alle quali delle imprese di proprietà pubblica, ma operanti sul mercato come S.p.A. private, dovevano realizzare contemporaneamente l’efficienza economica (profitto) e quella pubblica (fini politici). Nel momento migliore della loro storia il fine economico ha avuto naturalmente il sopravvento: se non fai profitti chiudi252.

Il problema per il terzo settore è molto semplice, per funzionare necessita di finanziamenti ed è utopico che esso possa esistere o svilupparsi solo sulla base del lavoro volontario253, inoltre i finanziamenti li devi chiedere al mercato e li dovrai rimborsare con gli interessi sicché sei costretto necessariamente a fare profitti altrimenti non potrai rimborsare capitale e interessi, il che significa che anche le imprese non profit sono subalterne alla logica del mercato capitalistico e alle scelte che all’interno di questo mercato si devono fare per sopravvivere.

Né vale fare l’esempio delle grandi fondazioni legate a grandi capitalisti che secondo alcuni sarebbero un esempio di come sia possibile conciliare efficienza economica e fini sociali254, in quanto alle spalle di queste fondazioni ci sono enormi IM che fanno profitti, una parte dei quali, poi, finanziano le fondazioni, con il metodo di produrre di più con meno addetti. Il vizio di fondo dell’economia capitalistica, il nodo di tutti i problemi, rimane intatto e il fatto che una frazione modesta dei profitti ottenuti creando disoccupati siano destinati a fini “sociali” non cambia il quadro: tali fini peraltro, sono fini legati a esigenze di immagine e di politica delle stesse IM, che devono creare un quadro politico favorevole alla loro azione e cercare di produrre consensi255, i fini sociali delle fondazioni si collegano cioè in modo funzionale agli interessi delle IM che sono alle loro spalle.

Non meno disarmante è un altro esempio di capitalismo solidale fatto da Rampini: un’economista, convinto assertore del terzo settore, diventa sindaco di Indianapolis e risana l’amministrazione cittadina applicando le sue idee: meno tasse e servizi più efficienti256. Tuttavia questo fine sociale viene realizzato con una strage di posti di lavoro: il 40% dei dipendenti comunali che viene licenziato257, un risanamento che sembra quello operato da un esponente della destra repubblicana più efficentista e reazionaria, in un momento in cui il mercato del lavoro in USA annaspa.

Se questo è il capitalismo solidale, siamo decisamente messi male!

 

7) Crisi strutturale ed esplosioni sociali.

Il 2010 conferma le tendenze alla ripresa del conflitto sociale segnalate nei miei precedenti articoli258. Della Cina si è detto ed in India nulla è cambiato dal 2009, in quell’enorme paese tormentato da una guerriglia endemica ed in espansione. Nella stessa area (Bangla Desh maggio 2010) si verificano violentissime esplosioni sociali: gli operai delle IM che producono maglioni da esportazione, scendono in piazza contro i loro salari da fame (33 euro al mese), nessuno se ne accorge da noi tranne Rai News 24 che manda in onda un servizio che mostra Dacca dopo gli scontri violentissimi: palazzi e auto in fiamme, barricate etc. E’ il preludio di quello che avverrà tra la fine e l’inizio dell’anno: rivolte del pane in Algeria, Tunisia e Giordania che portano alla revoca degli aumenti dei prezzi e nel caso della Tunisia al crollo del regime di Ben Ali (che a suo tempo ospitò e protesse l’on. Craxi); la rivolta si estende violentissima all’Egitto con folle che scendono in piazza al grido: “pane e libertà, lunga vita alla rivoluzione tunisina”. Parole d’ordine queste che non hanno nulla a che vedere con il fondamentalismo islamico e che terrorizzano le cancellerie occidentali a cominciare dalla Casa Bianca che molla il vecchio alleato Mubarack, ormai diventato impresentabile.

Nei paesi avanzati le manovre lacrime e sangue scatenano durissime resistenze: in Grecia e in Francia è un susseguirsi di scioperi generali contro le misure di austerità, in Spagna il primo sciopero generale dell’era Zapatero , ed anche in Portogallo sciopero generale. In Inghilterra gli studenti assediano inferociti i Comuni e da noi avviene lo stesso, per il nostro Parlamento, ad opera degli studenti italiani. A Dannenburg in Germania 50 mila ecologisti bloccano per ore un treno che portava scorie nocive scortato da una piccola pattuglia di 16mila poliziotti259.

Un potere dappertutto (o quasi) screditato per la sua evidente impotenza davanti alla crisi mondiale, incontra una crescente opposizione popolare che si manifesta in una evidente perdita di consenso da parte delle classi dirigenti a livello politico. Mi sembra evidente che i vari governi stanno diventando sempre più dei governi di minoranza: anche in paesi dove si vota molto, l’assenteismo elettorale si estende a macchia d’olio: emblematico è il caso dell’Italia paese tra i più partecipativi alle elezioni, eppure da noi nelle ultime tornate elettorali (regionali ed europee) ha votato circa il 65% degli elettori, tenendo conto delle schede nulle o bianche il partito del non-voto rasenta il 40% dell’elettorato, Berlusconi e Bossi che vantano un grande consenso elettorale, ormai rappresentano il 40% o poco più del 60% degli elettori, 1 italiano su 4. Lo stesso in Grecia dove Papandreu ha vinto le ultime elezioni amministrative, tenute in un paese che stava esplodendo, ottenendo la maggioranza dei voti al ballottaggio cui hanno partecipato il 40% degli elettori (il 55% al primo turno)260; in Portogallo il presidente conservatore Cavaco Silva vince le elezioni di gennaio ottenendo il 52,9% dei voti, ma a votare è andato solo il 47% degli elettori (dato sottomarino)261.

Alle elezioni europee la partecipazione elettorale è stata modestissima (a volte attorno al 30%) il che testimonia quanto l’Europa delle manovre lacrime e sangue sia lontana dalla vita dei popoli europei; in America, dove, da sempre, la partecipazione è molto più bassa, Obama ha perso le elezioni di medio termine perché l’elettorato liberal gli ha voltato le spalle, deluso dai risultati fallimentari della sua politica.

Dappertutto classi dirigenti screditate e che ottengono solo il consenso delle proprie clientele, ormai minoranza nell’ambito della popolazione.

In questo quadro, di perdita di consenso, parrebbe necessario tenere in piedi un apparato repressivo forte per far fronte al crescente pericolo di agitazioni popolari: se occorrono 16 mila poliziotti per scortare un solo treno di scorie tossiche, o 4500 poliziotti per scortare Papandreu a tenere un comizio a Salonicco (settembre 2010) è evidente il bisogno di un apparato repressivo ramificato ed efficiente per fronteggiare la situazione. Eppure la crisi morde anche in questo settore, di soldi ce ne sono sempre meno, anche per la repressione: l’anno scorso ho segnalato il licenziamento massiccio di poliziotti in California262; quest’anno la manovra lacrime e sangue inglese colpisce anche gli effettivi della polizia come si è visto, e in Italia i tagli alle spese per la sicurezza portano i poliziotti a manifestare davanti alla villa del Presidente del Consiglio ad Arcore; ultima notizia, ma assolutamente clamorosa, è quella che viene dagli USA dove il Ministro degli Interni, la signora Napolitano, ha comunicato che la cortina di ferro lunga 3200 km che doveva separare gli USA dal Messico verrà interrotta dopo solo 80 km perché i soldi non ci sono; ciò significa che la barriera che avrebbe dovuto fermare l’enorme flusso migratorio di clandestini verrà abbandonata e sostituita con un sistema di controllo fondato sui “drones” i famosi aerei telecomandati, che, però non sono una barriera, ma possono al più segnalare movimenti sospetti lungo il confine263.

Il discorso sulla sicurezza interna si collega a quello sulla sicurezza esterna e cioè sulle spese militari: abbiamo già visto che le spese di guerra sono vie più insostenibili per il bilancio americano, ma il fenomeno è generale: alcuni parlano, commentando le riduzioni dei bilanci militari che si diffondono, di “addio alle armi”264.

In sintesi mentre il sistema ha bisogno di una maggiore efficienza repressiva sia all’interno che all’esterno, per fronteggiare crescenti esplosioni sociali, o focolai di guerre locali, la crisi economica e le ristrettezza del bilancio lo costringono a tagliare una spesa che è assolutamente necessaria e vitale. Il quadro che si delinea è molto chiaro: da una parte tensioni ed esplosioni sociali crescenti, dall’altro un apparato sempre più inadeguato a fronteggiarli, mentre il consenso ad una classe dominante, incapace ad affrontare la drammaticità di una depressione senza vie di uscita, si riduce.

Quando si delineano situazioni di questo tipo, nessuno sistema sociale può reggere. Quanto duri l’agonia di questo capitalismo allo sbando è difficile da dire, ma una cosa mi sembra certa che questo sistema sia avvia ad una fine ingloriosa da cui nulla e nessuno potrà salvarlo.

 

1 Fonte FMI ottobre 2010. Ho apportato una piccola correzione al dato della Germania, che era il 3,3%, ma a gennaio 2011 l’istituto tedesco di statistica l’ha corretto al 3,6%. Anche per il rapporto deficit-PIL tedesco le previsioni (4,5%) sono state corrette in meglio (3,5%). Inoltre ho corretto anche il dato del PIL americano dal 2,6% al 2,9% sulla base delle rilevazioni di gennaio 2011.

2 V. infra par. 2, 3, 4. Anche il Ministro Brunetta ha evidenziato che non si sa con precisione quando si ritornerà in Europa ai livelli pre-crisi: “La ripresa debole di natura ciclica in atto non sarà in grado di portare alla situazione pre-crisi e neppure di assorbire il deficit accumulato”. Vedi R. BRUNETTA, Tre priorità per far ripartire l’economica, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 24/01/11, pp. 1 e 4, a p. 4.

Peraltro vari centri studi producono ipotesi, per il ritorno ai livelli pre-crisi, per nulla ottimistiche.

3 Su ciò vedi A. CARLO, Capitalismo 2008. Nel tunnel senza uscita, in www.crisieconflitti.it, 2009, par. 4.

4 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009: la via verso il crollo, in www.countdown.info, 2010, par. 1, e in www.lasinistrainrete.info, 2010.

5 Vedi A. CARLO, Crisi economica e dialettica storica, Loffredo, Napoli, 1984, II edizione, p. 67.

6 Ibidem. Sul carattere sottoconsumistico della crisi del 1929 vedi anche A. CARLO, Il leviatano morente, Liguori, Napoli 2001, III edizione (I 1981), pp. 11-20. Preciso che quando si parla di sovrapproduzione-sottoconsumo non si allude tanto o solo al fenomeno delle merci invendute ma a quello, più ampio, della sovrapproduzione di forze produttive come il capitale investito (impianti inutilizzati e la forza lavoro che rimane disoccupata o sottoccupata).

7 Vedi F. GUIDONI, Dati macro USA in chiaroscuro, in “Finanza & Mercati, 17/6/2010, p. 2.

8 Vedi E. LIVINI, Dai puzzle tossici ai frullatori pazzi, il difetto di fabbrica diventa di casa, in “La Repubblica”, 14/7/2001, p. 21; ancora di recente la Toyota ha ritirato per difetti alla carburazione altri 1,6 milioni di veicoli, v. TELEVIDEO, 26/1/11, p. 825, ogni volta che citeremo il Televideo sarà solo quello RAI, per questo omettiamo la precisazione RAI.

9 Vedi M. NAIM, Illecito, Mondadori, Milano, 2004.

10 V. TELEVIDEO, 23/7/10, p. 821. Ma scorrendo il televideo si ha una miniera di informazioni su valanghe di prodotti cinesi sequestrati perché difettosi, nocivi, falsi o non conformi alle norme europee, che riguardano scarpe o giocattoli tossici, prodotti o macchine di bellezza nocive, Honda false, medicine dannose, etc.

Divertente è il caso dei cerchioni per auto cinesi, presentati come occidentali ma con una durata media di ¼ rispetto ai prodotti copiati e la tendenza a rompersi nelle strade in salita (v. N. FRANCALACCI, I cerchioni cinesi e il rischio del riciclato, ne “Il venerdì di Repubblica”, 2/4/10, pp. 36 e sgg.), guidare un’auto con cerchioni cinesi falsi deve essere un’esperienza emozionate, soprattutto se affronti una strada di montagna tra burroni senza protezione.

11 Vedi H. FANNINTOWN , Cemento scadente e nessun collaudo, la verità sul disastro nelle e-mail BP, in “La Repubblica”. 16/6/10, p. 15

12 Vedi infra par. 5.

13 Vedi K. VERGOPOULOS, Il mito del lassismo greco, in “Limes”, quaderno speciale “L’euro senza Europa”, 2010, p. 47. Si noti che esistono paesi come l’Australia in cui ancora oggi il rapporto debito-PIL è al 16% (da favola), ma si tratta di eccezioni, la tendenza dominante è quella indicata nel testo, ormai abbiamo un livello di debito di guerra in tempo di pace, con la differenza che un tempo, passata la guerra e terminate le spese straordinarie, la situazione si normalizzava, adesso invece siamo davanti ad una situazione incancrenita, accentuatasi negli ultimi dieci anni, ma che comincia a manifestarsi dalla metà o dalla fine degli anni ’70.

14 Vedi infra, par. seg.

15 Vedi infra par. 3.

16 Pochi anni fa, non più di 3 o 4, per il Giappone circolavano cifre del 170/180% e per il 2014 si prevedeva una soglia del 240%, ho il sospetto che quel record verrà centrato molto prima.

17 Vedi . A. PENATI, I tre grandi mali ignorati della UE, in “La Repubblica”, 20/11/10, p. 36.

18 Fonte J.C. HULSMAN , J. KOOROSHY, Niente soldi niente potenza: la dura lezione della crisi per noi occidentali, in “Limes”, n. 3, 2010, p. 154.

19 Ibidem.

20 Vedi E. POLIDORI, Il FMI lancia l’sos debito: ripresa in dubbio, in “La Repubblica”, 21/4/10, p. 22.

21 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009, cit. , par. 1.

22 Vedi A. CARLO, L’economia “globale” un Titanic che affonda, in www.crisieconflitti.it , 2007, par. 3 ove tabella.

23 Vedi e.p., Abbassiamo il deficit tassando chi inquina, in “La Repubblica”, 24/4/10, p. 13, il titolo dell’itnervista a Cotarelli sembra quasi accattivante ed ecologista, ma il menu proposto in dettaglio fa paura.

24 Vedi infra par. seg.

25 Vedi TELEVIDEO,6/12/10, p. 131.

26 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009, cit, par. 3.

27 La svolta avviene a partire dalla metà degli anni ’60: v. A. CARLO, Studi sulla crisi della società industriale, Loffredo, Napoli, 1984, pp. 209-10 ove quattro tabelle che illustrano la svolta nel periodo 1965/77; Id. Economia, potere, cultura, Liguori, Napoli, 2000, pp. 140/141 e 157/158, sull’enorme volume di esenzioni e di favoritismi fiscali di cui gode il capitale, v. anche ivi, p. 70/71, nota 238 dove cito il commissario europeo Monti che giustifica il crescente carico fiscale sui lavoratori (decrescente sul capitale) col fatto che le IM mettono all’asta i loro capitali e li concedono solo ai paesi fiscalmente benevoli, per cui diventa obbligato alleviare il peso fiscale sulle IM e farlo ricadere sui lavoratori.

28 Vedi E. OCCORSIO , Appello FMI al nostro paese “non esagerate con la stretta”, in “La Repubblica”, 10/9/10, p. 32, intervista a Cotarelli adesso assai più prudente sulle manovre “lacrime e sangue”.

29 Si tratta di dati ufficiali più volte diramati dall’ILO e valutazioni simili sono compiute anche dal FMI.

30 Su ciò vedi A. CARLO, Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo, in www.crisieconflitti.it, 2005/2006 dove analizzo il celebre Report dell’ILO del 2005. Che poi a causa della crisi i sottoccupati e gli affamati siano aumentati enormemente è indubbio, v. A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 1.

31 Vedi BIT, L’emploi, la croissance et les besoins essentiels, problème mondial, BIT, Genéve, 1976, p. 18

32 In Italia siamo al 57,5%, in Francia al 64,2%, in UK al 69,9%, in Spagna al 58,9%, fonte Eurostat 2009.

33 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro cit., vedi anche infra par. 4 sull’Italia.

34 Vedi A. CARLO, La società industriale decadente, Liguori, Napoli, 2001, III edizione (I 1980), a pp. 61 e sgg., alle pp. 55 e sgg., illustro perché ritengo che le PMI siano nel nostro paese imprese periferiche e subalterne rispetto alle grandi, le IM in particolare. Allora questa tesi era eretica, circolava la tesi illogica e provinciale che “piccolo è bello”, oggi nessuno osa riproporre una simile assurdità; per quanto, come spesso accade, quelli che oggi sostengono la necessità di uno sviluppo della concentrazione industriale in Italia sono le stesse persone che trent’anni fa dicevano che “piccolo è bello”.

35 Vedi P.A. SAMUELSON, Economia, Zanichelli, Bologna, 1983, p. 90 dove si rileva la fragilità-mortalità delle PMI ed il loro frequente ricambio.

36 Vedi . CARLO, Capitalismo 2009, cit, par. 6

37 È il problema ben noto, ammesso dagli stessi demografi cinesi, della popolazione nascosta e non denunciata per sfuggire alle sanzioni previste per chi viola l’obbligo del figlio unico. In occasione del censimento del 2010 il governo ha promesso l’impunità a chi denunci l’esistenza di una prole nascosta con il che ha ammesso l’importanza del problema, v. su ciò F. RAMPINI, Appello global, ne “Il venerdì di Repubblica”, 7/5/10, p. 31.

38 Vedi A. CARLO, L’economia “globale” cit, par. 5.

39 Vedi infra nel testo l’analisi del piano ventennale giapponese 1966/1985, in cui esisteva un simile rapporto tra sviluppo del PIL e sviluppo dell’occupazione, rapporto assolutamente proibitivo per le prospettive occupazionali, perché corrisponde alle tesi enunciate qualche decennio fa da un economista americano (Okun) secondo cui per non aumentare la disoccupazione occorre un tasso del 4%, un tasso nettamente superiore per ridurla, mentre al di sotto del 4% le cose vanno decisamente male.

40 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., cap. II e IV.

41 Ivi, p. 71.

42 Ivi, p. 173. E’ sintomatico notare come, già negli anni ’50 nei primi studi italiani sull’automazione, si ritenesse pacifico che solo il terziario potesse assorbire la forza lavoro sempre più esuberante (v. G. B. BOZZOLA, Introduzione a l’automazione nella società industriale, Angeli, Milano, 1957, pp. 14 e sgg.), ovviamente perché questo potesse avvenire il terziario non doveva industrializzarsi. Oggi dire che l’estensione dell’automatizzazione al terziario crea uno sfascio occupazionale, viene considerata quasi un’espressione misoneista, chi dice queste cose è un troglodita che si oppone al progresso e allora non c’è che da accettare la sfida del troglodita: sviluppate insieme occupazione e produzione nella logica capitalistica di produrre sempre più ricchezza con sempre meno occupati. Buona fortuna!

43 L’espressione “mantra” è in un bell’articolo di MARCO PANARA, La FIAT Mirafiori e il mantra ambiguo della produttività, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 6/12/10, pp. 1 e 4 dove leggiamo: “Per anni ci hanno detto che il problema era la flessibilità del lavoro nei fatti la sua precarizzazione. Oggi dopo aver flessibilizzato tanto scopriamo che non è così”.

Panara vuol dire che l’Italia e l’occidente non sono la Cina e non possono competere con metodi cinesi che per noi sono metodi da paesi sottosviluppati. Peccato che questa non sia la posizione di “Repubblica”, organo del capitalismo “illuminato”, per cui la flessibilità è un dogma indiscutibile come per gli altri capitalisti, quelli privi di illuminazione.

44 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro cit., dove tra l’altro cito i dati di Rifkin che evidenziano come il lavoro parziario e flessibile sia un portato della crisi degli anni ’70; subito dopo negli anni ’80 si hanno ricerche sull’Europa a tempo parziale, che confermano appieno quanto sosteniamo (v. A. CARLO, La società industriale cit.”, p. 188/189.

45 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2008, cit, par. 2.

46 Vedi L. GALLINO, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari, 2007, II edizione, pp. 45 e sgg. e 53.

47 Nel 1997 il prof. Phelps (che nove anni dopo vincerà il Nobel per l’economia) osservò che la disoccupazione reale in USA era un 1/5 della forza lavoro e non il 5%, v. su ciò A. CARLO, Economia, potere, cultura, cit., p. 113.

48 Vedi P. GRISERI, L’auto made in Italia arranca, il solo impianto polacco batte 5 nostri, in “La Repubblica” 25/10/10, p. 4, l’autore però, osserva e, a ragione, che gli impianti italiani producono auto del settore medio (e non utilitarie come in Polonia), in cui la FIAT arranca, mentre in Brasile c’è un mercato in espansione a differenza del nostro che è saturo, di qui il frequente ricorso alla cassa integrazione che tiene gli operai a casa. In altre parole se non vendi (e la colpa non è degli operai) e tieni a casa i dipendenti, è chiaro che la produttività sarà bassa, non potrebbe essere altrimenti.

49 Vedi A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 118-19

50 Vedi V. COMITO, La FIAT, Ed. Riuniti, Roma, 1982, pp. 9-10.

51 Con i miracoli della matematica composta un incremento del 2,5% l’anno produce il raddoppio della base di partenza dopo poco più di 29 anni, per cui dopo 42 anni, essendo la base più o meno triplicata, possiamo calcolare un incremento medio annuo del 2,7% circa.

52 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp- 62-63.

53 Su ciò v. A. CARLO, Studi sulla crisi cit., pp. 89 e sgg., dove ripubblico un saggio del 1972 in cui prevedevo il “crash” del miracolo giapponese cui tutti allora plaudivano, v. anche p. 107 e sgg. dove pubblico un nuovo lavoro di verifica dello sviluppo giapponese dopo la fine del miracolo e l’abbandono del piano ventennale 1966/85.

54 Ivi, pp. 110, nota 13 dove rilevo che in Giappone nel periodo 1968/81 la produttività nell’industria cresce del 100% contro il 4% degli uffici, la cui efficienza è di tipo “sovietico”.

55 V. infra par. 5.

56 Vedi W. ROEPKE, Democrazia ed economia, Il Mulino, Bologna, 2004.

57 Vedi A. CARLO, op. ult. cit.. pp. 93 e sgg. e 119.

58 Vedi A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., p. 107.

59 V. infra par. 2, 3, 4, ove dati sul fatto che anche la PA taglia posti in USA come in Europa o in Italia sotto la spinta della crisi, ma è dagli anni ’90 che il prof. Rifkin nota che oramai lo Stato ha rinunciato al suo ruolo di garante dell’occupazione, v. J. RIFKIN, La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano, 1995, V ed., pp. 328 e sgg.

60 I sindacati a quell’epoca erano assai forti in USA , dopo l’avvento di Roosevelt e del Wagner act (1935), che ne sostenne lo sviluppo sicchè diventarono un pilastro della società americana, stabilmente alleati del partito democratico, mentre in Nord Europa ed Inghilterra erano alleati dei partiti laburisti e socialdemocratici. In Francia il sindacato, forte negli anni del dopoguerra perse potere negli anni di De Gaulle , in Germania era un elemento fondamentale dell’economia sociale di mercato, in Italia forte nei primi anni del dopoguerra fu sconfitto ed emarginato negli anni ’50 per poi riprendere potere dal 1960 al 1980; solo in Giappone si può dire che furono stabilmente emarginati in quel periodo.

61 V. su ciò A. CARLO, Crisi del lavoro cit.

62 V. infra par. 2 e 3 , dove cifre sui salvataggi bancari in USA ed Europa.

63 V. retro il lavoro citato alla nota 20.

64 Vedi F. RAMPINI, Bofa, Deutsche Bank, City group nel mirino. La SEC: “hanno nascosto l’indebitamento”, in “La Repubblica”, 27/5/10 , p. 27.

65 V. infra, par. sg.

66 V. infra par. 3.

67 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit, par. 1.

68 V. TELEVIDEO, 23/9/10, p. 823, che riporta la classifica di “Forbes”.

69 Vedi A. GRECO, In Asia i super-ricchi del mondo comprano auto, banche ed aerei, in “La Repubblica”; 23/6/10, p.20. Anche di recente al convegno di Davos del World Economic Forum, si è rilevato che il 10% della popolazione mondiale controlla l’83% della ricchezza, v. F. RAMPINI, Il mondo visto da Davos, ivi, 27/1/11, pp. 35 e 37, a p. 37.

70 Vedi M. ONADO , Il compromesso che non basterà, ne “Il Sole 24 ore”, 5/1/11, p. 2.

71 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 1 e 2.

72 Vedi F. RAMPINI, USA meno disoccupati e più crescita ma si accende lo scontro con la Cina, in “La Repubblica”, 1/10/10, p. 34.

73 Secondo stime correnti e diffuse la banca di Cina ha in portafoglio 900 miliardi di dollari di bonds USA, 700 di bonds europei e 300 di bonds giapponesi.

74 I dollari che i cinesi investono nei bonds americani ed europei non derivano solo dalla bilancia commerciale attiva, ma anche dal movimento dei capitali (investimenti di IM in Cina, fatti in dollari).

75 Vedi C. PETRINI, Italia tante promesse e pochi contributi, in “La Repubblica”, 21/9/10, p. 17.

76 Vedi M. RICCI, La grande finanza affonda ancora l’imposta che aiuta i poveri e il clima, in “La Repubblica”, 8/9/10, p. 23, anche qui si parla di transazioni monetarie pari a 4 trilioni di dollari al giorno e di 600 mila miliardi di derivati a livello mondiale.

77 Ibidem, dove si cita Tremonti che dice della Tobin tax: “Un suicidio se la introducono pochi Stati”. Conclusione: siccome è impossibile che tutti siano d’accordo la Tobin tax è rinviata alle calende greche.

 

78 Riduttivo perché questi Stati non sono solo paradisi fiscali ma svolgono funzioni di sostegno al riciclaggio di danaro sporco, ad attività illegali, ad azioni speculative ed avventurose, i cui autori per motivi vari, vogliono restare nell’ombra.

79 Vedi A. MINCUZZI, Gli schermi di Falciani che hanno nascosto i soldi all’estero, ne “Il Sole 24 ore”, 27/6/10, pp. 1 e 8.

80 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 3

81 Vedi L. SPAVENTA, Basilea 3 un successo a metà, la finanza ombra resta senza regole, in “La Repubblica Affari & e Finanza”, 20/9/10, p. 3. All’analisi segue un giudizio per nulla entusiasta come si vede, la finanza ombra rimane il convitato di pietra.

82 Vedi TELEVIDEO, 12/11/10, p. 828 ove si riporta la dichiarazione di Draghi in tal senso.

83 Vedi L. SPAVENTA, op.cit.; M. ONADO, op.cit.

84 Vedi L. CILLIS, L’inflazione rialza la testa, prezzi sù dagli USA all’Europa, in “La Repubblica”, 15/1/11, p. 28.

85 Vedi I big asiatici in soccorso al debito UE, in “Finanza & Mercati”, 12/1/11, p. 2 articolo anonimo; anche il capo economista del FMI Padoan rileva che la crisi non è affatto superata e che le tensioni speculative sui prezzi sono uno dei rischi più grossi sul tappeto, v. TELEVIDEO, 7/11/11, p. 834.

86 Vedi A. AQUARO, Crollano le vendite di case USA; la Fed non varia il costo del denaro, in “La Repubblica”, 23/6/10, p. 21; F. RAMPINI, Addio mattone, case invendute e crollo dei prezzi, ivi, 24/8/10, pp. 1 e 23.

87 Vedi F. RAMPINI, Torna lo spettro dei mutui subprime, il ground zero dei mercati fa ancora paura, in “La Repubblica”, 13/8/10, pp. 6-7; ID, I mutui eterno incubo di Obama: “Mai più salvataggi di Stato”, ivi, 18/8/10, p. 24.

88 Vedi i lavori citati nella nota precedente.

89 Vedi F. RAMPINI, Auto i sindacati USA presentano il conto, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 24/5/10, pp. 1, 6 e 7; alla Chrysler un nuovo assunto guadagna 14 dollari l’ora contro 28 di un anziano, v. A. AQUARO, Chrysler, arriva l’operaio di serie B, in “La Repubblica” 26/7/10, p. 15.

90 Vedi M. MO, America mai così tanti poveri, in “La Stampa”, 17/9/10, p. 21; quanto a Rampini egli osserva che sebbene la recessione sia stata dichiarata ufficialmente chiusa, l’economia americana non gira e chi ritrova lavoro deve subire una decurtazione del vecchio salario pari al 20%, v. F. RAMPINI, E’ finita la recessione record ma da 15 mesi la ripresa USA gira a vuoto, in “La Repubblica”, 27/9/10, p. 13.

91 Vedi R. ROVATI, Fed alza il velo sui piani di stimolo, in “Finanza & Mercati”, 2/12/10, p. 10.

92 Vedi F. RAMPINI, Geithner: stop alla guerra delle valute o l’economia mondiale si ferma, “La Repubblica”, 17/10/10, p. 31, dove si afferma (ma la cosa è notissima) che la Fed ha acquistato titoli del tesoro per 1700 miliari, nello stesso articolo si rileva che anche la banca del Giappone ha acquistato 60 miliardi di dollari di titoli nipponici. Poco dopo la Fed annuncerà un piano per l’acquisto, entro la prima metà del 2011, di altri 600 miliardi di titoli del Tesoro (v. TELEVIDEO, 3/11/10, p. 841) piano poi confermato varie volte.

93 Vedi F. RAMPINI, L’allarme debiti sovrani arriva in America, in “La Repubblica”, 15/1/11, p. 29.

94 Vedi M. PANARA, Banche torna la grande paura, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 7/6/10, pp. 1-3, a p. 2. Inoltre anche Attali nota che nei prossimi due anni (2001/2012) gli USA, oltre alle nuove emissioni di bonds, dovranno rinnovare 1800 miliardi in scadenza, v. A. GINORI, L’euro ora rischia davvero può scomparire in pochi mesi, in “La Repubblica”, 29/4/10, p. 4, intervista ad Attali, di qui l’importanza dei finanziamenti esteri.

95 Vedi lavoro citato alla nota 93.

96 Vedi F. RAMPINI, Arriva il G20 ma è un dialogo tra sordi e tornano i timori di una bancarotta greca, in “La Repubblica”, 25/6/10, p. 21 ove citazione dell’ufficio studi della DB.

97 Vedi infra par. sg. dove parlo dei costi di salvataggio in Europa: 4500 miliari di euro fino all’ottobre 2010, salvataggi da continuare fino a tutto il 2011.

98 Vedi F. GUIDONI, Obama lancia l’austerity in USA , in “Finanza & Mercati”, 2/12/10, p. 2; F. RAMPINI, Contro la crisi cura shock di Obama, stipendi pubblici congelati per due anni, in “La Repubblica”, 30/11/10, p. 1; ID, Obama compromessi da 900 miliardi, ivi, 8/12/10, p. 25. Anche per quel che concerne la spesa militare Obama ha operato rilevanti tagli (100 miliardi di dollari) v. F. RAMPINI, Obama riduce i fondi del pentagono, ivi, 11/8/10, pp. 16-17, v. anche infra par. 7.

99 Vedi il lavoro citato nella nota 93.

100 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Pericolo default per gli USA, va alzato il tetto del debito, in “La Repubblica”, 7/1/11, p. 3.

101 J. RIFKIN, op. cit, p. 77.

102 Vedi, Sale a 775 nel primo trimestre del 2010 da 702 di fine 2009, il numero di banche USA in difficoltà, in “Finanze & Mercati”, 21/5/10, p. 1, trafiletto anonimo.

103 Vedi A. AQUARO, Sull’orlo del fallimento 100 banche USA strozzate dai prestiti a rischio, “La Repubblica”, 28/12/10, p. 27.

104 Vedi USA, in calo l’indice Fed Chicago. La ripresa è inferiore al trend storico, in “Finanza & Mercati” 28/9/10, p. 2, articolo anonimo.

105 Ibidem.

106 Vedi A. AQUARO, op. ult. cit.

107 Uno dei nostri migliori giornali economici (“Finanza & Mercati”) titola in prima pagina il 9/10/10: America colpita dai disoccupati di Stato. Ormai è normale rilevare che la PA licenzi a tutto spiano, v. anche infra par. 6, dove si cita il caso del sindaco di Indianapolis che, per risolvere i problemi finanziari del Comune, ha licenziato il 40% dei dipendenti.

108 Vedi F. RAMPINI, La ripresa americana rallenta, Obama: “Ancora venti contrari”, in “La Repubblica”, 3/7/10, p. 24, dove tra l’altro si rileva che gli “enti locali” licenziano massicciamente e che il periodo medio di disoccupazione passa da 23,2 a 25,5 settimane.

Inoltre qualcosa di simile a quanto avvenuto nel dicembre 2010, si verifica nel gennaio 2011, quando sulla base dei dati statistici ufficiali, si ha un ulteriore calo di disoccupati dal 9,4% al 9% epperò il saldo netto della creazione di posti di lavoro è di appena 36 mila unità: l’occupazione ristagna ma la disoccupazione cala di 600 mila unità più o meno, ancora una volta la spiegazione è la stessa non sono gli occupati ad aumentare veramente ma i missing men che scivolano via dal mercato del lavoro e che non cercano più un lavoro regolare.

109 Si noti che il fenomeno dei lavoratori scoraggiati è relativamente nuovo, l’ILO comincia a registrarlo solo dagli anni ’80.

110 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009, cit., par. 3.

111 Vedi infra, par. 4.

112 Vedi b.t., L’America dietro le sbarre, in “Internazionale”, 16/9/2010, pp. 32-39, si tratta di una documentatissima inchiesta apparsa poco tempo prima sull’”Economist”, alla p. 34 e 38 raffronti con altri paesi compresa l’Italia.

113 Vedi retro par. 1.

114 Su ciò v. A. CARLO, Crisi del lavoro cit., par. 5. Ci si potrebbe obiettare che esiste un notevole flusso migratorio di tecnici dai paesi poveri (ad es. India) a quelli ricchi (USA). Ora , però, con tutto il rispetto per le università indiane che ne meritano, gli USA sono, in campo universitario, una grande potenza (v. F. RAMPINI, Occidente estremo, Mondadori, Milano, 2010, pp. 240 e sgg.) e non hanno bisogno certo dei tecnici indiani, che vengono assunti solo perché hanno pretese salariali molto più moderate, sicchè si verifica in USA il bel noto fenomeno della sottoutilizzazione dei laureati locali, su cui v. J. RIFKIN, op. cit., pp. 236 e sgg, dove si rileva che le nuove tecnologie distruggono e/o degradano il lavoro, anche quello impiegatizio e dirigenziale, sicchè i laureati sono costretti a fare i commessi da Mac Donalds o i benzinai, cosa già rilevata da studi precedenti, da Pollock a Bravermann al sottoscritto. In alcune lingue come il giapponese esistono nuove espressioni per indicare il colletto bianco mancato, in giapponese si chiama colletto grigio, v. A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 111.

115 Vedi, La riforma sanitaria non frena i conti di Pfizer e Merck, in “Finanza e Mercati”, 5/5/10, p. 10, articolo anonimo.

116 Vedi TELEVIDEO, 28/12/10, p. 821.

117 V. sui ciò M. PLATERO, Accordo sulla riforma di Wall Street, ne “Il sole 24 ore”, 26/6/10, p. 3; M. VALSANIA, I colossi bancari pagheranno un conto di 19 miliardi, ibidem.

118 Vedi D. ROVEDA, Lobby unite per limitare i danni, ne “Il sole 24 ore”, 16/7/10, p. 35; vedi anche I conti non tornato nella riforma di Obama contro i mostri della finanza, ne “Il foglio”, 17/7/10, p. 1, articolo anonimo.

119 Vedi D. ROVEDA, op.cit.

120 Vedi F. RAMPINI, Il club segreto dei nove banchieri che domina Wall Street, in “La Repubblica”, 13/12/10, pp. 1 e 17.

121 Vedi TELEVIDEO, 7/1/11, p. 822.

122 Vedi V. ZUCCONI, Un Vietnam alla rovescia, in “La Repubblica”, 20/8/10, pp. 1 e 31; B. VALLI, Tra le macerie manca lo Stato, ibidem; F. RAMPINI, Obama mesto addio all’Iraq, via i soldati arrivano i civili, ivi, p. 4; B. VALLI, Tra le bombe senza luce, né acqua è la guerra infinta di Bagdad, ivi, 26/8/10, pp. 1 e 12, 13; ID., L’addio dei marines senza vittoria. A Bagdad resta il fantasma del Libano, ivi, pp. 1, 14 e 15.

123 Vedi TELEVIDEO, 8/1/11, p. 157; a.aq., Il ritorno di Al Sadr infiamma la folla “via gli USA dall’Iraq”, in “La Repubblica”, 9/1/11, p. 16

124 Vedi V. NIGRO, L’appello di Tarek Aziz: “Non lasciate l’Iraq ora”, in “La Repubblica”, 7/8/10, p. 17.

125 Vedi il lavoro citato alla nota 18.

126 Nel corso dei negoziati con i vietnamiti si racconta che un ufficiale USA abbia fatto rilevare ad un collega vietnamita che mai l’America era stata battuta sul campo, il vietnamite rispose glaciale che era vero, ma che era anche irrilevante. Se infatti sei costretto ad andartene hai perso comunque anche se non sei sconfitto sul campo.

127 Vedi F. MINI, Sul terreno la situazione va peggiorando, in “La Repubblica”, 18/5/10, p. 4; L. CARACCIOLO, La guerra persa, ivi, 29/7/10, pp. 1 e 12; A. AQUARO, Afghanistan rilevati i files segreti “ecco le prove dei crimini dei militari”, ivi, p. 27/7/10, p. 10.

128 Non so se questa battuta sia vera, ma è certo corrispondente a ciò che Nixon faceva; quanto alla pietra dello scandalo (l’intervista del generale) è stata integralmente pubblicata anche da noi, v. M. HASTINGS, Obama e il generale, in “Internazionale”, 8/7/10, pp. 26 e sgg.

129 Vedi TELEVIDEO, 19/9/10, p. 152; ID. 22/9/10, p. 824.

130 Vedi TELEVIDEO, 28/12/10, p. 822.

131 Su caos esistente in Afghanistan vedi R. AITALA, C. CONGIU, La droga ha vinto, in “Limes”, n. 2, 2010, pp. 143 sgg.; A. DELEDDA, La crisi dello Stato afgano , ivi, pp. 153 e sgg.; F. CARBONARI, Con quali insorti trattiamo?Kabul e Washington si dividono, ivi, pp. 161 e sgg; M. MAZZONIS, Come (non) decide Barack Obama , ivi, pp. 189 e sgg.

132 Vedi TELEVIDEO, 9/6/10, p. 833; ID, 1/10/10, p. 826; ID. 9/10/10, p. 823.

133 Fonte Eurostat.

134 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro, cit..

135 Vedi TELEVIDEO, 7/10/10, p. 137.

136 Vedi Eurozona senza rigore? Debito record al 100%, in “La Repubblica”, 9/5/10, p. 3, articolo anonimo.

137 Spesso, in passato, quando si sosteneva questa tesi la nostra Confindustria insorgeva notando che l’evasione si divideva tra tutte le classi sociali, il che è vero formalmente ma falso sostanzialmente: a Davos (gennaio 2011) si è rilevato che il 10% della popolazione mondiale controlla l’83% della ricchezza (v. F. RAMPINI, Il mondo visto da Davos cit.), dati che non hanno nulla di eccezionale perché da decenni ne circolano di simili (v. A. CARLO, Economia, potere, cultura, cit., p. 149 testo e nota 124) e che impongono una conclusione molto netta: l’evasione fiscale concerne chi ha la ricchezza e siccome la ricchezza si concentra relativamente in poche mani, quelle della classe dominante, alle classi subalterne rimangono le briciole della ricchezza e quindi dell’evasione fiscale. Questo fenomeno cioè riguarda essenzialmente i Paperoni e non i disoccupati, le casalinghe o i contadini indiani e cinesi.

138 Vedi E. OCCORSIO, Il premio Nobel Spence “ultima lezione per l’Europa non ci sarà una prossima volta”, in “La Repubblica, 23/11/10, p. 12, ove intervista a Spence.

139 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008, cit., par. 8

140 Sulla situazione delle banche italiane v. A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 5 ed infra par. 4; l’unico accenno di intervento a sostegno delle banche sono stati i c.d. Tremonti bonds , iniziativa modesta e fallita (v. il lavoro citato ad inizio nota).

141 Vedi I big vanno in pressing sulla crisi, in “Finanza & Mercati”, 2/12/10, p. 2, articolo anonimo.

142 Vedi E. FRANCESCHINI, L’Inghilterra vara la tassa sulle banche, in “La Repubblica”, 23/6/10, p. 20

143 Vedi il lavoro citato alla nota 139, per inciso in quel lavoro si rileva come il Governatore Draghi, poco prima della decisione del 12/10/2008 assicurasse l’universo mondo che le banche europee erano solide e che la vicenda dei mutui subprime era esclusivamente americana (ivi, testo e nota 157).

144 A. PENATI, Tassa sulle banche inefficace, in “La Repubblica”, 26/6/10, p.20 osserva che le ipotesi che circolano in materia sono estremamente modeste e di entità facilmente scaricabile sui clienti delle banche stesse, come evidenzia anche il caso inglese di cui abbiamo parlato.

145 Vedi A. PENATI, In Europa è esplosa la bolla bancaria, , in “La Repubblica”, 12/6/10, p. 22.

146 Vedi A. PENATI, L’Europa è sull’orlo di una crisi giapponese, in “La Repubblica”, 10/7/10, p. 26.

147 Vedi A. SANTONI, Se i bonds crollano affondano i bilanci delle banche europee mentre la rigidità della BCE disorienta gli investitori, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 10/5/10, p. 2.

148 Vedi A. ZAMPAGLIONE, Pigs, francesi e tedesche le banche più esposte, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 14/6/10, p.30 dove si cita uno studio della BRI per cui le banche tedesche sono esposte per 1000 miliardi di euro e quelle europee per 1550 miliardi; secondo, invece, W. Munchau, vice direttore del “Financial Times, “l’esposizione della banche europee arriverebbe a 2000 miliardi di euro, vedi W. MUNCHAU, La cura anticrisi non guarisce l’Europa, in “La Repubblica” , 17/6/10, p. 24.

149 Vedi infra nel testo.

150 Vedi a. gr., Dubbi sugli stress test, banche giù in borsa, in “La Repubblica”, 8/9/10, p. 24; W. RIOLFI, ,I dubbi dei mercati sugli stress test schiacciano i listini, ne “Il Sole 24 ore”, 8/9/10, p. 2.

151 Vedi I big vanno in pressing sulla crisi, cit.

152 Vedi E. LIVINI, Crack immobiliari, bond e crisi economica, bomba a orologeria per le banche spagnole, in “La Repubblica”, 9/1/11, p. 13

153 Vedi K. VERGOPOULOS, op. cit..

154 Vedi A. TARQUINI, Trichet resiste all’assedio tedesco, in “La Repubblica”, 11/6/10, p. 30.

155 Vedi A. AQUARO, Natale di ripresa negli USA, corsa agli acquisti, in “La Repubblica”, 29/12/10, p. 33.

156 Vedi retro nota n. 92.

157 Vedi F. RAMPINI, I mercati euroscettici, in “La Repubblica”, 15/5/10, pp. 1 e 4.

158 Ibidem.

159 Ibidem, critica fatta da molti a cominciare dagli ambienti di Wall Street dove si nota che non si risolve il problema del debito facendo altri debiti (tappi un buco e ne apri un altro); nello stesso articolo Rampini rileva altresì quello che da più parti si nota, e cioè che davanti alla crisi Obama è intervenuto personalmente sui governi europei (anche telefonicamente), per invitarli a prendere provvedimenti drastici.

160 Vedi A. BONANNI, Fondo salva-Stati, slitta l’aumento, Berlino frena l’eurogruppo , in “La Repubblica”, 18/1/11, p. 26; la richiesta di portare il fondo a 2000 miliardi è stata fatta da alcuni economisti americani v. A. MERLI, Fondo salva-Stati troppo debole, in “Il Sole 24 ore”, 14/1/11, p. 18.

161 Su ciò v. infra par. sg.

162 Sulle decisioni prese dai vari paesi v. E. POLIDORI, Ecco le manovre lacrime e sangue, austerity obbligata per gli Stati , in “La Repubblica”, 17/5/10, p. 13; M RICCI, La cifra esatta della salvezza, ivi, 11/5/10, pp. 1 e 7; M. PANARA, Europa attacco al welfare , ivi, “Affari & Finanza”, 17/5/10, pp. 1 e 3; A. GERONI, Sarkozy taglia gli sgravi fiscali, ne “Il Sole 24 ore”, 26/6/10, p. 5, nella stessa pagina si dà la notizia di agitazioni a Bucarest e della decisione della Corte Costituzionale rumena di bocciare alcune misure del pacchetto “lacrime e sangue” deciso dal governo; Sognate ancora un posto pubblico? In Europa stanno cambiando idea, ne “Il Foglio” 23/10/10, p. 1, articolo anonimo ove riassunto delle varie manovre.

Tuttavia le manovre in questione non risolvono i problemi in modo strutturale e a fine anno ci sono tensioni sui debiti di Italia e Spagna, v. E. POLIDORI, BCE tensione sui debiti di Italia e Spagna, in “La Repubblica”, 21/1/11, p. 30, e anche la Germania corre il rischio di perdere la tripla A, v. A. TARQUINI, E adesso anche Berlino rischia di perdere la tripla A, ibidem.

163 Vedi P.A. ALFIERI, Sangue e lacrime, Cameron “licenzia” 500 mila impiegati, ne “L’Avvenire”, 21/10/10, p. 4

164 Citato da M. DE CECCO, Dottrina Draghi per euro e BCE, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 7/6/10, pp. 1 e 3 a pag. 3; analoghe le posizioni di altri esponenti della cultura europea come l’economista francese Fitoussi.

165 Vedi A. CARLO, Il Leviatano morente cit., pp. 281-282, si tratta della postfazione alla terza edizione del 2001.

166 Così il Commissario europeo Barroso che sostiene: “Non ci può essere un’unione monetaria senza una reale unione economica. Non sto chiedendo uno Stato federale e neppure una “governance” unica dell’economia. Ma una vera governance economica …”, citato da A. BONANNI, Abbiamo salvato l’euro adesso niente esitazioni servono nuove regole, in “La Repubblica”, 11/5/10, p. 3.

Ora quello che colpisce in questa posizione è la loro contraddittorietà: Barroso sa che non può chiedere né uno Stato federale né una “governance” unica, ma comunque vuole una vera governance economica e francamente questo non si capisce come possa avvenire senza qualcosa di molto simili ad uno Stato federale. In altre parole Barroso chiede quello che dice di non chiedere.

167 Un riassunto di questa posizione in R. BRUNETTA, op. cit., inutile dire che il ministro Brunetta commenta positivamente questa sintesi di posizioni in cui c’è tutto e il contrario di tutto in bella e allegra confusione.

168 Vedi E. POLIDORI, Ciampi: più rigore in eurolandia, chi aderisce non può ingannare, in “La Repubblica”, 1/5/10, p. 23 dove Ciampi parla, nel corso dell’intervista, di “governi ribaldi” che presentano bilanci falsi.

169 Vedi A. BONANNI, Eurostat indagherà sui bilanci dei paesi UE, in “La Repubblica”, 9/6/10, p. 24.

170 Vedi TELEVIDEO, 30/9/10, p. 837 per quel che concerne Juncker, per quel che concerne Tremonti vedi E. POLIDORI, Debito: Tremonti si sente sicuro “Non temiamo le nuove regole UE”, in “La Repubblica”, 1/10/10, p. 34; v. anche M. ZATTERIN, Patti UE in versione soft, ne “La Stampa”, 30/9/10, p. 37, nello stesso numero del giornale torinese compaiono due articoli sulle manifestazioni antiausterità che scuotono l’Europa (v. G. A. ORIGLI, La Spagna si ferma contro il rigore di Zapatero, ivi, p. 11; M. ZATTERIN, Europa in piazza “basta con i tagli”, ivi, pp. 10-11) e questo sembra suggerire che la versione soft del patto sia anche dovuta al timore di esplosioni sociali.

171 Vedi B. ROMANO, “Deluso dal nuovo patto”, ne “Il Sole 24 ore”, 20/10/10, p. 4 ove intervista a Stark; A. TARQUINI, Trichet attacca il nuovo patto anti-deficit, in “La Repubblica”, 22/10/10, p. 39.

172 Vedi J. STIGLITZ, Tre ricette per l’euro, in “La Repubblica”, 7/5/10, pp. 1 e 37.

173 Vedi . A BONANNI, Ecofin via libera alla nuova vigilanza, in “La Repubblica”, 8/9/10, p. 22; A. CERRETELLI, E’ legge la nuova vigilanza UE, ne “Il Sole 24 ore”, 23/9/10, p. 41.

174 Vedi M. ONADO, op.cit.

175 Vedi J.A. FRALON, L’Europe c’est fini, Calman-Lévy, Paris, 1976.

176 Vedi A. CARLO, Ricerche di sociologia negativa, Liguori, Napoli, 1994, pp. 78 e sgg. dove ripubblico il mio saggio sull’imperialismo del 1976.

177 Vedi E. LETTA, L. CARACCIOLO, L’Europa è finita?, add. Editore, Torino, 2010, p. 27 ove la secca presa di posizione di Caracciolo che riprende il volume citato alla nota 175, anche se non formalmente menzionato dallo stesso Caracciolo.

Per inciso notizie di stampa (v. Il 60% dei tedeschi rivuole il marco al posto dell’euro, in “La Repubblica”, 30/5/10, p. 5, trafiletto anonimo) riferiscono che l’euro non gode di buona stima tra i cittadini europei, in Germania si rimpiange il vecchio marco. Sarebbe da idioti bollare di nazionalismo e provincialismo queste posizioni: l’euro ha suscitato speranze largamente deluse, la moneta che doveva risolvere vari problemi, ne ha creati molti più di quanto ne abbia risolti, e richiede continuamente manovre lacrime e sangue, per cui il disincanto nei suoi confronti è la cosa più logica che vi possa essere.

178 Per quel che concerne l’occupazione femminile nel 2009 in Emilia Romagna si era al 61,5%, con uno scarto positivo di circa 15 punti sulla media nazionale (v. Occupazione “rosa” ferma al 46%, Emilia Romagna modello virtuoso, in “Finanza & Mercati”, 5/5/10, p. 18, articolo anonimo), il che conferma che quando c’è una possibilità di lavoro le donne lavorano. Questo è ulteriormente confermato dall’assorbimento della forza lavoro femminile in occasione delle guerre quando i vuoti creati dal richiamo dei militari vennero riempiti dalle donne sul posto di lavoro. Il caso forse più clamoroso fu la guerra di Secessione americana quando il sud richiamò alle armi 850 mila uomini su una popolazione bianca di 6 milioni, allora le donne andarono a lavorare nelle industrie belliche e negli arsenali coprendo i vuoti degli uomini, per quell’epoca fu un’autentica rivoluzione culturale e sociale fatta nell’arco di poche settimane perché il nemico era alle porte. Ciò significa che se le donne non lavorano non è perché siano tendenzialmente pigre o votate a fare le madri, ma perché non c’è lavoro ed esse sono le prime vittime dei fenomeni di espansione della disoccupazione in molti paesi nel mondo.

179 Vedi L. GALLINO, op.cit. , p. 22, che arriva ad una valutazione di 7-8 milioni considerando anche i lavoratori irregolari (ivi, p. 25), inoltre a p. 46 si rileva che l’aumento degli occupati flessibili non ha comportato alcun aumento del monte ore lavorato.

180 Vedi L. GRION, Disoccupazione ai massimi dal 2004, cresce il part-time involontario, in “La Repubblica”, 22/12/10, p. 14, dove si rileva che gli occupati in questa area sono aumentati di 316 mila unità.

181 Vedi, L. GRION, Pensioni, il 72% sotto i 1000 euro, in “La Repubblica”, 12/6/10, p. 22.

182 Vedi R. PETRINI, Allarme Bankitalia sulle pensioni, in “La Repubblica”, 19/12/10, p. 28.

183 Vedi L. GRION, Potere d’acquisto giù per operai ed impiegati, in 10 anni hanno perso 5.500 euro, in “La Repubblica”, 28/9/10, p. 28; v. anche R. PETRINI, Giù il potere d’acquisto ma i consumi reggono, ivi, 9/9/10, pp. 32-33, ovviamente per reggere (a livello di dieci anni fa come vedremo) occorre attingere ai risparmi il cui volume cala.

184 Vedi M. PANARA, 2011 l’anno della quaresima scarsa crescita e tanti debiti, in “La Repubblica Affari & Finanza”,20/12/10, p. 2 ove tabella.

185 Vedi E. POLIDORI, Famiglie in crisi due su tre non risparmiano più, in “La Repubblica”, 28/10/10, p.29

186 Fonte ISTAT.

187 Vedi L. GRION, I consumi tornano ai livelli del 1999, in “La Repubblica”, 11/1/11, p. 4.

188 Vedi L. GRION, P. GRISERI, Sud, 7 milioni a rischio indigenza, uno su cinque non può pagare il medico, in “La Repubblica”, 21/7/10, p.18, ove si riassume il rapporto Svimez.

189 Vedi, E. POLIDORI, “Compriamo di meno perché ormai abbiamo tutto”¸ in “La Repubblica”, 11/1/11, p. 4, ove intervista a De Rita che, incalzato dalle domande dell’intervistatrice, deve ammettere: “La penuria di quattrini ci spinge all’oculatezza nelle spese”.

190 Vedi vi.p., “La crisi costerà 59 miliardi alle banche italiane”, in “La Repubblica”, 24/4/10, p. 26

191 Vedi G. TURANI, Quei venti di tempesta in arrivo sui mercati, in “La Repubblica”, 12/9/10, p.26

192 Ibidem

193 Vedi B. ARDU’, Imprese debiti raddoppiati in dieci anni, in “La Repubblica”, 16/5/10, p. 28.

194 Vedi TELEVIDEO, 28/10/10, p. 132.

195 Vedi TELEVIDEO, 9/12/10, p. 832. Il fenomeno si verifica anche a livello regionale ad esempio “Il Piccolo” del 13/1/11, commenta la legge regionale sulla sicurezza del Friuli Venezia Giulia, sparando in prima pagina questo titolo: “La sicurezza padana resta in bolletta, quasi azzerate ronde e telecamere”.

196 Un’ulteriore assurdità è quella di sostenere che la manovra non ha messo le mani nelle tasche degli italiani. Evidentemente i dipendenti della PA cui si sono bloccati gli stipendi, non sono italiani e non perderanno nulla nei prossimi anni malgrado l’aumento dei prezzi (abbiamo visto che l’inflazione rialza la testa) che si rapporta a stipendi fermi. Una delle prime cose che mi hanno insegnato all’università, di cui devo ringraziare il mio vecchio prof. di economia politica, liberale di destra, ma grande gentiluomo, è che i salari monetari sono una cosa e quelli reali un’altra: ciò significa che se i prezzi salgono e i salari rimangono fermi subisco una perdita effettiva e concreta, e il blocco dei salari equivale di fatto ad un’addizionale IRPEF.

Si tratta di nozioni elementari da studente del primo anno di una facoltà di legge o di economia, ed il fatto che i nostri governanti esibiscano argomenti così assurdi dimostra il degrado della dirigenza politica del nostro paese.

197 V. TELEVIDEO, 11/5/10, p. 135; L. GRION, Troppe tasse salari a picco, l’Italia è il fanalino di coda, in “La Repubblica”, 12/5/10, p. 22.

198 Vedi A. GINORI, Stretta OCSE su evasione e paradisi fiscali, in “La Repubblica”, 28/5/10, p. 32, ove citazione di Berlusconi.

199 Vedi su ciò A. CARLO, Studi sulla crisi cit., p. 162; ID., Economia, potere, cultura cit., p. 152.

 

200 Per inciso proprio mentre termino la stesura di questo articolo la GdF ha diramato i dati sull’imponibile scoperta nel 2010 e occultata a fini fiscali. Oltre 50 miliardi di ricchezza nascosta (20 miliardi di profitti non dichiarati e 30,5 miliardi relativi all’IRAP) il 46% in più del 2009; 10 miliardi sono stati inviati all’estero illegalmente contro i 5,8 miliardi del 2009, oltre il 70% in più, v. TELEVIDEO, 31/1/11, p. 131.

Alcune considerazioni si impongono sulla base di questi dati: a) l’evasione viene prevalentemente (anzi quasi esclusivamente) dai redditi di capitale; b) essa è in crescita assieme all’esportazione di capitali che ne è l’altra faccia; c) la cifra scoperta è appena il 3,4% del PIL e cioè 1/7 circa della stima ufficiale del PIL nascosto (il 22%) che noi riteniamo sottostimata. Inoltre una volta scoperta l’evasione, come è noto, inizia il calvario dei ricorsi, dei condoni eventuali, dei concordati che permettono agli evasori di sfuggire alle maglie del fisco (v. anche infra nel testo).

201 Vedi L. GRION, Quasi la metà della ricchezza è in mano al 10% delle famiglie, in “La Repubblica”, 21/12/10, pp. 14-15

202 Vedi E. OCCORSIO, Sarcinelli: le vere paure sono evasione fiscale e fuga dai titoli di Stato, ibidem, intervista al prof. Sarcinelli.

203 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 2, nota 109.

204 Nel 2010 il nuovo presidente della Corte dei Conti non ha fornito dati sulla corruzione, ma si è limitato a dire che è l’unica cosa che in Italia cresca, v. R. PETRINI, Allarme corruzione della Corte dei Conti, in “La Repubblica”, 20/10/10, p. 4.

205 Vedi R. PETRINI, Si al “quoziente” no alla tassa sui Bot e il governo ci prova con la semplificazione, in “La Repubblica”, 21/10/10, p. 31, ove vengono forniti i dati enunciati da Tremonti stesso.

206 Vedi A. D’ARGENIO, Sconto ICI alla chiesa, la UE processa l’Italia, in “La Repubblica”, 4/9/10, p. 19; ID. Addio esenzione ICI per la chiesa dal 2014, ivi, 19/10/10 p. 17. Tuttavia con i decreti sul federalismo municipale, per ora bloccati da Napolitano, l’esenzione ICI ritornerebbe ad operare come esenzione dall’IMU, la nuova tassa municipale che dovrebbe entrare in vigore dal 2014.

207 Vedi A. STATERA, Draghi: l’evasione macelleria sociale, in “La Repubblica”, 1/6/10, pp. 1 e 30, il tono durissimo, inusuale e per nulla inglese di Draghi contrasta con l’atteggiamento spesso distaccato dei governatori degli istituti di emissione, ed è una denuncia, importante per quanto tardiva, della gravità eccezionale del fenomeno.

208 Vedi A. STATERA, op. cit., p. 30, ove sono riportate le stime sull’evasione IVA dello stesso Draghi, stime peraltro correnti. Un tale livello di evasione legittima in pieno, la scarsa stima delle FMI per il nostro paese in questo settore.

209 Vedi T. COZZI, Comune caccia agli evasori “migranti”, in “La Repubblica”, 11/9/10, p. V inserto Napoli.

210 Vedi TELEVIDEO, 26/11/10, p. 836 dove Befera fornisce il dato di 7,3 miliardi per i primi mesi dell’anno; in seguito nel dicembre 2010 con una nuova dichiarazione Befera porterà il risultato di quest’anno a 10 miliardi.

211 Anche tenendo conto della scoperta della base imponibile fatta dalla GdF nel 2010, siamo ad 1/7 circa della ricchezza occultata secondo le stime ufficiali, per cui l’evasore sa che ha solo il 16-17% di possibilità di incappare nelle ire del fisco e un 83-84% di possibilità di farla franca.

212 Vedi L. GRION, Tesoretto di 6 miliardi per la ripresa dal fisco , rimborso per famiglie ed aziende, in “La Repubblica”, 17/8/10, p. 24.

213 Vedi M. GIANNINI, Il cavaliere e la Mondadori, in “La Repubblica”, 19/8/10, pp. 1 e 10-11.

214 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 5. Il sig. Vascellari evidentemente ha fatto il liceo classico perché parla del Welt Geist, di hegeliana memoria, il che significa che anche il povero Hegel può essere mobilitato in difesa dell’evasione fiscale.

215 Sulla natura di classe dello Stato liberale-borghese, v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., cap. 3°.

216 Si noti che anche il disoccupato o il cassintegrato paga le tasse, ad esempio quelle sui consumi, (IVA e non solo) che notoriamente sono regressive: paga in proporzione di più chi ha meno e deve investire tutto il suo scarso reddito in consumi; si è calcolato in Francia che chi aveva un reddito di 2500 franchi al mese (anni ’90) pagava allo Stato in varie forme il 40% del proprio reddito, chi aveva un reddito di 100 milioni di franchi (circa 30 miliardi di vecchie lire) poteva, con qualche legalissimo accorgimento, risparmiarsi la noia di pagare l’imposta sul reddito (v. A. CARLO, op. ult. cit., p. 158),

217 Tra questi ultimi segnalo L. NAPOLEONI, Maonomics , RCS libri, Milano, 2010, che sostiene esservi in Cina delle forme di partecipazione alternative diverse da quelle occidentali, denominate “democrazia incrementale” (ivi, pp. 60 e sgg.) . Il paragone cui ricorre la Napoleoni, per sostenere la sua tesi è questo: “tornando all’analogia culinaria la società civile deve riuscire a comunicare al cuoco ciò che vuole mangiare. Ma lo chef deve convincerla che è meglio se alla composizione del piatto, al contorno e alla presentazione ci pensi lui” (ivi, p. 67).

Come dire, tu comunichi ma io decido, non che io creda alla democrazia liberale, ma questa è di gran lunga peggio, anche perché, come ammette la tessa Napoleoni, la corruzione nel partito e nel governo cinese è estremamente diffusa (ivi, p. 259), il che rende un po’ risibile l’asserzione che in Cina si varino leggi contro la corruzione e in difesa dell’ambiente (ivi, p. 66), la lotta alla corruzione fatta dai corrotti fa sorridere ed è un’ingenuità che difficilmente si può perdonare alla signora Napoleoni.

218 Vedi TELEVIDEO, 19/7/10, p. 833.

219 Vedi G. VISETTI, Cina. Foreste per fermare il deserto, la sabbia è l’incubo di Pechino, in “La Repubblica”, 20/7/10, p. 35.

220 Vedi F. RAMPINI, L’Asia lancia la sfida economica all’occidente, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 20/9/10, pp. 14-15.

221 Alludo al recente scandalo delle tecnologie relative all’auto elettrica rubate alla Renault, v. G. MARTINOTTI, Spionaggio alla Renault, cinesi nel mirino 007 in campo, in “La Repubblica”, 8/1/11, p. 25.

222 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 6.

223 Vedi M. FROJO, OCSE: chiari segnali di frenata, in “Finanze & Mercati”, 12/10/10, p. 2.

224 Vedi F. RAMPINI, Il dragone brucia i progetti di Obama, in “La Repubblica”, 17/8/10, pp. 1 e 13.

225 La fonte di questi dati sono le statistiche pubblicate dall’“Economist” e così è sempre per la Cina e i paesi sottosviluppati, ove non si è indicata una fonte diversa.

226 Vedi TELEVIDEO, 21/11/10, p. 823.

227 Vedi FANG GANG, Sta in Cina il mondo immaginato da Keynes, ne “Il Sole 24 ore”, 13/7/10, pp. 1 e 14.

228 Vedi M. RICCI, Cina e Germania locomotive col fiato corto, in “La Repubblica”, 7/9/10, p. 22.

229 Vedi L. NAPOLEONI, op. cit., pp. 45 e sgg., ove dati.

230 Vedi G. VISETTI, Seconde case, auto e tanto lusso, i consumatori cinesi salvano il mondo, in “La Repubblica”, 7/12/10, pp. 33-35, riemerge il sogno che i consumi delle famiglie cinesi (1900 miliardi di dollari a fine 2010), possano salvare il mondo, malgrado che siano solo il 3% del PIL mondiale. Se anche lo yuan si rivalutasse di un 20% i consumatori cinesi avrebbero 400 miliardi di dollari di potere d’acquisto supplementare, che in buona parte andrebbe a prodotti cinesi, ma anche se fossero investiti tutti in prodotti nei paesi ricchi sarebbero una domanda aggiuntiva miseranda su un PIL mondiale di oltre 60.000 miliardi di dollari.

231 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2009, cit, par. 6; ID., L’economia “globale”, cit., par. 5.

232 Vedi I big asiatici in soccorso del debito UE, in “Finanza & Mercati”, 12/1/11, p.2, articolo anonimo.

233 Vedi il lavoro citato alla nota 230.

234 Vedi FANG GANG, op.cit.

235 Vedi A. CARLO, L’economia “globale” cit., par. 5.

236 Vedi G. VISETTI, Lo sciopero dell’operaio cinese, in “La Repubblica”, 1/6/10, pp. 33-34 e 47, dove si ribadisce che l’operaio cinese guadagna 90 dollari al mese per turni ed orari di lavoro nettamente più alti che in occidente.

237 Vedi G. VISETTI, La sindrome cinese, in “La Repubblica”, 19/8/10, pp. 27-29.

238 Fonte, nostra elaborazione su dati “Economist”. Di recente nel seminario di Davos si è ipotizzato che il mondo sarà salvato dalle tigri africane, che si sviluppano a ritmi impensabili per l’occidente (v. F. RAMPINI, Il mondo salvato dalle tigri africane, in “La Repubblica Affari & Finanza ”, 31/1/11, pp. 1-3). La sensazione che si prova è penosa: evidentemente ci si aggrappa a tutto pur di avere un barlume di speranza, ci si aggrappa anche ai tassi di sviluppo di paesi miserabili che si muovono attorno ai livelli dell’India (cioè sui 1000 dollari pro-capite di PIL) e per i quali incrementi del 7% l’anno sono una inezia data la base di partenza modestissima. Si tratta di paesi con elevatissima presenza di agricoltura e bassissimo livello tecnologico; si prenda ad esempio la Nigeria (colosso africano) nel 2003-2008 si è sviluppata a ritmo del 7% l’anno con un’agricoltura che copre il 33% del PIL, un’industria manifatturiera che copre il 3% del PIL (38% l’industria estrattiva e cioè il petrolio), mentre il PIL pro-capite è a 1370 dollari. Siamo in presenza di un paese che produce petrolio e prodotti di agricoltura “bananiera” con un PIL pro-capite miserando, e questa sarebbe la tigre del futuro.

239 Queste previsioni non sono per nulla eccezionali, dagli anni ’80 ne circolano anche di più catastrofiche vedi A. CARLO, La società industriale cit., p. 221.

240 Vedi su ciò, R. PETRINI, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano, 2009, p. 84, a p. 15 uno specchietto col flop delle previsioni degli economisti, a p. 28 si cita l’asserzione del dott. Allen Sinai, sulla solidità della Banca Lehman, previsione apparsa su “La Repubblica” il 21/8/2008 (giornale su cui spesso Sinai scrive), la banca fallirà il 15/9/2008.

241 Vedi H. HEDBERG, La sfida giapponese, Bompiani, Milano, 1971, pp. 209-49, ove una cinquantina di tabelle che riassumono previsioni e obiettivi di quel piano.

242 Le recenti vicende in Algeria, Tunisia, Giordania ed Egitto, significheranno pure qualcosa.

243 Vedi W. MUNCHAU, Gli aiuti alle banche pesano sull’eurozona, in “La Repubblica”, 27/10/10, p. 31

244 Vedi A. CARLO, Ricerche di sociologia cit., pp. 164 e sgg.

245 Vedi J.K. GALBRAITH, Il grande crollo, Comunità, Milano, 1963, pp. 156 e sgg.

246 Vedi P. KRUGMAN , La terza depressione, in “La Repubblica”, 29/6/10, pp. 1 e 26.

247 Vedi V. ZUCCONI, Afghanistan ed Iraq le guerre da mille miliardi di dollari, in “La Repubblica”, 26/7/10, pp. 1 e 16. In altre occasioni in passato ho parlato di un costo della seconda guerra mondiale pari a 500 miliardi di dollari, ma si trattava di dollari dell’epoca, tradotto nel potere di acquisto nei dollari attuali siamo alle cifre fornite da Zucconi.

248 Vedi P. KRUGMAN, Lo sguardo cieco degli ottimisti, in “La Repubblica”, 25/8/10, pp. 1-35

249 Un altro indice dell’atmosfera da 8 settembre ’43 che circola tra gli economisti è un’intervista a Moshe Naim, autore di un bel libro sull’industria del falso (citato anche in questo articolo) e già consigliere della Banca Mondiale, che intervistato sulle cause del miracolo delle tigri africane (v. retro nota 238) dice: “La risposta più onesta è: non si sa”. V. su ciò M. PANARA, Moshe Naim “ecco il segreto che ha risvegliato i paesi poveri, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 31/1/11, p. 3 . E’ evidente che il titolo dell’intervista contrasta con quello che Naim ha detto che cioè non sanno spiegare il fenomeno, è evidente che gli economisti guardano attoniti a ciò che avviene a livello mondiale senza riuscire a raccapezzarsi in una realtà quanto mai confusa e caotica, che manda in tilt tutte le loro certezze.

Un ulteriore riprova dello stato confusionale in cui versa l’economia politica è data dall’attribuzione del Nobel nel 2002 ad uno studioso che non era un economista, ma uno psicologo che aveva dedicato i suoi studi a provare come i ragionamenti degli economisti fossero del tutto privi di coerenza logica e scientifica. Nelle sue ricerche, per le quali ha avuto un Nobel, si trovano espressioni del tipo “gli economisti considerano come razionali molte scelte palesemente sciocche” (v. D. KAHNEMAN, L’economia della felicità, edizioni “Il Sole 24 ore”, Milano, 2007, p. 23).

Per quel che concerne gli economisti conservatori che hanno vinto il Nobel nel 2010 rinvio a D. LANG, G. RAVEAUD, La disoccupazione e gli inutili premi Nobel, in “Le Monde Diplomatique”, ed. it. n. 11, 2010, p. 20 Per ulteriore critica agli economisti vedi . A CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 5, 6, 7, dove tra l’altro critico il Ministro Tremonti; ID., Capitalismo 2009 cit., par. 1, ove critiche ad Attali.

250 Vedi J. RIFKIN, op. cit. , 385 e sgg. e 425 e sgg.; già al suo tempo ho criticato queste tesi, v. A. CARLO, Economia, potere, cultura cit., pp. 114 -15.

251 Vedi su ciò . R. STEFANELLI, inAA. VV., L’autogestione in Italia, De Donato, Bari, 1975, pp. 16 e sgg., vedi anche S. CINGOLANI, ivi, pp. 100, 106, 108, 110; L. DAL BIANCO, in AA. VV. , L’impresa cooperativa negli anni ’80, De Donato, Bari, 1982, p. 180; F. GALGANO, ivi, pp. 78-81.

252 Vedi su ciò . CARLO, Il capitalismo impianificabile, Liguori, Napoli, 1979, II edizione, pp. 215 e sgg.

253 Lo stesso Rifkin lo ammette nel lavoro citato alla nota 250, ed ipotizza l’estensione di una tassa come l’IVA agli USA per finanziare il terzo settore, ciò che oggi nelle condizioni dei consumi americani sarebbe disastroso (v. retro par. 1).

254 Vedi F. RAMPINI, Il capitalismo solidale, in “La Repubblica”, 30/8/10, pp. 31-33.

Per inciso rilevo qui come anche il successo mediatico delle teorie dell’economista bengalese Yunus sul microcredito sia del tutto inconsistente. Il microcredito può operare in piccole situazioni di nicchia, ma i problemi dell’economia mondiale (indebitamento gigantesco, disoccupazione tecnologica, speculazione che impazza, mancanza di una governance mondiale, etc)sono problemi di natura macroeconomica e non si risolvono con piccole misure microeconomiche.

255 Vedi in tal senso A. MATTELAERT, Multinazionali e comunicazioni di massa, Ed. Riuniti, Roma, 1977, pp. 259 e sgg.

256 Vedi F. RAMPINI, op.ult. cit.

257 Ibidem .

258 Voglio ricordare che nel 2009 tra le varie esplosioni di lotta che vi furono la più clamorosa fu , nell’occidente ricco, l’invasione della City di Londra in occasione del G20 dell’aprile 2009, da parte di una folla di manifestanti inferociti che inalberava cartelli su cui era scritto “Eat the rich” (mangia il ricco) v. E. FRANCESCHINI, In piazza studenti operai e no global, a Londra la rabbia contro i banchieri, in “La Repubblica”, 29/3/09, p. 6

259 Vedi TELEVIDEO, 7/11/10, P. 157. Sugli eventi indicati nel testo non fornisco indicazioni sui più noti proprio perché si tratta di fatti recenti e notissimi cui i media, anche quelli ufficiali e perbenisti, hanno dato un ampio rilievo.

260 Vedi TELEVIDEO, 15/11/10, p. 824.

261 Vedi TELEVIDEO, 24/1/11, p. 154.

262 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit, par. 3.

263 Vedi su ciò TELEVIDEO, 16/1/11, p. 822. Inoltre anche il peso del faraonico sistema carcerario americano aumenta con progressione geometrica: dal 1983 la spesa è cresciuta di ben 6 volte, molto più del PIL, v. G. WOOD, Il carcere senza muri, in “Internazionale”, 16/9/10, p. 37; è lecito chiedersi se un’America in default possa sopportare un simile peso crescente, la legge e l’ordine (3 milioni di carcerati, 10 milioni di sorvegliati) costano e non poco.

264 Vedi E. FRANCESCHINI, Addio alle armi (o quasi), in “La Repubblica”, 21/10/10, pp. 41 – 2; J.C. HULSUMAN, J. KOOROSHY, op. cit. ; anche il governo della Signora Merkel ha ipotizzato, nella manovra di contenimento della spesa varata nel corso del 2010, la riduzione degli effettivi dell’esercito da 250 mila a 210 mila unità, v. A. TARQUINI, La Merkel vara la super-manovra, salta il vertice con Sarkozy, in “La Repubblica”, 8/6/10, p. 7.

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